logoQuesto lavoro di Simona Sperindei, frutto di una ricerca meticolosa ed esauriente, segna un’importante tappa nel settore della letteratura archeologica, con la messa a fuoco del passato di una delle province del centro Italia più affascinanti per tradizione, cultura e storia; grazie ad esso si è fatta luce su quello che fu l’antico centro romano di Pitinium Pisaurense, identificato agli inizi del seicento con la località di Macerata Feltria (fig. 1) in forza di una iscrizione in cui veniva nominato un’ importante personalità femminile appartenente alla gens Abeiena, tale Abeiena Balbina, patrona, appunto, del municipii Pitinatium Pisaurensium.
 
E tuttavia, l’erudito che a suo tempo aveva così ben individuato la corrispondenza con il nome della località, ne sbagliò l’esatta ubicazione ritenendo che la cittadina, distrutta durante l’invasione dei Goti, si trovasse sul monte Persena, e che successivamente lì vicino, alle falde di un altro monte, fosse stata riedificata dagli abitanti scampati ai Goti utilizzando le macerie dei palazzi distrutti, da cui il nome di Macerata.

 
Ma se è vero che l’indicazione si sarebbe dimostrata seppur di poco errata, tuttavia possiamo immaginare le difficoltà cui andarono incontro gli archeologi dell’epoca coinvolti nell’impresa degli scavi, i rischi e i pericoli che dovettero affrontare dentro grotte e cuniculi reinterrati, per portare alla luce “grandi e piccole statue di bronzo e marmo… e fragmenti con molte tavole scritte d’elogij degli homini egregij … medaglie d’ogni materia fusibile gettate, cornigioni di fine pietra intagliati … frammenti d’idoli e rovinati Altari”.

foto 1(2)Un materiale davvero impressionante messo in comunicazione - se si può dire - dalla Sperindei in modo veramente efficace, grazie sia all’abbondante documentazione che proprio con la sua ricerca è riemersa dagli archivi, sia a quella prodotta già nell’epoca, che ci consente di ripercorre a ritroso, come in una macchina del tempo, i secoli che ci separano dagli inizi degli scavi, restituendoci in qualche modo anche una sorta di visione del percorso storico compiuto dall’archeologia e di come siano evolute nel tempo le tecniche al riguardo.

Con questa pubblicazione si esalta dunque, e non è la prima volta, occorre dire, proprio il metodico lavoro dell’autrice, la sua paziente opera di collazione in grado di far interagire i resti archeologici con la ricca documentazione a disposizione, così che molti ‘pezzi’ divenuti illeggibili a causa delle ingiurie tempo ora riacquistano la perduta identità, riportando all’attenzione degli studiosi e degli appassionati un contesto di non poco interesse.

Appare effettivamente perfino appassionante nella ricostruzione della studiosa il modo quasi romanzato con il quale è descritto il percorso archeologico che ha portato, mano a mano che studi e ricerche andavano avanti, al progressivo scioglimento dei dubbi rispetto alle indicazioni precedenti, mentre i lavori  proseguivano e si facevano altre scoperte con il continuo disvelamento di nuovi materiali.

Come quando, ad esempio, il sacerdote Pier Antonio Guerrieri (1604 -1676) “spingendosi lungo la via che dalla pieve saliva alla chiesa di san Teodoro” (fig. 2) individuò una serie importante di reperti, tra cui un busto di Apollo, una testa di idolo e soprattutto una gigantesca lastra di travertino, oggi dispersa, su cui era incisa la scritta Saturno Patri Sacrum, un “epigrafe di notevole importanza in quanto –come sottolinea l’autrice- attesta il culto di Saturno nel panorama culturale delle comunità romane del Montefeltro”.

