Giovanni Cardone Febbraio 2022
Fino al 30 Giugno 2022 si potrà ammirare la mostra al MANN- Museo Archeologico di Napoli SingSing. Il corpo di Pompei progetto del fotografo Luigi Spina che lo dedica ai mitici depositi nei sottotetti del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Come afferma Paolo Giulierini Direttore del Museo Archeologico di Napoli : “Serbatoio immenso per mostre internazionali, l'unico carcere dal quale è facile evadere e andare in giro per il mondo, i celebri depositi del sottotetto detti SingSing diventeranno presto una 'sezione' del Museo,
senza perdere il fascino di luogo magico amato dagli studiosi. Manca poco: già da tempo è iniziato lo storico riordino e molti materiali attualmente a SingSing troveranno spazio nelle rinnovate sezioni vesuviane a partire dalla Campania romana, la prossima estate, seguita dalla tecnologica romana e dalla numismatica. Singsing sarà di tutti ed avrà un nuovo volto grazie ad una graficizzazione che ne guiderà il percorso di visita; l'esposizione degli oggetti sarà adeguata ai criteri antisismici studiati con il DIST dell'Università Federico II. Lo straordinario progetto fotografico di Luigi Spina, che ha generato una mostra in dialogo con i capolavori di Villa dei Papiri e uno splendido volume, è parte integrante di questo percorso epocale.
È un pezzo di storia del Museo che resterà.” In una mia ricerca storiografica e scientifica fatta sulla Pittura Pompeina e sulla storia di Pompei in questo saggio dico: La data del 24 agosto è condivisa da gran parte dei filologi, in particolare tedeschi, ma non più accreditata tra i ranghi della comunità scientifica. Pompei si sarebbe inabissata in autunno, quando il clima campano è più gradevole e la vita langue come il vino nelle botti. La presenza del mosto nelle otri è stata tra le prove che hanno consentito la datazione del tragico evento. L’indagine, avviata dalla ricerca di qualsiasi indizio nella scrittura esposta e presente su muri, incisioni e affreschi, si è spinta fino alla cucina e alla tavola. Briciole e avanzi di cibo come tracce, testimonianze alimentari: Pompei è stata coperta dalla lava nel mese di ottobre. Dagli scavi sono emersi resti di frutta autunnale: melograni, fichi secchi e, come accennato, poco distante, a Boscoreale, le botti erano piene di mosto. Non poteva che essere ottobre. A sostegno di tali ipotesi anche alcuni bracieri di bronzo che sono stati rintracciati al centro delle case, prova del loro utilizzo. Il 16 ottobre 2018, la prova provata: una frase in carboncino scoperta nella Casa con Giardino dove, alcuni giorni prima dell’esplosione, si stavano effettuando dei lavori. È una sorta di data di avvio cantiere, il giorno fatidico è il 17 ottobre del 79 d. C., a distanza di una settimana, la catastrofe. A Pompei nulla precipita nell’oblio. Si può raccontare ogni cosa, persino i pensieri e le ambizioni di un liberto o di uno schiavo. Il vulcano travolge e custodisce, distrugge, serba e rigenera. C’è chi afferma che non vi sia stata città più morta che meglio abbia custodito la vita. La tremenda eruzione è la prima nella storia a essere stata documentata in presa diretta, il reportage di una catastrofe a cura di una grande firma del tempo, Plinio il Giovane. La comunità scientifica, che per sua natura è sempre rigorosa e cauta prima di proclamare una qualsiasi verità, su Pompei si è prima divisa per poi ricongiungersi. Plinio, dunque, “si sbagliava”. Per molto tempo, come accennato, si è creduto che la violenta esplosione fosse avvenuta il 24 agosto del 79 d. C. La data è stata dedotta dallo scambio di lettere fra Tacito e Plinio il Giovane, testimone sul campo del dramma, dove si parla di
nonum kal semptembres, varrebbe a dire
nove giorni prima delle calende di settembre, ossia il 24 agosto. Nessuna certezza vi è sull’originalità delle lettere, le quali potrebbero essere fonti di rimaneggiamento o, peggio, di errori di copiatura. La data più quotata, dopo le recenti scoperti, come si diceva, sarebbe allora il 24, sì, ma di ottobre.
