Un convegno di studi di estrema importanza, per la ricchezza degli interventi e per le novità di gran rilievo inerenti i temi caravaggeschi, quello che ha avuto luogo inSanta Maria Tiberina, nello splendido scenario del Palazzo del Cardinale Francesco Maria Bourbon del Monte, sabato 8 e domenica 9 ottobre. Rimarcabile anche dal punto di vista organizzativo, grazie alla volontà e alla fattiva collaborazione delle autorità istituzionali, in primo luogo Letizia Michelini, Sindaco del Comune, e Sergio Consigli, inappuntabile segretario del convegno, l’iniziativa, curata con la massima attenzione dal dottor Paolo Nucci Pagliaro e dal professor Pierluigi Carofano, ha segnato la ripresa in grande stile dei lavori della Libera Accademia di Studi Caravaggeschi, presieduta dal dottor Nucci Pagliaro, che in pratica aveva cessato le attività a seguito delle prematura scomparsa di Maurizio Marini che ne era stato l’animatore.
Nella convinzione di fare un effettivo servizio di informazione per i tanti studiosi impegnati sulle tematiche caravaggesche, riproduciamo, in una sintesi ove meno ove più elaborata, gli interventi che si sono succeduti nel corso delle due giornate di lavori e che hanno visto contributi di assoluto rilievo con documentazioni inedite della massima importanza per la comprensione di aspetti sostanziali delle problematiche legate ad alcune importanti opere del genio lombardo oltre che alla sua vicenda esistenziale.
Per quanto concerne le opere, importanti novità sono emerse dall’analisi de il Suonatore di Liuto del Metropolitan, del San Francesco in preghiera del Museo Ala Ponzone di Cremona, nonché della Giuditta e del San Giovanni Battista, collegati alla committenza Costa. Ma notevoli spunti hanno portato anche gli interventi relativi ai contesti in cui la vicenda umana e artistica del Merisi si svolse, prima a Milano e (forse?) Venezia, poi nella realtà romana, dove la sua prorompente personalità potè esprimersi rivoluzionando la storia dell’arte e dove ebbe luogo il fatale duello in cui, contrariamente a quanto da molti ritenuto, il Merisi non fu aggressore ma aggredito. Della massima importanza, poi, sia dal punto di vista filologico che storico-artistico, assumono le novità emerse riguardo a quegli artisti che dal genio del Merisi furono affascinati e influenzati, come Orazio Gentileschi Giovanni Baglione e Rutilio Manetti.
Insomma, una iniziativa che a nostro parere segna un punto fermo e un decisivo avanzamento nello studio del fenomeno del caravaggismo, svoltasi peraltro in un clima di collaborazione, garbatezza ed amicizia non sempre usuale purtroppo in simposi del genere e di cui va dato atto agli studiosi intervenuti, cioè Francesca Curti, Marco Ciampolini, don Sandro Corradini, Michele Cuppone, Riccardo Lattuada, Enrico Lucchese, Mario Marubbi, Emilio Negro, Michele Nicolaci. Da segnalare anche l’apporto dato alla discussione dagli interventi di un pubblico particolarmente attento, dov’erano presenti numerosi studiosi ed appassionati, come Roberta Lapucci, Nicosetta Roio, Luca Bortolotti, Massimo Pirondini, Ruggiero Ruggieri, Antonio Vignali ed altri.
Francesca CURTI
Caravaggio nella Roma di fine '500: artisti,mintermediari, mercanti
Dal 2011, dopo la mostra “Caravaggio a Roma. Una vita dal vero” e l’uscita del catalogo omonimo, molto si è scritto riguardo i nuovi documenti trovati presso l’Archivio di Stato di Roma. Finora non avevo avuto modo di precisare e di chiarire il metodo con cui abbiamo eseguito le ricerche, messo insieme ed elaborato i dati sia riguardo la nuova ipotesi sull’arrivo di Caravaggio a Roma, sia soprattutto riguardo la ricostruzione storica del tessuto sociale con cui entrò in relazione Caravaggio costituito da artisti, pittori “bottegari”, ricchi banchieri, mercanti, colti prelati e noti collezionisti; un tessuto sociale che è stato possibile far emergere anche grazie all’individuazione della geografia della zona frequentata dal Merisi circoscritta entro un perimetro definito nel versante meridionale del rione Campomarzio e al confine del rione Colonna.
Desidero fare una premessa a proposito del metodo perché in questi anni il lavoro importante di delineazione del contesto in cui si svolsero le vicende caravaggesche alla fine del Cinquecento, che ha permesso, ad esempio, di stabilire con precisione la data del soggiorno presso il D’Arpino, o di far luce sulle relazioni intercorse tra Carli e Gramatica, vicini di bottega, è stato a volte messo in secondo piano rispetto al pur felice ritrovamento della deposizione dell’ormai noto garzone di barbiere Pietro Paolo Pellegrini.
Il ritrovamento della deposizione di Pelligrini non è stato frutto del caso ma è stato possibile rintracciarlo grazie all’analisi dei documenti già noti. Una volta stabilito, grazie alla corretta datazione al 1597 del Foglio delle Quarantore per merito degli studi di Antonella Pampalone, che l’incartamento ritrovato da Corradini e Marini era il primo documento noto riguardante la presenza di Caravaggio a Roma, un team di storici dell’arte e di archivisti “storici”, composto dalla sottoscritta e da due funzionari dell’Archivio di Stato di Roma di grande esperienza e capacità quali Orietta Verdi e Michele Di Sivo, ha proceduto ad una serrata ricerca sulle fonti documentali attuata mediante l’approfondita conoscenza sia dei fondi archivistici sia soprattutto della storia delle istituzioni che li hanno prodotti. Ed è a mio avviso l’unico modo attraverso il quale ci si può approcciare alla ricerca archivistica, perché il documento d’archivio, anche se importante, se non contestualizzato all’interno dell’ente che lo ha generato è suscettibile di letture sbagliate.
