Giovanni Cardone Gennaio 2023
Fino al 25 Febbraio si potrà ammirare presso la Galleria Studio Il Castello di Maddaloni – Caserta la mostra di Sergio Spataro In – Bilico a cura di Angelo Pagliaro. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Sergio Spataro: Ho incontrato tantissime volte nel suo studio Sergio Spataro e li si percepisce l’energia, la ricerca e la sperimentazione che descrive ha pieno la sua personalità di artista. E per questo che nelle opere di Sergio Spataro vi è una sottile relazione tra segno e materia  che costituisce una costante poetica che ha un’eco immediato. Affiora una struttura silenziosa e lirica che crea un felice equilibrio: una sorta di dinamica interna che arricchisce lo sguardo di attese emotive, di ulteriori possibilità . La sua tecnica che egli conferisce alle sue opere, sembrano che trasudano luce ed ombra. In effetti, anche il suo informale, resta imbrigliato nelle percezioni dell’artista raccolte nella sua vita di tutti i giorni. I suoi soggetti fanno parte interamente della sua esistenza, ma nello stesso tempo perdono, attraverso la pittura, quella referenzialità che li vincolerebbe all’esistenza, all’occasionalità. Si può esattamente dire che i suoi sono ‘soggetti’,  e non ‘motivi’. Si tratta in altri termini di spunti per far rivelare la pittura che si nasconde dentro le cose, lungo le strade, negli orizzonti ampi dei campi. Certamente il fruitore che non abbia una qualche dimestichezza con la pittura certamente rimarrebbe stupiti oppure attratti  dal percorso materico e dalla gamma coloristica delle opere . In questa mostra le opere dell’artista certamente ci fanno riflettere sull’inquietudine che tutti noi stiamo vivendo e al tempo stesso può anche essere considerata come una possibilità o meglio ancora come forma estrema di libertà. Se pensiamo a quanto possano essere oppressivi i vincoli e i ruoli sociali, a quanto possano essere alienanti le costrizioni civili i luoghi comuni e i pregiudizi, le maschere che quotidianamente siamo costretti ad indossare, ecco che tutta questa “liquidità” tutta questa possibilità di trasformazione non può che sembrarci addirittura una catartica o meglio una salvifica possibilità di riscatto di vera affermazione oppure di auto-determinazione. Penso a Bauman quando dice : “ Che la nostra sociètà  sta focalizzando la sua attenzione sul passaggio dalla modernità alla postmodernità, e le questioni etiche relative.  Egli ha paragonato il concetto di modernità e postmodernità rispettivamente allo stato solido e liquido della società. Mentre nell’età moderna tutto era dato come una solida costruzione, ai nostri giorni, invece ogni aspetto della vita può venir rimodellato artificialmente. Dunque nulla ha contorni nitidi, definiti e fissati una volta per tutte. Ciò non può che influire sulle relazioni umane, divenute ormai precarie in quanto non ci si vuole sentire ingabbiati. Bauman sostiene che l’incertezza che attanaglia la società moderna deriva dalla trasformazione dei suoi protagonisti da produttori a consumatori. L’esclusione sociale elaborata da Bauman non si basa più sull’estraneità al sistema produttivo o sul non poter comprare l’essenziale, ma sul non poter comprare per sentirsi parte della modernità. Secondo Bauman il povero, nella vita liquida, cerca di standardizzarsi agli schemi comuni, ma si sente frustrato se non riesce a sentirsi come gli altri, cioè non sentirsi accettato nel ruolo di consumatore . In tal modo, in una società che vive per il consumo, tutto si trasforma in merce, incluso l’essere umano”.  