Via dell’Abbondanza è il decumano della città e si interseca con la via Stabiana. La pianta ortogonale tutela da ogni smarrimento:
a Pompei non ci si perde, poiché due rette, una orizzontale e una verticale, tagliano la città e la suddividono in quartieri razionali e squadrati. La suddivisione che si vede oggi è stata messa a punto nel XIX secolo, quelli di oggi non sono i veri nomi delle vie. I pompeiani non usarono i numeri civici, si orientarono grazie ai cognomi e ai graffiti, che campeggiavano sui muri di ogni abitazione.
I cognomi più diffusi erano Ceii, Vettii, Proculo. Si contavano circa 20 mila abitanti, un dato ricavato attraverso un’analisi alquanto originale: osservando e calcolando i posti a sedere a teatro. Pompei fu dunque una città di medie dimensioni ma posta nel cuore del traffico commerciale del Mediterraneo: una sorta di corridoio per gli abitanti di Nola, Acerra e Nocera, tappa intermedia per giungere al porto di Pozzuoli, centro di stoccaggio per le merci in arrivo dall’Egeo. Eva Cantarella e Luciana Jacobelli, nel loro
Pompei è viva (edito da Feltrinelli), sfatano i tabù e i pregiudizi che a lungo hanno dipinto Pompei come crocevia libertino: il centro campano era simile a tutti gli altri, con la sola differenza che lì le tracce e le memorie si sono conservate infinitamente meglio. Sempre proseguendo per via dell’Abbondanza ci si imbatte nei
thermopolia, osterie e bar del tempo. Luoghi di socialità, ma anche spazi riservati alla propaganda politica. La maggior parte dei
thermopolium sponsorizzava con graffiti, dal carattere tipografico modernissimo, la corsa alla carica pubblica dei candidati. A Pompei si votava ogni anno. Il potere politico si ripartiva tra due uomini, i duoviri, mentre quello amministrativo spettava agli edili. L’elezione poteva aver luogo in base al reddito, verificato ogni quinquennio proprio dai duoviri. Frequentate anche le
fullonica, ovvero le lavanderie e tintorie dell’epoca. Curiosità, i Romani non si servivano di sapone, ma si affidavano all’urina, piuttosto ricca di ammoniaca. Gli affreschi, inoltre, testimoniano anche il loro guardaroba. Gli uomini prediligevano tessuti dai colori sobri mentre le donne sfoggiavano indumenti dalle calde tonalità, rosso o arancio, sebbene il “rosso pompeiano” in principio forse era ocra. Nel 79 d. C. Pompei era florida, viva, una città in cui i liberti erano arrivati al potere speculando grazie ai commerci, ma anche per via delle ricostruzioni seguite ai vari terremoti verificatisi in precedenza. Ad abitarla uomini raffinati, individui in grado di acquistare la mobilia messa all’asta a Roma e appartenuta niente meno che a un cesaricida.
È nella casa di Casca Longus che è possibile ammirare il tavolo requisito a uno dei Romani coinvolti nella congiura delle Idi di Marzo. Come le altre residenze pompeiane anche questa ha in comune l’atrio e il tablino (sala del ricevimento). I pavimenti si caratterizzano per i marmi policromi, mentre anguste ed elevate sono le camere da letto, strette ma aggraziate da decorazioni mirabili: scene di caccia, amplessi, miti omerici, con il trionfo dell’azzurro ottenuto con la pietra di lapislazzulo. Nell’
hortus, il giardino, venivano coltivate le erbe officinali. Nei pressi della dimora del Sacerdos vi è un vetro di ossidiana appeso a una parete: era uno specchio. I tempietti in miniatura posti agli angoli degli edifici erano invece cappelle.