Il primo passo, quindi, è stato quello di accertare l’autenticità formale dei documenti ritrovati, successivamente si è passati a verificarne l’attendibilità perché anche documenti autentici possono infatti contenere travisamenti, errori, parzialità. Questo secondo step ha dato avvio ad una vasta campagna di ricerca sia su tutti i personaggi coinvolti nell’aggressione, dal musico Zanconi al barbiere Luca Benni, al garzone Pellegrini a Costantino Spada e a Prospero Orsi, sia su quei personaggi che, secondo quanto riportato dalle fonti letterarie (in primis Baglione e Mancini), erano entrati in relazione con Caravaggio al suo arrivo a Roma, e cioè l’allora misterioso “bottegaro siciliano” Lorenzo Carli, Antiveduto Gramatica e il cavalier d’Arpino. Si sono visionati tutti i fondi in cui si riteneva possibile trovare documentazione utile, ed in particolare fonti notarili, fonti giudiziarie ma anche registri delle nascite e delle morti e stati delle anime, allo scopo di reperire più informazioni possibili da mettere a confronto con i nuovi documenti rintracciati.
In seguito sono stati operati opportuni confronti ed interpretazioni mediante l’incrocio dei dati emersi che sono stati studiati sia sotto il profilo storico che storico-artistico. La verifica dei dati ha, inoltre, permesso di stabilire con certezza l’inizio della permanenza presso i Cesari, che avvenne non prima della primavera del 1596. Le fonti letterarie, infatti, in questo caso il medico Giulio Mancini, asserivano che durante il soggiorno presso il cavalier d’Arpino, Caravaggio fu ferito alla gamba dal calcio di un cavallo. Le deposizioni di Pellegrini e del suo datore di lavoro, Luca Benni, fanno riferimento entrambe al ferimento del pittore lombardo ad una gamba avvenuto nella primavera del 1596 a seguito del litigio con un palafraniere che, com’è noto, si occupava della custodia dei cavalli. I due si ricordavano dell’episodio perché il pittore andò a farsi curare nella loro bottega. In questo caso l’incrocio delle fonti documentarie e di quelle letterarie ha portato da un lato a confermare la veridicità di quanto affermato da Mancini e dall’altro a dare una precisazione cronologica all’episodio.
Come già in parte messo in luce da Lothar Sickel, lo studio di tali dati ha fatto emergere una realtà del tutto inedita riguardante la fiorente e intensa attività delle botteghe d’arte nella zona compresa tra il Campomarzio e il Pantheon, in cui primeggiavano intorno ai primi anni novanta del Cinquecento quella di Gian Domenico Angelini, maestro di Antiveduto Gramatica, nello spazio compreso tra via della Scrofa e piazza S. Eustachio e quella del fiorentino Francesco Morelli, maestro di Giovanni Baglione, nell’area del Pantheon. Queste botteghe erano specializzate nella realizzazione di opere devozionali e dei ritratti di personaggi illustri, un genere inaugurato dall’erudito Paolo Giovio all’epoca assai richiesto, ed erano frequentate sia da allievi sia da pittori che sbarcavano il lunario lavorando a cottimo per l’una o per l’altra bottega.
Alla morte di Angelini e Morelli, avvenuta rispettivamente nel 1591 e nel 1595, gli allievi cercarono di accaparrarsi l’eredità artistica e commerciale dei loro mentori. Per quanto riguarda la bottega e il giro d’affari di Angelini essi vennero ereditati da Antiveduto Gramatica, che si stabilì in via della Scrofa. Più complessa si rivelò la situazione dell’eredità di Francesco Morelli. Questi, infatti, come è emerso dai documenti rinvenuti, era il patrigno di Tommaso Salini, poiché ne aveva sposato la madre. All’epoca della sua morte inoltre collaboravano con lui suo cognato, il pittore Vittorio Travagni, e probabilmente anche Giovanni Baglione. Poiché Morelli ebbe solo una figlia femmina, l’attività venne forse contesa da Vittorio Travagni da una parte e da Baglione e Salini, che già all’epoca erano entrati in grande amicizia, dall’altra. Queste tensioni furono forse alla base delle discordie che successivamente videro contrapporsi Caravaggio a Baglione e Salini, poiché non è da ritenersi un caso che il pittore lombardo frequentasse Travagni e l’amico di questi Adriano Monteleone, con cui Salini aveva litigato.
Poco distante da via della Scrofa, in piazza S. Luigi dei Francesi, aveva la sua bottega un altro personaggio fondamentale per la carriera del Merisi: Costantino Spada. Anche su di lui le indagini archivistiche hanno permesso di ricostruirne la carriera e i suoi legami con le più importanti famiglie nobili della zona. Ma soprattutto di grande interesse si è rivelato essere il rapporto di Spada con la chiesa di S. Agostino, dove Caravaggio realizzò per conto della famiglia Cavalletti il quadro della Madonna dei Pellegrini. Spada, infatti, era cognato di un personaggio di primo piano all’interno del convento agostiniano, il frate Giovanni Battista Gori, molto attivo nella comunità del convento di cui divenne anche priore nel 1601. All’ordine agostiniano appartennero, inoltre, anche suo figlio Giovanni Battista e suo nipote. Giovanni Battista Gori, che, come emerge dai documenti rinvenuti, conosceva personalmente Caravaggio potrebbe essere stato il tramite per la commissione del dipinto.
Infine, vorrei chiudere il mio intervento citando un altro documento di grande importanza per gli studi su Caravaggio, il contratto tra il pittore lombardo e Fabio Nuti del 1600 per un quadro “cum figuris”, anch’esso oggetto in occasione della mostra di un restauro e di una accurata revisione critica che ha permesso di contestualizzare e chiarire i contorni di una commissione che fino ad allora era rimasta del tutto misteriosa.
