Roma nell’Ottocento attraverso gli occhi di un adolescente.

Il diario di viaggio di Giovanni Corboli Bussi, uno sguardo disincantato


di
Rita RANDOLFI
 
L’estesa bibliografia che fa riferimento alla figura di Giovanni Corboli Bussi si è occupata quasi   esclusivamente di mettere in luce la sua importanza politica quale prelato impegnato nel coinvolgimento della Chiesa nella causa di liberazione dell’Italia dagli Austriaci,  come  difensore dell’istituzione di università interconfessionali in Irlanda, nonché risolutore dello scisma di Goa[1]

La scoperta del manoscritto dal titolo le Memorie di Roma

composte da Giovanni all’età di quindici anni svela un aspetto più nascosto della sua personalità, permeata di una profonda  cultura classica, dovuta sicuramente all’educazione ricevuta in casa. La madre, Costanza Sommi Picenardi, è ricordata dalle fonti come una scrittrice ed un’artista[2]il padre Curzio, senatore di Roma[3],  è noto  per aver donato alla patria  la statua  di Raffaello di Carlo Finelli[4]. Persino i nonni, Fulvio, giurista, per parte paterna,  ma soprattutto Serafino per parte materna[5] esercitano un enorme influsso sulla formazione del ragazzo[6].   Ed è a Serafino che il nipote dedica il suo manoscritto di duecentosessantuno pagine,  in cui racconta  le meraviglie di Roma da lui visitate  in un soggiorno di istruzione,  compiuto tra  la primavera del 1827 e l’inizio dell’anno successivo (figg. 1-3). Giovanni si sofferma sulle  opere d’arte che destano maggiormente  il suo interesse, ubicate in piazze,  strade,  palazzi,  chiese. Ma ciò che più colpisce  è l’attenzione da lui prestata  agli atelier di alcuni tra i più importanti scultori presenti nella città eterna, per l’acutezza con la quale riesce a  cogliere il tratto stilistico essenziale di ciascun artista, fornendo anche notizie interessanti circa le collocazioni e le committenze.  
Al foglio 155 così Giovanni introduce la visita allo studio di Giuseppe de Fabris:
 
       «Lasciata la piazza di S. Trinità, e prendendo la via  che ci siamo prefissa, (ossia la via Felice, attuale via Sistina) entreremo nello studio del celebre scultore sig. Cav. Fabris. Un Milone colossale ne è il principale ornamento: egli è rappresentato nel momento in cui il leone lo assalta e lo ferisce alla coscia: non può distaccarsi dalla quercia fatale, volge il volto pieno di furore misto a disperato dolore, verso il leone, e tenta di allontanarlo con le grida»[7].
 

Giuseppe de Fabris, nativo di Nove,  occupa ancora lo studio di Via Felice n. 130

di quando era giunto a Roma, nel 1815, in compagnia della prima moglie Camilla Piantanida, e di alcune lettere di presentazione per Antonio Canova. La casa dell’artista costa di quattro piani compreso il pianterreno, ma Fabris riserva per sé solo quest’ultimo livello e quello superiore.
Uno dei primi eventi a cui lo scultore  partecipa nell’Urbe è l’assegnazione  dei premi dell’Anonimo, istituito da Canova, per i lavori eseguiti dagli allievi dell’Accademia di palazzo Venezia. Giuseppe della Valle si aggiudica il premio per la classe di pittura, il cui tema è «Milone crotoniate con ambedue le mani incastrate nell’albero e da un leone investito», soggetto che impressionerà notevolmente Fabris, il quale ne trarrà ispirazione  per la sua opera[8].
Nel 1821 infatti egli  modella in creta e getta in gesso la colossale statua del Milone,  esposta in un padiglione di legno appositamente eretto accanto al proprio studio, dove rimane per quasi trent’anni, ammirata da un numeroso pubblico di intenditori e di curiosi. L’opera sancisce la fama dell’artista e contemporaneamente rappresenta la grande tragedia della sua vita.  Fabris desidera trasferire in marmo il modello  del Milone, alto quasi sette metri, dimensioni fino ad allora mai superate, per il quale occorsero più di settanta carrette d’argilla e centotrenta quintali di gesso.
Ma dopo aver perso le speranze di collocare la statua  in piazza del Popolo, e dopo averla offerta, nel testamento del 3 agosto 1854, al Governo Pontificio, lo scultore si  accontenta di donare il colosso allo zar di Russia[9].  L’opera tuttavia  suscita il plauso di molti[10].  Alcuni  interpretano l’eroe come un millantatore di cose sacre, essendo la quercia sacra a Driade[11], altri vi  scorgono un’allusione alla sconfitta di Napoleone Bonaparte, il quale, proprio  il 5 maggio del 1821, si era spento nell’isola di Sant’Elena[12]. La sfumatura allegorico-politica, così abilmente colta dal Missirini,  il cui sonetto si conclude con l’endecasillabo «Ai superbi Profani infausto esempio»[13] viene invece assolutamente omessa da Corboli, che piuttosto preferisce porre l’accento sulla qualità stilistica dell’opera e sulla sua potenza espressiva, quasi che Milone fosse un novello Lacoonte, la cui disperazione e fierezza avevano costituito uno spunto di riflessione  persino per Canova nel celebre gruppo di Ercole e Lica scolpito per i Torlonia.  La muscolatura tesa, ma soprattutto il tentativo di chi ha sempre adoperato la forza fisica per difendersi, di utilizzare una voce scomposta in grida per allontanare il malvagio e affamato leone, desta l’ammirazione dell’adolescente urbinate, che passa a descrivere, e con toni non meno partecipati, un’altra opera nello studio dell’artista. 
 
        «Né men bello mi è sembrato il Monumento al Tasso, che il sig. Cavaliere dovrà non molto eseguire. Il Poeta  è in atto di cominciare il suo poema, sedendo sopra un trofeo, e rivolgendosi con entusiasmo alla Vergine, che sta in una gloria scolpita nell’alto. Sotto la figura del Poeta è rappresentata una pompa funebre, che lo porta al sepolcro. Tutto ciò è in bassorilievo.
Questo monumento sarà posto in S. Onofrio, per cessare una volta quest’obbrobrio, che mentre in Inghilterra si aprono le tombe de Re, per collocarvi Addison e Milton; la nostra Italia non sappia provvedere di sepolcro le ceneri del Tasso»[14].
 

L’autore dimostra di essere a conoscenza della querelle sviluppatasi

intorno al monumento del Tasso. Nella chiesa di Sant’Onofrio sul Gianicolo infatti esisteva una tomba, che accoglieva le spoglie mortali di Torquato, ed era stata eretta nel 1628, a spese del cardinale ferrarese Bonifacio Bevilacqua, legato  d’amicizia ai genitori del poeta. Per Pio IX il manufatto risultava troppo modesto[15], motivo per cui sulla Gazzetta di Venezia del 9 ottobre 1827, n. 236, Appendice Varietà Melchiorre Missirini pubblicava l’annuncio di un «progetto del cav. Pietro Ercole Visconti» riguardante «l’invito a tutti gli animi gentili per erigere magnifico sepolcro al Tasso. L’illustre scultore cav. Giuseppe Fabris ha già posto in disegno e in stampa l’idea di questo monumento»[16].
A quella data il progetto  era stato diffuso da un’incisione di Bartolomeo Pinelli (figg. 4-8), ma Fabris aveva elaborato almeno un altro disegno preparatorio. Questo, in seguito utilizzato per il Monumento a Palladio, prevedeva la figura del poeta in piedi su un alto basamento, mentre veniva incoronato da un Genio. Ai lati comparivano le personificazioni dell’Epica e della Lirica, una delle quali intenta a riportare su un rotolo la data del 1827. Ma in seguito alla  discussione con Missirini e Visconti, che ebbe luogo prima dell’autunno del 1827, l’idea originale risulta modificata e corrisponde alla descrizione del giovane Corboli.Tuttavia questi non parla di un elaborato grafico, quanto piuttosto fa credere di aver visto un modello, forse in gesso, che sostanzialmente riflette l’incisione promozionale e l’opera compiuta. Dunque il giovane probabilmente visita Roma a cavallo tra la primavera  e la fine del 1827, quando  Fabris ha già eseguito il bozzetto che nel 1830, almeno per quanto riguarda la figura del Tasso, tradurrà in marmo. L’ipotesi della datazione del soggiorno di Giovanni trova conferma nell’Elogio funebre della madre Costanza, stilato, nel 1851, dal padre Tommaso Pendola delle scuole Pie che afferma:
 