Qui erano custodite le statue dei Lari, le divinità dei focolai domestici. Nella casa degli Epidi a emozionare ecco che dentro una teca di vetro riposa il calco di gesso di una donna, come se fosse il corpo di una sirena che respira. Il merito è di una tecnica ottocentesca, impiegata ancora oggi. I vuoti nella roccia lasciati dai corpi decomposti hanno conservato la forma delle vittime, l’impronta sulla cenere. Il vuoto va riempiendosi con il gesso liquido (oggi sostituito dalla resina) fino a ottenere le parvenze della vita che prima si era decomposta. Colti nel momento in cui stavano esalando l’ultimo respiro rapiti da una morte infame: al centinaio di persone e animali, investiti dalla nube bollente di lapilli e gas, non rimane che l’agonia, impressa proprio in quei calchi. Una tecnica sperimentata in origine da Giuseppe Fiorelli, primo direttore ad aprire al pubblico il sito archeologico, era il 1861.
Quel giorno morirono in mille, la vita persa si tradusse in immortalità. Il 24 ottobre del 79 d. C., nel suo ultimo giorno il primo. Gli scavi ebbero inizio nel 1748. Il primo a trovarsi di fronte a vecchi muri e qualche moneta fu l’architetto Domenico Fontana, ma non poté badarvi troppo, suo scopo era concludere un canale che avrebbe dovuto condurre l’acqua dal fiume Sarno ai pastifici del conte Muzio Tuttavilla, nei pressi di Torre Annunziata. Trascorsi 150 anni, era il 1748, furono gli ingegneri militari borbonici, incaricati di esaminare il terreno per la realizzazione di un’opera idrica, a prendere coscienza che nella zona della cosiddetta Civita si celasse una città sepolta. Brama di ogni nascente o rodato archeologo, per il re non fu altro che un
déjà vu. Carlo non era un grande estimatore d’arte e di antichità, ma,
complice la scoperta di Ercolano, dieci anni prima, era ben consapevole che per dare a Napoli lustro di capitale occorreva affidarsi al mecenatismo. Sul colle della Civita fu allora invitato l’ingegnere militare Roque Joaquìn de Alcubierre, già alla guida degli scavi nell’altra città sepolta: lo spagnolo scoprì pareti affrescate e parte di un anfiteatro. I reperti non furono stimati come abbastanza preziosi per la collezione privata borbonica: fu così che il militare decise di ricoprire tutto e tornarsene a Ercolano. Johann Winckelmann riferendosi al povero Alcubierre, lo definì come «un uomo che si intende di archeologia come la luna dei gamberi». Va detto, a chi se ne intendesse fin dal primo istante questa atlantide sommersa da cenere e lapilli si rivelò non solo una straordinaria finestra sul passato, ma anche un’opportunità speciale che, nei secoli a venire, avrebbe stimolato il sorgere dell’archeologia moderna e dei suoi metodi di ricerca, tutela e conservazione. Ma per ora ci si doveva accontentare di archeologi alla “viva il parroco”, proprio come il poco fortunato Alcubierre e il suo corpo militare di ingegneri.
