(1840) CLAUDE MONET (1926)

“Io mi misuro e combatto con il sole“

 
 di Luigi MUSACCHIO

Con il suo realismo, Courbet aveva avvertito e presagito quelli che sarebbero stati gli sviluppi, imminenti da lì a venire, della pittura antiaccademica, sociale da un lato e naturalistica dall'altro. Ne sono testimonianza i suoi dipinti e il suo impegno politico. Amico di Proudhon - immortalato con Baudelaire nel suo Atelier dell'artista - aveva conosciuto il carcere nei disordini di Parigi, ma, da quel brav'uomo di mondo qual era, s'era tenuto ben lontano dall'essersi troppo mischiato coi rivoluzionari.

La sua storia personale di artista, tuttavia, la dice lunga sulla tipologia della sua attività e sull'ispirazione che la sostiene. Si fa precursore ante litteram della pittura moderna con la sua opposizione, per esempio, alla gerarchia dei generi stabilita fin dal 1667 dall'Accademia delle Belle Arti e ne fa strame. Con un puntiglio tipico di chi vuole lasciare traccia di sé, dipinge una scena di genere, il Funerale a Ornans, nei canoni della scena epica, sovvertendo in questo modo sia l'ordine sia la logica gerarchica della composizione accademica. Il resto della sua pittura, lontana dai grandi personaggi storici e dai canoni dell'Accademia, si legge e ammira, tra l'altro, nei suoi Il disperato, L'uomo ferito, Gli spaccapietre, La filatrice… così come, in omaggio allo spirito del tempo impregnato di positivismo, con tutto il suo carico impositivo di ricorso all'esperienza e alla realtà, si può intravvedere ne L'origine del mondo: dipinto scandalosissimo, mai nessuno aveva osato tanto, un tuono che fa vibrare tutti i vetri dell'Accademia e dei Salons di Parigi. Ne viene il merito, tuttavia, misurato nei termini della sua popolarità, di aver invocato e affermato un sentimento più sicuro e maggiormente attento alla realtà.
 
Così, mentre Courbet apre la strada alla pittura a sfondo sociale e all'aria nuova che spira in Europa in tema di democrazia e socialismo, Claude Monet, dal suo canto, ne apre un'altra; ma sul fronte del naturalismo, un percorso lontano dalle implicazioni sociali, tracciato sulla carta, anzi, sulla tela puramente pittorica della figurazione paesaggistica.

Monet conosce Courbet, Delacroix  e Baudelaire, a diciassette anni (1857),  mentre frequenta l'Académie Suisse a Parigi: entra, pertanto, giovanissimo, a far parte di quella cerchia di artisti e intellettuali che faranno grande la Francia nel XIX secolo nel campo dell'arte e non solo. Vi conosce anche Manet e alcuni pittori della scuola di Barbizon ma resta ammaliato dall'insegnamento del suo maestro Eugène Boudin, che gli apre una prospettiva pressoché sentimentale sulla pittura en plein air:  « Sono così belli il mare e il cielo, gli animali, la gente e gli alberi, così come la natura li ha fatti, con il loro carattere, il loro modo di essere, nella luce, nell'aria, proprio così come sono»1). Si avvicina quindi a Daubigny, assertore questi stesso dei paesaggi dal vero.
È l'anno stesso in cui Baudelaire, presumibilmente suggestionato da quelle che sarebbero esplose in folgoranti impressioni, scrive: “Questi occhi pieni di luce, camminano davanti a me,/che indubbiamente un Angelo molto saggio ha calamitato;/ questi fratelli, che sono i miei fratelli, camminano/scuotendo nei miei occhi le loro fiamme di diamante” 2).
 
L'interesse di Monet  verso il naturalismo paesaggistico viene però da più lontano. A trent'anni, a Londra, nel suo “buen retiro” per evitare di essere richiamato nella guerra contro la Prussia, resta impressionato dall'opera di Turner. Gli sconvolgimenti pittorici dell'artista inglese (terra/cielo, mare/cielo) non sono quasi mai fine a se stessi. Vi si legge spesso la vicenda umana, dipinta nella sua drammaticità avvolta da un afflato romantico.
Non mancano, a tenere compagnia a Monet, gli amici di Barbizon, Bazille, Renoir, Pissarro e l'“amico dei fiumi” Sisley, con le loro nuove, anticipatrici suggestioni coloristiche. La vicina foresta di Fontainebleau rivela agli occhi e ai pennelli di questi signori l'incanto del segreto delle sue luci e delle sue ombre. Non solo, ma anche gli alberi, i prati e gli stagni partecipano al giocoso festino cromatico di questi appassionati pittori del plein air. A questo riguardo osserva significativamente Marcel Proust: « [...] il colore che (Monet) creava in sottofondo ai fiori era più prezioso, più commovente che quello stesso dei fiori; e sia che facesse scintillare sotto le ninfee, nel pomeriggio, il caleidoscopio di una felicità attenta, mobile e silenziosa, sia che si colmasse verso sera, come certi porti lontani, del rosa sognante del tramonto, cambiando di continuo per rimanere sempre in accordo, intorno alle corolle dalle tinte più stabili, con quel che c'è di più profondo, di più fuggevole, di più misterioso – con quel che c'è d'infinito – nell'ora, sembrava che li avesse fatti fiorire in pieno cielo»3).
 