      «Nel 1827 la (riferito a Costanza) vide Roma; e mentre Giovanni erasi dedicato alle filosofiche discipline, alla greca eloquenza, alla mineralogia (…) ella ingenerava grazia e reputazione»[17]
 
Il monumento al Tasso, com’è noto, sarà collocato nella chiesa di Sant’Onofrio (fig. 9) soltanto nel 1857 e susciterà un cumulo di polemiche, tra  chi lo reputerà un’opera troppo neoclassica, chi  verista o addirittura romantica[18]. Corboli, al contrario, si astiene da giudizi di questo genere, dimostrando, nella sintesi descrittiva, un’efficacia notevole per un ragazzo della sua età. In poche righe riesce infatti non solo a cogliere la peculiarità delle opere di Fabris, ma anche a dimostrare di conoscerne la storia e i retroscena, inserendosi nel dibattito sulla tomba, considerata come giustamente riferisce Faccioli,  «una sorta di riparazione italiana alla memoria del poeta»[19].
Giovanni è inoltre l’unico autore che si sofferma  raccontare  le opere di Fabris. Altri viaggiatori contemporanei infatti si limitano a elencare l’atelier dell’artista, fornendone l’indirizzo, tra quelli dei colleghi presenti nell’Urbe[20] Fabris è talmente affezionato alla tomba del Tasso, da chiedere di esservi sepolto accanto, rivendicando, in un certo qual modo, la sua originalità e indipendenza in rapporto ai coevi monumenti sepolcrali eseguiti dai seguaci di Canova o di Thorvaldsen[21].
È proprio allo studio di quest’ultimo che il giovane viaggiatore riserva parole di grande ammirazione:
 
       «Nel recinto che circonda questo palazzo (si tratta di palazzo Barberini), ha posto il suo studio quel celebre scultore, che l’Europa attonita vide discendere dai ghiacci della Danimarca, e venire in Italia, a contendere la palma al Canova, il sig. Cav. Alberto Thorvaldsen. Nel gran bassorilievo fatto pel conte Sommariva; rappresentante il Trionfo di Alessandro in Babilonia, egli ha portato in trionfo la sua arte e se stesso. Ne rimane ancora una parte nello studio, per alcune contestazioni nate fra il figlio di Sommariva e lo scultore; e questa rappresenta il cav. Thorvaldsen sotto le forme di un bel giovane, che accenna al vecchio Conte, il suo bassorilievo  
Bellissima e imponente è la statua equestre di Poniatowski, posta nella piazza di Varsavia; imitazione esatta di quella di Marco Aurelio in Campidoglio.
Un fonte battesimale formato da un Angelo inginocchiato, che sostiene una conca d’argento, è un dono che il sig. Cav. nella sua patria Copenaghen “esse sui dederet monimentum et pignus amoris”.
I Dodici Apostoli col Salvatore, destinati per la cattedrale di Berlino, sono tra le statue, ciò che il Trionfo di Alessandro tra bassorilievi.
Due grandi monumenti si stanno ora lavorando. Il primo è dell’ex Vicerè d’Italia la cui statua armata sta in piedi, ponendosi la corona d’alloro in capo.
L’altro è di Pio VII, da porsi in S. Pietro. La figura del Pontefice sedente, in atto di  compartire la sua  benedizione, ispira la più alta venerazione, e mostra la dolcezza e la mansuetudine che   grandissime furono in Pio, la Sapienza con cui  egli seppe guidare il suo gregge in sì difficili tempi, e la Fortezza con cui sostenne tante tempeste, meritandosi di essere ricordate ai posteri; e lo scultore ha collocato presso il Pontefice, da un lato la Sapienza, figura laureata con un libro aperto in mano, e il dito alla bocca, la Forza vestita di pelle di leone, dall’altro. Queste sono le principali  fra le opere di cui il sig. Cav.  ha illustrata una vita di 40 anni
»[22].

Già dalle prime battute che introducono la visita all’atelier del celeberrimo scultore danese

, Giovanni lascia trapelare la stima che nutre nei confronti di questo artista, del quale egli apprezza evidentemente lo stile, giudicandolo tutt’altro che freddo e impenetrabile, accuse spesso ripetute da alcuni critici italiani che gli preferivano Canova. E persino l’autore delle Memorie, che ricorda come Thorvaldsen sia «disceso dai ghiacci», espressione divenuta un topos letterario nelle guide di Roma, quasi a voler sottolineare il “disgelo” dell’anima dello scultore a contatto con  il calore italiano,  lo mette a confronto con Canova. Ma da questo confronto il danese non esce sconfitto. Il futuro monsignore, dimostrando ancora una volta la sua formazione liberale, esalta le qualità dell’artista soprattutto in relazione al monumento di Pio VII, la cui commissione a un protestante scatenò acerrime critiche, nella cattolicissima Roma.
Ma procediamo con ordine.
La testimonianza di Giovanni conferma la collocazione dello studio del Thorvaldsen all’interno del recinto di palazzo Barberini, questione a lungo dibattuta negli anni sessanta tra Hartman e Urbano Barberini[23].
Il primo contratto di affitto tra l’artista ed il principe Francesco Barberini risale al 14 novembre del 1815 e comprende diversi ambienti, adibiti a piccoli studi, mentre il grande atelier è preso in locazione nell’agosto 1822, al rientro del danese nell’Urbe, dalla patria natia[24].Qui sono sistemate le maggiori opere del Thorvaldsen, le stesse descritte dal Corboli, ritratte, anche se con qualche licenza, nell’ormai famoso dipinto di Martens, conservato al Museo di Copenaghen (fig.10), e nel disegno del Ricciardelli (fig. 11),  viste, nel 1824, dal critico d’arte francese Étienne Jean Delécluze e dallo storico d’arte danese Höven, dal medico paesista Carl Gustav Carus, insieme al principe Friedrich August di Sassonia, nel 1828 da Andersen,[25] nel 1829 da Ludivico I,  nel 1830 da Leone XII, e ancora da Gogol, da Madame Récamier, e da giovani artisti, curiosi, intenditori e anche semplici cittadini[26].  Lo studio di Thorvaldsen, suggerito come meta da non perdere negli itinerari turistici, citato dagli stranieri, elencato nei così detti indicatori della città eterna[27], costituisce dunque una tappa imprescindibile per tutti,  intellettuali e non.
Ma essendo le Memorie del Corboli datate 1828, un confronto si impone con le testimonianze coeve o di poco anteriori e posteriori. Ciascun visitatore rimane affascinato da una scultura in particolare. Leone XII si sofferma per circa un’ora davanti alla statua del Cristo destinata alla cattedrale di  Copenaghen,  e ammira, come anche  Ludovico di  Baviera, il monumento a Pio VII[28].
Se lo Stendhal liquida laconicamente la visita allo studio del danese, dichiarando con onestà di non apprezzarne lo stile, e sottolineando il suo disinteresse nei confronti di una conoscenza personale dello scultore, tuttavia consiglia al cugino Roman Colomb di recarvisi[29]. Questi, al contrario,  si entusiasma alla vista della statua di Eugenio di Beauharnais, rappresentato alla maniera antica,  e rimane talmente colpito dalle tre figure che dovevano comporre il monumento di Pio VII, il papa benedicente, e le personificazioni della Saggezza Divina e della Forza Celeste,  da considerarle il miglior manufatto dell’artista. Ancora il francese cita il bassorilievo con il Trionfo di Alessandro per il Sommariva, il bassorilievo nonché il gruppo delle Tre Grazie, il modello per la statua equestre del Poniatowsky, Cristo con gli Apostoli per la cattedrale di Copenaghen, Venere con il pomo  e numerosi busti[30].  Un altro francese, il Valèry, che compie il suo iter  nel 1828, riserva lodi sperticate  a  Thorsvalden, il quale, a suo dire, ha preso il posto di Canova nell’opinione pubblica europea, e ha superato, specie nel bassorilievo, il maestro di Possagno. Egli rimane incantato di fronte alle tredici statue colossali di Cristo con gli apostoli,  lo colpisce soprattutto la figura di Cristo, che esprime
 