Loro mansione era quella di vigilare su capomastri e operai armati di picconi, punteruoli di ferro, carriole e seghe per l’estrazione dei dipinti murali. Più che studiosi si sarebbero potuti definire tombaroli. Il loro opinabile metodo, che procedeva con lo scavo di lunghe gallerie sotterranee (i celebri “cunicoli borbonici”), era dettato dal volere del sovrano: recuperare reperti e opere d’arte da accumulare nel Museo della Villa Reale di Portici. Quel che non serviva lasciato sul posto e ricoperto. Questo sistema fu adoperato anche nella zona della Civita, quando le ricerche ripresero nel 1754, sull’onda dell’entusiasmante ritrovamento della Villa dei Papiri a Ercolano. Ci vollero nove anni per comprendere la realtà: quella che si aveva di fronte era la città di Pompei e non Stabia. Il nuovo direttore degli scavi, l’architetto Francesco La Vega, si rivelò una sorta di sovraintendente moderno ante litteram, attento non solo ai reperti, ma anche alla tutela e alla conservazione degli edifici. Si deve a lui e alla passione per le antichità di Maria Carolina, la moglie del nuovo re di Napoli Ferdinando IV di Borbone, il fatto che le strutture riemerse cominciassero a essere lasciate a vista, invece che reinterrate. Come scrisse Pietro Colletta: “Pompei, coperta di terre vegetabili e di lapillo, si andava largamente scoprendo e ne uscivano cose preziose di antico”. In seguito ai primi ritrovamenti, l’Europa fu percorsa da un delirio di entusiasmo: studiosi, intellettuali e monarchi accorsero in gran numero alle città vesuviane, ma i permessi per le visite agli scavi, dispensati dal re, erano piuttosto rari e sui reperti vigeva il più stretto riserbo. Insomma: anche se l’iscrizione posta all’ingresso recitava che il Museo di Portici fosse destinato agli amatori delle antichità, di fatto a molti di loro fu impedito di studiare, disegnare e persino osservare la preziosa raccolta. L’esposizione era specchio di una prestigiosa manifestazione di potere. Nell’ottica dei regnanti di Napoli, Pompei era, e rimase fino al 1860, una sorta di museo privato, meta dei viandanti del
Grand Tour, dei tanti e snobbati intellettuali romantici, ma anche di teste coronate e di aristocratici europei. A loro erano riservate visite ad hoc: si pensi alla cena e ai fuochi di artificio fra le donne in omaggio al principe di Danimarca nel 1821 o la “magnifica colazione” nella caserma dei gladiatori, approntata, nel 1829, per la granduchessa Elena di Russia, il tutto pochi giorni dopo la “cena con scavo” di Ludovico I re di Baviera. In questa circostanza, munito di zappa e piccone, l’appassionato sovrano disseppellì diversi oggetti, poi “graziosamente donatigli” dal re di Napoli. Il generale francese Jean étienne Championnet, che nel 1799 conquistò Napoli alla testa dell’Armée d’Italie, costringendo alla fuga Ferdinando IV e proclamando la breve Repubblica napoletana, non fu da meno. Le sue premure non furono poi così nobili: migliaia di braccia fresche arruolate con il fine di recuperare quante più opere d’arte possibile, imballarle e spedirle in Francia. Non tutti i francesi ebbero le stesse cattive intenzioni. Nel 1808, dopo la breve parentesi Borbone, sul trono di Napoli si sedette il francese Gioacchino Murat, cognato di Napoleone: sua moglie Carolina era un’appassionata di archeologia e prese a cuore le indagini. Andò aumentando il numero degli operai e “zappatori”, incentivati con laute e frequenti ricompense. Intanto, il nuovo direttore, Michele Arditi, sostituì alla tecnica dei “buchi a caso” in ricerca di rarità, un piano di scavo razionale, che seguisse le strade, casa per casa, dalla Porta Ercolano verso l’interno della città. L’archeologo sul campo arrivò nel 1860,
quando il re Vittorio Emanuele II affidò l’incarico di direttore degli scavi a Giuseppe Fiorelli (1823-1896). Il numismatico napoletano introdusse quella che oggi definiremmo una moderna ricerca programmata, trasformando quel parco giochi per cacciatori di tesori in un laboratorio di ricerca e studio all’avanguardia, applicando nuove tecniche di scavo e recupero: in primis il metodo “stratigrafico”. Un modus operandi alla base di qualsiasi indagine archeologica: questo sistema procede raschiando dall’alto verso il basso singoli strati di materiali. A Fiorelli si devono anche la divisione della città in
Regiones e
Insulae e l’uso del metodo dei calchi in gesso per ricostruire le fattezze delle vittime dell’eruzione. Unificò inoltre i vecchi cantieri, fino ad allora divisi da montagne di terra smossa, realizzando un percorso unitario per i visitatori del sito, che finalmente venne aperto al pubblico: un biglietto che costava due franchi aveva sostituito il raro privilegio di un lasciapassare del re. La sbrigativa caccia al tesoro del periodo borbonico con i suoi “metodi briganteschi” giungeva al termine. Pompei divenne un moderno scavo archeologico: sul finire dell’Ottocento ecco la pubblicazione di tutti i diari di scavo dal 1748 al 1860, la realizzazione della prima mappa dell’area e un plastico in scala 1:100 dell’intero sito (oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli). Pompei proseguì la sua lotta per la sopravvivenza: le bombe Alleate durante il secondo conflitto mondiale, il terremoto dell’Irpinia, le cattive e imprudenti politiche di scavo. Pompei, però, è nata per risorgere, desiderio di qualunque aspirante o navigato archeologo.