L’atto notarile, noto dagli anni Settanta, fu rogato nella bottega del mercante fondacale Alessandro Albani, alla presenza, in qualità di testimoni, di altri due mercanti Giovanni Antonio De Marinis e Prospero Ricci. Il fondaco di Albani aveva una vasta clientela e, insieme ai suoi soci Attilio Casini e Luca De Vecchi, serviva importanti famiglie romane come i Savelli o il cardinale Pio. Gli interessi di Albani si estendevano anche a Napoli tramite il banco dei senesi Deifebo Spennazzi e Fabio Nuti. Quest’ultimo aveva eletto quale suo perito per valutare il quadro lo scultore medaglista Rutilio Gagi, anch’egli toscano. Gagi, cresciuto alla corte dei Medici, potrebbe aver fatto da tramite per la committenza a Caravaggio che probabilmente conosceva, essendo di casa presso il cardinal Del Monte ed svolgendo l’attività di mercante di opere d’arte.
Sull’identificazione del dipinto realizzato dal pittore lombardo per Nuti sono state avanzate alcune proposte. La più accreditata, sostenuta da importanti studiosi e da Michele Cuppone a più riprese con valide argomentazioni, riguarda l’ipotesi che il quadro “cum figuris” possa essere il dipinto raffigurante la Natività, un tempo collocato nell’oratorio di S. Lorenzo, sede della compagnia di S. Francesco, a cui erano affiliati numerosi mercanti.
Tale ipotesi è stata di recente avvalorata dal ritrovamento da parte di Giovanni Mendola di un documento del 1601 relativo ad una lettera di cambio in cui sono coinvolti il mercante campano Cesare De Avosta, tra i più attivi all’interno della confraternita di S. Francesco, e il banco Nuti-Spennazzi, che attesterebbe il legame esistente tra l’oratorio di Palermo e il mercante senese. A conferma di tale legame, ho rinvenuto un altro documento riguardante una “obligatio” di pagamento datata 1596 a favore del mercante Alessandro Albani da parte del nobile palermitano Mariano Valguarnera, anch’egli legato da forti legami di affari e di amicizia con i confratelli della compagnia di S. Francesco.
Emilio NEGRO
Caravaggio e la musica: un diverso significato per le scritte
sugli spartiti dei Suonatori di liuto dell’Ermitage e del Metropolitan
Era consuetudine dei pittori disegnare capolettera arzigogolati per decorare i documenti e le pagine dei libri (inclusi quelli riprodotti nei loro dipinti), le cui iniziali arabescate derivavano da esempi inventati da miniatori o da calligrafi: è questo il caso di Giovan Luigi Valesio - alias l’Instabile dell’Accademia degli Incamminati, che fu “maestro di scherma, di ballo, di liuto e di scrivere in arabeschi, miniatore, intagliatore in rame e bravo pittore”, nonché insegnante di bella scritturai.
Anche Caravaggio mostrò di avere familiarità con l’arte miniatoria e ciò accadde quando delineò i capilettera raffigurati sulle copertine delle raccolte di spartiti, visibili in ciascuna delle due versioni del Suonatore di liuto dell’Eremitage e del Metropolitanii. In ognuna di esse egli dipinse infatti una lettera “L” maiuscola che a causa degli svolazzi arabescati è stata interpretata come se fosse una “B” di Bassus, mentre è invece l’iniziale della seconda parte del nome del musicista fiammingo Roland de Lassus (o Roland de Lattre), italianizzato in Orlando Lassusiii.
Ricorderemo che Lassus era nato in Belgio nel 1532, dove pare abbia saputo sviluppare fin dalla fanciullezza le sue eccezionali doti canore, riuscendo a diventare un corista acclamato sia per la bravura nel canto, sia per l’avvenenza dell’aspetto: due doti naturali che gli avrebbero procurato molti vantaggi e qualche problema; infatti la tradizione narra che egli sia stato rapito per ben tre volte dagli emissari di nobili disposti a tutto pur di avere presso la loro corte un fanciullo di bella figura e per di più dotato di una voce armoniosa. La fama di Roland crebbe a tal punto che, ancora dodicenne, fu introdotto nei più esclusivi circoli cortigiani, quelli di cui amava circondarsi Ferrante Gonzaga, governatore di Milano e della Sicilia. Successivamente l'imperatore Massimiliano II gli conferì un titolo nobiliare, Papa Gregorio XIII lo nominò Cavaliere dello Speron d’oro, mentre il re di Francia gli concesse la Croce di Malta. La sua feconda produzione musicale, ancora oggi tra le maggiori esistenti al mondo, gli valse i soprannomi di “Divino Orlando” e di “Princeps Musicorum”. Abbiamo rimarcato in altra occasione che il suo nome compare sia nella tela ora in Russia, sia in quella attualmente in americana, ma nella prima delle due la lettura è resa più difficile a causa dei “rabisch” dipinti intorno alla “L”, all'opposto della seconda in cui la medesima iniziale quasi priva di arzigogoli è leggibile con maggiore chiarezza; in entrambi i casi la scritta è ugualmente visibile sulla copertina rettangolare su cui è appoggiato un altro fascicolo di analoghe dimensioni con le note di uno dei quattro madrigali a quattro voci del musico fiammingo Jakob Archadeltiv. Nel precedente intervento, si è rilevato che la riproduzione delle note dell’Archadelt e del nome del Lassus non furono casuali, perché i componimenti di entrambi erano noti nel bel mondo romano ed inoltre collegati ad un ricordo d’infanzia del committente, il marchese Vincenzo Giustiniani, riportato nel suo Discorso sopra la musica: nella “mia fanciullezza mio padre…mi mandò alla scola di musica, et osservai ch’erano in uso le composizioni dell’Archadelt, di Orlando Lassus”v; ma anche la Milano del Lomazzo poteva
ritenersi “felice per le gran canzoni,/ Che cantan per le strade ogn’hor li tuoi” e nondimeno per le musiche suonate durante le funzioni religiose e le riunioni conviviali che, come rilevato da Robert L. Kendrick, costituivano The sounds of Milan, cioè uno dei più raffinati contesti musicale cittadini in cui si espandevano anche le note dei madrigali e delle villanelle di Lassus e quelle altrettanto orecchiabili di un compositore più giovane, parimenti famoso e ugualmente legato ai Gonzaga, del quale si tratterà negli atti della due giorni di studi, Caravaggio e i suoi - organizzata da Pierluigi Carofano a Palazzo Burbon del Monte e resa possibile dall’ospitalità di Letizia Michelini, Sindaco di Monte Santa Maria Tiberina - e nel libro in uscita, Caravaggio ritrattista (a cura di E.Negro-N.Roio, con un saggio di Paolo Nucci Pagliaro e il coordinamento editoriale di Salvatore Canato), compose un importante balletto dal titolo molto somigliante a quello di un’opera dipinta dal Merisivi.