       «lo spirito semplice e sublime del Vangelo, e presenta la maestà, ma senza ombra di terrore, di un Giove Olimpico»[31].
 
Qualche anno più tardi, nel 1831, Starke dichiarerà Thorvaldsen insuperabile  nel bassorilievo, paragonando le sue sculture  all’arte antica e agli affreschi di Raffaello[32].
Nell’impossibilità di esaminare in maniera esaustiva le testimonianze di quegli anni preme tuttavia sottolineare quanta importanza rivesta la descrizione di Giovanni Corboli.

Il ragazzo, cosciente della “specialità” del danese nel bassorilievo,

presenta, giustamente il Trionfo di Alessandro, come il primo manufatto dello scultore, la cui fama è legata  all’originale in stucco  destinato alla terza sala, detta della marchesa, del palazzo del Quirinale, ristrutturato nel 1812, per accogliervi Napoleone[33].  Il successo del fregio è tale che il Bonaparte stesso ne commissiona una replica in marmo per il Pantheon di Parigi. Ma, nel 1814, a causa delle mutate condizioni economiche, il governo francese decide di desistere dall’impresa e Thorvaldsen riceve solo la metà dei 320.000 scudi pattuiti. La commissione viene quindi rilevata dal conte Giovanni Battista Sommariva, che ne parla al figlio Luigi in una lettera del 1818, in cui, compiaciuto, sottolinea il suo fiuto di affarista, intuendo il valore commerciale dell’opera[34]. L’esecuzione delle trentatrè lastre di cui il fregio si compone costituisce l’argomento centrale dell’epistolario scambiato tra il committente, desideroso  di possedere ed esporre il manufatto, e l’artista inadempiente.
Ma la consegna dei pezzi  viene dilazionata nel tempo, e la testimonianza del Corboli riveste, a riguardo, un’importanza fondamentale. Thorvaldsen infatti rispetto alla versione originale apporta alcune modifiche, inserendo nuovi personaggi in particolare nella parte centrale  del rilievo[35]. Soprattutto egli pensa di ritrarre sé stesso ed il conte Giambattista, il quale però si spegne nel 1826 (fig. 12). Sommariva dunque non vede il pezzo che lo riguarda[36],  poiché questo si trova ancora nello studio del danese. La  questione riveste un notevole interesse, se si pensa che a tutt’oggi la cronologia della consegna delle lastre non è mai stata del tutto chiarita. Le divergenze tra l’artista ed il figlio del committente, Luigi,  non riguardano  i personaggi rappresentati, come lascia intuire il giovane Corboli, quanto, piuttosto i costi dell’opera, che ammontano alla considerevole cifra  di 500.000 franchi, comprensivi delle spese di materiale e trasporto. Quindi o Corboli non conosce la verità, oppure, come è più plausibile,  omette  con eleganza di trattare le questioni economiche.

La seconda statua menzionata dall’adolescente è quella equestre

del principe Giuseppe Poniatowsky[37]. A parte il fatto di ricordare che l’originale è destinato a Varsavia, Giovanni non parla diffusamente dell’opera, limitandosi a definirla «imponente e bellissima» e paragonandola, come del resto tutta la letteratura sull’argomento propone, al Marc’Aurelio. Va ricordato che nonostante lo scultore, nel contratto, fosse lasciato libero nella scelta della posa e degli abiti in cui rappresentare il maresciallo Giuseppe, cugino di Stanislao, morto durante la battaglia di Lipsia, il principe Czartoryski, membro del comitato promotore della realizzazione del monumento, aveva suggerito al maestro  di ispirarsi al Marco Aurelio o al bassorilievo con Curzio che si lancia nel precipizio del palazzo dei Conservatori di Roma[38].  Tenerani, nella lettera memoriale del 1827, di cui si tratterà a breve, indirizzata al Thorvaldsen, ricorda come questi fosse  talmente impegnato nell’esecuzione del cavallo, da trascurare la commissione ricevuta, per tramite del Klenze, per il monumento sepolcrale a Eugenio di Beauharnais[39]. La  statua equestre di Poniatowsky compare  in primo piano a destra nel celebre dipinto del Martens, che ne sottolinea la derivazione dal Marco Aurelio. Colomb ripete sostanzialmente le  notizie già fornite dal Corboli, aggiungendo soltanto che il modello sarebbe stato fuso in bronzo[40].  Ciò avviene nel febbraio del 1832. La testimonianza del futuro monsignore conferma dunque la data di esecuzione del monumento  tra il 1826 ed il 1827.
Il Thiele afferma di aver visto la statua di Poniatovsky  nel secondo settore dello studio grande di Thorvaldsen, dove risulta esposto anche l’Angelo in piedi per il fonte battesimale della cattedrale di Copenaghen[41] Corboli invece parla di un angelo inginocchiato. In effetti l’artista, che aveva ricevuto l’incarico di decorare la Von Frue Kirke, di ritorno dal viaggio in patria, dopo che la chiesa antica era stata distrutta e se ne avviava il restauro, aveva inizialmente pensato di scolpire il fonte battesimale come un angelo in piedi in atto di sorreggere una grande conchiglia. Il gesso è già pronto nel 1823, ma intorno al 1827 Thorvaldsen cambia idea e modifica la posizione dell’angelo, rappresentato  genuflesso, forse perché alcuni  avevano fatto notare che la prima versione somigliava troppo a certe acquasantiere cattoliche, o forse per aumentare il contrasto con il Cristo in piedi che, insieme ai dodici apostoli, era stato  commissionato per lo stesso sacro tempio[42]
Mentre Thiele ricorda la prima creazione del danese, Corboli menziona chiaramente la seconda, consegnata nel 1833. Degna di nota è la puntualizzazione di Giovanni riguardo il materiale in cui la conca sorretta dall’angelo è eseguita, l’argento, visto che nessun altro autore dimostra di porvi troppa attenzione.