Io credo che senza memoria non vi è passato e senza passato non vi è identità. Ogni uomo ha bisogno di conoscere le proprie radici, la propria provenienza, per comprendere fino in fondo se stesso e la società in cui vive, così come ogni popolo per sopravvivere alla modernità, dovrebbe conoscere e valorizzare le proprie tradizioni gli usi e costumi di generazioni antiche che, seppur lontane, continuano a mantenere un’eco  di vitale importanza per la sopravvivenza della propria cultura. Spesso ignoriamo che, proprio nel sapere collettivo dei nostri progenitori,si nascondevano verità incontrovertibili acquisite più che dallo studio, dall’esperienza, e che in alcune di queste possono essere rintracciate oggi basi e fondamenti scientifici allora sconosciuti che ci hanno permesso di sopravvivere e di arrivare fin qui. Queste  opere raccontano tutto questo perché fa parte del nostro essere del nostro vissuto che solo l’arte sa raccontare. Posso dire che l’Italia usciva sconfitta dal secondo conflitto mondiale e lacerata dalla guerra che aveva procurato lutti, rovine e miseria nel contempo l’orrore, la tragedia e il dramma che restò vivo negli animi dei superstiti. Nel campo dell’arte avvenne una profonda presa di coscienza da parte degli artisti che si fecero interpreti di quel profondo dolore. Nel campo dell’arte avvenne una profonda presa di coscienza da parte degli artisti che si fecero interpreti di quel profondo dolore. I gruppi che avevano animato il dibattito artistico negli anni precedenti il conflitto si erano ormai sciolti, e molti di quei protagonisti si unirono a nuovi schieramenti, con nuovi programmi, che animarono un nuovo dibattito nell’Italia del secondo dopoguerra. La polemica che infiammerà le discussioni in quegli anni ruotò attorno la querelle fra realisti e astrattisti, che si fondava sulla divisione netta di due linguaggi teoricamente inconciliabili. Nel febbraio del 1946 sul primo numero della rivista milanese ‘Il 45’, diretta da De Grada, fu pubblicato un saggio di Mario de Micheli intitolato Realismo e poesia, che fu considerato il primo manifesto ufficiale del realismo. Nel marzo dello stesso anno sulla rivista ‘Numero’, sempre a Milano, fu pubblicato il Manifesto del realismo, detto anche Oltre Guernica. Oltre Guernica è il manifesto artistico del realismo di pittori e scultori, stilato a Milano nel 1946 da un gruppo di artisti, Ajmone, Bergolli, Bonfante, Dova, Paganin, Peverelli, Tavernari, Testori, Vedova, Morlotti, in occasione dell'omonimo premio. Nel manifesto si danno per scontate le ragioni dell'impegno politico e si ribadisce la necessità di un legame stretto con la realtà e la scelta espressiva della figurazione. Il manifesto è pubblicato su Argine Numero e rivista Il 1945 manifesto del realismo che uscirà solamente in tre numeri. Fondamentale è la proposta di Cezanne considerato l'unico pittore moderno. Birolli guarda al cubismo picassiano senza troppo preoccuparsi se queste scelte siano rispondenti alle esigenze del partito, per cui dal 1950 le sue immagini vireranno sempre più verso matrici tendenti all'astrattismo. Per lui la pittura è architettura di emozioni. Morlotti, Cassinari e Vedova da subito cercheranno un distacco formale dal neorealismo. Roma, è il centro del potere politico, è il luogo dove si metteranno in piedi i veri meccanismi di controllo, in particolare, nel 1948, con il VI congresso del Partito Comunista si decreta che la pittura aveva il compito di affiancare la politica e di essere mezzo attivo di propaganda. Il PCI ha un ruolo fondamentale attraverso il suo organo di informazione l'Unità. Il partito organizzerà la prima manifestazione artistica romana,l'arte contro la barbarie1944 ed il mensile Rinascita. Il periodo è fervido, intenso e permeato dai tentativi dei partiti di invadere un campo considerato propagandistico, anche perché gli artisti - praticamente tutti - si considerano innovatori e l'innovazione sta in tutto ciò che è distacco dalle posizioni politiche precedenti. Molti tra loro si rifanno all'autorevolezza della figura di Guttuso, magari frequentando il suo studio di via Margutta, luogo fino a poco prima considerato borghese. Contemporaneamente a quest’ultima pubblicazione, la stessa rivista, organizzò una mostra alla quale parteciparono Giovanni Dova,Ennio Morlotti, Giovanni Testori, Emilio