iNote
Orlandi, 1714, p. 167; Crespi, 1769, p. 2; Affò, 1789, V, p.32; Roio, 1994, pp. 335-344; Takahashi, 2007.
ii Negro-Roio, 2013, pp.92-94.
iii Kahn-Rossi, 1998, p.13.
iv Christiansen, 2000, pp.202-203; Negro-Roio, 2013, pp.85-93 figg.63-76.
v A sostegno di questa letture concorrono alcuni dati non trascurabili: la presenza, sulla copertina della raccolta di spartiti dell’altro Lute Player di Caravaggio di New York (Metropolitan Museum), della più nitida dicitura “Lassus”, ugualmente trascritta nella sua replica di bottega di raccolta privata romana, che è leggibile molto chiaramente poiché, a differenza della versione di San Pietroburgo, l’iniziale “L” fu dipinta in entrambi i casi riprendendo un modello grafico più comune e tipico della scrittura del Cinque e del Seicento, di cui si esistono tuttora numerosi campioni: capolettera simili si possono vedere nei fogli del graduale realizzato dall’amanuense e miniatore Giovan Battista Rosa (1601), ovvero nelle pagine di quello scritto e miniato tra il 1632 e il 1636 dal domenicano Giovanni di Vincenzo da Napoli (Rispettivamente Graduale, corale 12, carta 94; Graduale, corale 15, carta 20; entrambi a Napoli, Biblioteca del convento di San Domenico Maggiore; Negro-Roio, 2013, pp.85-93 figg.63-76).
vi Lomazzo, 1587, p.490; Kendrick, 2002, pp.70-71, 195-203.
Marco CIAMPOLINI
Novità sulla conversione caravaggesca di Rutilio Manetti
Lo studioso ha illustrato i passaggi della conversione caravaggesca di Rutilio Manetti, già senalati dalla critica, ma spiegati solo attraverso la conoscenza di opere caravaggesche a Siena e a Firenze. L'autore ha domostrato invece che le due fasi evolutive del naturalismo di Rutilio, la prima in chiave luministica la seconda in direzione di un crudo realismo, corrispondono a due vuoti di notizie del pittore nella sua Siena (anni 1620 e 1627), che fanno intendere due viaggi di aggiornamento del pittore a Roma.
Enrico LUCCHESE
Francesco Sessa, Padova e Caravaggio "...fuggitosene da Milano, giunse in Venetia..."
Il problema dell’influenza su Caravaggio di Giorgione (o con ciò che si considerasse tale all’epoca) si basa sulle testimonianze, pur faziose, di Baglione e di Bellori. Le due fonti sono soppesate alla luce dei ritrovamenti documentari su Simone Peterzano e la sua famiglia, abitante da tre generazioni a Venezia. Anche il padrino di battesimo di Michelangelo era in rapporto con il Veneto: in missione segreta nel 1570 a Padova, Francesco Sessa raccolse in un memoriale il progetto di cospirazione della nobiltà locale contro il dominio veneziano.
Michele NICOLACI
Giovanni Baglione in bianco e nero. Inediti del pittore nelle fototeche pubbliche e private
Di grande interesse è un San Francesco in estasi sorretto da un angelo, noto unicamente attraverso un'immagine inviata a Roberto Longhi nei primi anni sessanta. Il tema iconografico dell’estatico deliquio di Francesco godette di rinnovata attenzione a Roma tra la fine del Cinque e i primi anni del Seicento e lo stesso Baglione ne diede una delle interpretazioni più accattivanti con la celebre Estasi di san Francesco ora a Chicago ma già nelle collezioni Borghese a Roma.
Pur non possedendo l’esuberanza davvero “protobarocca” del quadro di Chicago, dove la vertigine dello svenimento è accentuato da un calcolatissimo sottinsù, questo San Francesco di ubicazione ignota non è meno riuscito nell’effetto di trance mistica del santo di Assisi, con gli occhi socchiusi e la bocca semiaperta, ma con le mani ancora saldamente ancorate ai simboli della sua meditazione. Di riuscito effetto naturalistico è il gesto rassicurante del giovane angelo che accompagna delicatamente l’abbandono della testa di Francesco mentre con la mano sinistra regge, in precario equilibrio, i chiodi della Passione, allusione alle stimmate del santo. Pur nella leggibilità ridotta della foto è possibile notare alcuni dettagli di estrema raffinatezza come la veste e le ali dell’angelo o la mano sul teschio dalle unghie sporche e i riflessi di luce sull’osso.
Nei depositi di Palazzo Accursio è invece conservata una Santa Caterina d’Alessandria, che Nicolaci riconduce senza esitazioni al tipo femminile “romano” di Baglione, caratterizzato da orbite tonde e ben delineate dalle palpebre pesanti, un accenno di doppiomento, i capelli voluminosi disposti a ciocche disordinate. Il confronto con la bellissima Giuditta Grassi, recentemente vista a Maastricht non mi sembra lasci adito ad alcun dubbio.
Proficua ancora, la ricerca presso il fondo Voss della Fototeca dell'Istituto olandese a Firenze, dove sono conservate due foto di opere inedite assegnate a Baglione, come la Diana (forse di provenienza Montalto secondo lo studioso) e una scena di Ercole e Onfale, accostata alla interessante e peculiare produzione "erotica" di Baglione degli anni venti.