A Pompei anche i muri parlano: vita pubblica, fatti di cronaca, sesso e politica. La nostra conoscenza della pittura – non solo di quella parietale romana, ma in generale della pittura antica – verte per lo più sulle scoperte effettuate nelle città vesuviane sepolte nel 79 d.C. «Se i muri potessero parlare». Sarebbe avventato pensare che questo non sia possibile. Non siate scettici quando si parla di Storia, specie quando si sfogliano le pagine dell’antichità. A Pompei, si diceva, anche i muri parlano, un universo variopinto quello raccontato dagli affreschi e dai graffiti riemersi dalle ceneri pompeiane. La prima pubblicazione di carattere scientifico fu presentata nel 1882 da August Mau con la sua
Storia della pittura parietale a Pompei, in cui lo studioso tentò di classificare i diversi schemi decorativi prevalenti nella città romana.
Primo Stile, a incrostazione, stile strutturale (II secolo a.C.-80 a.C.). Fu chiamato “primo” in quanto era il più antico rintracciato a Pompei. In verità non si tratta dello stile di decorazione parietale più datato esistente nel mondo greco-romano. È preceduto dallo stile “a zone”, fiorente nel IV sec. a. C. e
rinvenuto soprattutto nelle tombe della Russia meridionale. Lo stile a incrostazione tende a imitare, attraverso elementi in stucco colorato, i muri in
opus quadratum (muro di mattoni), o le pareti
crusta, cioè rivestite con lastre di marmo policromo. L’esempio più famoso è la Casa del Fauno.
Secondo Stile, architettonico (100-15 a.C.). Si caratterizza per l’illusionistica dilatazione dello spazio attraverso lesene, finti colonnati e finestre oltre i quali si aprono realistici paesaggi. Rientrano nello stile anche le
megalographie, schiere di personaggi di grandi dimensioni dipinti su sfondi omogenei all’interno di quinte architettoniche: esempio è la rappresentazione del rituale di carattere dionisiaco, particolare del fregio parietale in un
oecus della Villa dei Misteri a Pompei. «Questa rivoluzione è la conseguenza di un cambiamento fondamentale nell’attitudine mentale degli artisti e del pubblico. Invece dello spirito filosofico e razionale nasce da una parte uno spirito piuttosto pratico e materialistico, d’altra parte una tendenza visionaria e mistica» (H. G. Beyen,
Wanddekoration,I, p. 13 ss.).
Terzo Stile, ornamentale (15 a.C.-50 d.C.). Si distingue per la presenza di strutture architettoniche piatte che inquadrano campiture monocrome o quadretti a soggetto classico, ricoperti di sottili ornamenti a tema vegetale o astratto. Le decorazioni perdono gli effetti illusionistici dello stile precedente.
Nondimeno, non è da trascurare il dualismo, perché è classicistico non classico. La severità delle forme talvolta è come improvvisamente spezzata (vedute prospettiche nel registro superiore della parete), però senza effetti atmosferici; paesaggi impressionistici.
Ultimo stile pompeiano (50-79 d.C.). A questo stile, l’ultimo, in ogni modo, dei quattro “stili”, appartiene il maggior numero di pareti. Per la più grande parte queste si datano dopo il terremoto del 62-63 d. C. Questo schema decorativo, ricco e fantasioso, è una summa degli stili precedenti, di cui riprende molti stilemi, per questo detto anche stile eclettico.
Maxi rissa tra tifoserie. L’immagine di un tifoso che fissa alla parete della propria cameretta un poster che ritrae una scena di violenza allo stadio potrebbe sembrare alquanto esagerato. A Pompei no. Un affresco del genere decorava il peristilio della dimora di Actius Anicetus. L’opera, tra le bellezze del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, narra la sanguinosa rissa tra pompeiani e nocerini avvenuta nel 59 d.C. in occasione dei ludi gladiatori imbastiti da Livinio Règolo.