Vedova e altri artisti settentrionali. Le istanze teoriche espresse nel saggio di De Micheli furono già precedentemente manifestate in un documento redatto nel 1943, a firma di De Micheli stesso, di Emilio Morosini, di Raffaele De Grada, di Ennio Morlotti, di Emilio Vedova e di Ernesto Treccani, dove si condannava la metafisica, il surrealismo, l’espressionismo, il novecentismo e si affermava marxisticamente la necessità di un’arte dal carattere nazionale e popolare. Col termine ‘realismo’ non solo si ricusava l’accademismo novecentista ma anche l’espressionismo di ‘Corrente’, considerato intimista e sentimentale e in netta opposizione al ‘formalismo’, termine che includeva tutte le avanguardie storiche. Per i realisti il modello di riferimento fu Guernica di Picasso, considerata una sorta di realismo moderno derivato dal cubismo. Col termine di “neocubismo” vennero poi indicate le opere di Renato Guttuso, Armando Pizzinato e degli scultori Pericle Fazzini e Leoncillo Leonardi. Ricordiamo, inoltre, che nel 1945 a Roma venne fondato l’Art Club, che iniziò un’intensa attività di mostre e dibattiti sull’arte contemporanea, la cui direzione venne affidata a Enrico Prampoli. Nodo centrale del dibattito fu la questione dell’astrattismo in opposizione al discorso sul realismo, che vedrà l’affermarsi di due diverse posizioni: da una parte Leonello Venturi e dall’altra Max Bill. Nell’articolo pubblicato da Leonello Venturi sulla rivista ‘Domus’ nel gennaio 1946, il critico usa il termine ‘astratto-concreto’ per indicare una certa produzione figurativa di stampo neocubista-astratto, una sorta di astrattismo di derivazione cubista. Max Bill di contro, nell’articolo pubblicato sulla stessa rivista nel febbraio del 1946, chiarisce la sua posizione che prevede il riesame di tutta la produzione astratto-geometrica che si avvicina al concetto kandiskiano, neoplasticista e neocostruttivista. Pittore e architetto, Bill si era formato al Bauhaus di Dessau al tempo di Walter Gropius e concepiva la ricerca artistica quale processo di un pensiero orientato matematicamente. Quel fervido clima di discussione e confronti diede notevole impulso alla creazione di nuovi gruppi artistici che si fecero interpreti e mediatori delle diverse istanze critiche. Nel 1946 fu pubblicato il Manifesto del Fronte Nuovo delle Arti dove sfociarono in direzione neocubista le idee espresse nel Manifesto del realismo, detto anche Oltre Guernica. Le sculture prodotte in quest’ambito manifestarono una chiara derivazione dalla produzione di Picasso da Guernica in poi. Le opere di Fazzini e Leoncillo presentavano, infatti, una costruzione delle forme ottenuta nell’intersecarsi di linee oblique, creando nelle figure diverse spigolosità e angolature, come in Profeta del 1947 e dello stesso anno Studio di Sibilla erano le opere di Fazzini mentre le opere di Leoncillo sono Cariatide del 1946 , invece I lottatori del 1947 e Ritratto di Elisa del 1948. In Leoncillo il ricorso al colore, utilizzato in maniera antinaturalista,evidenzia non solo i diversi tasselli che compongono la figura ma ne accentua la drammaticità dei gesti e l’espressione dei volti. Partecipe alle esposizioni del Fronte Nuovo delle Arti fu anche Alberto Viani, la cui posizione all’interno del gruppo fu sicuramente singolare. I suoi Nudi realizzati alla metà degli Quaranta si caratterizzarono per un certo biomorfismo che riecheggiava la produzione surrealista di Picasso; un richiamo a quei dipinti e a quelle sculture che lo spagnolo realizzò dal 1929 al 1939 e che Viani conobbe attraverso la pubblicazione su “Cahiers d’Art”. Viani quindi, contrariamente agli altri componenti del Fronte, non si ispira al Picasso di Guernica ma venne comunque invitato a esporre con loro. Le novità del suo linguaggio unito alla predilezione per Picasso sono aspetti di ammirazione da parte degli artisti del Fronte. Ritornando al dibatto ricordiamo che nel 1947 venne pubblicato il