Michele CUPPONE
"Un quadro ch'io gli dipingo". Nuova Luce su Caravaggio per Ottavio Costa: dalla Giuditta al San Giovanni Battista
È singolare notare negli studi caravaggeschi uscite simultanee con le medesime acquisizioni. Si possono citare numerosi esempi a tal proposito. L’ultimo giusto quattro mesi fa, quando due autonomi contributi proponevano di riconsiderare la cronologia di due quadri della collezione di Ottavio Costa rileggendo un documento già noto, cui si era data un’interpretazione alternativa. Il primo di questi, a firma del sottoscritto, è stato pubblicato su “www.news-art.it”. Giusto una settimana dopo veniva presentato un analogo studio di Gianni Papi negli atti di una giornata di studio tenutasi a Empoli, rispetto a cui quella di Papi rappresenta un’aggiunta a margine. E bene, il contenuto del mio intervento odierno farà il punto sul tema, facendo tesoro delle considerazioni portate all’attenzione da entrambe le ricerche, in buona parte sovrapponibili ma ciascuna di esse contenente propri elementi di novità, al punto da rendere nel complesso più solida la proposta cronologica. Terrò conto inoltre di utili dati tecnici e riscontri emersi già nel breve lasso di tempo che ci separa da quei due contributi, oltre che di confortanti pronunciamenti precedentemente sfuggiti nella ricerca bibliografica, provando inoltre ad aggiungere, per quanto brevi, ulteriori riflessioni.
In più riprese gli specialisti si sono dedicati proficuamente a Ottavio Costa in qualità di collezionista di Caravaggio, da Spezzaferro, a Vannugli, a Costa Restagno. Gli studi sul tema raggiungevano la piena maturità quando Terzaghi presentava le sue ricerche, includenti nuovi importanti documenti, con cui molte questioni si potevano ritenere chiuse. O almeno così sembrava.
L’unico dipinto della collezione Costa che resta oggi a Roma è la Giuditta, tra i quadri da stanza più studiati e ritenuto uno “snodo cruciale” nel percorso di Caravaggio. Se l’autografia della tela non è mai stata seriamente messa in discussione, non si è mai giunti unanimemente a stabilirne con esattezza l’anno di esecuzione. Vi è comunque una tendenza generale a datarlo attorno al 1599. Eppure a ben vedere lo stile appare più vicino a quello della raggiunta maturità tipica dei dipinti post Contarelli, piuttosto che a quello, in cerca di una direzione più definita, della eterogenea produzione giovanile. Lo fa pensare in particolare l’accentuato plasticismo, qui sapientemente reso vigoroso da netti contrasti luministici. Anche una certa teatralità e la forte tensione drammatica sono nel complesso elementi lontani dalla produzione di fine XVI secolo. A ciò si aggiunga lo scenografico drappo rosso sul fondale che si ritrova più spesso nelle pitture realizzate tra lo scadere del soggiorno romano e il principio del primo napoletano, mentre è assente del tutto nei quadri giovanili.
Fino a poco tempo fa erano stati in pochi a collocare la Giuditta al di qua del 1599. In tempi più recenti, prima Papi e poi Gash lo hanno entrambi immaginato in epoca posteriore ai laterali di S. Luigi. E veniamo a questo 2016 che segna una svolta negli studi sulla cronologia del dipinto. Procedendo ordinatamente, Vodret, che a riguardo negli ultimi anni aveva progressivamente spostato sempre più su l’asticella, arrivava a considerarlo databile al 1601 circa, lasciando dunque aperta la possibilità di guardare anche più avanti.
A ogni modo, in estate sono andati in distribuzione i due tomi sulla tecnica e lo stile delle opere di Caravaggio a Roma. Qui Vodret si pronuncia sulla Giuditta, rilevando che lo studio della tecnica esecutiva “mostra soluzioni nuove rispetto alle tele Contarelli … ma che diventeranno costanti nelle opere successive”, citando in proposito “l’uso di abbozzi chiari” e il “ruolo delle incisioni”. Personalmente avevo scritto qualcosa di simile, senza considerare gli abbozzi. L’osservazione congiunta su entrambi i mezzi rafforza così il concetto di una Giuditta tecnicamente fuori posto tra le opere di fine Cinquecento. E a Vodret fa eco nella stessa sede De Ruggieri, per la quale la Giuditta marca “un passaggio concettuale e forse cronologico rispetto ai laterali Contarelli”.
I due tomi sono stati recensiti su “www.news-art.it” da Whitfield, il quale, citando la ricerca mia ed evidentemente ignorando quella parallela di Papi (uscita del resto in un fascicolo di difficile reperibilità), concorda nel collocare il dipinto dopo la Contarelli, anche in virtù di un documento del 1602. Eccezionale resta la scoperta di Terzaghi di una ricevuta di pagamento da Ottavio a Merisi del 21 maggio 1602, uno dei rari documenti autografi del pittore:
“Io Michel’Angelo Marrisi o riceuto di più dal Ill.re S.r Ottavio Costa a bon conto d’un quadro ch’io gli dipingo venti schudi di moneta questo di 21 maggio 1602”
Contestualmente alla pubblicazione del documento si pensò deduttivamente – e legittimamente allo stato coevo delle conoscenze – che, fra i tre quadri caravaggeschi di Ottavio, esso dovesse riferirsi al Battista, potendo scartare la Giuditta e tanto più il San Francesco, generalmente assegnati all’ultimo quinquennio del XVI secolo. Oggi tuttavia si può rivedere tale ipotesi, sulla base di quanto esposto sin qui. Ma c’è di più.