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Sul finire del secolo, l’evoluzione degli studi e delle tecniche di analisi portarono a rimettere in discussione le teorie espresse in precedenza. L’illustre archeologo urbinate Raffaele Fabretti (1618 -1700), pubblicando nel 1699 una raccolta di epigrafi, annotava in una di queste una decisiva iscrizione (fig. 3) con cui venivano smentite le vecchie teorie dimostrando che Pisaurus in realtà era distante tre chilometri da Macerata Feltria. Qualche decennio dopo, precisamente nel 1738, un altro nobile erudito Annibale degli Abbati Olivieri  (Pesaro, 1708 - 1789) grande figura di mecenate, ricercatore e collezionista  avrebbe in effetti confermato la tesi di Fabretti (e non a caso l’epigrafe è custodita oggi al museo di Pesaro che porta il suo nome).
 
Ma vogliamo lasciare ai lettori dell’agile pubblicazione la curiosità di scoprire le ulteriori acquisizioni documentarie che hanno sostanzialmente chiarificato la questione, come del resto la Sperindei ha perfettamente ricostruito. Interessa di più approfondire, per quanto possibile in questa sede, il contesto nel quale si mossero questi ed altri appassionati eruditi, il modo nel quale si espresse e si affermò la loro speciale passione antiquaria, che per tutto il settecento in pratica avrebbe monopolizzato i loro interessi e la loro ansia di ricerca, sollecitando riflessioni anche sulla pratica del collezionismo degli oggetti di pregio, di cui molti furono entusiasti catalogatori.

Il collezionismo antiquario in effetti si diffuse in modo esponenziale nel corso del secolo decimottavo, assumendo l’aspetto di una vera e propria mania, specie tra gli aristocratici che unirono al desiderio di possesso  –a volte smodato e non sempre commendevole- anche il rigore della ricerca e della schedatura, favorendo in buona sostanza la nascita della moderna archeologia; vero è che quel metodo di rilevamento archeologico, cosiddetto per tipologie, condotto per caratteristiche degli oggetti e non per contesto di scavo, ancora sperimentale e forse ingenuo, oggi può far sorridere, e tuttavia l’ampiezza del fenomeno, come anche il libro della Sperindei dimostra, rende bene l’idea dell’interesse nato intorno a tale attività.

La passione archeologia di Raffaele Fabretti, ad esempio, nacque quando, al servizio del cardinale Gaspare di Carpegna (Roma, 1625 – 1714), fu direttore degli antichi cimiteri romani, divenendo anche amico di importanti collezionisti di reperti antichi, cosa che lo favorì certamente nella realizzazione della sua preziosa collezione privata fatta di “lastre cristiane e pagane, cippi, bassorilievi, in prevalenza acquisiti da antiquari o ricevuti da importanti nobili romani”.

foto 3(1) Ma la novità della sua raccolta, come nota l’autrice “era la nuova concezione dello studio e la conservazione dell’antico come laboratorio e fonte di innovazione”, frutto probabilmente anche della frequentazione di quei circoli intellettuali che gravitavano intorno alla Regina Cristina di Svezia (Stoccolma, 1626  – Roma, 1689) e che, anche dopo la sua scomparsa, furono senza dubbio all’avanguardia in questo campo.

Arrivata a Roma sul finire del 1655 -dopo la nota abiura e dopo il lungo viaggio che conobbe momenti di vero trionfo- considerata, non certo a torto, una delle grandi personalità della sua epoca, l’illuminata ex-regina concepì un’idea della bellezza e dell’arte svincolata e anzi in contrapposizione agli schemi prevalenti, e nel tentativo di individuare un sistema di valori basato su regole razionali, favorì l’incontro di uomini di cultura di differente provenienza ma uniti nell’obiettivo di delineare un gusto estetico nuovo, fondato sul rapporto con la natura e con le sue manifestazioni, nonché sulla capacità dell’artista di darle voce.

Non a caso proprio da un gruppo di letterati che fecero anche parte del suo sodalizio, come Ludovico Antonio Muratori, Francesco Redi, Lorenzo Magalotti ed altri, venne fondata l’ Accademia dell’ Arcadia, che fu certamente la più importante del settecento e che per prima assunse una particolare fisionomia, poi tipica di tutte le Accademie per buona parte del secolo, perdendo il carattere della conversazione fra dotti ed accentuando invece il ruolo specifico di sodalizio culturale  engagè’, assumendo  –se si può dire- anche un ruolo pubblico.

