Giovanni Paolo Pannini_Galleria di Vedute di Roma anticaSe non vado errato fu nella seconda metà degli anni Ottanta, ero ancora studente di storia dell’arte, che cominciò a circolare con sempre maggiore insistenza una statistica (da subito, per la verità, assai flessibile nei suoi termini numerici) che ben presto si affermò come un dato di realtà dalla suggestione irresistibile: l’Italia ospitava una percentuale elevatissima - smisurata, perfino - del totale (ipotetico) delle opere d’arte del mondo.


D’un tratto la “notizia” s’impose a qualsiasi livello in ogni contesto pubblico e istituzionale, dalla politica all’università passando per l’imprenditoria, riecheggiando nei discorsi di ministri e parlamentari, sindaci e assessori, professori e intellettuali, economisti, manager, industriali, e perfino di storici dell’arte. In breve essa s’impiantò nel comune sentire come il frutto sicuro di un sofisticato computo, reso improvvisamente possibile da nuovi strumenti capaci di individuare, registrare e collocare geograficamente in modo oggettivo l’entità “opera d’arte” in ogni sua occorrenza su tutto l’orbe terracqueo.
Come in un diabolico telefono senza fili, la statistica finì presto per rimbalzare di chiacchiera in chiacchiera in un’escalation vorticosa dove sembrava avere la meglio chi la sparava più grossa: 1/3, 1/2, 2/3, 3/4, perfino il 90% dei “beni artistici” globali... Si andava così diffondendo, per contagio, una sorta di leggenda, alla quale, per mille motivi, ci si è presto affezionati.

Rammento una felice estate espositiva palermitana, correva l’anno 1990, in cui l’allora assessore locale alla cultura prospettò con assiomatica sicurtà sui cataloghi di due mostre non dimenticate (“Pietro Novelli e il suo ambiente” e “Pittori del Seicento a Palazzo Abatellis”) un’equazione poco meno che sbalorditiva - di cui, in verità, non era chiara la fonte - in base alla quale la Sicilia avrebbe posseduto il 40% delle opere d’arte italiane, corrispondenti al 15% dei beni artistici presenti sulla terra… [“E' fuori di dubbio che il nostro patrimonio artistico culturale costituisce un’alta percentuale del patrimonio nazionale (il 40%), e di quello internazionale (il 15 %)”]: laddove, se l’assessore s’era tenuto prudente sulle percentuali italiche (corrispondenti alla “stima minima” di 1/3 del totale), in effetti aveva un po’ sbracato, certo per troppo amore, sulla statistica relativa alla sua Sicilia.
A dispetto della latitanza nell’italiano medio di ogni spirito, non si dice patriottico, ma perfino civico, tutti abbiamo soggiaciuto - e amato soggiacere, in fondo, magari in forma irriflessa - a questa fantasia seduttiva, così gratificante, carica di implicazioni e pronta a essere piegata a qualsiasi esigenza e finalità: e molti ancora vi soggiacciono.

Giovanni Paolo Pannini_La Galleria di pittura del Cardinale Silvio Valenti_GonzagaSi tratta, in effetti, di una mitologia che ha molteplici radici e tanti perché: politici, culturali, economici. Tutti interessanti, direi. Ma che si tratti di una bufala non ci sono dubbi. Una bufala dal punto di vista dei semplici dati fattuali, ma oserei dire ancor più dal punto di vista dei presupposti teorici che la ispirano. Proviamo ad analizzarla brevemente.
Sembra chiaro, innanzitutto, che già solo per poterla prendere in considerazione, senza rigettarla seduta stante come un’assurdità, è necessario abbracciare (almeno implicitamente, o persino incoscientemente) una certa idea molto esclusiva (in senso letterale), che identifica l’arte con una tradizione di cui l’entità geografica “Italia”, almeno fra iI II secolo a.C. e la fine del Settecento, può essere a buon diritto considerata il cuore: un’idea, è quasi inutile sottolinearlo, che però, oggi più che mai, non si saprebbe come avallare (e che dubito che alcuno oggi, in tempi di relativismo culturale spinto, si sognerebbe davvero di abbracciare in quanto tale apertis verbis). In ogni modo escluderei che anche circoscrivendo il conteggio (e, ripeto, sarebbe una scelta surreale) a questa linea iper-occidentale e in senso molto lato “classica” si potrebbe realisticamente accreditare l’Italia di stime percentuali così iperboliche (delle quali, vorrei aggiungere, quand’anche vere, sarebbe comunque inelegante che noi stessi fossimo i perenni altoparlanti). Non vantando (vivaddio) seri trascorsi imperialisti in età moderna, la nostra penisola, infatti, non possiede grandi musei “generalisti” e detiene quote minime di arte non italiana. C’è sicuramente più arte italiana in Francia, Spagna, Germania, Inghilterra, che arte francese, spagnola, tedesca, inglese in Italia.
Dal punto di vista ideologico, poi, la leggenda si tinge di valenze inevitabilmente razzistiche, ancor più palesi in un’epoca ossessionata dalla political correctness (“abbiamo più arte noi di tutto il resto del mondo”: difficile sfuggire alle conseguenze metafisiche di una simile rivendicazione), se solo assumiamo dei parametri qualificativi più banalmente inclusivi, in grado di corrispondere meglio all’irriducibile complessità della categoria “arte”. Una concezione più orizzontale e antropologica, legata genericamente e senza ambigue discriminanti qualitative alla classe degli oggetti che siano il frutto volontario - reso possibile da una padronanza tecnica (o tecnologica) - del naturale impulso creativo proprio del genere umano, deve infatti includere necessariamente tutte le testimonianze extra-europee di ogni epoca, rendendo evidente l’etnocentrismo un po’ ridicolo di quelle percentuali sparate a casaccio. Per non parlare dell’arte dell’Ottocento e del Novecento, dove i nostri giacimenti di opere di autori non-italiani si presentano decisamente sparuti.
Per chiudere il ragionamento con una boutade si potrebbe dire che più che 1/3, 1/2, 2/3 dell’arte mondiale, ad andar bene, si conserva sul nostro suolo 1/3, 1/2, 2/3 dell’arte italiana.