Il 14 settembre 1603 una bolla papale assegnava ai Costa il compito di dotare di arredi e suppellettili l’oratorio di S. Giovanni Battista a Conscente, che dovette essere stato assolto entro il 1606. La critica tutta concorda che il Battista di Kansas City fosse destinato all’eponimo oratorio, salvo poi essere trattenuto da Ottavio che al suo posto inviò una copia. Appare meno verosimile però che, con ben sedici mesi di anticipo rispetto all’impegno assegnato formalmente dalla bolla, egli si fosse già premurato di procurarsi la pala. Peraltro all’altezza del 21 maggio 1602 questa poteva essere già stata iniziata da qualche tempo, come osservato dalla stessa Terzaghi che riferisce il documento a “un quadro che [Caravaggio] sta dipingendo”. La studiosa dunque propone il 1602 come “data di esecuzione, o per lo meno di avvio”, escludendo la possibilità che il dipinto sia stato iniziato ben più tardi, come ritenuto da alcuni, evidentemente restii ad anticipare di un paio d’anni un quadro generalmente datato intorno al 1604 per evidenti ragioni stilistiche. Comunque Terzaghi, fautrice e convinta sostenitrice del nesso tra il quadro e il documento del 1602, ha provato ultimamente a darne una rilettura più conciliante secondo cui sebbene un acconto non possa stabilire la data precisa di un dipinto, la tela sembra nondimeno essere stata cominciata dopo il maggio 1602 ed eseguita in breve tempo successivamente. Va fatta comunque una precisazione tecnica: il termine acconto (“a bon conto”) indica anche un pagamento parziale in corso d’opera, non necessariamente il primo. Si apre dunque la possibilità che Merisi, rispetto ai 20 scudi incassati, avesse ricevuto prima uno o anche più acconti relativi allo stesso “quadro”. A rafforzare tale eventualità vi è una specifica espressione nel documento, sulla quale finora non si è dato alcun peso, quel “di più” (“ho riceuto di più … a bon conto … venti schudi”) che, come mi fa notare Orietta Verdi, potrebbe essere una corruzione o comunque un’espressione alternativa della formula “in più” ricorrente negli atti del tempo; comunque il significato sarebbe lo stesso, e cioè che, in tal caso, quella quietanza era almeno la seconda relativa alla stessa prestazione.
Se ho insistito nel chiarire che il quadro dovette essere già in corso d’opera a maggio 1602 è proprio perché l’ipotesi di identificarlo con il Battista, generalmente datato su basi stilistiche intorno al 1604, poteva godere di una certa fortuna fintantoché si vedeva nell’acconto l’accettazione formale di un impegno, intrapreso però anche ben più tardi. Cosa che tuttavia, come visto, risulta improbabile. Del resto, in mezzo secolo di studi antecedenti la pubblicazione dell’acconto, ben pochi si erano spinti ad anticipare oltre il 1603 il Battista, la cui superba qualità segna un punto d’arrivo negli anni romani di Caravaggio. Tra questi e per primo, naturalmente Longhi.
Il Battista, che come notato da Cappelletti rientra nelle splendide sperimentazioni sul soggetto del santo isolato in meditazione dell’ultimo tempo romano, viene continuato a datare in diversi casi intorno al 1604, talvolta 1604-1605, nonostante il nesso instaurato con l’acconto del 1602.
C’è da chiedersi a questo punto come mai la Giuditta sia stata inserita coralmente tra la produzione ante Contarelli. Tutto partì dall’autorevole Longhi, che, avendola associata suggestivamente al periodo in cui l’artista cominciava a “ingagliardire gli oscuri”, la datava pioneristicamente al 1592-1594. Tale termine cronologico, del tutto fuori scala, è stato difatti progressivamente spostato in avanti, anche se tale spinta è andata presto esaurendosi, senza osare sconfinare oltre il 1599-1600. Va pure detto che, come giustamente osservato dalla stessa Terzaghi in un recente seminario presso la Fondazione Zeri, “la cronologia è un problema centrale per Longhi”, che “ha anche sbagliato clamorosamente”. Lo studioso di Alba, inoltre, nell’instaurare seppur con spirito critico un paragone tra il soggetto del quadro Barberini e il supplizio di Beatrice Cenci del settembre 1599, ha così suggerito un appiglio storico a certa parte della critica, inducendola romanticamente a pensare che il quadro fu realizzato a ridosso di quel triste fatto di cronaca.
Mario MARUBBI
Il San Francesco in preghiera del Caravaggio e i duoi doppi
San Francesco in meditazione
olio su tela, 128 x 90 cm
Cremona, Museo Civico Ala Ponzone
Benché non menzionato da fonti antiche, il San Francesco in meditazione del Museo di Cremona è oggi ritenuto una delle ultime opere dipinte da Caravaggio prima di lasciare Roma a seguito dell’omicidio di Ranuccio Tomassoni (28 maggio 1606) o al più tardi realizzato nei feudi Colonna durante l’estate dello stesso anno. Non sono ancora del tutto noti i successivi passaggi che porteranno il dipinto a Cremona, dove è documento solo a partire dal 1879 quando venne donato, come opera anonima, al locale museo dal marchese Filippo Ala Ponzone (Pizzi 1879, p. [2]; Marubbi 2007, p. 13), ma verrà pubblicato solo nel 1930 nel catalogo di Illemo Camelli, uscito a più riprese sulla rivista Cremona. Nel commento, eccezionalmente non brevissimo e dopo aver riportato il parere di Roberto Longhi secondo cui si tratterebbe di una copia contemporanea da un perduto originale di Caravaggio, Camelli adombrava una sua diversa convinzione, piuttosto favorevole all’autografia («ad ogni modo il potente chiaroscuro del quadro […] indica chiaramente il Caravaggio») come è confermato anche nella didascalia a corredo dell’illustrazione che gli assegna il quadro senza incertezze (Camelli 1930). In seguito il dipinto fu pubblicato da Longhi come copia antica, e di qualità, da un perduto originale dell’ultimo periodo, giudicato forse frettolosamente «su una fotografia quasi soddisfacente» ottenuta «dopo vent’anni di prove» (Longhi 1943). Come tale venne a lungo considerato (Longhi 1951a) ed esposto alla mostra milanese del 1951 (Longhi 1951b). Sempre come copia figurava nel catalogo di Puerari della Pinacoteca Ala Ponzone (1951). Fu Denis Mahon (1951), in una recensione a quella mostra, a rivalutare il dipinto di Cremona e a proporlo come autografo, condizionando in seguito anche il parere dello stesso Longhi (1952), da quel momento più possibilista circa l’autografia caravaggesca e propenso ad identificare la tela con un «San Francesco in atto di ricevere le stigmate» menzionata dall’anonimo postillatore del Mancini nella distrutta cappella Fenaroli in Sant’Anna dei Lombardi a Napoli, oppure anche semplicemente come un originale consunto o derivazione fedele, per poi tuttavia tornare a considerarlo ancora una copia (Longhi 1960), pur senza avere più avuto l’opportunità di riesaminarlo (Gregori 1997, p. 98). Circa l’autografia caravaggesca la critica si è poi divisa tra sostenitori (Mahon 1952; Hinks 1953; Baumgart 1955; Röttgen 1974; Nicolson 1979), detrattori (Wagner 1958; Jullian 1961; Cinotti 1971 e 1983; Moir 1967) e indecisi (Bodart 1966; Spezzaferro 1975); anche se a partire dagli studi di Maurizio Marini (1974, 1987; 2001, 2005) e di Mina Gregori (1985; 1987; 1991; 1997; 2005) l’ipotesi che la tela di Cremona possa essere un originale ha guadagnato sempre più consensi, tanto che oggi nessuno più la considera una copia.
