Così scrivevo, nel 2008:

“Cos’è che instaura un rapporto? Qual è la misura di una relazione? Se ogni opera coltiva una propria distinta essenza, se c’è un viaggio da compiere comunque in solitario, da dove viene allora il richiamo a una lingua comune che sembra poterci offrire la chiave di un senso ulteriore, e che trova nelle movenze del dialogo la propria necessaria incarnazione? La forza generatrice di tutto questo ci induce, a ben vedere, in una direzione opposta a quella del dominio normativo dello Stesso. A governare non sono le leggi del compatibile, dell’omologo, del familiare, né il linguaggio compiacente della legittimazione dell’io, e nemmeno la natura unidimensionale del progresso. Non ciò che è offerto alla riconoscenza del branco: “
Provate a ascoltare - così
Henri Michaux -
fra il pubblico in una mostra di pittura. A un tratto, dopo aver cercato a lungo, qualcuno mostrando col dito sul quadro: ‘È un melo’, dice, e tutti si sentono meglio”. No, quando tentiamo di aprire un varco nei territori essenziali del dialogo, dobbiamo orientare il nostro sguardo verso qualcosa che ci priva di certezze, ci mette in bilico sull’orlo di un vuoto, rovesciando quiete in inquietudine: '
Chi ama le strofe ama anche le catastrofi -
Gottfried Benn -,
chi è per le statue dev’essere anche per le macerie'. È allora che siamo trascinati, guardando fuori, allo spazio che non confonde o sovrappone, a ciò che divide ma insieme mette in contatto e rinsalda la possibilità di un incontro. All’altro che istruisce perché è distante. Un fuori che potremmo intendere come tale anche quando, magicamente, assume la veste suasiva del somigliante: '
Vedete, ho copiato il vostro sonetto perché l’ho trovato bello e semplice… -
Rilke in risposta al giovane poeta -
Vi offro questa copia sapendo quanto sia importante e istruttivo di ritrovare il proprio lavoro in una calligrafia estranea. Leggete questi versi come se fossero di un altro, e sentirete nel fondo del vostro essere quanto essi sono cosa vostra'.

È nel contatto con l’estraneo che ritroviamo una cifra più vera d’identità: vi ritroviamo la stessa sostanza alienante che incontriamo quando, tentati da un’interrogazione più estrema, crediamo di aver gettato la sonda in profondità e sentiamo di aver avvicinato la nostra più nuda apparenza: '
Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza' (
Borges).
A questa incertezza appartengono i territori della creazione. L’aperto che accoglie, ospita, lascia che qualcosa lo attraversi, anche ciò che sembra più improbabile o enigmatico. La strada breve e infinita: '
Esiste un punto di arrivo - Kafka - ma nessuna via; ciò che chiamiamo via non è che la nostra esitazione'. Ecco, se questo è ciò che abbiamo desiderato, se questo è ciò che attendevamo, puntiamo l’arco che a una meta ci conduca, al segno quasi inafferrabile di una maestria. Per cui, finalmente, il vero maestro è sempre l’Altro”.
'Due' ha iniziato il suo cammino nel 2008 con una mostra dedicata a Franco Meneguzzo e Giulio Turcato (6 novembre 2008-10 gennaio 2009). In questo caso, le opere esposte degli artisti appartenevano allo stesso periodo storico - quasi tutte degli anni Cinquanta - e rivelavano evidenti nessi formali, ma erano invece l'espressione di due poetiche estremamente divergenti, ed era questo che cercavo di mettere in luce nel mio testo che accompagnava la mostra:
“
MENEGUZZO. Franco Meneguzzo è nato nel 1924 a Valdagno, in Veneto, ed è morto il primo di ottobre di quest'anno. Il padre possedeva una miniera di carbone. Da ragazzo, Meneguzzo abbandona il ginnasio, continuando gli studi privatamente. Matematica, italiano, francese, latino. Studia anche pianoforte e composizione restando per un certo tempo incerto nella sua vocazione fra pittura e musica. Diventa partigiano in montagna. È fatto prigioniero dei fascisti. Dopo la guerra fa l'operaio al Lanificio Marzotto di Valdagno. Preferisce i turni di notte per dedicare le ore del giorno alla sua attività di ceramista. Nel 1947 entra nel consiglio di fabbrica e diviene anche, fino al 1951, funzionario del Partito Socialista. Nei primi anni Cinquanta lavora come scenografo alla RAI di Milano. Fonda con Bruno Danese, nel 1955, una ditta per la produzione e la vendita di ceramiche (
DEM, Danese e Meneguzzo).

