Giovanni Cardone Febbraio 2022
Fino al 13 Marzo si potrà ammirare la mostra presso la Casina Vanvitelliana al Fusaro Pittore di Sergio Spataro a cura di Antonio Ciraci testi di Massimo Bignardi e Ada Patrizia Fiorillo con il Patrocinio Morale del Comune di Bacoli. Come dice Massimo Bignardi : Non so se sia appropriato o meno, continuare a parlare, relativamente alle opere che Sergio Spataro ha realizzato in quest’ultimo decennio, di “sudari”. È anche vero, però, che l’artista sin da quei primi sudari, realizzati all’alba degli anni Ottanta, non ha mai definito tali opere con un’evidente iconografia. Quei lavori, raccolti qualche anno più tardi, nel 1986, nella piccola monografia edita nella collana “Strumenti”, introdotta dal testo critico di Lucius Burckhardt – artefice della presenza di Sergio a “Documenta urbana - rendere visibile”, tenutasi nell’ambito di Documenta 7 a Kassel, nel 1982 – segnalavano un evidente fil rouge che, per il dato formale, trova poi riscontro nell’iterata serie di lavori, nella quale primeggia la tela/sudario/camicia, intrisa di colore, particolarmente di color rosso. Penso a tal proposito, a opere quali Sprofondare dentro, a Grande Sudario I, entrambe del 1982, oppure a La Reliquia, del 1985, che apre, con quegli squarci, quei tagli sulla trasparente garza, a un’iconografia che sarà ripresa, dall’artista, anche negli anni Novanta. Direi che quest’opera possiamo ritenerla il punto di partenza del suo indagare l’assenza, ossia l’imprendibilità del corpo e il persistere, invece, della sua impronta lasciata sulla sindone, dalla pittura. Dettato che troverà altre varianti, come è per Sudario, del 1988, ove la trama del canapone esalta la consistenza della materia, favorendo l’addensarsi degli impasti grumosi del colore: opere che, insieme ad altre degli stessi anni, risentono degli impianti pittorici ricavati da Hermann Nitsch dalle rituali performances orgiastiche. Mentre Ada Patrizia Fiorillo afferma : Nei primi anni Ottanta, abbandonando la precedente disposizione ad un oggettualismo di memoria new-dada, Spataro si orienta ad una pittura che predilige il segno come matrice espressiva. Un segno-gesto dal quale prenderanno presto vita i ‘sudari’. Tema questo di un ricco ciclo che, a riprova di quanto appena affermato, Sergio non ha più abbandonato come ci dicono, oltre al titolo di questa retrospettiva, le stesse opere di datazione recente che essa vi include. Arriveremo a parlare di queste.
Mi interessa ora però tornare a quei primi sudari e a quei segni. A rileggere con il bagaglio del tempo quelle esperienze, mi sembra che vi si possa scorgere il registro di una scelta dettata da due ordini di fattori. In primis l’artista rispondeva in pieno a quel ritorno alla pittura(prevalentemente figurale) che, indotto da più spinte e con strade diverse di attraversamento, aveva segnato l’avvio degli anni Ottanta; dall’altro lo traduceva seguendo la priorità di un’organizzazione formale in cui acquisivano uno spiccato valore il segno ed il colore, quest’ultimo, a volte, colato quasi sottoposto ad effetti di scialbature, talaltra reso con una densità consistente costituita dal compenetrarsi o giustapporsi di materie diverse, tra le quali spiccavano oro e cera. In sostanza Sergio recuperava gli strumenti del fare in una chiave neo-espressiva che teneva insieme i parametri di un’astrazione emotiva,affidata all’incedere di una forte carica gestuale,con l’insorgenza di un’immagine non definita, ma evocata: un’impronta-sudario come tale sospesa tra l’essere e il nulla. Viene allora a comprendersi che di quelle probabili suggestioni captate dai‘nuovi’indirizzi della pittura di area principalmente nord-europea, Spataro ne abbia riformulato una versione autonoma, posta non sul filo di un esibizionismo narcisistico, cinico o, talora, aggressivo nei confronti della vita, quanto sull’ascolto di una dimensione intima dell’esistenza tale da trasferire a quella immagine evocata un valore spirituale. