Spartaco. Schiavi e padroni a Roma

Museo dell’Ara Pacis. Lungotevere in Augusta, Roma
 31 marzo - 17 settembre 2017
Orario: 9.30 - 19.30 (la biglietteria chiude un’ora prima)
Info: tel. 060608
Esposizione ideata da Claudio Parisi Presicce e Orietta Rossini. Curatela scientifica di Claudio Parisi Presicce, Orietta Rossini e Lucia Spagnuolo.
Organizzazione: Zètema Progetto Cultura
Catalogo De Luca Editore

Al Museo dell’Ara Pacis una full immersion
nel sistema schiavistico del mondo romano

di
Nica FIORI
 
Tutti gli uomini nascono liberi e indipendenti… La guerra di Spartaco è la più legittima che mai sia stata intrapresa”.
Quest’affermazione di Montesquieu, tratta dai suoi Pensieri, non rientrava certo nell’assetto giuridico e sociale di Roma repubblicana e poi imperiale e lo schiavo ribelle Spartaco veniva visto come nemico pubblico per antonomasia. Nel Museo dell’Ara Pacis, monumento simbolo della pace augustea, il sistema schiavistico del mondo romano viene raccontato nella mostra “Spartaco. Schiavi e padroni a Roma”. Si tratta di un’esposizione di ampio respiro, suddivisa in undici sezioni, che il Sovrintendente Comunale Claudio Parisi Presicce ha definito “il futuro dell’antico”, perché “si è riusciti a trasferire nel percorso espositivo un modo nuovo di leggere le testimonianze archeologiche del mondo antico”.
Parte integrante della mostra è un’installazione visiva e sonora dal forte impatto drammatico. Una regia fin troppo coinvolgente permette al visitatore di immedesimarsi nelle situazioni di lavoro forzato, che purtroppo ancora esistono, come è evidenziato nella sezione finale sullo schiavismo contemporaneo. Il tutto ha luogo in un ambiente buio, dove le opere d’arte sono esaltate da una suggestiva illuminazione, mentre i pannelli illustrativi risultano scarsamente leggibili. A parer mio i rumori continui e assordanti non sempre favoriscono la fruizione dell’opera d’arte; ciononostante la mostra è bella e indubbiamente di grande interesse.

Il personaggio da cui trae spunto il titolo della mostra è il gladiatore Spartaco,

un eroe della libertà che, dopo essere fuggito dalla scuola gladiatoria di Capua, trasformò un gruppo di schiavi e disperati in un vero esercito. Un valido combattente che, alla fine di quella che è stata la terza rivolta servile (73-71 a.C.), secondo le parole dello storico Appiano, “muore come un generale romano”, sconfitto da Crasso. È un eroe senza volto e il suo cadavere non fu mai trovato, mentre 6000 uomini del suo esercito furono crocifissi sulla via Appia da Roma a Capua, uno ogni 50 metri su entrambi i lati della strada, per fare da monito contro eventuali future ribellioni. Una condanna esemplare che è riprodotta nel suggestivo dipinto Campo scellerato (1878), di Fyodor Andreevich Bronnykov, proveniente dalla Galleria Tretjakov di Mosca.
Spartaco, nato in Tracia (compresa tra l’attuale Bulgaria e la Turchia europea), aveva militato da libero nell’esercito romano e in seguito era stato asservito, forse per una condanna ingiusta, e venduto come gladiatore. Ma il più delle volte si diventava schiavi in seguito ad una sconfitta in guerra.
 

La prima sezione espositiva, “Come si diventa schiavi”,

illustra come i prigionieri di guerra costituivano gran parte del bottino del vincitore e venivano venduti ai commercianti di schiavi. Un’opera scelta come esempio di prigioniero di guerra è la testa di Dace prestata dai Musei Vaticani, che in origine doveva far parte dei Daci del Foro di Traiano (in parte poi collocati sull’Arco di Costantino). Per quanto prigioniero, non ha niente di servile e anzi rispecchia nell’atteggiamento del volto la fierezza e la dignità che Traiano, il conquistatore della Dacia (attuale Romania), riconosceva a questo popolo.
Si poteva diventare schiavi anche per debiti, per un tempo adeguato a soddisfare la cifra da versare. Il dipinto Plauto mugnaio (1864) del napoletano Camillo Miola, allievo prediletto di Domenico Morelli, raffigura un episodio della vita del celebre commediografo, il quale sarebbe stato costretto a lavorare come schiavo presso un mugnaio per pagare un debito di gioco. La scena è ambientata all’interno della Casa del Forno di Pompei e Plauto è raffigurato seduto sulla mola mentre legge agli astanti un suo manoscritto, forse quell’Addictus (Schiavo per debiti) che egli avrebbe composto in quel periodo della sua vita.