Il soggetto del dipinto, un san Francesco «in disperata meditazione sul Crocefisso» (Longhi 1943), esemplifica il tema del santo penitente rappresentato all’aperto in luoghi selvatici, particolarmente ricorrente negli anni della Controriforma. Il tipo iconografico è stato da tempo ricondotto a idee maturate nell’atelier dei Carracci (Gregori 1985, p. 310), come nel San Francesco adorante il Crocefisso dei Musei Capitolini (G. Feigenbaum, in Ludovico..., [1993], pp. 18-19) o nella nota stampa del 1585 di Annibale con San Francesco in meditazione con le mani strette a reggere la croce (Bohlin Degrazia 1979, p. 343 n. 7); ma assai stringente sembra anche il riferimento a una incisione di Francesco Villamena con San Francesco in meditazione (Kühn 1979, p. 146) che mostra il santo inginocchiato, con la testa reclinata in una postura molto simile a quella del dipinto di Cremona. Come è stato di recente precisato (Pupillo 2007, pp. 102-104), la scena allude a un passo della Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio in cui si narra di come Francesco, tornato sul monte della Verna nel 1224, e aperto tre volte a caso il vangelo sempre al racconto della Passione, mediti sul suo destino ultimo di totale conformità al martirio di Cristo, che in seguito porterà alle stigmate qui effettivamente ancora mancanti. La profonda interiorizzazione della rivelazione, enfatizzata dalla presenza del crocifisso che sembra fermare le pagine del vangelo imponendosi quale argomento primario di meditazione, rivela sempre più probabili nel dipinto cremonese quei risvolti autobiografici che già Longhi (1943) aveva intuito in rapporto alle vicende personali del pittore seguite all’omicidio Tomassoni e al suo ossessivo desiderio di espiazione. Ciò risulta ancor più evidente quanto più si va confermando la recente ipotesi in merito alla committenza del dipinto da parte di monsignor Benedetto Ala, cremonese, governatore di Roma dal 1604 al 1610 (Gregori 1997, p. 90), e in più occasioni protettore di Caravaggio (Corradini, Marini 2000, p. 107 nota 14), per mezzo del quale forse egli sperava di ottenere la revoca del bando capitale.
Per quanto riguarda la cronologia la critica è per lo più concorde per una datazione alla fase matura, fra il 1604 e il 1606, riprendendo l’orientamento di Roberto Longhi (1943) che riteneva il quadro cremonese dell’«ultimo e più affannoso tratto della vita del maestro» e che in seguito (1952) lo assegnava più precisamente al momento del soggiorno presso i feudi Colonna; mentre per Denis Mahon (1951) la tela andava datata al primo soggiorno napoletano, coeva alle Sette opere di misericordia del Pio Monte e alla Flagellazione per San Domenico. Differenti proposte di datazione sembrano oggi da abbandonare: sia quella precoce avanzata da Marini (1974, p. 402) che ancorava l’esecuzione della tela al prestito di una «veste da cappuccino» da parte di Orazio Gentileschi, il quale ne riferì al processo del 1603 come di fatto recentemente occorso (Bertolotti 1881, II, pp. 62-63), sia quelle più tarde sostenute da Wagner (1958) che pensava al periodo siciliano, o da Azzopardi (1996, p. 199 e p. 201) e Spike (2001, pp. 208-209) favorevoli a una esecuzione del quadro durante il soggiorno maltese del 1608. In parallelo una serrata indagine stilistica è stata condotta a più riprese da Mina Gregori a partire dal 1985 (e nuovamente nelle schede di presentazione dell’opera a varie mostre del 1987, 1991, 1997 e 2005), che ha rimarcato nel dipinto cremonese la medesima stesura pittorica ricca e le succose pennellate luminose che si ritrovano nella Madonna dei pellegrini, nell’Ecce Homo Massimi, nel San Giovannino Corsini e nel San Gerolamo del Montserrat, per citare solo alcuni degli esiti più prossimi. Come è stato giustamente notato (Gregori 1991, p. 291), e come era facilmente verificabile nella mostra di Barcellona (2005) dove le due opere erano collocate una accanto all’altra, la cavità del tronco alle spalle del San Francesco è della stessa qualità e forma di quella scavata nell’albero annegato nell’oscurità del San Giovannino Corsini. I corrugamenti sulla fronte del San Francesco e l’impietosa luce di taglio che ne segna fortemente i tatti del volto si ritrovano nella figura di Pilato dell’Ecce Homo di Palazzo Bianco, nella vecchia servente della Cena in Emmaus della Pinacoteca di Brera, ma anche nel ventre smagrito del San Girolamo del convento catalano. Altra similitudine determinante, anche ai fini della datazione della tela, è lo stretto rapporto esistente tra la posa accovacciata del san Francesco, chiuso a bozzolo, con l’analoga postura di uno degli apostoli del Cristo nell’orto Giustiniani andato distrutto a Berlino nel 1945 (Gregori 1991, p. 291; 2005, p. 62); osservazioni che sembrano tutte restringere il cerchio intorno al 1606.