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulle avanguardie napoletane, dato che nel dopoguerra emersero figure fondamentali che hanno influenzato fortemente l’arte contemporanea in questo saggio dico : L’Italia usciva sconfitta dal secondo conflitto mondiale e lacerata dalla guerra che aveva procurato lutti, rovine e miseria nel contempo l’orrore, la tragedia e il dramma che restò vivo negli animi dei superstiti. Nel campo dell’arte avvenne una profonda presa di coscienza da parte degli artisti che si fecero interpreti di quel profondo dolore. Negli Quaranta Napoli era caratterizzata ancora da un figurativismo di stampo tardo ottocentesco, legata ad un’estetica che si riformula a degli stilemi che ci rimandava ad un linguaggio di tardo realismo e al liberty con sporadiche aperture di ricerca avanguardista. Le cause vanno rintracciate sia nell’isolamento che gli artisti vivevano rispetto ai loro colleghi che maggiormente inseriti nei circuiti espositivi internazionali e, dunque, più aggiornati sulle novità artistiche, mentre il mercato locale era ancora legato a una tradizione artistica caratterizzata da quadretti con scene di paesaggio e di nature morte. I primi segnali di un reale cambiamento delle arti si registrarono a Napoli nella seconda metà degli anni Quaranta, quando alcuni giovani artisti intrapresero la strada delle sperimentazioni d’avanguardia in linea con le ricerche visive nazionali e internazionali. Fu questo il caso della produzione pittorica di Domenico Spinosa che, precocemente rispetto ai colleghi pittori, imboccò la strada dell’Informale materico e di un raggruppamento di artisti tra cui Guido Tatafiore, Renato Barisani, Renato De Fusco e Antonio Venditti che nel 1948 fondano il MAC- Movimento di Arte Concreta in concomitanza con l’omonimo gruppo milanese. Furono questi giovani sperimentatori a innescare quel profondo cambiamento dell’arte che incise in maniera radicale nel tessuto culturale stesso della città. In quel periodo gli artisti iniziarono ha sperimentare plurimi linguaggi visivi che andavano dalle geometrie maturate nell’ambito del MAC all’espressività del forma-colore di ambiente Informale, dagli assemblage di gusto new dada alle immagini mass-mediali di ambito pop, fino alle manifestazioni di tipo concettuale. Una prima rassegna sulle arti a Napoli fu la mostra intitolata Napoli scultura, curata da Vitaliano Corbi, Gino Grassi e Arcangelo Izzo, tenutasi nei saloni storici di Palazzo Reale di Napoli, nel 1988. L’esposizione, sebbene incentrata esclusivamente sulla produzione plastica partenopea, fu un’occasione importantissima per verificare lo stato dell’Arte dal secondo dopoguerra agli Ottanta. I saggi redatti dai tre curatori, contenuti all’interno del relativo catalogo, delineano in maniera dettagliata il paesaggio della scultura napoletana, analizzando, talvolta, anche le probabili suggestioni provenienti a Napoli dall’ambiente artistico internazionale. Sull’onda dell’interesse generato dall’esposizione di Palazzo Reale, tre anni dopo, nel 1991 fu inaugurata la mostra Fuori dall’ombra. Nuove tendenze nelle arti a Napoli dal 1945 al 1965 curata da Nicola Spinosa, dove per la prima volta fu dedicato ampio spazio alla pittura d’avanguardia oltre che alla scultura. Dal confronto fra le due discipline artistiche fu proprio nell’ambito della scultura che si manifestarono le migliori prove di un’arte che potesse essere definita di ricerca e d’avanguardia, frutto del lavoro di numerosi artisti, fra cui ricordiamo Franco Palumbo, Mario Persico, Lucio del Pezzo, Gianni Pisani, Tony Stefanucci, Gerardo di Fiore, Enrico Ruotolo, Carmine di Ruggiero, oltre i già citati Tatafiore e Venditti. Molti di questi artisti si cimentarono oltre che nella produzione plastica anche in quella pittorica, giungendo a risultati eccellenti, inoltre alcuni di questi maestri fecero parte diversi movimenti artistici che vennero recepiti sul territorio. In questo variegato panorama della scultura neoavanguardista due furono le personalità di maggiore spicco, Renato Barisani e Augusto Perez che rappresentavano, tra l’altro, i due diversi poli della ricerca plastica a Napoli. La prolifica produzione plastica di Barisani, caratterizzata da una portata fortemente innovativa, riscosse per un lungo arco di tempo, grossi riconoscimenti da parte della critica. Il corpus più nutrito di contributi critici sull’attività di Barisani è costituito dagli scritti di Enrico Crispolti, databili dalla metà degli anni Cinquanta fino ai primi anni del XXI secolo, che ripercorrono la lunga attività del maestro in relazione al coevo clima culturale partenopeo.
