Le affermazioni contenute nell’intervista che pubblichiamo riprendono alcune delle tesi sull’opera e sulla biografia di Caravaggio da lui precisate in varie occasioni e da ultimo nel grande volume a più mani curato assieme a Gianluca Forgione,
Caravaggio tra arte e scienza. Alcune di queste proposte sono assolutamente controcorrente - ma non per questo meno interessanti, essendo frutto di autentica competenza e di un’attenta osservazione delle evidenze documentarie - che hanno fatto e ancora faranno discutere. Questa intervista ci appare come l’ennesima dimostrazione di quanto Vincenzo Pacelli avrebbe avuto ancora da dire e di quanto dobbiamo alle sue ricerche.
“CARAVAGGIO TRA ARTE E SCIENZA”: UN BILANCIO
D. Iniziamo con un bilancio relativo ai riscontri ottenuti dal tuo ultimo libro “Caravaggio tra Arte e Scienza” (recensito il 26 aprile 2013 su News-Art: https://news-art.it/news/caravaggio-tra-arte--scienza-e-nodi-ancora-da-sciogliere.htm), che ha visto il contributo di studiosi di varie discipline non solo storico-artistiche e che, a quanto pare, conoscerà una seconda puntata.
R. In effetti si è trattato di una novità nel panorama degli studi caravaggeschi, proprio grazie alla disponibilità di studiosi di diverso indirizzo che hanno esposto le loro opinioni ed hanno accettato di confrontarsi autenticamente con quelle degli altri. Un evento interdisciplinare notevole ma soprattutto proficuo, perché a volte gli studiosi, invece di collaborare, più facilmente amano polemizzare tra loro. Tuttavia il volume - già ponderoso di per sé - non poteva contenere ulteriori contributi, per cui ne è in preparazione un secondo che analizzerà il rapporto della pittura di Caravaggio con ulteriori tematiche, solo apparentemente marginali, come il cibo, gli animali e la natura morta. Anche in questo caso, grazie al contributo di studiosi del campo medico-scientifico, si cercherà di mettere in evidenza - sulla base delle parole e delle espressioni ricavate da documenti, lettere, carte e atti processuali - l’autentico profilo umano del Merisi, quello più familiare, più semplice ma più reale, evitando quel repertorio di attributi scontati e ormai insopportabili invalsi persino nella letteratura specialistica (assassino, criminale, maledetto e simili), usati solo per fare colpo sui lettori.

D’altra parte, in un mondo in cui la violenza e l’ingiustizia erano all’ordine del giorno, il fatto che Caravaggio in un duello abbia ucciso un uomo appare per l’appunto un frutto dei tempi: nel duello sarebbe potuto soccombere lui e allora cosa avremmo detto? Insomma, far rientrare il personaggio nei canoni dell’omicida è certamente esagerato, anzi è proprio di una banalità sconcertante. Certo, ci dispiace che nel duello sia stato ucciso un uomo, ma evidentemente non può dispiacerci che non sia stato Caravaggio a soccombere!
D. Parlavi del tema della natura morta che affronterete nella nuova pubblicazione.
R. In effetti si tratta di un tema da mettere bene in chiaro, perché c’è chi, anche tra gli studiosi più seri, e mi riferisco in particolare a Ferdinando Bologna, concepisce questo tema in Caravaggio come una sorta di opposizione programmatica ai dettami conciliari che, com’è noto, sul versante delle rappresentazioni sacre vietavano la rappresentazione di elementi che distogliessero l’attenzione dal soggetto effigiato. Ma a mio avviso non è così. Caravaggio inserisce brani di natura morta per esigenze strettamente connesse al tema rappresentato: quando raffigurava un soggetto in posa ogni elemento che sceglieva di introdurre nell’immagine era indispensabile alla rappresentazione per come lui l’aveva concepita. Come avrebbe potuto non riprendere il muro scrostato nella
Madonna dei Pellegrini (fig. 3)? O le briglie che stringono il muso del cavallo, con la bava che fuoriesce dalla bocca, nella
Caduta di Saulo (fig. 4)? Sono tutti elementi visti nella realtà e quindi riproposti nel testo pittorico, e poco c’entra l’idea che volesse opporsi programmaticamente ai principi controriformati.