Manifesto del gruppo Forma, in cui i firmatari si dichiararono ‘formalisti-marxisti’, sposando quindi le idee di Leonello Venturi, mentre nel 1948 venne costituito a Milano il MAC, Movimento Arte Concreta, in linea con le istanze di Max Bill. Nel programma di MAC il termine ‘concreto’ fu utilizzato in senso antinaturalistico e in opposizione all’accezione venturiana di ‘astratto-concreto’. Nell’ambito di Forma 1 interessante risulta la produzione plastica di Pietro Consagra, riconoscibile per l’originalità dello stile: la ‘frontalità’ o la ‘bifrontalità’ sono le sue cifre stiliste. Le sculture di Consagra si caratterizzano per la verticalità di sottili elementi astratto-geometrici, realizzati in diversi materiali come il legno, il bronzo, il marmo e il ferro, verniciati a campitura piena con colori naturali o artificiali. La bidimensionalità delle opere non impedisce però l’idea di spazialità che viene suggerita dal sottile spessore della lastra plastica. In questo modo l’autore stravolse il concetto stesso di scultura tridimensionale e il tradizionale modo di fruirla. L’opera venne concepita e realizzata come se fosse una tela dipinta su tutte e due le facce e fruita da un unico punto di vista, cioè quello frontale. Per Consagra la frontalità della scultura, ottenuta attraverso l’eliminazione del volume, fu una scelta teorica attuata nella volontà di estrapolarla da uno spazio ideale, per liberarla dai valori simbolici,religiosi e sociali, che per secoli la caratterizzava. La frontalità obbliga il fruitore ad un dialogo diretto con l’opera, in un discorso intimo sul fare artistico. La prima mostra di MAC si tenne a Milano nel dicembre del 1948 presso la Libreria Salto, specializzata in pubblicazioni di architettura, di design, di grafica, di fotografia, che pubblicherà, inoltre, i bollettini del movimento, di cui uno,datato 1949, a firma di Gillo Dorfles riportava le idee di Bill: “L’arte concreta rende visibili, con mezzi puramente artistici, pensieri astratti e crea con ciò dei nuovi oggetti. Il fine dell’arte concreta è di sviluppare oggetti psichici ad uso dello spirito, nello stesso modo in cui l’uomo crea degli oggetti per uso materiale. La differenza tra arte astratta e concreta consiste nel fatto che nell’arte astratta il contenuto del quadro è legato ad oggetti naturali, mentre nell’arte concreta è indipendente da essi”. Nell’ambito di MAC interessante risultò la presenza di Osvaldo Licini e di Bruno Munari che attestarono una certa continuità di ricerca con l’astrattismo degli anni Trenta. Munari produsse sculture astratto-geometriche come del resto altri scultori all’interno del movimento, tra i quali ricordiamo: Renato Barisani, Guido Tatafiore, Antonio Venditti, Nino di Salvatore, Mauro Reggiani. Per questi la scultura rientrava nel progetto più ampio di sintesi delle arti con propositi di rinnovamento che comprendevano anche l’architettura, la pittura, la fotografia, la moda e il design, non a caso molti di loro si cimentarono in più forme espressive. Nell’autunno del 1948 si tenne a Bologna la Prima mostra nazionale d’arte contemporanea cura dell’Alleanza della cultura, filiazione del partito comunista italiano, dove si presentò compatta tutta la compagine del Fronte nuovo delle Arti, nel tentativo di verificare lo stato dell’arte. Il giudizio che venne espresso sulle pagine della rivista ‘Rinascita’, rivista fondata e diretta dal segretario del partito comunista Palmiro Togliatti, fu assolutamente negativo. Le opere furono giudicate orribili e mostruose e venne liquidato definitivamente l’ipotesi del Neocubismo come veicolo di un realismo moderno. Con lo scioglimento del Fronte Nuovo delle arti, non restò altra via all’istanza realista, d’obbligo per gli artisti che obbedivano al partito, di indirizzarsi verso una figurazione di tipo ottocentesco o tutt’al più un eclettismo figurativo accademico, con caratteri didattici, devozionali e illustravi, di cui Guttuso