A questi vanno aggiunti, per il rilevante spessore critico, i contributi pubblicati da Filiberto Menna, Ciro Ruju, Gillo Dorfles, Angelo Trimarco, Achille Bonito Oliva e Stefania Zuliani, che delineano in maniera chiara i punti di forza dell’attività del maestro. Renato Barisani, scultore, pittore e designer, nel corso della sua lunga esistenza ha attraversato diversi movimenti artistici sperimentando diversi linguaggi visivi con opere realizzate talvolta con materiali inusuali nel campo dell’arte, a differenza di Augusto Perez che,attraverso la scultura, elaborò uno stile figurativo personale ed unico con opere in bronzo eseguite attraverso le tecniche tradizionali della statuaria. Dopo una prima produzione scultorea di tipo figurativo maturata nell’ambito della lunga militanza all’interno del “Gruppo Sud”, Barisani nel 1948 firmò con Tatafiore, Venditti e De Fusco il manifesto del gruppo “MAC”. Nell’ambito di tale movimento egli realizzò una lunga serie di sculture in gesso, legno colorato e alluminio dalle linee astratto geometriche, alcune delle quali furono presentate alla I Mostra del gruppo napoletano “Arte Concreta”, che si tenne alla Galleria Blu di Prussia di Napoli nel 1952, Barisani si presentò con una Struttura tubolare in gesso, insieme ad un nutrito numero di dipinti, legati agli stilemi del movimento napoletano.
Nell’ambito della scultura, le strutture di Barisani, diventano nel corso degli anni Cinquanta, sempre più articolate nello spazio, le forme colorate si incastrano fra di loro in un continuo ritmo di pieni e di vuoti, di pesantezza e di leggerezza. Da questo momento c’è il famoso passaggio dalla figurazione all’astrattismo la scultura di Barisani perse ogni volontà di essere portatrice di un qualsivoglia messaggio per divenire forma pura e colore, in linea con i principi espressi dal MAC. Nel corso degli anni spinse l’artista a sperimentare nuovi materiali e a concepire nuove soluzioni plastiche, come sottolinea Crispolti: «Nel 1954 si registra una maggiore complessità fenomenologica direi all’interno stesso della nozione formale che presiede ora agli interventi plastici di Barisani. Egli abbandona il legno, e si serve di plexiglass con fili di ferro. Sono rilievi trasparenti, che naturalmente hanno il loro ascendente nei modulatori di luce, proprio in plexiglass, di Moholy-Nagy, negli anni Trenta e Quaranta». Intorno al 1955 si esaurì l’interesse dell’artista verso le soluzioni puriste di ambito concretista, volgendo la sua attenzione verso l’esplorazione della materia in quanto linguaggio. Realizzò, le prime strutture in metallo, aprendosi alle sperimentazioni di ambito Informale. Nello specifico le opere di Barisani si ispirarono alle sculture di Ettore Colla, ricordiamo l’opera La macchina del 1956, realizzata attraverso la saldatura di pezzi di metallo di scarto liberamente articolati nello spazio. Anche la sua pittura, in quegli anni, ebbe una evoluzione da un linguaggio astratto geometrico verso soluzioni informali di tipo materico. In quelle opere l’artista volle sconfessare la bidimensionalità del piano pittorico mescolando al colore sabbia marina o polvere di tufo, creando quindi una pasta plastica che stendeva con la spatola a cui incluse alcune pietre laviche o pomici nella materia pittorica, creando una pittura a rilievo, la cui evidente tridimensionalità portò l’opera a sconfinare nell’ambito della scultura a bassorilievo. Agli inizi degli anni Sessanta la produzione di Barisani subì un’ulteriore metamorfosi. Crispolti infatti scrive: «Naturalmente si pensa ancora particolarmente alla ricerca di Del Pezzo di questo momento, come possibile rapporto di dialogo, tuttavia è chiaro che in un orizzonte più ampio Barisani sta operando dal territorio informale quell’inflessione di utilizzazione oggettuale che è il momento europeo e nordamericano del New Dada fra lo scorcio degli anni Cinquanta e l’esordio appena dei Sessanta. Quel momento intendo che per Rauschenberg fu dei “combine-paintings”, nei quali profondeva la propria confessione esistenziale». A questo livello Barisani è ancora informale, dunque, tuttavia è il canto del cigno del suo informalismo. Nel 1963 infatti la presentazione d’oggetto, che è ora meccanico, avviene in zone non solo ordinate, a quasi geometrizzanti, e con ampie spartiture, pur essendo ancora materiche. Il riferimento alla conoscenza del New Dada e delle opere di Rauschenberg non sono totalmente da escludere in quanto Barisani poté aggiornarsi sulle novità dell’arte americana attraverso lo scambio di idee con alcuni suoi amici artisti che militavano nel “Gruppo ’58”, di cui facevano parte Mario Colucci, Lucio Del Pezzo, Guido Biasi, Bruno Di Bello, Sergio Fergola, Luigi Castellano (Luca) e Mario Persico.