Soprattutto come ceramista, nel corso della sua vita, Meneguzzo ottiene i suoi maggiori riconoscimenti. Il pittore sta un poco più in là, appartato, meno visibile. È la sponda più celata di un'opera che aveva altre evidenze. Ma, in questa privazione, l'arte ritrova forse una sua prerogativa necessaria. La salvaguardia dal rumoroso e fazioso mondo ha garantito a questo lavoro una più intima e segreta sincerità. Le opere in mostra - realizzate tutte fra il 1950 e il 1960 - appartengono alla stagione della prima maturità creativa dell'artista, che si definiva '
un uomo delle caverne che traccia graffiti sulle pareti di una caverna'. La sua pittura ha solidità corporea. È peso e materia. Terra, campo e mattone. Tessera e incastro di una costruzione perseverante. Come schermo che serva a reggere e a contrastare l'inerzia e l'opacità del mondo. Lungo un tracciato dal quale, sembra, l'autore non avrebbe potuto declinare in nessun caso. Vi si avverte un tormento mai interamente risolto. Peso e materia. C'è tuttavia una porzione importante di questa materia che occorre padroneggiare tenendola nascosta. È ombra, profondità. Il lato oscuro ma inevitabile. Che ognuno si porta dietro, a suo modo. Dato che ciò che amiamo o disprezziamo nella nostra esistenza prima o poi rivela una propria pesantezza insostenibile. Allora, nel sopravvivere, andando avanti, ci liberiamo pezzo a pezzo di tutto il peso possibile, o credendo di farlo, dimentichiamo, tradiamo, perdiamo coscienza come sabbia da una tasca bucata. Mai il setaccio è per ciascuno diverso. (
immagine 1)
TURCATO. Tutto quanto desideriamo e che sembra rendere la vita bella, prima o poi rivela un proprio peso insostenibile. Così, per scacciare questo rischio, proviamo a divenire rapidi e lesti, a cambiare la direzione del nostro cammino, a capovolgere le prospettive, ogni volta che l'appetito si tramuta in avversione, la voluttà in disgusto. Bisogna andare con un bagaglio leggero leggero, e senza più nessuna certezza, e nemmeno più un residuo di morale, o forse ancora solo una traccia, nascosta fra i fluttui estremi di una reattività a pelle, l'ultimo puntello alle nostre voglie, ai nostri imprevedibili, cangianti desideri. Che niente si fa più catturare veramente. Tutto si muove e corre. E inseguendo il dio delle cose che sempre fuggono, fino a divenire noi sfuggenti come le cose stesse, ci si insinua fra le pieghe di una sostanza instabile e dinamica, sfiorando con leggerezza la superficie più sensibile, la buccia morbida dell'esistenza. '
La stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio. -
Eraclito -
Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come il fuoco, quando si mescola ai profumi e prende nome dall'aroma di ognuno di essi'. La pittura è reticolo, carne, nuvola, cencio, fumo, olezzo, crosta lunare, graffio. Il peso della materia si dissolve nell'artificio volubile del simulacro. Di questa dissoluzione - nell'inseguimento perpetuo dell'infinità delle cose, della loro varietà senza fine - è l'astrazione l'impronta più vera, lo specchio, la tana da cui pesca il mago, il maestro, il funambolo, il dissoluto, il cieco”.