con Occupazione delle terre in Sicilia divenne chiaro esempio e modello iconografico di riferimento. Mentre le nuove tendenze nelle arti a Napoli dal 1945 al 1965, dove per la prima volta fu dedicato ampio spazio alla pittura d’avanguardia. Dal confronto fra le due discipline artistiche fu proprio nell’ambito della scultura che si manifestarono le migliori prove di un’arte che potesse essere definita di ricerca e d’avanguardia, frutto del lavoro di numerosi artisti, fra cui ricordiamo Franco Palumbo, Mario Persico, Lucio del Pezzo, Gianni Pisani, Tony Stefanucci, Gerardo di Fiore, Enrico Ruotolo, Carmine di Ruggiero, oltre i già citati Tatafiore e Venditti. Molti di questi artisti si cimentarono oltre che nella produzione plastica anche in quella pittorica, giungendo a risultati eccellenti, inoltre alcuni di questi maestri fecero parte diversi movimenti artistici che vennero recepiti sul territorio. In questo variegato panorama della scultura neoavanguardista due furono le personalità di maggiore spicco, Renato Barisani e Augusto Perez che rappresentavano, tra l’altro, i due diversi poli della ricerca plastica a Napoli. La prolifica produzione plastica di Barisani, caratterizzata da una portata fortemente innovativa, riscosse per un lungo arco di tempo, grossi riconoscimenti da parte della critica. Il corpus più nutrito di contributi critici sull’attività di Barisani è costituito dagli scritti di Enrico Crispolti, databili dalla metà degli anni Cinquanta fino ai primi anni del XXI secolo, che ripercorrono la lunga attività del maestro in relazione al coevo clima culturale partenopeo.  A questi vanno aggiunti, per il rilevante spessore critico, i contributi pubblicati da Filiberto Menna, Ciro Ruju, Gillo Dorfles, Angelo Trimarco, Achille Bonito Oliva e Stefania Zuliani, che delineano in maniera chiara i punti di forza dell’attività del maestro. Renato Barisani, scultore, pittore e designer, nel corso della sua lunga esistenza ha attraversato diversi movimenti artistici sperimentando diversi linguaggi visivi con opere realizzate talvolta con materiali inusuali nel campo dell’arte, a differenza di Augusto Perez che,attraverso la scultura, elaborò uno stile figurativo personale ed unico con opere in bronzo eseguite attraverso le tecniche tradizionali della statuaria. Intorno al 1955 si esaurì l’interesse dell’artista verso le soluzioni puriste di ambito concretista, volgendo la sua attenzione verso l’esplorazione della materia in quanto linguaggio. Realizzò, le prime strutture in metallo, aprendosi alle sperimentazioni di ambito Informale. Nello specifico le opere di Barisani si ispirarono alle sculture di Ettore Colla, ricordiamo l’opera La macchina del 1956, realizzata attraverso la saldatura di pezzi di metallo di scarto liberamente articolati nello spazio. Anche la sua pittura, in quegli anni, ebbe una evoluzione da un linguaggio astratto geometrico verso soluzioni informali di tipo materico. In quelle opere l’artista volle sconfessare la bidimensionalità del piano pittorico mescolando al colore sabbia marina o polvere di tufo, creando quindi una pasta plastica che stendeva con la spatola a cui incluse alcune pietre laviche o pomici nella materia pittorica, creando una pittura a rilievo, la cui evidente tridimensionalità portò l’opera a sconfinare nell’ambito della scultura a bassorilievo. Agli inizi degli anni Sessanta la produzione di Barisani subì un’ulteriore metamorfosi. Crispolti infatti scrive: «Naturalmente si pensa ancora particolarmente alla ricerca di Del Pezzo di questo momento, come possibile rapporto di dialogo, tuttavia è chiaro che in un orizzonte più ampio Barisani sta operando dal territorio informale quell’inflessione di utilizzazione oggettuale che è il momento europeo e nordamericano del New Dada fra lo scorcio degli anni Cinquanta e l’esordio appena dei Sessanta. Quel momento intendo che per Rauschenberg fu dei “combine-paintings”, nei quali profondeva