Corboli ammira, dunque, un modello che altri non conoscono? 

Ragguardevole, inoltre, il bagaglio  culturale del giovane, che  ricorre ad una citazione latina per esprimere l’amore dell’artista nei confronti della sua terra d’origine.
Altro motivo di perplessità suscita il luogo al quale, secondo Corboli, sono destinate le statue di Cristo e dei Dodici Apostoli,  la cattedrale di Berlino[43]. Forse il ragazzo erra per distrazione, sembra assurdo infatti che non colleghi il fonte battesimale alle statue di Cristo e dei dodici. Altrettanto sorprendente è la maniera sbrigativa con cui Giovanni liquida le sculture. Se è vero che il loro valore estetico è equiparato a quello del bassorilievo con il Trionfo di Alessandro, stupisce che un futuro monsignore non si dilunghi nell’esternare le proprie emozioni di fronte a questi colossi, come invece farà il papa Leone XII o il Valéry.
A questo punto la narrazione del giovane subisce come un rallentamento per avviarsi alla sua conclusione. Corboli infatti lascia per ultimi i manufatti a cui Thorvaldsen sta lavorando nel momento in cui il giovane turista soggiorna a Roma.
Il monumento intitolato alla memoria di Eugenio di Beauharnais[44], commissionato dalla vedova, la principessa Augusta Amalia, figlia di Massimiliano Giuseppe di Baviera, per la chiesa di San Michele a Monaco, viene progettato dall’architetto delle fabbriche di Sua Maestà, Leo von Klenze, il quale coinvolge Thorvaldsen per la parte scultorea. La realizzazione dell’opera segnerà la rottura del danese con il suo più fidato collaboratore, Pietro Tenerani[45], il quale nell’ormai celebre lettera-memoriale indirizzata, nel novembre del 1827,  al maestro, per ricostruire le complesse vicende dell’allogazione dell’opera, cita un primo bozzetto in cui la corona  e lo scettro del comando sono posti  «ai piedi del principe»[46].  La corona menzionata dallo scultore carrarese in questa come in altre missive, anche di pugno del Klenze,  rese note dallo Hartmann, non è quella di alloro che nella versione finale Beauharnais porge alla Storia, bensì quella esprimente la regalità di Eugenio. Nonostante, a detta del Tenerani, Thorvaldsen si fosse riservato l’esecuzione della figura del Beauharnais, invia ugualmente nello studio del suo socio altri bozzetti che il carrarese avrebbe dovuto tradurre nei modelli a grandezza definitiva per il monumento. Dei gessi e dei disegni conosciuti  nessuno corrisponde alla descrizione di Corboli[47] (fig. 13). Vi è unicamente un progetto di Klenze, in cui si vede Eugenio, vestito però con una tunica, e non con una divisa militare, che si toglie la corona d’alloro dal capo[48]. Nella missiva di accompagno a questo, come a un secondo disegno elaborato dal Klenze, l’architetto, infatti,  specifica:
 
        «Con la sinistra leva dal capo l’ultimo simbolo della sua grandezza terrestre: la corona d’alloro della fama per consegnarla alla musa o dea seduta accanto»[49].
 

Quale modello, dunque, visiona Corboli alla fine del 1827?

Il giovane confonde quello che vede con quello che sa, ossia tutta la questione riguardante i bozzetti e i disegni scambiati tra Klenze, Thorvaldsen e Tenerani, o bisogna pensare alla possibilità che esista un altro bozzetto,  ancora inedito, in cui il protagonista è davvero ritratto in abiti militari mentre si incorona, o meglio, si libera della corona d’alloro?  Inoltre il punto tre del primo contratto, modificato, in seguito per quanto concerne  i compensi, stipulato tra la principessa Augusta Amalia ed il maestro danese, datato 8 febbraio 1825, recita che verrà rappresentata:
 
    «La statua dell’Eroe sul punto di entrare nella tomba, spogliato dei suoi vestimenti militari, e panneggiato d’una maniera conforme allo stile greco (…). Colla mano destra presenterà la corona d’alloro che si è cavata dalla fronte, al genio della Storia, seduto accanto a lui»[50].
 
Tenerani dichiara di rimanere sorpreso, quando il giorno dell’Epifania del 1827, si reca, su invito del maestro, nello studio di piazza Barberini per vedere i bozzetti che questi
 
    «con la maggior segretezza aveva preparato»[51].
 

E’ allora possibile che esistano altri progetti per la figura del vicerè?

Permane tuttavia ancora qualche perplessità. Da quanto emerge dal fitto carteggio scambiato tra i tre artisti e la committente e dai progetti elaborati in particolar modo dal Klenze e dal Thorvaldsen sembra  che le idee “dell’autoincoronazione”  e della divisa militare siano state tra le prime ad essere scartate. Per quale motivo Thorvaldsen avrebbe dovuto produrre ulteriori prove su questi motivi, dopo la stipula del contratto del 1825? Inoltre dalla missiva scritta, il 15 gennaio del 1828, dallo scultore Wagner al Kronprinz, si viene a sapere che:
 
    «La statua del Duca nonché quella della Storia sono già state cavate dal blocco»[52].
 
Dunque non si può  escludere che Corboli sia vittima di un ricordo confuso per quanto riguarda la corona d’alloro. Tuttavia  il  bozzetto n. AM 3972 della Gipsoteca Tenerani presso il Museo di Palazzo Braschi di Roma, cui allude lo scultore nella già citata lettera del 1827, nel quale il principe indossa la divisa napoleonica, fa sorgere effettivamente il dubbio circa l’esistenza di un altro gesso, ancora sconosciuto, che forse il giovane viaggiatore vede effettivamente nello studio del Thorvaldsen e al quale accenna, seppur in maniera frettolosa, lo stesso socio carrarese.
In ogni caso al Corboli spiace spettegolare sulla negligenza e sulla lentezza, divenute proverbiali, del danese e sui dissapori tra questi e il Tenerani[53] e tralascia la questione passando alla descrizione della tomba di Pio VII.
Al contrario del Colomb, Corboli non fa nessun riferimento alla figura del cardinal Consalvi, che lasciò ben 20.000 scudi al Monte di Pietà, in modo anonimo, quale versamento all’artista, non cattolico, che doveva eseguire l’opera. Ciò crea un po’ di sconcerto se si pensa a quanta importanza l’adolescente abbia invece conferito al conte Sommariva. Ma come l’autore francese anche Corboli si intrattiene a esprimere i sentimenti che, soprattutto la figura del papa benedicente gli trasmette, dolcezza e mansuetudine. Giovanni inoltre loda il  Chiaramonti per come ha affrontato i difficili momenti politici ed è sicuro che i posteri ne rammenteranno  la Sapienza e la Forza[54]
Spinto dalla fama del gruppo rappresentante Arianna e Teseo, il giovane si reca anche allo studio di Adamo Tadolini (fig. 14):
 
        «Vidi dunque appena dalla piazza, entriamo nella bella via del Babuino, ove presso la chiesa di S. Atanasio de Greci, incontra lo studio del celebre discepolo di Canova, sig. Adamo Tadolini bolognese, e  a vederlo mi trasse la fama di un gruppo che il Tevere sta per mandar al Tamigi, in segno della sua operosità nelle arti. È questo un Teseo cui Arianna porge il filo per entrare nel Labirinto. Ambe le figure sono in piedi Arianna stringe la mano a Teseo, dubbiosa e quasi temendo del pericolo in cui esso si espone. Teseo mostra di  assicurarla e già con passo franco da lei si stacca»[55].
 