Non a caso quando ha dovuto rifare
ex novo un dipinto perché non era stato accettato nel modo in cui l’aveva realizzato (penso al primo
San Matteo della cappella Contarelli) l’ha rifatto, ma sempre secondo il suo stile e le sue caratteristiche peculiari. Pensiamo proprio al ciclo di San Matteo. in riferimento alla prima tela (fig. 5) si parla sempre di “vocazione” di Matteo: ma quale vocazione? Gesù sta indicando, non chiamando, Matteo, e se si insiste nel “richiamo” si continua a dare un’interpretazione del testo troppo ‘sacra’, troppo legata al tema della salvezza. Quella luce è la luce reale, cioè quella autentica, naturale, che penetrava in quel vano in quel preciso istante.
SIMBOLO E ALLEGORIA NELL’OPERA DI CARAVAGGIO
D. Quindi a tuo parere l’aspetto simbolico della luce in Caravaggio è stato sopravvalutato?
R. No, per me proprio non esiste! All’epoca di Caravaggio era un buon pittore chi sapeva dipingere bene, dal vero, le cose naturali; del resto è proprio questo che ha detto egli stesso.
D. Però non si può escludere che quelle ‘cose naturali’ possano poi avere un carico simbolico.

R. Io penso invece che il carico simbolico debba essere inteso in altro modo, come livello qualitativo, come lirismo, come elevazione rispetto al normale. Se Caravaggio avesse voluto simboleggiare qualcosa lo avrebbe saputo fare. Pensiamo a quella donna che sta sull’uscio di casa, con quei due poveri pellegrini sporchi, con gli abiti sdruciti: sono persone vere, che vivevano proprio così; e salvo qualche rara occasione - che gli venne imposta - lui riprende sempre la Madonna come una donna vera, così anche nella
Madonna dei Palafrenieri, o
della serpe (fig. 6). Qui il problema del supposto significato simbolico nasce, come si sa, da un discusso passo delle Scritture, laddove si dice che il serpente sarà in contrasto con la donna e col seme che da lei nascerà e per questo verrà schiacciato; Gerolamo traduce il passo attribuendo il gesto che schiaccia il serpe ad “
ipsa”, cioè alla Vergine, ma in effetti la traduzione corretta è “
ipso”, perché, come sappiamo, è al figlio che spetta il compito della redenzione. Ne dovrebbe derivare, tanto per fare un esempio, che la preghiera cristiana più recitata dovrebbe essere quella del Padre Nostro, mentre invece sicuramente è l’Ave Maria; e comunque in questa come in tutta l’opera caravaggesca è evidente che è Gesù ad essere protagonista.
D. Si tratta di temi sempre oggetto di discussione che bisognerebbe riprendere con maggiore precisione e discernimento.
R: Esatto, al pari di altri. Ad esempio, io sono convinto che Caravaggio non abbia dipinto opere senza una precisa committenza e tuttavia non riesco a spiegarmi come abbia potuto dedicare tanti lavori alla rappresentazione di San Giovanni. E’ davvero incredibile: nessun altro autore ne ha dipinti tanti; ecco un altro tema da approfondire. In questo senso, mi pare di dover suggerire una correzione iconografica riguardo la cosiddetta
Decollazione del Battista di Malta (fig. 7); io sostengo che non si può parlare di decollazione: intanto gli strumenti del martirio, cioè la spada e il coltello, sono armi a punta, atte a colpire e non a tagliare una testa; poi si notano due fiotti di sangue che fuoriescono, due fiotti distinti l’uno dall’altro che i medici coinvolti nei nostri approfondimenti hanno potuto mettere in relazione con le pulsazioni cardiache. Se ne ricava che il boia ha tagliato la carotide e che dunque si deve parlare di sgozzamento, non di decollazione; non a caso la ragazza non tiene in mano un piatto, dove sarebbe stato più ovvio mettere il capo mozzato per mostrarlo, ma una patera concava che è proprio adatta a raccogliere il sangue del Battista, che dovrebbe essere ugualmente salvifico come quello di Cristo. Insomma, ancora una volta Caravaggio mette in scena la realtà naturale, il fatto così come doveva essersi verificato, con tutti i particolari realizzati con precisione.
D. Nel tuo prossimo libro saranno dunque nuovamente coinvolti studiosi di diversi campi?