la propria confessione esistenziale». A questo livello Barisani è ancora informale, dunque, tuttavia è il canto del cigno del suo informalismo. Nel 1963 infatti la presentazione d’oggetto, che è ora meccanico, avviene in zone non solo ordinate, a quasi geometrizzanti, e con ampie spartiture, pur essendo ancora materiche. Il riferimento alla conoscenza del New Dada e delle opere di Rauschenberg non sono totalmente da escludere in quanto Barisani poté aggiornarsi sulle novità dell’arte americana attraverso lo scambio di idee con alcuni suoi amici artisti che militavano nel “Gruppo ’58”, di cui facevano parte Mario Colucci, Lucio Del Pezzo, Guido Biasi, Bruno Di Bello, Sergio Fergola, Luigi Castellano (Luca) e Mario Persico. Infatti, dapprima incluso nella materica materia pittorica, come nel caso di Immagine del nostro tempo del 1962 e successivamente presentato all’interno di ampie campiture di colore come in Tabernacolo del 1965, o isolato come in Il cerchio del 1964, l’oggetto meccanico fa la sua comparsa nell’arte di Barisani all’inizio degli anni Sessanta diventandone protagonista. Ritornando al rapporto del maestro col New Dada, Crispolti sottolineerà ancora una volta quest’aspetto, nel 1964 presso la mostra presso Galleria Ferrari di Verona, scrisse: «Non so se la pittura di Barisani s’orienterà prossimamente verso l’utilizzazione presentativa d’altri oggetti frammentari magari ricollegandosi alla tematica New Dada». È pur vero che gli anni seguenti la pubblicazione del testo critico la produzione di Barisani risentì di un certo neodadaismo, orientandosi verso la realizzazione di sculture realizzate da barre di legno dipinto e ingranaggi meccanici, come nel caso di Oggetto n. 8 , di Oggetto n. 5 e Oggetto n. 4, tutti nel 1966, ma qualcosa di lì a qualche anno sarebbe ulteriormente cambiato. Il maestro infatti nella primavera del 1967 diede inizio a un nuovo corso nella propria ricerca artistica, orientandosi verso composizioni tridimensionali in legno di formica e plexiglass dalle forme astratto-geometriche. Opere come Struttura gialla e rossa del 1967 e Struttura formata da due moduli bianchi e due moduli neri  dello stesso anno, indicano il ritorno di Barisani a un linguaggio maturato nell’ambito delle esperienza concretiste della fine degli anni Quaranta.Le motivazioni di tale ulteriore mutamento del linguaggio artistico di Barisani andrebbero rintracciate in quel cambiamento che avvenne nel maestro e che interessò l’idea stessa di opera d’arte che egli concepì non più come unica e irripetibile ma come struttura modulare realizzabile in serie attraverso procedimenti di lavorazione industriale, come ricorda Crispolti: «E in questo senso si rinnova la fiducia nella tecnica della produzione industriale, seriale, corrispondendo pienamente all’orientamento di questo nuovo corso della ricerca di Barisani. La praticabilità modulare si offre così in una possibile estensione della nozione forma a livello proprio di prosa quotidiana come oggetto formante (più che formale), che attraverso la riproduzione in serie potrebbe essere di fruizione quasi popolare». Il rinnovato  interesse per le forme geometriche indusse Barisani ad aderire, dal 1974 al 1980, al gruppo napoletano “Geometria e Ricerca”, di cui facevano parte Gianni De Tora, Carmine Di Ruggiero, Riccardo Riccini, Guido Tatafiore, Giuseppe Testa e Riccardo Trapani. L’aspetto sicuramente interessante, ed eccezionale, di Barisani fu quello di un artista capace di cogliere le novità e le suggestioni che giungevano nell’ambiente culturale napoletano e di farle proprie, di rinnovare il proprio linguaggio figurativo senza mai rifiutare quello precedente. Barisani ha lavorato intensamente e ha prodotto numerosi lavori fino alla sua scomparsa avvenuta nel 2011, all’età di 93 anni. La sua produzione di questi ultimi trent’anni si caratterizza per la presenta di un duplice linguaggio: astratto-geometrico da una parte e informale