In fondo la grandezza di Monet, che fa dire a Cézanne: «Monet? Il più grande di tutti noi. Io lo metto al Louvre! »4) risiede in grandissima parte nella sua capacità di cogliere l'incidenza della luce sulla variabilità tonale dei soggetti che amava rappresentare: dapprincipio (prima fase della sua pittura) figure preferibilmente all'aperto; quindi (seconda fase), l'onda progressivamente montante del paesaggio sulle stesse figure; poi (terza fase), il paesaggio nella sua visione panoramica e, infine (quarta fase), il graduale, pressoché ossessivo ridimensionamento del quadro ottico sulla natura più prossima, quasi a contatto di sguardo, con l'acqua dello stagno e le ninfee a Giverny.

Prima fase

In Donne in giardino, (fig. 1, Monet ha ventisette anni), le figure che vi si vedono sono quattro: due in ombra, forse due amiche nell'atto di conversare e una delle due sorpresa nell'odorare un ricco mazzo di fiori, una terza demoiselle, seduta, è ugualmente alle prese con dei fiori appena raccolti nel giardino (preziosi i ricami che ornano la sua veste magistralmente lavorata nel gioco ombra-luce delle pieghe; graziosissimo l'ombrellino, allora molto in voga, a fare da schermo al suo capo coperto da una cuffia imperlata ; la quarta, una figuretta gentile, ma appena più piccola del naturale, è colta in posa dinamica, e lo sguardo dell'osservatore corre, inseguendola in questo suo giro apparente intorno all'albero posto al centro del dipinto. Si tratta, molto evidentemente, di un'opera-manifesto di quel che sarà il futuro programma pittorico dell'allora giovane Monet: egli vi dimostra la sua già affermata maestria nel manipolare i colori, nel “tagliare” la scena in forma inusuale, nell'armonizzare il tutto in un godibilissima leccornia per lo sguardo dell'osservatore. Ecco qui, come si è già rilevato, un'altra singolarità di Monet: egli pare “lavorare” per il piacere del pubblico. La pittura en plein air, copiosamente ricolma di luminose cromie (godibili d'altronde fino in fondo solo al cospetto dei dipinti originali), ha definitivamente abbandonato le composte apparenze oneste delle figurazioni accademiche e, più libera nella sua espressione, celebra ormai ancora di più l'ideale di una libertà artistica, alla pari delle libertà ugualmente reclamate nelle contemporanee contese civili.
 

Seconda fase.

In I papaveri (fig. 2, Monet ha 33 anni), tutto fa pensare che si tratti di Camille, la sua giovane sposa, e del figlioletto Jean che navigano in una mare di papaveri. Il paesaggio è sovrabbondante e ricolma di sé l'ampiezza del dipinto, che appare diviso a metà dall'orizzonte, delimitato da una fila di alberi tra cui, a distanza, occhieggia un casolare. Camille, dunque, e Jean passeggiano su un prato dove l'erba è abbastanza alta fin quasi a coprire il piccoletto: i papaveri, infatti, tanti, appariscenti e via via sfumati in lontananza, competono con lui in altezza. Tutta la vastità del prato è baciata dalla luminosità del cielo, che non incombe, ma dà aria e profondità al primo piano.
Vi si può indovinare la campagna di Argenteuil, dove nel frattempo l'artista si era stabilito. Il mutevole e frequente cambio di temi nei suoi dipinti denota, in questo periodo, la ricerca in qualche modo affannosa su cosa vale la pena dipingere: quest'aspetto accompagnerà a lungo il lavoro dell'artista, che finirà per fermarsi, come si sa, sulla scelta non effimera e non fine a se stessa della serie spettacolare delle ninfee.
 

Terza fase.

La serie dei covoni (fig. 3), una quindicina, comprende un'altra parentesi nella lunga carriera di Monet. Essa precede quella delle cattedrali (ne ha dipinte cinquanta) ; ma entrambe posseggono e dimostrano quello che è ormai diventato il suo crisma: dipingere un medesimo soggetto che, col variare delle ore del giorno, ammette la possibilità non di essere replicato ma di offrire varianti sempre credibili nel mutare dell'incidenza della luce e dei conseguenti mutamenti nella dissolvenza dei toni: in questa mission impossible risiede l'unicità dell'operare artistico dell'occhio più bello del XX secolo.
 

Quarta fase.

