In un’Amministrazione dei beni culturali come quella italiana, nella quale – per ataviche (ed, oramai, strutturali) carenze di personale – è frequente lo sforamento dei termini che la legge prevede per la conclusione di determinati procedimenti amministrativi, appare opportuno soffermarsi sulle conseguenze connesse al mancato rispetto, da parte della P.A, dei termini imposti dal Legislatore per la conclusione di procedimenti amministrativi connessi ai beni culturali.
In particolare, in materia di esportazione di beni culturali, la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogati sul seguente quesito: “quale sia la natura del termine di 40 giorni, previsto dall’art. 68 CBCP per la conclusione del procedimento amministrativo in materia di esportazione di un bene culturale, e quali siano gli effetti pratici derivanti dal mancato rispetto di tale termine”.
Partiamo, come sempre, dal dato normativo.
Secondo quanto previsto dall’art. 68 CBCP (d.lgv. 42/04), il procedimento per il rilascio dell’attestato di libera circolazione dovrebbe avere la durata di quaranta giorni dal momento della presentazione del bene.
Il terzo comma dell’art. 68 CBCP, come modificato dal d.lgv. 62/08, prevede infatti che: “L'ufficio di esportazione, accertata la congruità del valore indicato, rilascia o nega con motivato giudizio, anche sulla base delle segnalazioni ricevute, l'attestato di libera circolazione, dandone comunicazione all'interessato entro quaranta giorni dalla presentazione della cosa”.
Ciò premesso, al fine di rispondere compiutamente al quesito sopra evidenziato, appare opportuno scomporlo nei seguenti micro-quesiti:
1) il termine di quaranta giorni deve ritenersi un termine ordinatorio o perentorio?
2) quali sono gli effetti pratici derivanti dall’eventuale mancato rispetto del predetto termine di “quaranta giorni dalla presentazione della cosa”?
3) considerato che, in taluni casi, il giorno di presentazione della cosa non corrisponde a quello di protocollazione della presentazione del bene (termine da cui, formalmente, decorrono i 40 giorni), vi sono strumenti a favore del privato per evitare tale sostanziale dilatamento del termine di legge?
Ebbene, in ordine al primo degli interrogativi appena posti è possibile osservare quanto segue.
Con specifico riferimento alla questione circa la natura del termine di quaranta giorni entro cui deve intervenire la comunicazione della P.A. sulla domanda per l’esportazione, la stessa sembrerebbe (e, si ribadisce, sembrerebbe!) essere stata risolta, nel 2004, dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 7043, secondo la quale il termine de quo dovrebbe essere considerato come un termine perentorio.
Ne deriverebbe pertanto, seguendo tale impostazione, che un eventuale provvedimento comunicato oltre i 40 giorni dalla presentazione del bene dovrebbe considerarsi non legittimo.
In particolare, secondo il massimo Giudice amministrativo, a conferma della perentorietà del termine in esame depone “non solo la formulazione testuale della previsione considerata a mente della quale “l’attestato di libera circolazione è rilasciato …. non oltre 40 giorni dalla presentazione del bene”, ma anche una considerazione di tipo teleologico, attenta alla “peculiare consistenza della posizione soggettiva esposta alla potestà”.
Nel dettaglio, motiva il Consiglio di Stato, “deve ritenersi che proprio il rilievo della posizione soggettiva di cui è titolare chi insta per il rilascio dell’attestato in questione abbia indotto il legislatore ad utilizzare la formulazione testuale sopra illustrata (“non oltre quaranta giorni”)”.
In sintesi, secondo Palazzo Spada, all’interesse pubblico al previo controllo da parte dello Stato in materia di esportazione, si contrappongono le facoltà del proprietario, anch’esse meritevoli di tutela, che non consentono l’esercizio – da parte della P.A. – del potere entro tempi indefiniti, dovendo tale potere pubblico essere esercitato entro i termini previsti dalla legge.
Come detto, tale sentenza sembrerebbe aver risolto la vexata questio, in quanto sul tema si registra – nel senso della natura ordinatoria del termine in esame – una sentenza, del 2008, del TAR LAZIO, la quale, all’interno di un obiter dictum, ha ritenuto come il termine in esame sia invece meramente “ordinatorio”.
Per l’effetto, aderendo a tale ultimo orientamento, l’adozione (o, meglio, la comunicazione) di un provvedimento in materia di esportazione oltre il quarantesimo giorno non inficerebbe in alcun modo la legittimità di tale atto amministrativo.
A nostro avviso, tuttavia, tale ultimo indirizzo è da ritenere non meritevole di pieno accoglimento, in quanto - ammettendo la natura ordinatoria del termine dei 40 giorni – si finirebbe, di fatto, per comprimere sine die il diritto di proprietà del privato.
Si pensi all’ipotesi dell’amministrazione che decida sulla domanda per il rilascio dell’attestato di libera circolazione a distanza di diversi mesi dalla presentazione della relativa denunzia, imponendo in pratica – nelle more – al privato di non poter esportare tale bene. E’ ammissibile che il privato subisca tale compressione del suo diritto di proprietà oltre il limite dei 40 giorni fissato dalla legge per la conclusione del procedimento amministrativo de quo?
E’ plausibile che il diritto di proprietà, garantito e tutelato dall’art. 42 della Costituzione, possa essere compresso senza alcun limite temporale?
Se il Legislatore avesse effettivamente voluto permettere all’Amministrazione dei beni culturali di decidere sulla denunzia di esportazione senza alcun vincolo temporale, per quale ragione – allora – ha previsto il termine di quaranta giorni di cui all’art. 68 CBCP?