Un più stretto rapporto tra le vicende personali del maestro, volte ad ottenere l’intercessione di monsignor Benedetto Ala, porterebbe automaticamente a confermare per altra via la datazione del dipinto all’estate del 1606 quando il pittore si era rifugiato nei feudi di Zagarolo e Paliano sotto la protezione di Costanza Colonna, marchesa di Caravaggio. Se a ciò si aggiunge che nel volto del santo si possono agevolmente riconoscere i tratti del pittore diventa sempre più suggestiva l’ipotesi che attraverso questo quadro egli avesse voluto affidare al suo protettore una sorta di confessione per figuram del suo stato d’animo e della sua rassegnazione per un futuro che presagiva incerto e con poche speranze. E’ ormai acclarato che nel decoro della cornice, molto probabilmente di mano di Caravaggio per similitudine col bordo della rotella con la Medusa degli Uffizi (Whitfield 2011, pp. 19-20), sia da riconoscersi lo stemma Ala (un leoncino rampante con ala di profilo), e come attraverso l’identificazione del primo possessore si possano poi facilmente declinare le successive vicende del dipinto fino al suo arrivo a Cremona e alla sede attuale. Un marchio a fuoco sul verso della cornice con le iniziali MDA potrebbe essere inteso come nota di possesso e alludere al marchese Daniele Ala, il fratello di monsignor Benedetto o più probabilmente l’omonimo discendente e padre del marchese Filippo donatore dell’opera. Un’altra iscrizione ugualmente sul verso della cornice (“Con. S.ti Fran ci”, da leggersi Conventus Sancti Francisci) sembra adombrare un passaggio in qualche convento francescano, molto probabilmente quello cremonese dove il dipinto forse rimase fino alle soppressioni e al probabile rientro nella collezione Ala per mano dell’ultimo Daniele. La presenza di una copia antica nel convento francescano di Castell’Arquato (località non lontana da Cremona, ora nel locale museo parrocchiale, cfr. Ceschi Lavagetto [1985], pp. 44-45), avvalora l’ipotesi che il dipinto di Caravaggio fosse già a Cremona dalla metà almeno del XVII secolo. Non è escluso però che lo stesso possa avere avuto una qualche notorietà anche in ambito romano come sembra confermare una derivazione di recente apparsa (M. Marubbi, in Francesco nell’arte… 2016, in corso di stampa). Il dipinto viene qui esposto dopo il restauro eseguito da Margherita Signorini, resosi necessario per le alterazioni del precedente intervento di Edo Masini (1986). Al momento della chiusura di questa scheda (e a lovoro appena iniziato) è già possibile apprezzare la riemersione del fondo con la vegetazione, le foglie dell’albero e in generale una maggiore sostenutezza della qualità pittorica nei dettagli prima offuscati.
Riccardo LATTUADA
Orazio Gentileschi. Nuove opere giovanili e qualche rifelassionew sul suo metodo di lavoro
Il ritrovamento di una Annunciazione e di una Caduta degli angeli ribelli su alabastro, due rare opere giovanili di Orazio Gentileschi, mostra l’importanza per il pittore di fonti visive della tarda Controriforma come le stampe di Jacopo Caraglio ed alcune opere di Scipione Pulzone e Giuseppe Cesari, ed un uso ripetitivo degli stessi disegni per una serie di opere databili tra il 1600 e il 1610. In queste opere Orazio - figlio di un orafo della Corte medicea, e dunque avvezzo all'impiego di lenti di ingrandimento e all'esercizio del disegno applicato alla progetazione di minuscoli oggetti - mostra una puntigliosa capacità di esecuzione di ogni dettaglio, che viene collegata all'attività di disegnatore per medaglie da lui svolta negli anni Novanta del Cinquecento.
Nella seconda parte del saggio viene mostrato un aspetto mai rimarcato dell’orizzonte culturale di Orazio Gentileschi: l’uso di stampe di Hendrick Goltzius, che hanno influenzato la composizione della parte inferiore della Caduta degli angeli ribelli, e soprattutto la composizione dell’Annunciazione a Torino, Galleria Sabauda, e Genova, Chiesa di San Siro.
don Sandro CORRADINI
Caravaggio aggressore o aggredito? L'enigma della rissa
"Caravaggio non ebbe una condanna a morte ma all'esilio e non fu l'unico ad essere condannato, come ancora si crede, ma con lui subirono la stessa sorte i partecipanti a quella che appare una vera e propria aggressione, organizzata dal clan dei Tomassoni-Giugoli; questi ultimi erano cognati di Ranuccio, anch'essi interessati a punire duramente Caravaggio".
Questa è la tesi esposta da don Sandro Corradini sulla base di inappuntabili documentazioni emerse dagli archivi, da ultima la inedita confessione -per ottenere quello che oggi si direbbe un 'patteggiamento'- del fratello di Ranuccio, Giovan Francesco Tomassoni.
Ma perchè si scatenò la rissa ? La ricostruzione di Corradini è estremamente precisa e smentisce quanto supposto sino ad oggi cioè che il motivo potesse risiedere in una scommessa o addirittura nel conteggio dei punti alla pallacorda; i documenti mostrati dallo studioso (in parte già pubblicati nel volume di "Scritti in memoria di Maurizio Marini") in realtà fanno riferimento al fatto che Caravaggio possa essere stato affrontato dai Tomassoni per le sue allusioni circa la moglie di Ranuccio, Lavinia Giugoli, una donna assai discussa sotto il profilo morale, tant'è che morto il marito, arrivò perfino a rinunciare alla tutela della figlia Plautilla. Dunque il Merisi venne attaccato in modo proditorio e dovette praticamente improvvisare la difesa con chi si trovava allora con lui, cioè Onorio Longhi -che infatti non prese parte allo scontro- il capitano Antonio Bolognese, che rimase invece gravemente ferito e altre persone, ora tutte identificate da Corradini; eccetto un NN, sodale di Caravaggio, che evidentemente non 'doveva' essere nominato; perchè? Lo studioso ha avanzato l'ipotesi che dovesse trattarsi di Fabrizio Colonna, rampollo di un casato tanto potente e con tante di quelle entrature che era bene non fosse coinvolto in una rissa terminata con un omicidio.