Com’è noto il 17 dicembre del 1818, Adamo Tadolini,

incoraggiato da Antonio Canova, prende in affitto dal Pontificio Collegio Greco un ampio locale da adibire a studio, situato tra via del Babuino al civico 105 e via dei Greci al civico 48, nei pressi dell’atelier del suo maestro[56].
Il successo dello scultore bolognese, riconosciuto come il seguace più fedele del genio di Possagno, è  tale che il suo  studio viene visitato da molti personaggi dell’epoca, e risulta menzionato in diverse guide del grand Tour[57]
Dal confronto tra quanto riportato in alcune di queste guide, i Ricordi Autobiografici dell’artista[58] e le Memorie di Corboli emerge come quest’ultimo si sia limitato a menzionare solo una delle tante opere che tra il 1827 ed il 1828 affollavano lo studio del bolognese. In appendice ai Ricordi, infatti, Giulio Tadolini menziona come presenti nella “bottega” del prozio il gruppo di Teti e Achille, le repliche del Davide e Golia e del Ganimede, l’Amore e Psiche, le Baccanti e numerosi busti-ritratto[59]. Anche nella celebre, ma più tarda guida intitolata The Artistical Directory: or Guide to the Studios of the Italiana and Foreign Sculptors Resident in Rome, lo spazio  dedicato allo studio di Tadolini risulta piuttosto esteso e vengono elencate le sculture più importanti dell’artista, tra le quali particolare rilievo assume il Ganimede, che Pisano ipotizza di identificare nel gesso,  realizzato tra il 1821 e il 1822, per il duca di Devonshire[60].
Tuttavia la fama del gruppo di Arianna e Teseo,  commissionato da Madame Beaumont e pagato ben 700 luigi[61], è legata all’aneddoto raccontato nei Ricordi dell’artista:
 
       «Tadolini teneva esposto questo gruppo nella prima camera del suo studio presso via del Babuino, presso la porta d’ingresso, quando improvvisamente fu scagliato un grosso sasso, che ruppe i vetri della finestra superiore e andò a cadere ai piè del gruppo, senza arrecargli fortunatamente danno. A Tadolini saltò il calore bolognese; si armò di coltello, e rincorse il vigliacco che fuggiva; non potè raggiungerlo, ma lo raggiunse. Era lo scultore …». 
 
E alla nota 1 Giulio precisa
 
       «di cui io taccio il nome e cognome»[62].

L’artista in questione è stato identificato in Pietro Tenerani,

con cui Tadolini recupererà un rapporto cordiale soltanto durante la  vecchiaia[63].
Le puntualizzazioni fornite da Giulio Tadolini riguardo la collocazione del gruppo potrebbero far supporre che il giovane Corboli non abbia potuto visitare l’intero atelier dell’artista bolognese, ma si sia limitato a sbirciare da fuori la prima stanza dello studio, presso la cui porta compariva l’opera.
Ciò spiega il silenzio del giovane sugli altri gessi e sulle sculture in preparazione presenti in quell’anno nello studio dell’artista. È forse allora quest’occhiata veloce che induce il ragazzo a ritenere Arianna dubbiosa circa il successo dell’impresa di Teseo, o è la sua conoscenza della mitologia che lo spinge a interpretare in questa direzione l’espressione dell’eroina?  Le perplessità sorgono in merito se si confronta lo scritto di Corboli e i Ricordi del nipote di Adamo. Queste le sue testuali parole:
 
         «Madama Bumont commise al Tadolini il gruppo di Teseo e Arianna che gli dà il filo per uscire dal labirinto: Teseo sta in atto di ascoltare ciò che gli dice Arianna; la figura di Teseo, di carattere ercolino, nobile, pianta la gamba destra, e la sinistra avanti a modo di uomo robusto; tiene nella destra mano la clava e con la sinistra sta in atto di ricevere il gomitolo di filo che Arianna gli consegna, stando egli in atto dignitoso, e assicurandola che ritornerà vincitore dalla gran lotta che va a intraprendere contro l’invincibile Minotauro, fiducioso che il gomitolo gli sarà di guida per uscire dal difficile labirinto. Arianna è riccamente vestita col vero suo costume; il movimento della figura e l’espressione del volto dimostrano che è certa della gloriosa conquista che farà il suo amante»[64].
 
Anche Giulio dunque dichiara che Teseo rassicura la donna sulla sua vittoria, ma contemporaneamente rileva l’espressione dipinta sul volto di lei come
 
      «certa della gloriosa conquista che farà il suo amante»[65]
 
Si deve altresì escludere, la possibilità che Corboli abbia visto un’altra replica del gruppo, che altrimenti sarebbe stata diligentemente annotata nei Ricordi autobiografici
Il futuro Monsignore invece non fa che dimostrare, ancora una volta, la sua sensibilità nel capire i tratti distintivi  dell’opera che osserva, collegandola, giustamente, al suo sapere pregresso. Nel tentativo di elogiare la bravura di Adamo, attraverso l’ostentazione della sicurezza di Arianna,  Giulio invece ne svilisce le capacità di resa psicologica, così sapientemente colte dal giovane Corboli.
Tuttavia le scelte operate dal quindicenne non possono non indurre ad alcune  riflessioni.

Come mai Corboli introduce con frasi altisonanti la sua sosta

presso lo studio Tadolini, addirittura presentandolo come il simbolo dell’operosità artistica italiana presso la Francia, e poi  non descrive le altre sculture presenti nell’atelier?
Secondo la Panicelli Teseo si ispira, come del resto anche il Giasone, al Marte canoviano, pur risultando, rispetto al secondo eroe, meno manierato nella fattura[66]
Più clemente il giudizio fornito, nel 1841, dal conte Hawks, il quale esalta la purezza e la severità dello stile di Tadolini, caratteristiche che, a suo dire, avvicinano il gruppo  all’arte classica[67].
Corboli pensa che Teseo e Arianna siano un omaggio, da lui condiviso, a Canova e all’arte classica, o piuttosto tacendo sul resto, egli in qualche modo condanna coloro che imitano troppo lo stile altrui?
E perché Giovanni concede così tanto spazio alle opere dello scultore di Nove e a quelle di Thorvaldsen e così poco a quelle del bolognese?
Forse dietro le sue descrizioni, apparentemente così oggettive, si nasconde in realtà una posizione ben precisa a favore di quegli artisti, in qualche misura, più originali e indipendenti, come Fabris e Thorvaldsen.  

L’attenzione del giovane inoltre è tutta focalizzata sulle opere:

mai una parola sulla personalità degli artisti.
Chissà se il ragazzo era stato ricevuto e accompagnato  da qualcuno di questi scultori, o se, piuttosto, abbia chiacchierato con qualche scalpellino o sbozzatore di minor conto. Certo la nobiltà del fanciullo deporrebbe a favore della prima ipotesi, ma  l’assenza di qualsiasi descrizione fisica o caratteriale fa rimanere nel dubbio, giustificabile anche semplicemente con un disinteresse nei confronti delle persone e un’attrazione fatale per il manufatto artistico e per le emozioni che la visione diretta gli suscitava.
Rispetto ai coevi o antecedenti diari di viaggio questo di Corboli riveste un’importanza rilevante per diversi motivi.