A questa fase si ricollega la serie delle ninfee. In queste ultime opere Monet appare compreso in una sorta d'impossibile e vibrante “dialogo” con i colori dei suoi fiori, con l'acqua del laghetto e con il cielo: “personaggi” che favolosamente interagiscono per tessere la magnifica e ineguagliabile tela della pittura impressionista. Non ve ne sarà, infatti, un'altra che possa competere, per unità d'intenti e qualità materica, con questa. Monet, nella sua vita d'artista, resta fedele al suo cliché: dedicare il suo impegno e la sua sensibilità nella ricerca del vero naturale possibile, in tutta la sua recondita bellezza. E, in ciò, occorre riconoscergli un lascito straordinario e, per certi versi, anche commovente: l'aver elargito all'arte universale , un contributo imperituro connotato di cromatismi a dir poco stupefacenti a lui ispirati da madre natura e da lui riproposte con eccezionale, geniale maestria e un omaggio unico, di cui tutti possono beneficiare. «Per il pittore la creazione artistica è sempre stata una lotta sofferta. Attribuiva maggiore importanza di quanto non facessero i suoi contemporanei a un aspetto essenziale dell'impressionismo: comunicare all'osservatore le emozioni prodotte dalla luce»5).
Avverso la condanna espressa da Lionello Venturi sul conto delle serie dei covoni, delle cattedrali e delle ninfee (che vi vede il fallimento di quello che voleva essere un programma pittorico quasi scientifico e che, invece, si rivela un processo tendenzialmente solo sentimentale) si leva il peana di Cesare Brandi, che così chiosa uno dei tanti dipinti dedicati a questi fiori e collocato nell'Accademia di Belle Arti di Parigi: «Ma di tutti i dipinti, quello che veramente mozza il fiato è proprio questo (fig. 4), il più grande, con le ninfee: acqua e ninfee. Fanno due larghe chiazze, una a sinistra e l'altra a destra in alto, con una disposizione molto giapponese: al centro l'acqua è gialla, verde, d'un verde come l'erba schiacciata, e solo in alto diviene azzurra, come l'acqua di Capri e il cielo d'alta montagna. … Ma occorre dire di più, è veramente una delle più straordinarie pitture che esistano, la cui freschezza miracolosa travolge come uno spettacolo da Eden. … Questo è veramente il quadro da mostrare e chi ricerca il soggetto, il messaggio, la comunicazione: il quadro che fa capire cos'è la pittura, o se non si capisce, la fa ignorare per sempre»6).
A ben vedere, dunque, nell'opera di Monet traspare una sottesa fenomenologia della visione, che si traduce in una sorta di tecnica fotografica e che si sviluppa dalle primordiali panoramiche ai primi e primissimi piani dei suoi ultimi dipinti. Ne è prova tutta la sua produzione, che va dai quadri d'insieme [(Il ponte ad Argenteuil, (1874); Stagno a Montgeron (1877); Covone a Giverny (1886); Prati a Giverny, (1888); ecc.] al finale in diminuendo delle predilette “ninfee” nel suo famoso giardino. Trattasi, né più né meno, di un'incredibile e lunga zoomata: prima, come su uno schermo allargato, l'insieme di tutto il suo giardino (Lo stagno delle ninfee, 1899) comprendente il caratteristico ponte giapponese e le rive del laghetto; poi, via via, l'ultimo piano scompare o sfoca per lasciare in evidenza, su un piano del tutto ravvicinato allo sguardo dell'osservatore, i suoi fiori preferiti (Tondo Monet, 1908), dipinti nei loro variegati colori nonostante la cataratta ormai galoppante.
Provvederà una delle sue ultime opere, Nuvole (fig. 5, 1926), dopo le fatiche - lui quasi cieco - sulle gigantesche rappresentazioni floreali (che formeranno un unico circolare dipinto, collocato nel Museo dell'Orangerie), a realizzare, in crescendo impetuoso, la battuta finale della sua lunghissima sinfonia naturalistica. Non saranno più ninfee o fiori di loto, questi magici fiori dai cangianti colori secondo l'ora del giorno, ad attrarre il suo sguardo, bensì il cielo, l'ormai prossima e sua definitiva residenza; un cielo, però, alla stregua di un immenso stagno dove le nuvole, appunto, paiono riflettere, una volta di più e per sempre, il suo tema prediletto: le ninfee, ancora maggiormente frastagliate, sfumate, incorporee. Il che farà dire ai critici più vezzosi che trattisi di un “presentimento” che si vedrà concretare con l'astrattismo e con le ormai prossime avanguardie. Ma questo è un altro discorso.
Per terminare, piace riportare le parole dello stesso Monet: «Le tecniche vanno e vengono. […] L'arte rimane la stessa: una rappresentazione della natura che richiede impegno e sensibilità. Io mi misuro e combatto con il sole. […] Bisognerebbe dipingere con oro e pietre preziose».
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Luigi Musacchio
 
1) Fiorella Nicosia, Claude Monet, Hoepli.
2) Charles Baudelaire, I fiori del male, XLIII.
3) ) Giuliana Giulietti, Proust e Monet, I più begli occhi del XX secolo, Donzelli Editore .
4)  Michael Doran, Cézanne, Documenti e interpretazioni, Donzelli Editore.
5)  Nina Kalitina, Claude Monet, ISBN.
6) Cesare Brandi, Quadro di Monet donato all'Accademia di Belle Arti di Parigi, «Corriere della Sera», 9 giugno 1972.
7)   Nina Kalitina, Claude Monet, ISBN.