Infatti, dapprima incluso nella materica materia pittorica, come nel caso di Immagine del nostro tempo del 1962 e successivamente presentato all’interno di ampie campiture di colore come in Tabernacolo del 1965, o isolato come in Il cerchio del 1964, l’oggetto meccanico fa la sua comparsa nell’arte di Barisani all’inizio degli anni Sessanta diventandone protagonista. Ritornando al rapporto del maestro col New Dada, Crispolti sottolineerà ancora una volta quest’aspetto, nel 1964 presso la mostra presso Galleria Ferrari di Verona, scrisse: «Non so se la pittura di Barisani s’orienterà prossimamente verso l’utilizzazione presentativa d’altri oggetti frammentari magari ricollegandosi alla tematica New Dada». È pur vero che gli anni seguenti la pubblicazione del testo critico la produzione di Barisani risentì di un certo neodadaismo, orientandosi verso la realizzazione di sculture realizzate da barre di legno dipinto e ingranaggi meccanici, come nel caso di Oggetto n. 8 , di Oggetto n. 5 e Oggetto n. 4, tutti nel 1966, ma qualcosa di lì a qualche anno sarebbe ulteriormente cambiato. Il maestro infatti nella primavera del 1967 diede inizio a un nuovo corso nella propria ricerca artistica, orientandosi verso composizioni tridimensionali in legno di formica e plexiglass dalle forme astratto-geometriche. Opere come Struttura gialla e rossa del 1967 e Struttura formata da due moduli bianchi e due moduli neri dello stesso anno, indicano il ritorno di Barisani a un linguaggio maturato nell’ambito delle esperienza concretiste della fine degli anni Quaranta. Le motivazioni di tale ulteriore mutamento del linguaggio artistico di Barisani andrebbero rintracciate in quel cambiamento che avvenne nel maestro e che interessò l’idea stessa di opera d’arte che egli concepì non più come unica e irripetibile ma come struttura modulare realizzabile in serie attraverso procedimenti di lavorazione industriale, come ricorda Crispolti: «E in questo senso si rinnova la fiducia nella tecnica della produzione industriale, seriale, corrispondendo pienamente all’orientamento di questo nuovo corso della ricerca di Barisani. La praticabilità modulare si offre così in una possibile estensione della nozione forma a livello proprio di prosa quotidiana come oggetto formante (più che formale), che attraverso la riproduzione in serie potrebbe essere di fruizione quasi popolare». Il rinnovato interesse per le forme geometriche indusse Barisani ad aderire, dal 1974 al 1980, al gruppo napoletano “Geometria e Ricerca”, di cui facevano parte Gianni De Tora, Carmine Di Ruggiero, Riccardo Riccini, Guido Tatafiore, Giuseppe Testa e Riccardo Trapani. L’aspetto sicuramente interessante, ed eccezionale, di Barisani fu quello di un artista capace di cogliere le novità e le suggestioni che giungevano nell’ambiente culturale napoletano e di farle proprie, di rinnovare il proprio linguaggio figurativo senza mai rifiutare quello precedente. Barisani ha lavorato intensamente e ha prodotto numerosi lavori fino alla sua scomparsa avvenuta nel 2011, all’età di 93 anni. La sua produzione di questi ultimi trent’anni si caratterizza per la presenta di un duplice linguaggio: astratto-geometrico da una parte e informale materico dall’altra. Al polo opposto della ricerca artistica di Barisani, e in generale della plastica polimaterica di ambito neoavanguardistico, si colloca la riflessione critica sulla scultura di Augusto Perez. Una vicenda artistica, quella del maestro, assolutamente singolare nel campo delle arti napoletane della seconda metà del Novecento, analizzata in maniera lenticolare da Vitaliano Corbi, ma che è stata anche oggetto di riflessioni critiche da parte di Cesare Brandi, di Mario De Micheli e di Maria Corbi figlia di Vitaliano. L’eccezionalità della produzione figurativa di Perez risiede nel significato Stesso del “fare” scultura, l’artista infatti resterà fedele alla millenaria tradizione della statuaria realizzando opere in bronzo. È qui che si fonda il dilemma di Perez, ovvero le sue personali riflessioni sulla possibilità dell’esistenza della scultura tradizionale nel contesto delle sperimentazioni di materiali extra-scultorei di ambito neoavanguardistico. Il legame con la tradizione è fortissimo per Perez, come dice Maria Corbi: «L’artista non è neppure sfiorato dalla tentazione di rinunciare al nucleo profondo della figurazione.