R. Si, soprattutto studiosi di medicina. Sul versante più propriamente storico-artistico mi pare di particolare importanza la messa a fuoco che sarà dedicata al tema della natura morta. Brani di natura morta, com’è noto, appaiono spessissimo nell’opera di Caravaggio, e nel corso del tempo mi è capitato di accorgermi di elementi che non si notano a prima vista. Ad esempio, a Berlino feci caso a certi dettagli dell’
Amore Vincitore Giustiniani (fig. 8) che fino ad allora mi erano sfuggiti: l’intreccio dei crini dell’archetto che passano sotto la pancia del violino con le ombre che si proiettano sullo spartito, la corde della tiorba che si attorcigliano nel manico del violino per dare dei punti di appoggio, lo stesso con il compasso e la spada: perché scervellarsi per definire in modo così dettagliato tutta la costruzione? Ecco che torniamo al realismo caravaggesco, e alle sue stesse parole, cioè che aveva la stessa importanza e dignità dipingere una figura come un qualsiasi altro elemento naturale: tutto doveva essere raffigurato con lo stesso impegno. Dopo di che è vero che di molte cose ci accorgiamo magari dopo secoli e secoli che sono state dipinte, ma anche questo spesso ha una spiegazione; dell’
Amor Vincitore si sa che Giustiniani lo teneva nascosto e lo mostrava solo a pochi amici, ed è normale che questi non si mettessero ad osservare nel dettaglio gli incroci delle corde e le altre particolarità, cosi come è logico che nel corso del tempo si sia dato per scontato quanto si era visto e raccontato tradizionalmente senza accorgersi del resto. Come mi è capitato con la goccia di latte nel vecchio Cimone nelle
Sette opere di Misericordia (fig. 9): non ho fatto chissà quale scoperta, ho semplicemente osservato questi capolavori molto da vicino.
GLI ULTIMI GIORNI DI CARAVAGGIO E L’(INCREDIBILE) APPRODO A PORTO ERCOLE
D. Un’altra grande questione su cui si è discusso e ancora si discuterà chissà fino a quando è quella degli ultimi giorni e del mistero della morte di Caravaggio.
R. Il problema nasce perché si vogliono ripetere le cose già dette senza aprire gli occhi alla realtà; e siccome ne hanno parlato Mancini, Bellori ecc. - peraltro scrivendo molti anni di distanza dalla morte del Merisi - si dà tutto per scontato,
in primis che Carvaggio sia morto a Porto Ercole.
D. Ma esattamente come e cosa ci era finito a fare Caravaggio a Porto Ercole?
R. Una ragione per spiegare la sua presenza c’è: Porto Ercole era presidio spagnolo, lontano da Roma, ed è proprio questo che poteva interessare qualcuno, cioè allontanare quanto possibile da Roma l’evento della morte.
D. Perché?
R. Perché se fosse morto a Roma sarebbe stata una esecuzione capitale, come in effetti doveva essere e come Caravaggio sapeva, ma non perché c’era il fantomatico bando capitale a lui diretto - che non c’è mai stato, come mai c’è stata la grazia - ma perché aveva ucciso un uomo in duello, i duelli erano proibiti e questo automaticamente, per la legge di allora, comportava la condanna.
La prima volta che Porto Ercole viene nominata in riferimento a Caravaggio è nelle lettere che il Nunzio apostolico di Napoli manda a Scipione Borghese, in una delle quali è scritto appunto che non era vero quanto comunicato al cardinale, cioè che Caravaggio era morto a Procida, perché era invece morto a Porto Ercole. Quindi è ovvio che Scipione aveva ricevuto precedentemente un’informazione che diceva Caravaggio deceduto a Procida, e siccome Procida era regno di Napoli, è normale che Scipione chiedesse notizie al Nunzio partenopeo. Ma la morte presuppone un cadavere, che non c’è; un cadavere sarebbe obbligatoriamente stato visitato da un medico legale, per le leggi in vigore anche allora, per capire di cosa fosse morto, e se fosse morto di malaria era necessaria la sepoltura, obbligo cui non ci si poteva sottrarre: Senza contare che Caravaggio aveva un fratello ed una sorella, e la legge ancora obbligava a restituire il corpo ai familiari, altrimenti avrebbe dovuto provvedere l’ente ecclesiastico di competenza. Ma di tutto ciò non v’è traccia alcuna.