Una zuffa che ebbe luogo, stando anche agli Annales di Tacito, presso l’Anfiteatro di Pompei. Le tensioni tra le parti erano dovute a controversie territoriali, un leitmotiv nella storica e millenaria relazione tra le due città campane. La competizione contribuì a infiammare gli animi dei “tifosi”, fu così che arrivò il Daspo: il Senato chiuse l’arena per dieci anni.
Esibire la cultura. Un capolavoro rinvenuto in Via del Vesuvio: si tratta di un affresco che ritrae l’amplesso tra Leda e il cigno, ovvero la leggendaria regina di Sparta e quel dongiovanni di Zeus, che, stando al mito, assunte le fattezze del volatile si unì alla donna. La carica erotica del soggetto come ispirazione in camera da letto: ecco che l’opera non poteva che fregiare, per l’appunto, il
cubiculum. L’ipotesi di alcuni archeologi vuole che appartenesse a un liberto che attraverso lo “sfoggio” di cultura era intenzionato a elevare il proprio status sociale: del resto la
domus è ricca di decori e soggetti a tema mitologico e per gli abitanti di Pompei più abbienti ostentare erudizione, tramite rimandi alla cultura greca, era un modo per distinguersi dalla massa.
Le mani del chirurgo. L’affresco proveniente dal
triclinium della
domus di Sirico (45-79 d.C.) raffigura un particolare episodio dell’
Eneide di Virgilio: Enea viene soccorso dal suo medico Iapige, intento a rimuovere una punta di freccia dalla coscia dell’eroe troiano. L’immagine rivela un particolare piuttosto interessante: un antico strumento chirurgico noto con il nome di “pinza ercolanense”, uno speciale forcipe multiuso utilizzato per estrarre schegge, estirpare denti, clampare vasi sanguigni. Sebbene il nome richiami la più vicina Ercolano, l’esemplare più datato fu rinvenuto a Pompei. L’
ars medica da queste parti era quindi pratica avanzata.
Eros ambiguo alle terme suburbane. A Pompei, tra le tante meraviglie, le pitture erotiche sono senz’altro le più celebri. La maggior parte di questi “oggetti osceni” sono stati custoditi nel gabinetto segreto del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, spazio allestito ad hoc nel 1819. Alcuni esemplari sono rimasti però in loco, si pensi agli affreschi dello spogliatoio delle terme suburbane (I secolo a. C.). Sedici piccoli quadri ciascuno esemplificativo di una diversa posizione sessuale. Un soggetto insolito, più consono nei lupinari, ove ebbe uno scopo più che altro pubblicitario e informativo: mostrare le prestazioni offerte dalle prostitute, stuzzicando così la libido dei clienti. Alcuni studiosi alludono alla presenza di un lupinare clandestino nelle terme, altri ipotizzano che gli affreschi erotici abbiano avuto la funzione di segnaposti utili ad aiutare i bagnanti a memorizzare dove avessero riposto i propri abiti.
Lavanderie ante litteram. Con gli affreschi, negozianti e artigiani pubblicizzavano i loro servizi, descrivendoli con doverosa minuzia. Alcuni sono stati rinvenuti sul pilastro della bottega di Lucio Veranio Ipseo, proprietario di una delle tante e antiche lavanderie di Pompei, le cosiddette
fullonicae. Le pitture,
oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, offrono una panoramica sulle diverse fasi di lavoro svolto in una tipica fullonica: trattamenti di finitura, spazzolamento con cardo, solfonatura su grande gabbia di vimini, stiratura sotto torchio di legno, stendi mento stoffe.