Debbo però confessare che, al di là delle pur centrali risonanze di ordine politico, culturale, legislativo (oltreché strettamente storico-artistico) che accompagnano la costruzione mitografica di cui qui ci occupiamo, quel che più m’intriga è cogliere il fondamento logico di questa statistica, che si può sintetizzare attraverso due quesiti non da poco, strettamente corrispondenti, rispettivamente, al versante ontologico e a quello epistemologico della faccenda: 1) cos’è un’opera d’arte (e quindi cos’è l’arte); 2) come si fa a calcolare quante ce ne sono al mondo (e quindi in ciascuna porzione di esso).
E’ chiaro che per poter rispondere al quesito n. 2 si dovrebbe prima essere in grado dare un responso stabile e sicuro al n. 1, che, putacaso, ossessiona da un paio di secoli la riflessione estetologica. Anche a cavarsela, come si tende a fare per comodità, con una formula pragmatica (secondo la quale, quando si parla di “arte” alla fin fine ci s’intende: un equivoco, per come la vedo io) restano, in effetti, pur sempre da decidere un mucchio di cose.
Roma_ Chiesa del Gesu_internoFaccio un esempio. Quando entriamo in una chiesa antica, quante opere d’arte possiamo individuare al suo interno? La legislazione italiana in materia di beni culturali, per non sbagliare, adotta un criterio quantitativo: è così che all’incaricato di catalogare gli oggetti artistici viene richiesto di entrare in un edificio monumentale e schedare tutto quello che (presumibilmente) ha più di cinquant’anni, cosicché in una “normale” chiesa antica vengono inevitabilmente inventariati centinaia (o migliaia) di pezzi, secondo una concezione del bene artistico orizzontale e indipendente dal giudizio di valore. E’ chiaro che questo taglio, per estensione, disinnesca e rende abusive le distinzioni di merito, ma in pratica anche di numero, fra tradizioni, epoche e aree geografiche diverse.
Un diverso criterio è, per dire, quello adottato dalle guide rosse del Touring, e in genere dalla letteratura periegetica, i cui parametri di selezione sono necessariamente qualitativi: si cerca di segnalare tutte le cose notevoli, tacendo quelle comuni, secondo una concezione più verticale dell’oggetto artistico, che implicitamente discrimina “l’artisticità” su base assiologica. D’altro canto, per restare all’esempio delle guide rosse, ogni nuova edizione registra sempre un numero assai maggiore di cose rilevanti, a dimostrazione di come anche il principio qualitativo e gerarchico sia di fatto assai flessibile, soggetto a mutamenti considerevoli e a valutazioni soggettive; e, infine, come esso tenda comunque progressivamente a “democratizzarsi” e storicizzarsi, includendo, come in un sistema di cerchi concentrici, occorrenze di livello sempre meno spiccato e sempre più varie dal punto di vista funzionale: ciò che a sua volta revoca in dubbio criteri di selezione e di computo troppo rigidi e normativi.

Insomma, teniamoci stretti i nostri innumerevoli tesori e il nostro tessuto fittissimo di testimonianze storiche, artistiche e culturali; impegniamoci a custodirlo e proteggerlo sempre meglio, con maggiore competenza, più alta consapevolezza e fondi più ingenti: ma possibilmente lasciando da un canto vane, inquietanti e poco fondate rivendicazioni statistiche di superiorità.
Luca Bortolotti, 28/08/2013