materico dall’altra. Al polo opposto della ricerca artistica di Barisani, e in generale della plastica polimaterica di ambito neoavanguardistico, si colloca la riflessione critica sulla scultura di Augusto Perez. Una vicenda artistica, quella del maestro, assolutamente singolare nel campo delle arti napoletane della seconda metà del Novecento, analizzata in maniera lenticolare da Vitaliano Corbi, ma che è stata anche oggetto di riflessioni critiche da parte di Cesare Brandi, di Mario De Micheli e di Maria Corbi figlia di Vitaliano. L’eccezionalità della produzione figurativa di Perez risiede nel significato Stesso del “fare” scultura, l’artista infatti resterà fedele alla millenaria tradizione della statuaria realizzando opere in bronzo. È qui che si fonda il dilemma di Perez, ovvero le sue personali riflessioni sulla possibilità dell’esistenza della scultura tradizionale nel contesto delle sperimentazioni di materiali extra-scultorei di ambito neoavanguardistico. Il legame con la tradizione è fortissimo per Perez, come dice Maria Corbi: «L’artista non è neppure sfiorato dalla tentazione di rinunciare al nucleo profondo della figurazione. Ma, non credendo più che questa possa essere protetta dagli steccati dell’ideologia, ora per verificare la possibilità di sopravvivenza, la lascia esposta agli attacchi degli acidi corrosivi». Verso la metà degli anni Cinquanta Perez avviò una produzione di lavori in bronzo con i quali si allontanò dal naturalismo che aveva caratterizzato la sua prima produzione. In questi anni egli realizzò figure più libere, suggerite più che chiarite, attraverso una semplificazione delle masse anatomiche ma comunque cariche di una forza espressiva, anche quando queste appaiono monche o appena abbozzate, come nel caso dei Saltimbanchi o di Uomo seduto, entrambe del 1958. Affascinato dal linguaggio Informale Perez realizzò dagli inizi degli anni Sessanta una serie di bronzi intitolati Trofei dove i personaggi ritratti subirono un ulteriore sintesi della resa muscolare al punto tale da farle sembrare veri e propri lacerti. La mostra si tenne a Roma nel 1962 con il testo di Vitaliano Corbi. La critica diede largo spazio all’evento fornendo una lettura però non corretta delle opere del maestro, come ricorda Corbi: «Dalla martoriata plastica di Perez, opponendo, come si fece, la lettura di un dolente pessimismo esistenziale a una fiduciosa visione umanistica, se si fosse indugiato con più attenzione sulle novità del contesto figurale esibito dall’opera, anche nel suo aspetto specificatamente iconografico, sarebbe apparso evidente che quelle issate da Perez sui tubi di eternit e sulle putrelle dei suoi Trofei erano le spoglie di non altro che la scultura stessa.Il corpo umano fu al centro dei suoi interessi di scultore, probabilmente influenzato dalle performance realizzate nell’ambito della Body Art, organizzate nella galleria di Peppe Morra, fra cui ricordiamo quelle di Gunter Brus, di Urs Lüthi e di Gina Pane a partire dal 1974. Nell’incontrare tantissime volte nel suo studio Sergio Spataro ho capito di trovarmi davanti ad un artista questo traspare dalle sue opere. L’incontro che ha avuto con questi grandi maestri facendo propria la loro lezione, nel tempo è riuscito ha trovare una sua identità fatta di energia, di ricerca e di sperimentazione.  Posso dire con certezza che nelle opere di Spataro vi è una sottile relazione tra segno e materia che costituisce una costante poetica che ha un’eco immediato. Affiora una struttura silenziosa e lirica che crea un felice equilibrio: una sorta di dinamica interna che arricchisce lo sguardo di attese emotive, di ulteriori possibilità . La sua tecnica che egli conferisce alle sue opere, sembrano che trasudano luce ed ombra. In effetti, anche il suo informale, resta imbrigliato nelle percezioni dell’artista raccolte nella sua vita di tutti i giorni. I suoi soggetti fanno parte interamente della sua esistenza, ma nello stesso