La schiavitù non l’avevano certo inventata i romani,

ma indubbiamente era per Roma antica di grandissima importanza sociale ed economica, una forza lavoro che ha consentito lo sviluppo e la crescita della città. Portando come esempio le grandi opere architettoniche, non dobbiamo dimenticare che dietro ogni mattone e ogni blocco squadrato c’era la manodopera schiavistica.
Si calcola che in età imperiale almeno il 10 % della popolazione dell’impero era costituito da schiavi, dai sei ai dieci milioni su sessanta milioni di abitanti ipotizzati, ma nelle città la percentuale era molto più alta (fino al 30 %). Ogni anno occorrevano ovviamente nuove unità per sostituire questa “merce deperibile”, che viene illustrata in mostra nelle sue diverse categorie. Tra queste vi erano gli schiavi domestici, che potevano usufruire di una certa agiatezza e non di rado anche di un livello di confidenza tra padrone (dominus) e schiavo.
Gli schiavi che lavoravano nei campi, al contrario, erano quelli che subivano le maggiori angherie e torture, tant’è che le prime due guerre servili scoppiarono in Sicilia in seguito alla brutalità dei latifondisti nei confronti di schiavi che venivano marchiati a fuoco, incatenati e “battuti e flagellati oltre ogni ragione”, come scrive Diodoro Siculo. Vi era poi la schiavitù femminile che implicava lo sfruttamento sessuale. Il dominus disponeva liberamente delle schiave nella famiglia e se nasceva un figlio da una schiava, rimaneva la condizione di schiavo anche per il bambino. Un dipinto di Miola, Orazio in villa, raffigura il poeta mentre si intrattiene con le sue ancelle, presumibilmente nella sua villa di Licenza. Un gioiello in mostra, un pesante bracciale d’oro a forma di serpente, reca incisa la dedica Dominus ancillae suae. Evidentemente questo signore era talmente innamorato della sua schiava da riempirla d’oro.
 

Una sezione è dedicata ai mestieri degli schiavi,

all’intrattenimento, soprattutto teatrale (vi sono statue di attori con maschere teatrali) e alla gestione delle terme. Vi erano anche schiavi colti, per lo più provenienti dalla Grecia, che facevano da precettori e schiavi medici, come documentato da una lastra tombale che illustra quest’attività. Alcuni schiavi potevano diventare famosi, soprattutto se particolarmente abili in uno sport. Un dipinto ottocentesco di Francesco Hayez, L’Atleta, raffigura un auriga in nudità eroica con la palma della vittoria in mano. Ma le attività agonistiche tipicamente romane erano estremante cruente. Molti aurighi potevano morire travolti dai carri e i gladiatori che si esibivano negli anfiteatri erano pur sempre dei “morituri”, come più volte drammaticamente enfatizzato da scene di film in costume. Una lastra campana dei primi anni del I secolo d.C. mostra una scena di venatio, in questo caso un combattimento di gladiatori contro leoni, al Circo Massimo, riconoscibile dalle sette grandi uova di pietra, che dovevano servire per il conteggio dei giri dei carri guidati dagli aurighi nel circo.

Un’altra sezione è dedicata agli schiavi nelle cave e nelle miniere.

Un lavoro pesantissimo che è confrontato con un’immagine fotografica di Fulvio Roiter del 1953 che raffigura minatori in una miniera di zolfo siciliana. I minatori sono nudi perché il caldo è soffocante e i vestiti potrebbero strapparsi e con la misera paga giornaliera non potrebbero certo comprarne di nuovi.

Per quanto schiavista, la civiltà romana prevedeva la manumissio,

cioè l’affrancamento degli schiavi, che dava loro, oltre alla libertà, la cittadinanza. Gli schiavi liberati erano detti liberti: non di rado si arricchivano e i loro figli potevano accedere alle cariche pubbliche. Molti rilievi funerari mostrano come i liberti continuavano a far parte dell’entourage della famiglia che li aveva affrancati, assumendone il nome, e il senso di appartenenza era così forte che venivano sepolti nella stessa tomba. Altri liberti esercitavano attività imprenditoriali, come per esempio la fabbricazione di laterizi (sono in mostra diversi mattoni con bolli laterizi), o la gestione di una fullonica (calco dal museo della Civiltà romana), corrispondente alla nostra tintoria-lavanderia.
 

L’ultima sezione è dedicata al rapporto tra schiavitù e religione,

sia in epoca pagana, sia nel primo cristianesimo. Il tempio di Diana sull’Aventino era l’asylum per gli schiavi fuggiaschi e per ricordare questa divinità è in mostra una splendida testa di Diana ritrovata qualche anno fa in via Marmorata. Può apparire strano questo patronato di Diana, che era la dea della caccia, su coloro che venivano “cacciati”, in quanto fuggiaschi, ma può essere spiegato con il suo essere essenzialmente una divinità protettrice della natura, che ha i suoi equilibri tra nascite e morti. Era proprio uno schiavo fuggiasco che poteva accedere al ruolo di Rex Nemorensis nel bosco sacro a Diana sulle rive del lago di Nemi, dopo aver ucciso il precedente re-sacerdote.
di
Nica FIORI


www.arapacis.it, www.museiincomuneroma.it