Né crediamo di sbagliare affermando che proprio in ragione di ciò la cultura settecentesca riscoprì e sostenne una rinata attenzione per la categoria della temporalità in cui si affermava la tesi che la Storia –staccata dalla tradizione- fosse fondamento dell’agire umano, arrivando così anche a definire che solo attraverso lo studio dei reperti sepolti fosse possibile ripercorrerne davvero le vicende.
Proprio in una cronaca dell’epoca redatta per l’Arcadia si parla del suddetto erudito Fabretti  come assolutamente dedito a questo scopo  ”in Roma tutto si diede allo studio dell’Antichità … e tutto ciò che fosse rimasto dell’ingiuria del tempo non solo esaminare, ma con minuta diligenza rimirare e investigare”.

Ma il fascino dell’antico coinvolse in effetti così tanti letterati artisti studiosi e collezionisti da generare una vera e propria moda, tanto che, come scrive la Sperindei  “particolare  interesse verso la raccolta di materale archeologico” mostrarono anche molti importanti uomini di chiesa. La studiosa cita il ruolo che ebbe il cardinale Giovan Francesco Stoppani (Milano, 1695 – Roma, 1774) non solo nel recupero dei reperti appartenuti al Fabretti dopo la scomparsa di questi, ma anche come promotore di ricerche nel territorio del pesarese, giusto nei pressi della località di Macerata Feltria, alla caccia di materiale di scavo, con lo scopo dichiarato di realizzare ed acquisire importanti ritrovamenti.

In una Relazione apparsa nel 1756 sul Giornale dei Letterati d’Italia si faceva cenno alla costituzione di una raccolta archeologica senza eguali fuori Roma, che nessuno “aveva mai pensato di farne un tal uso” e che, come commenta l’autrice,  “solo grazie all’abilità del porporato si era potuto costituire nell’arco di soli cento giorni”.
 

C’è da dire che il cardinale milanese si era potuto valere del lavoro e del sostanziale aiuto dell’abate Giovan Battista Passeri (1694 – 1780), una personalità davvero particolare che raccordava in sé le due nuove figure di intellettuale apparse nel XVIII secolo, vale a dire quella dell’erudito e quella dell’abate. Pur obbligato alla tonsura, ma potendo godere però dell’appannaggio di una pur modesta pensione, l’abate settecentesco non appare più completamente integrato nell’apparato gerarchico ecclesiastico, il che gli poteva consentire un certo grado di autonomia intellettuale; se a ciò si unisce l’impegno nella raccolta di documentazioni e reperti e nella loro classificazione e redazione –occupazione tipica della figura dell’erudito- si capisce come possa essere maturata ed essersi affermata nel corso del secolo un’idea nuova della storia, intesa come fonte e garante di verità, molto spesso anche distante dai canoni imposti dal magistero della chiesa. 
 
Scrive la Sperindei che fu proprio il Passeri che in qualità di giureconsulto accolse a Pesaro il cardinale all’inizio della sua legazione, e che proprio “eseguendo un comando dell’Eminentissimo Sig. cardinale Stoppani”, come ebbe a scrivere nell’opera  Della Storia dei fossili dell’agro pesarese,  si inoltrò in alcune zone  “della nostra provincia Metaurense” alla ricerca di “tutti i vestigi della veneranda antichità che giacevano negletti in oscurissimi luoghi”.
 

Descritto dalla Sperindei come “appassionato ricercatore d’antichità” il Passeri era anche “frequentatore dell’Accademia Pesarese” che si riuniva presso la residenza di  Annibale degli Abbati Olivieri che, come già si è visto, avvalorò le tesi del Fabretti circa la probabile collocazione geografica di Pitinium Pisaurense.