tempo perdono, attraverso la pittura, quella referenzialità che li vincolerebbe all’esistenza, all’occasionalità. Si può esattamente dire che i suoi sono ‘soggetti’,  e non ‘motivi’. Si tratta in altri termini di spunti per far rivelare la pittura che si nasconde dentro le cose, lungo le strade, negli orizzonti ampi dei campi. Spataro organizza visivamente queste occasioni, questi ‘soggetti’, non dandogli apparentemente eccessivo rilievo, ma facendoli invece risaltare proprio celandoli sotto la spessa superficie pittorica. Si tratta di considerare, in modo maturo e consapevole, che la pittura è già di per sé il soggetto di se stessa e che in effetti ogni figurabilità possiede i limiti del riferimento e di un’emotività legata alla memoria personale. Certamente nei suoi lavori il focus della sua espressività è riuscito a dar emergenza ad uno stato di pluralità della materia che è concretezza di esperienze, apertura verso strati pittorici da cui traspaiono memorie segniche, una sorta di dialettica temporale in cui trova posto la sua quarantennale esperienza pittorica. Per questo l’opposizione tra neo-figurazione e informale non si pone. Sergio Spataro nasce a Palermo presto si trasferì a Napoli con la sua famiglia da quel momento la sua formazione culturale cambia perché si inserisce a pieno nel contesto napoletano. Questo lo si evince dalla sua pittura che possiede ampie memorie che affondano nella pittura napoletana, dall’incontro con Bugli, Di Ruggiero, De Falco e Di Fiore e in seguito con Pisani e Spinosa, ecc.. ma perché quando l’espressione tende più decisamente verso l’informale, in fondo si entra come referenzialità nella storia dell’arte contemporanea nel campo di alcuni veneti come Santomaso, che proprio avevano inteso la pittura come valore autonomo e riconoscibile al di là di ogni sua attribuzione ad un genere piuttosto che ad un altro. Da questi artisti Sergio Spataro ha saputo prendere la sensibilità coloristica, la capacità e l’eleganza di lasciare al colore il compito costruttivo della composizione. Il resto non conta, si tratta di pittura pura e basta. Infine nelle opere di Sergio Spataro degli ultimi anni il conflitto invece è triplice: tra linee  orizzontali e linee verticali, tra luce ed ombra, e tra segno morbido,  ‘flou’, e graffio stridente. Le scisse e le ordinate non si incontrano. Le forze spingono in direzioni ortogonalmente opposte senza incontrarsi, senza fondersi. I graffi orizzontali si sovrappongono o più spesso giustappongono a quelli verticali, generando tensioni. La luce è il risultato di raschiature sulla superficie coperta dal colore; mentre l’ombra affiora, morbida e sfumata, quasi evanescente, oppure incombe a larghe strisce dai contorni indefiniti. L’ombra è un panno morbido che avvolge. La luce un graffio che fa male. Ma tra le due presenze il contrasto è insanabile. Sì, sono due presenze, poiché l’ombra in Sergio Spataro non è assenza di luce, ma presenza immanente, imprescindibile, incombente. Forse, addirittura, è la luce ad essere assenza di ombra, mancanza, negazione. Non che tutto questo non ci fosse anche prima. Solo che adesso il rigore estremo di queste opere mette a nudo brutalmente gli schemi, e al tempo stesso li rende anche più prepotentemente efficaci. E come possiamo chiamare il conflitto irrisolto tra luce ed ombra, tra essere e divenire, tra orizzontalità e verticalità, se non col nome antico e dimenticato di ‘tragedia’? A ciascuno poi, se lo vorrà, la possibilità di cogliere i risvolti metaforici di alcuni di questi poli contrapposti: luce ed ombra, orizzontale e verticale. Infine hanno scritto per Sergio Spataro i seguenti Storici dell’Arte e Critici d’Arte: E. Crispolti , M. Bignardi,  A. Izzo, R. Pinto, G. Agnisola , G. Cardone.
Galleria Il Castello – Maddaloni – Caserta
Sergio Spataro In- Bilico
dal 28 Gennaio 2023 al 25 Febbraio 2023  
dal Lunedì al Sabato dalle ore 10.30 alle 12.30 e
dalle ore 17.30 alle ore 19.30