Subito dopo questa prima mostra,
la sala della galleria D'Ascanio all'Artefiera di Bologna, nel gennaio 2009, è stata l'occasione per raggruppare - in una collettiva dal titolo '
La piega aurea' - molti degli artisti che pensavo come possibili partecipanti al progetto di 'Due'. C'erano, tra gli altri
Afro, Massimo Campigli, Antonio Capaccio, Giorgio De Chirico, Ettore Innocente, Andrè Masson, Franco Meneguzzo, Mirko Basaldella, Antonio Recalcati, Mario Schifano, Ettore Sordini, Giulio Turcato. Ciò che scrivevo allora tentava di dire qualcosa proprio su ciò di cui è più difficile parlare:
“Ci siamo spinti appena un poco oltre e subito il cammino è divenuto incerto, abbiamo creduto di scorgere qualcosa, o forse abbiamo immaginato, una scintilla davanti ai nostri occhi, un guizzo, era qualcosa di prezioso, oppure? era vera bellezza, l’unicità non entropica di un gesto o soltanto un inconveniente, un errore, il motivo inverso di un canto altrimenti distante, di cui ci raggiunge solo un’eco? Canto nascosto, sfuggente, che quanto più ci appare prossimo tanto più si rivela ancora lontano, che non possiamo né afferrare né perdere, è questa la ricchezza che stavamo cercando? Pensavamo di inseguire chiarità e bellezza, ma ancora una volta ci siamo trovati a specchiare soltanto le nostre imperfezioni, in quale insidioso territorio ci siamo inoltrati? Non c’è astuzia o artificio che possano sconfiggere la nostra imperizia, o invece con il soccorso di una qualche maestria possiamo credere davvero di soddisfare fino in fondo questa inguaribile sete con la più colma e sensibile ricompensa? C’è fiamma, ardimento, che possa mutare le pieghe dell’animo nei dettati più voluttuosi della materia? Qual è la risorsa che vincoli l’intimo e più segreto sentire al più sfarzoso incedere, all’ostentato premio? Ma perché invece, di nuovo, rischiamo di essere sopraffatti dal pieno di una sola opaca cosa, invadente, che opprime? Materia multipla, moltiplicata, ma senza vera opulenza, cibo indigesto: la nostra ambizione è un’altra, brucia di un puro ardore, è cosa che accelera il pensiero, lo sospinge lontano, è fuga senza rifugio, fluttuo, increspatura, gorgo, piega nella piega, pellicola liquida del pensiero, fondo scuro dello spirito, trama, contrappunto, curva, filo della sinopia, velo pietoso, goccia che scava la pietra, vena del marmo, scrittura o graffio? Fuoco, terra bruciata”.

La seconda mostra del ciclo è stata dedicata a
Giorgio Morandi e ad Antonio Recalcati (5 marzo – 12 aprile 2009). Di Recalcati era presentata una selezione delle sue
terrecotte realizzate fra il 1990 e il 1991 ad Albisola Marina, lavorando presso la manifattura San Giorgio. In un anno Recalcati crea quasi mille vasi in terracotta. È un ciclo intenso di opere, consumato come in preda a un'ossessione. (
immagine 2) Accanto a questi vasi, si vedevano in mostra le
nature morte di Giorgio Morandi.