Si capisce insomma da queste annotazioni come l’intero territorio Pontificio fosse senza dubbio all’avanguardia in questo campo e certamente ne ebbe il primato, paradossalmente proprio quando il declinare del ruolo politico della Chiesa –entrato in crisi con l’affermarsi delle politiche giurisdizionaliste degli altri stati italiani- ne favoriva un più generale ridimensionamento. Ma se è vero che la corte papale perdeva smalto, in compenso lo sviluppo dell’erudizione, della storiografia, dell’archeologia, degli studi antiquari ci racconta come la città di Roma mantenesse ancora un suo primato culturale universale, con un’attività artistica e architettonica ancora di grosso rilievo che vide ad esempio la sistemazione di piazza di Spagna, la costruzione della scalinata di Trinità dei Monti, la Fontana di Trevi, le facciate di San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore, ecc.

foto 4Per non parlare –per quanto qui più interessa- dei molti importanti ritrovamenti che avevano luogo nel territorio: si pensi soltanto ai Centauri (fig 4) riemersi durante gli scavi presso Villa Adriana a Tivoli ed ora ai Musei Capitolini, cioè in quello che è anche il primo museo di opere e reperti antichi, oggi visibili nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio; come pure un vero primato è quello del  Museo Pio-Clementino in Vaticano, che pubblicò il primo catalogo del genere risalente al 1792; ma lo dimostrano altresì i numerosi circoli culturali che videro compartecipi eruditi laici ed ecclesiastici, sostenuti anche dai più noti artisti dell’epoca e sollecitati dalle famiglie più in vista.

Basti pensare agli incontri presso il frequentatissimo salotto di Lorenzo Corsini (Firenze, 1652 – Roma, 1740), nel palazzo alla Lungara, prima che questi divenisse papa, o al circolo  degli “antiquari alessandrini”, così chiamato dal nome del cardinale Alessandro Albani (Urbino, 1692 – Roma, 1779) , nipote di Clemente XI, e soprattutto grande mecenate e collezionista di reperti antichi, con il quale  certamente ebbe a che fare anche Annibale degli Olivieri, presso il salotto del quale peraltro era attiva, come abbiamo detto, la Accademia Pesarese, dove ebbero possibilità d’incontro e scambio culturale numerosi intellettuali ed eruditi, tanto da costituire, come nota la Sperindei, un vero “ambiente cosmopolita ricco di fermenti culturali … che a Pesaro sin dal 1730 divenne un’istituzione”.

Non va dimenticato infatti che il lavoro e le opere di intellettuali di caratura europea, come appunto Muratori, Scipione Maffei e altri, furono anche il frutto dell’impegno magari più appartato e settoriale, ma certo altrettanto faticoso ed utile, di altri minori uomini di cultura come fu l’erudito nobiluomo pesarese.
Si pensi al particolare interesse che riveste anche il materiale manoscritto, cui fa cenno la Sperindei, conservato presso la biblioteca Olivieriana che egli ebbe a formare nel corso del tempo e che rivela ancor più  quanto fossero profonde la sua passione e le sue conoscenze. Soprattutto va notato come egli operasse quasi nel senso di un superamento dell’antiquaria tradizionale, delineando un approccio  non ristretto alla mera descrizione degli oggetti, quasi che compito dello studioso fosse anche quello di penetrare nel pensiero degli antichi.

Si tratta di un impulso nuovo, se si può dire, dato alla filologia, e la cosa non deve meravigliare se pensiamo al contesto culturale del periodo, che è quello dell’affermarsi della gnoseologia empirista e dell’insorgenza dell’illuminismo; in effetti, è come se la stessa filologia fosse ora chiamata ad allargare i suoi orizzonti, andando oltre l’individuazione delle fonti e l’esegesi dei documenti, per cercare di risalire alla individuazione e all’analisi delle testimonianze incise su lastre, lapidi e reperti monumentali, in forza delle quali divenisse possibile narrare la storia.