Come tutta la letteratura di questo genere anche le Memorie

sono il risultato di un’elaborazione meditata e ragionata sugli appunti che il giovane annota velocemente sul proprio taccuino. Ciò si evince dalla conoscenza che traspare nello scritto, che presuppone una ricerca e una documentazione sulle questioni storiche e di committenza, e dalla quasi totale mancanza di cancellature e correzioni. Ma  più importante è sottolineare come i ricordi testimoniano la sensibilità di un adolescente dell’Ottocento così impregnato di cultura classica e così determinato nei propri giudizi. E seppur con qualche errore di punteggiatura, anche la prosa, nonché la calligrafia di Corboli, attestano una maturità  tale da provocare  l’invidia di qualsiasi adolescente ed insegnante d’oggi. Le Memorie inoltre aiutano a far luce su qualche problema cronologico, non del tutto risolto, e restituiscono uno spaccato della Roma dell’epoca, una città visitata da grandi intellettuali, ma anche, allora come oggi, dai giovani, i quali talvolta proprio perché più impulsivi, sanno penetrare nello spirito profondo  del  periodo che stanno vivendo e sanno farsi trascinare dall’entusiasmo di fronte alla bellezza.
di
Rita RANDOLFI                                  Roma 5 / 4 / 2107
 
 
 
 
Didascalie fotografiche:
  1. G.B. Corboli, Memorie di Roma, frontespizio, collezione privata.
  2. G.B. Corboli, Dedica autografa al nonno, collezione privata.
  3. G.B. Corboli, Introduzione alle Memorie di Roma, collezione privata.
  4. B. Pinelli, Incisione del Monumento sepolcrale di Torquato Tasso da G. Fabris, collezione privata, intero.
  5. B. Pinelli, Incisione del Monumento sepolcrale di Torquato Tasso da G. Fabris, collezione privata, particolare.
  6. B. Pinelli, Incisione del Monumento sepolcrale di Torquato Tasso da G. Fabris, collezione privata, particolare
  7. B. Pinelli, Incisione del Monumento sepolcrale di Torquato Tasso da G. Fabris, collezione privata, particolare.
  8. B. Pinelli, Incisione del Monumento sepolcrale di Torquato Tasso da G. Fabris, collezione privata, particolare.
  9. G. De Fabris, Monumento sepolcrale di Torquato Tasso, Roma, S. Onofrio al Gianicolo.
  10. Ditlev Martens, Other names: Hans Ditlev Christian Martens
    Born: 26.07.1795
    Died: 1864
    Nationality: tysk

    Read about the artist in The Archives Le LLeone X visita lo studio di Thorvaldsen a piazza Barberini, 18  Ottobre 1826, Copenaghen, Museo Thorvaldsen
  11. Luigi o Fabio RicciardelliDied: before 1900, Ludovico I di Baviera visita lo studio di Thorvaldsen a piazza Barberini, Copenaghen, Museo Thorvaldsen
  12. B. Thorvaldsen, Thorvaldsen e G.B. Sommariva, gesso, Copenaghen, Museo Thorvaldsen.
  13. B. Thorvaldsen, Eugène de Beauharnais, gesso, Copenaghen, Museo Thorvaldsen
  14. A. Tadolini, Teseo e Arianna, Bologna, Accademia delle Belle Arti.
 