Così il mio testo:
“È vero che, scorrendo, la vita ci libera di molte cose, fa spazio, ci riduce all'osso, a un resto, sempre più stretti al poco che, consumato e trasformato, ancora resiste. Avviene con lentezza, a strappi, o tutto insieme, e non importa se è ciò a cui aspiravamo, o se tutto accade inconsapevolmente, o nostro malgrado. La verità è una sola. Ci sbarazziamo delle cose comunque, pure di quanto avevamo immaginato nostro per sempre. Ci restano le briciole - l'essenziale? -, materiale friabile, provvisorio. E anche quando proviamo a invertire la rotta, volgendoci verso il lato inconscio e oscuro, per tentare di afferrare, se fosse possibile, un nodo originario, ecco che le nostre costruzioni vanno in pezzi, e una scena anteriore, più nuda, si rivela, e poi un altro richiamo, ancora più remoto e vuoto, che manda in frantumi di nuovo ogni cosa, e così via, a ritroso, collezionando macerie. Cosa si nasconde ancora più in là? E quanto conviene andare oltre? Per scoprire quanto l'avanzo che siamo divenuti somiglia alla mancanza che ci ha generato? ‘
…le mie ciotole rotte, -
Recalcati -
i miei vasi feriti, pieni di crepe, ammaccati e spezzati, che in qualche modo erano tenuti insieme, sono come la nostra vita e i ricordi che ci portiamo dietro’. Arginati in una materia tenace e refrattaria, essi sono i resti persistenti della combustione. Vi si deposita un senso aspro e difforme: ‘
I miei vasi non sono frammenti incollati, ma nascono rotti, rovinati, come se una strana sofferenza li avesse spezzati e il tempo li avesse nuovamente congiunti’ (
immagine 3).

‘
Ho paura delle parole. -
Morandi -
Ecco perché dipingo’. Scatole, brocche, bottiglie sulla scena. A resistere, anch'esse. Residui minimi, ma in un groviglio composito, fragile e instabile, di identità e opposizioni. Sull'orlo di un precipizio. Basta poco e si finisce in un tumulto di forze segrete e enigmatiche. Storie, avventure, grumi psichici. Morsi, ritagli. Il Moderno è Storia che va a finire o è già resurrezione?
Di certo, in esso, passione originaria e passione residuale sembrano rivelare un'identica forza attrattiva, confondendosi spesso in un unico dispotico sentire: ‘
Un annaffiatoio, un erpice abbandonato nel campo, un cane al sole, -
Hugo von Hofmannsthal -
un povero cimitero, uno storpio, una casetta di contadini, tutto ciò può diventare il vaso della mia rivelazione. Ognuna di queste cose e le mille altre simili su cui di solito l'occhio scivola con naturale indifferenza, può assumere all'improvviso per me, in un certo momento che non è affatto in mio potere provocare, un carattere nobile e commovente che tutte le parole mi sembrano troppo povere per esprimere (…)
che il mio occhio indugia sui brutti cuccioli o sul gatto che striscia flessuoso tra i vasi di fiori, e che tra tutti i poveri e rozzi oggetti d'una vita contadina cerca quell'uno, la cui forma poco appariscente, la cui presenza da nessuno avvertita, la cui muta essenza può diventare fonte di quel misterioso, ineffabile, sconfinato rapimento’“ (
immagine 4).

La terza mostra (28 ottobre 2010 - 9 gennaio 2011) metteva a confronto
tre 'Marine' di Carlo Carrà con i
'paesaggi di fine secolo' di Ettore Sordini, anch'essi delle
marine, realizzate con una qualità di pittura ricca e luminosa, ma più astratte e rarefatte, ancora più essenziali: “
Cielo, terra, mare all'orizzonte, l'essenziale nel paesaggio - la natura nella sua evidenza, solare, folgorante, ma segretamente inquieta e presaga, il rischio in agguato dietro la membrana luminescente, che ‘non esiste superficie che sia bella -
Friedrich Nietzsche -
senza la terribilità degli abissi’.
Com'è la natura? È semplice o racchiude un inganno? È l'azzardo di un dio imprevedibile, tormentato dall'incertezza, o forse c'è chi ‘
riesce a immedesimarsi in un Dio che ha creato cose soavi come le piante e gli alberi? Topi, peste, rumore, disperazione, -
Gottfried Benn -
sì, ma i fiori?’