Poesie e slogan elettorali. I pompeiani furono veri e propri
writer della prima ora, il loro essere grafomani ci ha permesso di poter studiare numerosi slogan, poesie e motteggi. Un bricolage variegato di messaggi, colti e profondi, sgrammaticati e osceni, specchio del genuino modo di esprimersi di quell’epoca. I temi sono i più disparati: comunicati ufficiali, imprecazioni, frasi romantiche, coloriti insulti. Presenti anche riflessioni filosofiche di cittadini fulminati da improvvisa ispirazione, come il graffito in una
taberna del
regio IX: Nulla può durare in eterno. Il sole che già brillò torna a tuffarsi nell’oceano. Decresce la Luna che già fu piena. La violenza dei venti spesso diventa lieve brezza.
Evidente anche la propaganda elettorale, i
progràmmata, manifesti elettorali dipinti ad affresco, che riportano il nome de candidato e vari slogan elogiativi. La commissione non spettava agli stessi politici, ma ai loro sostenitori: cittadini influenti e facoltosi commercianti che dichiaravano apertamente il loro orientamento politico sulle facciate delle proprie case e botteghe. Luigi Spina, che da anni lavora allo studio e alla narrazione dei capolavori dell'Archeologico, presenta così al pubblico i risultati del viaggio di ricerca compiuto stavolta in un luogo non fruibile al pubblico, nelle “celle” di SingSing; in cinquanta scatti in bianco e nero, visibili oggi nelle sale della collezione Villa dei Papiri del MANN e in un raffinato volume pubblicato da 5 Continents Editions, Spina segue un itinerario fotografico che è cronaca, studio e testimonianza storica al tempo stesso: "
Guardando il pane carbonizzato, intatto, ho immaginato il panettiere che lo fece quella notte: non ebbe piu? un giorno. Penso a quel pane che conserva intatto il desiderio della vita. Mi aggrappo al corpo di Pompei come se fosse il mio", racconta il fotografo. Il percorso, anticipato online sui canali social del Museo durante il lockdown del 2020, è stato presentato ad inizio dello scorso
ottobre in occasione della manifestazione MIA Fair 2021 di Milano. Il progetto fotografico è parte integrante dello studio e della successiva valorizzazione dei depositi a cura della direzione e dello staff scientifico del MANN. L'esposizione, infatti, prelude ad una nuova politica di accessibilità pubblica dei depositi museali.
Luigi Spina è fotografo. I suoi principali campi di ricerca sono gli anfiteatri, il senso civico del sacro, i legami tra arte e fede, le antiche identità culturali, il confronto con la scultura classica, l’ossessiva ricerca sul mare, le cassette dell’archeologo sognatore (Giorgio Buchner). Ha pubblicato oltre 22 libri fotografici di ricerca personale e ha realizzato prestigiose campagne fotografiche per Enti e Musei. Fra i volumi pubblicati, in diverse lingue e distribuiti in tutto il mondo, si citano il progetto sul Foro romano, L’Ora Incerta, Electaphoto (2014); The Buchner Boxes (2014), Le Danzatrici della Villa dei Papiri (2015), Diario Mitico, Cronache visive sulla collezione Farnese (2017), SingSing (2020), Canova. Quattro tempi (2020), I Confratelli (2020), tutti editi da 5 ContinentsEditions; Volti di Roma alla Centrale Montemartini per Silvana Editoriale (2019). Tra le istituzioni culturali nelle quali ha esposto si segnalano: Museo Archeologico di Napoli; Musei Capitolini di Roma; Museo Campano di Capua; Galleria San Fedele, Milano; Museo MADRE, Napoli; Palazzo dell’EUR, Roma; Reggia di Caserta; MACRO, Roma; Galerie Patrick Mestdagh, Bruxelles; MIAFAIR Milano; Postermostra, Lisbona, Kranj, Slovenia; Gallery of Fine Art Uzbekistan. Sue opere sono conservate ed esposte, in permanenza, al Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps, Aeroporto di Capodichino, Museo Archeologico Nazionale di Napoli. La rivista Artribune lo ha nominato miglior fotografo senior del 2020.
MANN- Museo Archeologico di Napoli
SingSing. Il corpo di Pompei di Luigi Spina
dal 21 Gennaio 2022 al 30 Giugno 2022
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 19.00
Martedì Chiuso