[1] G. Martina, ad vocem «Corboli Bussi Giovanni», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1983, vol. 28, pp. 775-778; R. Randolfi, Una finestra sugli atelier di Fabris, Thorvaldsen e Tadolini: le “Memorie di Roma” di Giovanni Corboli Bussi, in M. Guderzo- G. pavanello (a  cura di), Secondo convegno internazionale sulle gipsoteche, Gli ateliers degli scultori, Possagno 24-25 ottobre 2008, Roma 2010, pp. 75-90.
[2] In particolare il padre Tommaso Pendola, nell’Elogio di donna Costanza Corboli, nata Sommi in Cremona, (Siena 1851), così afferma a  p. 12 «anco alle belle Arti si volse, e amò di preferenza il Disegno».
[3] Lo ricorda nella carica di senatore G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica,  Venezia MDCCCLII, vol. 59,  p.  80. Il nome di Curzio compare  nella lapide con quelli di tutti i senatori eletti dopo il Triumvirato Mazzini Armellini Saffi.
[4] I Corboli inoltre possedevano palazzi a Urbino, a Milano,  a Roma, riccamente arredati con opere d’arte di autori importanti.
[5]  Su Serafino Sommi Picenardi si veda C. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare italiana, Milano 1933, VI, pp. 366-368.
[6] G. Tiraboschi, La famiglia Picenardi, ossia Notizie storiche intorno alla medesima, raccolte dal signor conte D. Giovan Carlo Tiraboschi, canonico preposto della cattedrale di Cremona, Cremona, Giuseppe Feraboli, 1815.
[7] G. B. Corboli, Memorie di Roma, manoscritto 1827, ff. 154, 155, 156.
[8] N. Stringa, Giuseppe de Fabris, uno scultore dell’Ottocento, Milano 1994, p. 155.
[9] C. Faccioli, Il mezzo secolo romano di Giuseppe Fabris, in “L’Urbe”, Nuova serie, n. 3, maggio-giugno 1978, anno XLI, pp. 15-23.
[10] Si vedano Rime di vari autori intorno al Milone crotoniate …, Roma 1842.
[11] C. Faccioli, Il mezzo secolo romano … cit., p. 17.
[12] N. Stringa, Giuseppe de Fabris … cit.,  p. 157.
[13] Idem, pp. 59-61.
[14] G. B. Corboli, Memorie di Roma … cit.,  ff. 154-156.
[15] Cfr. quanto riportato in P. Antonio Seroni, P. Geroni, La vita di Torquato Tasso, Marco Pagliarini, Roma 1858.
[16] N. Stringa, Giuseppe de Fabris … cit., pp. 95-99.
[17] T. Pendola, Elogio di donna Costanza Corboli … cit., p. 21.
[18] Oltre a Stringa e Faccioli si veda per i giudizi sull’opera E. Lavagnino, Arte moderna. Dai neoclassici ai contemporanei, Torino 1956, vol. II.
[19] C. Faccioli, Il mezzo secolo romano … cit., 1978, p. 18.
[20] G. Brancadoro, Notizie riguardanti le accademie di scienze ed arti esistenti in Roma, Roma 1834, p.  53; J. Donovan, Rome Ancient and modern and ist environs, Roma 1843, III, p. 1001. Particolarmente feroci, nei confronti dell’artista, sono le parole, tratte da una lettera romana, pubblicate  sui nn. 34, 35, del 1825 del giornale “Nyt Aftenblad”, in cui si dice che Fabris è «un artigiano talmente scadente che persino gli italiani mettono in burletta le sue opere grandi solo per dimensioni». Cfr. E. Di Majo, B. Jørnaes, S. Susinno, Bertel Thorvaldsen, 1770-1844, catal. della mostra, Roma 1989, pp. 329-330.
[21] C. Faccioli, Il mezzo secolo romano … cit., 1978, p. 22; N. Stringa, Giuseppe de Fabris … cit.,  pp. 98-99.
[22] G. Corboli, Memorie … cit., ff. 157-160. La punteggiatura e gli a capo sono  conformi all’originale.
[23] J.B. Hartmann, Gli studi di Thorvaldsen a piazza Barberini, in “L’Urbe”, Nuova serie, 1963, pp. 1-18; U. Barberini, Il “grande studio” del Thorvaldsen, in “L’Urbe”, Nuova serie, (settembre-ottobre), 1963, pp. 3-8; U. Barberini, Il “grande studio” del Thorvaldsen secondo la tradizione Barberini, in “L’Urbe”, Nuova serie, (settembre-ottobre), 1964, pp. 1-4; J.B. Hartmann, Il “grande studio” di Thorvaldsen: una nuova ipotesi, in “L’Urbe”, Nuova Serie, (marzo-aprile),  1964, pp. 3-11;   S. Grandesso, Bertel Thorvaldsen (1770-1844), Cinisello Balsamo 2010, pp. 248-254; J.B. Hartmann,  Thorvaldsen a piazza Barberini, in “L’Urbe”, Nuova serie, 1965, pp. 10-18; S.  Miss, Dimore storiche di Bertel Thorvaldsen, in M. Guderzo, (a cura di),  Abitare il Museo. Le case degli scultori,  Atti del terzo convegno internazionale sulle gipsoteche, (Possagno 4-5 maggio 2012), Crocetta del Montello (TV) 2014,  55-56.
[24] J.B. Hartmann, Gli studi di Thorvaldsen …cit., pp. 12-13. Lo studioso ha pubblicato per intero il contratto di locazione stipulato tra l’artista e il principe Barberini.
[25] J.B. Hartmann, Gli studi di Thorvaldsen …cit., pp. 6-9, 16, note 17, 18 e 19; p. 17, nota 28; Idem, Il “grande studio” di Thorvaldsen: una nuova ipotesi … cit., p. 10, nota 1.  Si ricorda che la visita di Ludovico di Baviera allo studio del Thorvaldsen è raccontata anche da Christian Andersen, che soggiorna a Roma  nel 1828.
[26] U. Barberini, Il “grande studio” del Thorvaldsen, …cit., p. 4.
[27] E. De Keller, Elenco di tutti i pittori Scultori Architetti Miniatori Incisori in gemme e in rame Scultori in metallo e mosaicisti – aggiunti gli Scalpellini, Pietrari Perlari ed altri artefici. I negozi di antichità e stampe ecc. Roma 1830, pp. 92-96; G. Brancadoro, Notizie riguardanti le accademie di scienze ed arti esistenti in Roma, Roma 1834, p. 52.
[28] J.B. Hartmann,  Thorvaldsen a piazza Barberini … cit., pp. 14 e pp. 17-18, nota 13; S. Grandesso, Bertel Thorvaldsen …cit., pp. 207-215.
[29] Stendhal, Promenades dans Rome, 1830, Paris 1866, pp. 340-341.  Vedi anche U. Barberini, Il “grande studio” del Thorvaldsen … cit., pp. 4-5.
[30] R. Colomb, Journal d’un voyage en Italie et en Suisse pendent l’année 1828, Paris 1833, pp. 208-210: «Ateliers de Thorwaldsen sur la place Barberini. Statue d’Eugène Behaurnais, destinée à Munich ; le price est représénté à l’antique, presque nu, le glaive au côté, une couronne de chêne à la main droite. Tombeau de Pio VII. Il se compose de trois figures; celle du pontife, donnant sa bénédiction, est presque achevée; à droite, la Sagesse divine; à gauche, la Force céleste; les deux dernières statue, ne sont encore qu’ebauchées. Ce monument offre un double intérêt; il excite vivement la sensibilité. Le pontife dont il est destiné à conserver la mémoire régna au milieu de grands événemens qui font du commencement de ce siècle une période les plus étonnantes de l’histoire contemporaine, et morut pauvre; sa vie fut une suite de commotions heureses et malheureses, de persécutions, de triomphes. Ensuite ce monument élevé par un sujet à son souverain est un hommage de sa reconnaissance, de sa tendre amitié. La chose mérite attention; elle n’est pas commune. Possedant toute la confiance de Pio VII, le cardinal Consalvi gouverna l’Etat ecclésiastique pendent tout le temp que se pontife occupa le trône; mais après la mort de Pio VII, Léon XII, son successeur, prit pour secréteraire dìEtat M. Bennetti. Le doleur qu’il éprouva de sa disgrace conduisit bientôt au tombeau le cardinal Consalvi. Mais avant de rendre le dernier soupir, il voulut laisser un souvenir durable de ses sentiments pour l’ami qui l’avait précédé dans la tombe; il assigna par son testament une somme destinée à élever dans Sanit Pierre un mausolée a son bienfaiteur. Il y a quelque chose de si touchant dans le sentiment qui a donné naissance à le monument, qu’on ne peut guére porter un jugement impartial sur le talent de l’artiste. L’émotion que j’éprouve à la vue de ce marbre, est telle, qu’il me semble que le tombeau de Pio VII est le meilleur ouvrage du M. Thorwaldsen ! Cependent je n’ignore pas qu’il a déjà été l’objets de critiques améres. Je poursuis la visite de l’atelier du sculpteur donois : Bas-reliefs représentant l’entrée d’Alexandre à Babylone pour la Casa Sommariva sur le lac de Como. Modèles des principales productions : bas relief des Trois Graces, Statue équestre du prince Poniatowskj destinée à Varsavie; elle sera coulée en bronze. Le Christ et les douze Apôtres, statues colossales pour le Copenhague. Venus tenant dans sa main la pomme que Pâris vient lui donner. Le joli groupe de Trois Graces. Beaucoup des bustes».