La natura è schiva e sibillina, si sottrae a ogni intenzione di possesso:
'La natura -
Eraclito -
ama nascondersi'. Proviamo a soggiogarla, la maltrattiamo, la umiliamo, la feriamo, ma poi dobbiamo pentirci e sperare che essa abbia più forza del nostro scempio. Tanto più la si indaga, tanto più si fa severa e spietata.

Se crediamo di rispecchiarci in essa, fino a diventarne cassa di risonanza, offre in cambio ambiguità e doppiezza, perché ‘
l'uomo è ugualmente vicino a Dio e al demonio. È la natura suprema e la più vile, -
Caspar David Friedrich -
la più nobile e la più abbietta, è la quintessenza di tutto il bello e di tutto l'infame, e il maledetto. È l'essere più sublime di tutta la creazione, ma è anche il suo marchio d'infamia’. Perché ‘
per la natura, nel caso migliore, non si dovrebbe avvertire che grande tristezza, -
Franz Marc -
come per i prigionieri. Non c'è nulla di più triste dell'occhio dei piccoli fiori, o del mare che ondeggia infelice nel suo tormento e sofferenza interiori’. Ci illude di poter placare la sete inesauribile per tutto ciò che è oltre. Ci fa credere che il patto non è infranto. In questa maniera ci seduce. Ma non svela segreti, e ci mette nuovamente ogni volta di fronte al peso di una irriducibile alterità.
Proprio per questo, perché non esiste altra vera bellezza senza dissidio, un artista non può sottrarsi al proprio compito, alla maestria, che altro non è che ‘
la risultante d'un profondo desiderio -
Carlo Carrà -
di ubbidire con semplicità alla natura’.
Allora, egli ‘
deve credere di aver dipinto -
Henri Matisse -
solamente quello che ha visto. Un artista quando dipinge deve avere questo sentimento, di aver copiato la natura. E anche quando se ne sia allontanato, deve restargli la convinzione di averlo fatto solo per renderla più pienamente’“.
(
immagini 5,6,7,8)
Ettore Sordini e Antonio Recalcati - due dei protagonisti del progetto del 2011 - avevano, da giovani, condiviso lo stesso clima culturale: quello, vivacissimo, dell'avanguardia milanese degli ultimi anni Cinquanta, che s'incontrava la sera al
Bar Giamaica: '
Antonio Recalcati non diceva una parola e poi scaricava tutti gli urli, tutte le bestemmie, tutte le paure, tutte le imprecazioni nella sua pittura. Ettorino Sordini ha sempre amato il teatro, la battuta, la megalomania, il dandismo, il pittoresco, il claunesco e poi, chiuso nel suo studio, ha sempre fatto cose estremamente poetiche ma al limite del nulla, del silenzio, del non finito, dell'essenziale, dell'assoluto. Antonio Recalcati era la disperazione dell'uomo, la solitudine delle grandi città, l'alienazione di Milano. Ettorino Sordini, invece, nel chiuso del suo studio, respirava l'aria pura e ossigenata dei suoi quadri bianchi nei quali campeggiavano i pochi, misurati, sensibili segni della sua arte. E quando poi usciva nella strada e ti vedeva al Giamaica, per farti capire che eravamo nella merda, ti veniva incontro facendo il saluto fascista' (
Remo Remotti, in
Ho rubato la marmellata, 1984).