Ma, non credendo più che questa possa essere protetta dagli steccati dell’ideologia, ora per verificare la possibilità di sopravvivenza, la lascia esposta agli attacchi degli acidi corrosivi». Verso la metà degli anni Cinquanta Perez avviò una produzione di lavori in bronzo con i quali si allontanò dal naturalismo che aveva caratterizzato la sua prima produzione. In questi anni egli realizzò figure più libere, suggerite più che chiarite, attraverso una semplificazione delle masse anatomiche ma comunque cariche di una forza espressiva, anche quando queste appaiono monche o appena abbozzate, come nel caso dei Saltimbanchi o di Uomo seduto, entrambe del 1958. Affascinato dal linguaggio Informale Perez realizzò dagli inizi degli anni Sessanta una serie di bronzi intitolati Trofei dove i personaggi ritratti subirono un ulteriore sintesi della resa muscolare al punto tale da farle sembrare veri e propri lacerti. La mostra si tenne a Roma nel 1962 con il testo di Vitaliano Corbi. La critica diede largo spazio all’evento fornendo una lettura però non corretta delle opere del maestro, come ricorda Corbi: «Dalla martoriata plastica di Perez, opponendo, come si fece, la lettura di un dolente pessimismo esistenziale a una fiduciosa visione umanistica, se si fosse indugiato con più attenzione sulle novità del contesto figurale esibito dall’opera, anche nel suo aspetto specificatamente iconografico, sarebbe apparso evidente che quelle issate da Perez sui tubi di eternit e sulle putrelle dei suoi Trofei erano le spoglie di non altro che la scultura stessa». Fa eccezione, in questo contesto, Cesare Brandi che colse appieno il senso della ricerca di Perez, come leggiamo dalle sue parole: «assai più che dell’illusione alla vuotezza della nostra vita e all’erosione di una lunga morte, quale è la vita, conta avvertire qui l’erosione implacabile della figuratività». Brandi con grande lucidità intuirà l’aspetto autoreferenziale delle opere di Perez, il loro riferirsi non solo alla vita, ma anche alla condizione della scultura stessa, ben evidente nella serie di lavori intitolati Specchi o il ciclo di opere dedicate a Luigi XIV, modellate alla metà degli anni Sessanta. Agli inizi degli anni Settanta l’arte di Perez subì ancora un’altra metamorfosi, in quanto le sculture prodotte in quel periodo e fino agli anni Ottanta, presentano una maggiore attenzione nella resa formale dei particolari anatomici e fisionomici. Il corpo umano fu al centro dei suoi interessi di scultore, probabilmente influenzato dalle performance realizzate nell’ambito della Body Art, organizzate nella galleria di Peppe Morra, fra cui ricordiamo quelle di Gunter Brus, di Urs Lüthi e di Gina Pane a partire dal 1974. Nell’incontrare tantissime volte nel suo studio Sergio Spataro ho capito di trovarmi davanti ad un artista questo traspare dalle sue opere. L’incontro che ha avuto con questi grandi maestri facendo propria la loro lezione, nel tempo è riuscito ha trovare una sua identità fatta di energia, di ricerca e di sperimentazione. E per questo che nelle opere di Spataro vi è una sottile relazione tra segno e materia che costituisce una costante poetica che ha un’eco immediato. Affiora una struttura silenziosa e lirica che crea un felice equilibrio: una sorta di dinamica interna che arricchisce lo sguardo di attese emotive, di ulteriori possibilità . La sua tecnica che egli conferisce alle sue opere, sembrano che trasudano luce ed ombra. In effetti, anche il suo informale, resta imbrigliato nelle percezioni dell’artista raccolte nella sua vita di tutti i giorni. I suoi soggetti fanno parte interamente della sua esistenza, ma nello stesso tempo perdono, attraverso la pittura, quella referenzialità che li vincolerebbe