[31] M. Valery, Voyage historique et letterarie en Italie ou l’indicateur italien, pendents les années 1826, 1827, 1828, Paris 1833, vol. IV, p. 163 : «J’ai visité, près du palais Barberini, l’atelier de Thorwaldsen, qui, à Rome, semble avoir seccédé à Canova dans l’opiniopn européenne, et dont le talent, pur, sévère, poétique, lui est en quelques points supérieur particuliérment dans les bas-reliefs. Ses treize statues colossales du Christ et les Apôtres sont une noble composition. Le Christ, sourtout, figure originale empreint du genie simple et sublime de l’Evangile, a la majesté sans terreur du Jupiter Olympien, les statues destinées à la cathedrale de Copenaghen, montrent l’embarras qu’eprouve le protenstantisme de la nudité de son culte, et la pompe nouvelle qu’il cherche, aujourd’hui a lui donner. Thorwaldsen, malgré ses vingt années de séjours à Rome, et resté complétement homme du Nord et son âpre aspect qui n’ôte rien à sa politesse et à sa bienveillance forme un vrai contrast avec ses ouvrages, imités, inspirés de l’art grec, et les phisionomies italiennes qui peuplent son atelier».
[32] M. Starke, Travels in Europe for the use of travellers on a the continent, Paris 1836, p. 216: «The pre-minent sculptor of the present moment (1831) is the Cav. Thorwaldsen; who exels in every branch of this sublime art: and whose chisel produces Bassi-relievi which like the frescoes of Raphael, may be called inimitable». L’autore elenca tra gli scultori degni di nota   anche Antonio D’Este,  Finelli, Pozzi, Gibson e Caputi.
[33] S. Grandesso, Bertel Thorvaldsen …cit., pp. 102-121.
[34] F. Mazzocca, Villa Carlotta, Milano 1983, p. 74.
[35] Cfr. J. B. Hartmann, Appunti di Paolo Mazio Romano sulla vita e sulle opere di Thorvaldsen, in J. B. Hartmann, Thorvaldsen a Roma, Roma 1959, p. 65, che riporta il giudizio di Mazio «Per Sommaria l’artista fece se stesso e lui in atto di mostrargli il Trionfo».  F. Mazzocca, Thorvaldsen e i committenti lombardi, in E. Di Majo, B. Jørnaes, S. Susinno, Bertel Thorvaldsen … cit., pp. 120-124.
[36] La lastra, invece, produce l’ammirazione del Bertolotti, che la descrive nel 1831. Cfr.D. Helsted, in E. Di Majo, B. Jørnaes, S. Susinno, Bertel Thorvaldsen … cit., pp. 235-236, scheda 103.
[37] S. Grandesso, Bertel Thorvaldsen …cit., pp. 227-230.
[38] A. Busiri Vici, I Poniatowsky a Roma, Firenze1971, pp. 354-355.
[39] J. B. Hartmann, La nascita di un monumento Neoclassico eseguito a Roma ed eretto a Monaco di Baviera, in J. B. Hartmann, Thorvaldsen a Roma, Roma 1959, p. 20.
[40] R. Colomb, Journal d’un voyage … cit., p. 210.
[41] «Nel secondo settore il possente cavallo in grandezza naturale per il monumento del principe Poniatovsky  (…) l’Angelo battesimale in piedi». Il passo è trascritto in E. Di Majo, B. Jørnaes, S. Susinno, Bertel Thorvaldsen … cit., p. 331. Sul fonte si veda S. Grandesso, Bertel Thorvaldsen …cit., pp. 89-97.
[42] M. Valery, Voyage historique … cit., p. 163.
[43] S. Grandesso, Bertel Thorvaldsen …cit., pp.171-183.
[44] E. Di Majo,  S. Susinno, in E. Di Majo, B. Jørnaes, S. Susinno, Bertel Thorvaldsen … cit., pp. 194-195; S. Grandesso, Bertel Thorvaldsen …cit., pp. 230-233.
[45] J. B. Hartmann, La nascita di un monumento Neoclassico  … cit., pp. 11-44. Sul Tenerani si veda: S. Grandesso, Pietro Tenerani (1789-1869),  Cinisello Balsamo 2003.
[46] Idem, p. 23.
[47] Un efficace riassunto della questione è offerto da G. Bonasegale,  Inventario di un ritrovamento: Opere di Bertel Thorvaldsen, Pietro Tenerani, Francesco Ferraresi, Amleto Castaldi in palazzo Braschi, in “Bollettino dei Musei Comunali di Roma”, 7, 1993, p. 103.
[48] J. B. Hartmann, La nascita di un monumento Neoclassico … cit., p. 12, fig. 11.
[49] Idem, p. 12, figg. 11 e 12.
[50] Idem, p. 17.
[51] Idem, pp. 21, 31.
[52] Idem, p. 26.
[53] Un ritratto a tutto tondo di Tenerani si desume dai documenti, dai quali emerge una personalità determinata, ma al contempo generosa e incline al perdono. Forse per questo Giovanni omette certe dicerie a riguardo. Cfr. R. Randolfi, Pietro Tenerani e i monumenti Colonna-Lante in Santa Maria sopra Minerva: nuovi documenti, «Neoclassico», 29, 2006, pp. 72-81; R. Randolfi, Di padre in figlio: genesi della gipsoteca di Pietro Tenerani,  in Abitare il Museo. Le case degli scultori, a cura di M. Guderzo,  Atti del terzo convegno internazionale sulle gipsoteche, (Possagno 4-5 maggio 2012), Crocetta del Montello (TV) 2014, pp. 193-201; R. Randolfi, Gli inventari dei beni  di Pietro e  Giuseppe Tenerani: documenti per datare e scoprire nuove opere, in “Ricche Minere”,  5, 2016, pp. 124-132.
[54] B. Jørnaes, E. Debenedetti, in E. Di Majo, B. Jørnaes, S. Susinno, Bertel Thorvaldsen … cit., pp. 184-186; E. Debenedetti, Thorvaldsen, Valadier e il monumento a Pio VII, ibidem, pp. 105-110.
[55] G. Corboli, Memorie … cit., f. 173.
[56] M. Lizzani,  I Tadolini, in “L’Urbe”, maggio, 5, 1942, (anno VII), p. 9; ; I. Panicelli,  Adamo Tadolini, in "Quaderni sul Neoclassico", 3, 1975, pp. 159-160; E. Busmanti, Tadolini. Alla scoperta dello studio romano di Adamo Tadolini allievo e collaboratore di Canova, in “Gazzetta Antiquaria”, 37, 2000, pp. 29-36; C.L. Pisano, Lo studio di Adamo Tadolini, in “Ricerche di Storia dell’Arte”, 70, 2000, pp. 53; R. Randolfi, Adamo Tadolini e la complicata storia del monumento sepolcrale del cardinale Alessandro Lante a Bologna, in “Neoclassico”, 27-28, 2005, pp. 158-165; A. Cesareo, "Entrando nell’officina sua si coglie tutta la grandezza di quell’ingegno" : a proposito dello Studio dei Tadolini a Roma, in Abitare il Museo. Le case degli scultori, a cura di M. Guderzo,  Atti del terzo convegno internazionale sulle gipsoteche, (Possagno 4-5 maggio 2012), Crocetta del Montello (TV) 2014, pp. 133-144.
[57] G. Brancadoro, Notizie riguardanti le accademie di scienze ed arti esistenti in Roma, Roma 1834, p. 54; Le Griece count Hawks, Walks through the studii of the sculptors at Rome, Rome 1841, p. 234; J. Donovan, Rome Ancient and modern and its envorons, Roma 1843, vol. III, p.1002; The Artistical Directory: or Guide to the Studios of the Italiana and Foreign Sculptors Resident in Rome, Rome 1856, pp. 21-22; C.L. Pisano, Lo studio di Adamo Tadolini … cit., p. 61, nota 20.
[58] G. Tadolini, Ricordi autobiografici di Adamo Tadolini scultore vissuto dal 1788 al 1868, Roma 1900, pp. 165-166.
[59] Si deve, tuttavia, rilevare, come anche nel caso di Thorvaldsen l’autore non elenchi tutte le opere presenti nello studio, come invece propone Robert Colomb.
[60] C.L. Pisano, Lo studio di Adamo Tadolini, … cit., p. 61, nota 20.
[61]  G. Tadolini, Ricordi autobiografici … cit., pp. 165-166; M. Lizzani,  I Tadolini … cit., p. 8; I. Panicelli,  Adamo Tadolini, … cit.,  pp. 162-163; C.L. Pisano, Lo studio di Adamo Tadolini, … cit., p. 61, nota 26.
[62] G. Tadolini, Ricordi autobiografici … cit., p. 165.
[63] M. Lizzani,  I Tadolini … cit., p. 8; C.L. Pisano, Lo studio di Adamo Tadolini, … cit., p. 61. Sul Tenerani si rinvia a: S. Grandesso, Pietro Tenerani (1789-1869), Silvana editore, Cinisello Balsamo 2003, con bibl. prec. e da ultimi: R. Randolfi, Pietro Tenerani e i monumenti Colonna-Lante in Santa Maria sopra Minerva: nuovi documenti, in “Neoclassico”, 29, 2006, pp. 72-81; O. Melasecchi, Un inedito di Pietro Tenerani: il Ritratto di Domenico Vulpiani, in “Storia dell’Arte”, 116-117, 2007, pp. 249-256.
[64] G. Tadolini, Ricordi autobiografici … cit., pp. 165-166.
[65] Idem.
[66] I. Panicelli,  Adamo Tadolini, … cit.,  p. 163.
[67] Le Griece count Hawks, Walks through the studii … cit., p. 234: «In this fine group the story is told with simplicity and much perspicuity; and the style in in the pure, and severe manner of ancient art».