Il 16 Marzo 2012 Giulio Turcato Compie un secolo: questo era il titolo della mostra dedicata al solo Turcato, nel giorno del centenario della nascita. (
immagine 9)
La mostra era accompagnata da un '
Glossario essenziale' turcatiano che riporto qui di seguito:
gli altri: 'come artista singolo ognuno deve trovare in se stesso un movente senza pensare troppo a quello che pensano gli altri';
arte: 'non è detto che la morte dell'arte sia già avvenuta. Può darsi vi sia una trasformazione di quello che viene inteso con la parola arte. Ma tale attitudine avrà sempre un modo di esprimersi';
avanguardia: 'un'avanguardia non è, se non riesce a vincere la solitudine e a porsi nella vita';
certezze: 'quello che è certo è che i termini da fissi sono diventati variabili, l'oggettivazione delle funzioni sta subendo un crollo';
colore: 'un conto è colorare, un conto è inventare i colori';
un diverso: 'l’arte è una creazione dell’uomo e non della natura. L’arte non è fatta per riprodurre quello che vedono i nostri occhi, ma è guidata da un bisogno di esprimere le cose che si immaginano e che si sentono o si sognano e che appaiono alla fantasia dell’artista. Lui le trasformerà sorprendendo come un diverso';
dogana: 'queste immagini, sensazioni, materiali, colori, memorie, illusioni, allucinazioni, forme, itinerari, sono il mio bagaglio aperto alla dogana del prossimo millennio';
gambe: 'guardo con curiosità le gambe delle donne, mi piacciono quelle lunghe e le diverse andature';
giocare: '...ma facciamo questo poker, cosa succede?' - così Piero Ciampi al Premio Tenco del 1976 - ' succede questo: voi sapete come comincia un discorso, mille, milledue, milletre, millequattro, passo, poi, alla fine della serata, dopo cinque ore, quattrocentomila, un milione... bene, allora Turcato, che stava veramente perdendo, scoperto in un bluff ha detto... io gli ho detto “vedo”...lui ha detto “scopa!”';
libertà: 'le libertà espressive sono di chi se le prende';
politica: 'penso che un pittore con la sua opera si inserisca senza volerlo in un fatto politico, ma non in un fatto politico spicciolo... È politico cioè in un senso inverso, per la socialità della sua opera, e della sua vita, non solo per una scelta ideologica';
ragazze: 'poi abbiamo avuto questa grossa esplosione dei giovani, esplosione in particolare delle ragazze che si sono rifiutate di portare le gonne delle madri ed hanno risanato una situazione che era impossibile sostenere';
restituzione: 'penso che la molla di gran parte dell'uomo e della donna sia la sensualità, non come fatto peccaminoso ma come ripristino di una carenza che il cristianesimo ed altre filosofie, anche idealistiche, ci hanno fatto perdere. Restituire all'uomo tutto il suo corpo, i suoi sentimenti. Allontanare da lui le mura di una prigione, quelle dell'ideologia';
a spasso: 'mi piace camminare in mezzo alla gente, e tutto quello che succede è il mio programma. Le persone che incontro nelle mie passeggiate quotidiane, e con le quali a volte ho brevissime, a volte lunghe conversazioni, sono le più disparate, e tutte, anche quelle che non riconosco, mi danno lo spunto per una visione globale del modo di vivere e così io formo un collage di sensazioni che al momento scompaiono e più tardi riaffiorano in altro modo'.

Infine
l'ultima mostra – per ora – di 'Due', Claudio Olivieri e Antonio Capaccio. Dal 5 aprile a 10 maggio 2013.
Claudio e io siamo due pittori astratti, e la strada dell'astrazione è, per me, quella di un'arte semplice ed essenziale che non dimentica e sogna ancora la bellezza, poiché è solo per questa via, tramite un inesauribile e sempre inappagabile anelito alla bellezza, che forse è possibile spezzare il giogo di un impoverimento culturale e delle coscienze che appare ormai devastante.
(
immagini 10, 11, 12)
Questa mostra presenta una selezione di opere dei due artisti, a confronto in un percorso espositivo parallelo, che attraversa oltre un trentennio di attività, fino ai lavori più recenti.
(
immagini 13 e 14)
Il progetto apre, questa volta, anche
alla poesia e alla musica. Così, il 19 aprile, è l'occasione per l'incontro con i poeti
Silvia Bre e Claudio Damiani, fra i più sensibili e originali autori del paesaggio letterario italiano.