all’esistenza, all’occasionalità. Si può esattamente dire che i suoi sono ‘soggetti’, e non ‘motivi’. Si tratta in altri termini di spunti per far rivelare la pittura che si nasconde dentro le cose, lungo le strade, negli orizzonti ampi dei campi. Spataro organizza visivamente queste occasioni, questi ‘soggetti’, non dandogli apparentemente eccessivo rilievo, ma facendoli invece risaltare proprio celandoli sotto la spessa superficie pittorica. Si tratta di considerare, in modo maturo e consapevole, che la pittura è già di per sé il soggetto di se stessa e che in effetti ogni figurabilità possiede i limiti del riferimento e di un’emotività legata alla memoria personale. Certamente nei suoi lavori il focus della sua espressività è riuscito a dar emergenza ad uno stato di pluralità della materia che è concretezza di esperienze, apertura verso strati pittorici da cui traspaiono memorie segniche, una sorta di dialettica temporale in cui trova posto la sua quarantennale esperienza pittorica.
Per questo l’opposizione tra neo-figurazione e informale non si pone. Sergio Spataro nasce a Palermo presto si trasferì a Napoli con la sua famiglia da quel momento la sua formazione culturale cambia perché si inserisce a pieno nel contesto napoletano. Questo lo si evince dalla sua pittura che possiede ampie memorie che affondano nella pittura napoletana, dall’incontro con Bugli, Di Ruggiero, De Falco e Di Fiore e in seguito con Pisani e Spinosa, ecc.. ma perché quando l’espressione tende più decisamente verso l’informale, in fondo si entra come referenzialità nella storia dell’arte contemporanea nel campo di alcuni veneti come Santomaso, che proprio avevano inteso la pittura come valore autonomo e riconoscibile al di là di ogni sua attribuzione ad un genere piuttosto che ad un altro. Da questi artisti Sergio Spataro ha saputo prendere la sensibilità coloristica, la capacità e l’eleganza di lasciare al colore il compito costruttivo della composizione. Il resto non conta, si tratta di pittura pura e basta. Infine nelle opere di Sergio Spataro degli ultimi anni il conflitto invece è triplice: tra linee orizzontali e linee verticali, tra luce ed ombra, e tra segno morbido, ‘flou’, e graffio stridente. Le scisse e le ordinate non si incontrano. Le forze spingono in direzioni ortogonalmente opposte senza incontrarsi, senza fondersi. I graffi orizzontali si sovrappongono o più spesso giustappongono a quelli verticali, generando tensioni. La luce è il risultato di raschiature sulla superficie coperta dal colore; mentre l’ombra affiora, morbida e sfumata, quasi evanescente, oppure incombe a larghe strisce dai contorni indefiniti. L’ombra è un panno morbido che avvolge. La luce un graffio che fa male. Ma tra le due presenze il contrasto è insanabile. Sì, sono due presenze, poiché l’ombra in Sergio Spataro non è assenza di luce, ma presenza immanente, imprescindibile, incombente. Forse, addirittura, è la luce ad essere assenza di ombra, mancanza, negazione. Non che tutto questo non ci fosse anche prima. Solo che adesso il rigore estremo di queste opere mette a nudo brutalmente gli schemi, e al tempo stesso li rende anche più prepotentemente efficaci. E come possiamo chiamare il conflitto irrisolto tra luce ed ombra, tra essere e divenire, tra orizzontalità e verticalità, se non col nome antico e dimenticato di ‘tragedia’? A ciascuno poi, se lo vorrà, la possibilità di cogliere i risvolti metaforici di alcuni di questi poli contrapposti: luce ed ombra, orizzontale e verticale.
Casina Vanvitellina al Fusaro – Bacoli
Sergio Spataro. Il Pittore
dal 24 Febbraio 2022 al 13 Marzo 2022
Venerdì e Sabato dalle ore 17.00 alle ore 21.00
Domenica dalle ore 10.00 alle ore 12.00 e dalle ore 17.00 alle ore 21.00