Alla luce di tali interrogativi (retorici), appare quindi plausibile concludere nel senso che il termine in esame debba essere considerato come perentorio, con la conseguente illegittimità di un provvedimento comunicato oltre il quarantesimo giorno.
Passando adesso al secondo degli interrogativi di cui sopra, è bene soffermarsi su quali siano le conseguenze pratiche derivanti dal mancato rispetto del termine dei 40 giorni.
In altri termini, cosa accade - in concreto - se l’Amministrazione non notifica all’interessato il provvedimento conclusivo del procedimento di esportazione (rilascio/diniego dell’attestato) entro il termine di quaranta giorni dalla presentazione del bene?
La citata giurisprudenza di legittimità (Cons. Stato, sent. n. 7043 del 29.10.04) ha risposto a tale ultimo quesito in maniera chiara, stabilendo che “il superamento del termine NON consente all’amministrazione di determinarsi in senso negativo sull’originaria istanza, potendo al più la stessa agire in autotutela” (Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 7043/2004).
Pertanto, seguendo tale autorevole orientamento del Consiglio di Stato, l’Amministrazione – decorso inutilmente il termine dei 40 giorni – non potendo “determinarsi in senso negativo”, sembrerebbe obbligata a rilasciare l’attestato, fermo restando il potere (NON dovere) – a seguito del rilascio dell’attestato – di annullare “in via di autotutela” l’attestato precedentemente rilasciato “per scadenza dei termini di legge”.
E’ invece da escludere che il decorso del termine de quo possa dar luogo de plano a forme di “silenzio-assenso”, in quanto la materia dei “beni culturali” è espressamente esclusa da quelle in relazione alle quali opera l’istituto del “silenzio-assenso”.
Sul punto, infatti, il vigente testo dell’art. 20 l.n. 241/90 non lascia adito a dubbi, laddove espressamente prevede che “le disposizioni del presente articolo [ovvero, quelle in materia di silenzio assenso] non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale”.
Del resto, a favore dell’impossibilità di procedere comunque all’esportazione del bene all’inutile decorso del termine dei 40 giorni depone non solo l’argomento giuridico sopra esposto (il testo dell’art. 20 della l.n. 241/90) ma anche un argomento di carattere “pratico”.
Difatti, tenuto conto che il bene - anche dopo l’inutile spirare del citato termine dei 40 giorni - continua a trovarsi nella materiale disponibilità della P.A. (alla quale era stato consegnato all’atto della presentazione ex art. 68/III CBCP), appare evidente come (anche sul piano pratico) sia materialmente impossibile procedere all’esportazione al decorso del quarantesimo giorno.
Inoltre, si osserva come - in dottrina - non manchi chi (Ferrazzi) sostenga che, all’inutile decorso del termine in esame, consegua il “silenzio-inadempimento” dell’Amministrazione, in presenza del quale il privato potrà attivare tutti gli strumenti di tutela, anche risarcitoria, previsti dall’art. 21 bis della legge TAR (l.n. 1034/71).
In particolare, fra i profili risarcitori, è possibile ricomprendere quello connesso al danno generato dall’illegittimo protrarsi della privazione della disponibilità del bene.
Infine, quanto al terzo interrogativo, allo scopo di evitare ingiustificati dilatamenti del termine dei quaranta giorni, dovuti al fatto che – a volte - non vi è corrispondenza fra il giorno di presentazione dell’opera ed il giorno di protocollazione della “domanda” di esportazione, si ritiene opportuno procedere come segue.
Considerato che, anche alla procedura di esportazione di bene culturale, si applicano le norme in materia di procedimento amministrativo (l.n. 241/90), l’interessato potrà formulare un’istanza scritta all’Amministrazione nella quale richieda all’Amministrazione (ovvero, all’Ufficio Esportazione) - ai sensi degli articoli 2, 5, 7, 8 della l.n. 241/90 e dell’art. 135/III R.D. 363/1913 - di voler comunicare il nominativo del responsabile del procedimento, la data di avvio del procedimento, nonché tutti gli altri elementi indicati all’art. 8 l.n. 241/90.
Ed invero, così facendo:
- da un lato, si stimolerà l’Amministrazione (ritardataria) a protocollare la domanda quanto prima (difatti, ai sensi dell’art. 135 R.D. 363/1913, la protocollazione dovrebbe essere fatta “immediatamente”!);
- dall’altro lato, si potrà cristallizzare il dies a quo ai fini della verifica circa il corretto rispetto del termine dei 40 giorni contemplato dal citato art. 68 CBCP.
Ricapitolando, alla luce degli elementi sopra enucleati, appare quindi plausibile rispondere al quesito di cui in apertura sostenendo che - salvo quanto deciso da un diverso (ed isolato) obiter dictum del TAR Lazio (sent. n. 7756/08), secondo il quale il termine de quo sarebbe di tipo ordinatorio - il termine di quaranta giorni di cui all’art. 68/III CBCP possa essere qualificato come termine perentorio.
Per l’effetto, aderendo alla lettura costituzionalmente orientata data dal Consiglio di Stato, “il superamento del termine NON consente all’amministrazione di determinarsi in senso negativo sull’originaria istanza, potendo al più la stessa agire in autotutela” (Cons. Stato, sent. 7043/04).
16/06/2014
Avv. Prof. Francesco Emanuele Salamone
Professore a c. di Diritto Penale dei Beni Culturali
Università della Tuscia di Viterbo
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