Ecco due loro recenti poesie:
Silvia Bre:
Essere è uno specchio cristallino
ogni cosa corrisponde a se stessa
in eleganza
scende una patina universa
il gesto enorme che guarda
ma la parzialità delle braccia cadute
come foglie a riposo
urla.
Claudio Damiani:
Per fare la mia armatura ci sono voluti secoli,
in mille hanno lavorato, artigiani, orafi
provenienti da tutti i paesi del mondo.
La mia armatura è immortale
e quando morirò passerà ad un altro
e anche se si dovesse perdere,
come quella di Achille in fondo al mare,
ci sarà sempre qualcuno che la ritroverà.
E’ talmente preziosa che qualche volta preferirei non metterla
perché ho paura di rovinarla
anche se so che niente la può rovinare.
Infine, l'8 maggio, è la volta del concerto dell'
Apeiron sax quartet, con un programma interamente dedicato a musiche di
Giuseppe Verdi - del quale nel 2013 cade il bicentenario della nascita -, nelle trascrizioni di
Daniele Caporaso. In questa particolare lettura, nel dialogo con le speciali sonorità di un quartetto di sassofoni, le rigorose scansioni e le trasparenti traiettorie verdiane rivelano una nuova e diversa incisività. Il concerto è realizzato in collaborazione con
Tramjazz. In stretta corrispondenza con questa iniziativa, si svolge presso la
Vetrina di Brecce - con inaugurazione venerdì 12 aprile -, una mostra dedicata a
Claudio Olivieri. La Vetrina si trova in via Mario De' Fiori, a pochi passi da Piazza di Spagna e dunque molto vicino alla galleria Anna D'Ascanio. La mostra alla Vetrina è visibile fino al 10 maggio, ininterrottamente giorno e notte.
Antonio Capaccio, 07/04/2013
Didascalie immagini:
1. Franco Meneguzzo, Giugno 1951, olio su tela
2. Antonio Recalcati nella Manifattura San Giorgio ad Albisola Marina
3. Antonio Recalcati, Terrecotte, Roma, Galleria D'Ascanio, foto Luca Fabiani
4. "DUE" Morandi-Recalcati, Roma, Galleria D'Ascanio, foto Luca Fabiani
5. Ettore Sordini, Altomare
6. Ettore Sordini nel suo studio di Cagli, 2008, foto Luca Fabiani
7. Ettore Sordini nel suo studio di Cagli, 2008, foto Luca Fabiani
8. "DUE" Carrà-Sordini
9. "Il 16 marzo 2012 Giulio Turcato compie un secolo", locandina
10. Claudio Olivieri, Cassandra, 2008
11. Claudio Olivieri, Temperato, 1976
12. Claudio Olivieri, Rosso ancora, 2005
13. Antonio Capaccio, Cielo, 1990
14. Antonio Capaccio, Oriente, 2010
venerdì 5 aprile – dalle ore 18: inaugurazione della mostra: Antonio Capaccio / Claudio Olivieri
Galleria Anna D'Ascanio
venerdì 12 aprile- dalle ore 18
Claudio Olivieri
Vetrina di BRECCE
venerdì 19 aprile - ore 18,30: Silvia Bre e Claudio Damiani leggono le loro poesie
Galleria Anna D'Ascanio
mercoledì 8 maggio - ore 18,30: Viva Verdi!, concerto dell’Apeiron sax quartet
Galleria Anna D'Ascanio
venerdì 10 maggio – dalle ore 18: finissage della mostra
Antonio Capaccio / Claudio Olivieri
Galleria Anna D'Ascanio
Galleria Anna D'Ascanio
via del Babuino 29, Roma
tel. 0636001804 / cell. 348.386828
e-mail: infi@galleriadascanio.it
dal lunedì al sabato, dalle ore 15,30 alle 19,30
(mattina e festivi su appuntamento)
Vetrina di BRECCE
via Mario dè Fiori 61, Roma
la mostra e visibile ininterrottamente giorno e notte