Ed infatti, come sottolinea bene la studiosa “fondamentale in questa ricostruzione è il contesto storico” tanto che nel corso del settecento la ripresa del dibattito sulla identificazione del sito di Pitinium Pisaurense , fu opera si degli storiografi che si basavano sui dati documentari, ma soprattutto degli abati-eruditi del tipo di Giovan Battista Passeri, come si è visto, della loro “pratica sul campo”, della loro “frenetica attività di studio rivolta verso l’entroterra pesarese che portò al recupero di antiche testimonianze”.

E dunque non per caso sul finire del secolo sarà proprio un altro abate-erudito, Giuseppe Colucci, (Fermo, 1752 – 1809) che,  pubblicando nel 1795  l’opera Delle Antichità Picene, arrivava a negare ogni precedente acquisizione testimoniale e perfino documentaria, sostenendo che Pitinium Pisaurense dovesse identificarsi con Macerata Feltria, forzando però le tesi –cui pure diceva di richiamarsi- dell’ Abbati Olivieri e del Fabretti che non si erano espressi in modo definitivo sulla localizzazione del sito.

Tanto rilievo ebbero queste ricerche e questi studi che addirittura la Sperindei arriva a parlare di “forte interesse verso l’archeologia montefeltrana ormai esploso nella moda antiquaria del tempo”.  Una moda che certo oltrepassò il settecento, come dimostra la “corposa documentazione “ rintracciata dalla studiosa nell’Archivio di Stato di Roma, nel fondo del Camerlengato (fig. 5), grazie alla quale “le indagini archeologiche topografiche attinenti al territorio di Pitinium Pisaurense si sono arricchite di nuovi dati e spunti di riflessione”.

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Spetterà al lettore che vorrà approfondire l’argomento entrare meglio nel merito; qui basta dire che “i materiali prodotti in un arco di tempo compreso tra il 1820 e il 1870 evidenziano come in quegli anni … fosse attiva nel territorio un’intensa opera di scavo e come essa avesse contagiato gli studiosi e gli storici locali”.
 

Ma oltre a ciò, appare corretto quello che sostiene ancora l’autrice, cioè che “nella costruzione del sapere storico queste forme di coinvolgimento tra gli eruditi locali circa la conoscenza del sito di Pitinium Pisaurense rappresentarono un aspetto essenziale degli studi e non rimasero confinate ai soli limiti territoriali”, cosa che testimonia “quali livelli di interesse avesse raggiunto la passione per l’antico e l’antiquaria in un territorio tanto lontano ma così vicino a Roma”.

Certo, non bisogna dimenticare l’altra faccia della medaglia, cioè che mentre in altri centri d’Italia, come Milano in particolare e Napoli, ma anche in Toscana, la spinta al rinnovamento frutto dell’incedere dell’Illuminismo dava il via ad importanti iniziative riformatrici e a notevoli trasformazioni economico-sociali, nello Stato della Chiesa questo non avveniva ed anzi si allargava a dismisura la distanza con la cultura europea, specie francese; ad essa, gli eruditi romani certo non prestarono la dovuta attenzione, ed anzi la nostalgia di un passato così remoto finì probabilmente con il coniugarsi con un senso di frustrazione che Winckelmann, allora sovrintendente alle Antichità di Roma, bene espresse definendo i “moderni” come “eredi insoddisfatti degli antichi”.

Quel che è certo è che appena qualche anno dopo l’archeologia e l’antiquaria sarebbero state viste come una deprecabile attività, l’unica inutile occupazione dei letterati romani; non ce ne era uno, scriveva Giacomo Leopardi al padre Monaldo, nella lettera del 9 dicembre 1822  “che intenda sotto il nome di letteratura altro che l’archeologia”; ed in questo “letamaio di letteratura di opinioni e di costumi” -come ribadì scrivendo poco dopo al fratello Carlo-  il grande poeta avrebbe maturato il famoso giudizio negativo su Roma. Quella che era stata la capitale delle arti a quel punto aveva compiuto la sua parabola.