Non dimentichiamoci, inoltre, che non si trattava di un morto qualsiasi ma di Caravaggio, artista famosissimo, considerato il più grande pittore vivente, con committenti potentissimi. Ma quelle lettere dicono anche altro. La feluca dove si trovava Caravaggio (“Per portare a vs Eccellenza”, dice il testo della lettera del Nunzio a Scipione, “tre dipinti, due san Giovanni e una Maddalena”) invece di arrivare a Civitavecchia si sarebbe fermata a Palo: cosa piuttosto ridicola. Chissà perché invece di Civitavecchia a un certo punto la feluca dirige su Palo. Ma accettiamo per vera questa stranezza: perché poi fu “fatto prigioniero” dal capitano delle guardie? Mentre si trovava ancora a Napoli, ospite com’è noto della marchesa Costanza Colonna, un certo capitano, secondo quanto ha documentato mons. Sandro Corradini, si offre di consegnare a Scipione Borghese, segretario di stato vaticano, “un famoso assassino”. Come si spiega tutto questo? Perché viene arrestato? A meno che non fosse atteso, e il viaggio non fosse stato organizzato proprio a bella posta.
D. Una ‘soffiata’, insomma?
R. Ma la ‘soffiata’ chi l’avrebbe potuta fare? Caravaggio era stato ospite della marchesa Colonna, chi dunque poteva tradirlo? La Marchesa? I Cavalieri di Malta con cui la donna era collegata attraverso il figlio Fabrizio? Ma poi perché farlo sapere a Scipione Borghese? La verità è che si doveva allontanare il sospetto che ci fosse stato un vero e proprio complotto. Si racconta che il Merisi a Palo si sia liberato con l’esborso di una grossa somma di denaro: ma è possibile che ne avesse? Io credo proprio di no. Ma accettiamo anche questa idea che avesse con sé una borsa piena di soldi; chi poteva aver saputo che aveva corrotto un capitano delle guardie? Se la cosa fosse mai avvenuta lo sapevano ovviamente solo lui e lo stesso ufficiale, ma Caravaggio di lì a poco muore, quindi chi riferì della corruzione? Non certo il capitano, che ne avrebbe pagato le conseguenze trattandosi di un delitto tanto grave quanto il duello.
D. Insomma, ammesso che la corruzione potesse pure esserci stata il beneficiario non l’avrebbe mai confessato.

R. Assolutamente. Dunque, Caravaggio sarebbe uscito di prigione e non vedendo più la barca che trasportava le sue tele, come impazzito e “a piedi” , come viene raccontato, arrivò a Porto Ercole dove morì. Ma la distanza tra Civitavecchia e Porto Ercole è di circa 150 chilometri! E bisogna attraversare tre fiumi e per attraversare tre fiumi bisogna sapere dove attraccano le barche dei traghettatori; non parliamo poi delle zone paludose che ai tempi non erano certo state bonificate e che in ogni caso anche oggi presentano chilometri e chilometri di canneti dov’è impossibile camminare specie a piedi nudi, ma anche con le scarpe, perché l’acqua impedisce di procedere. Dopo di che arrivava la Maremma toscana, e allora non c’erano mica punti di ristoro con acqua e bevande, non c’era proprio nulla.
Insomma tutta la storia non regge, ma ha il pregio di spiegarci perché Caravaggio viene fatto morire a Porto Ercole, e siccome l’hanno assassinato non possono far ritrovare neppure il cadavere perché, come dicevo, questo sarebbe stato ispezionato da un medico legale. Per avvalorare tutto l’incredibile racconto, ad un certo punto è saltato fuori dagli archivi di Porto Ercole un ‘biglietto’ in cui viene dichiarata la morte ‘naturale’ del Merisi il 19 luglio 1609. Perché 1609 e non 1610? Perché essendo Porto Ercole in Toscana, provincia di Grosseto dov’era in vigore il calendario ‘
ab incarnatione’ chi ha ‘scoperto’ quel foglio ha pensato bene di retrodatare di un anno l’evento; ma il gioco non è riuscito, perché in realtà allora Porto Ercole, essendo possesso spagnolo, seguiva il normale calendario gregoriano e la truffa si è scoperta subito. Sappiamo pure come sono andate le cose, a Porto Ercole evidentemente cercano di giustificare la storiella a tutti i costi.

Ma c’è un documento che invece merita davvero attenzione mentre pochi lo considerano: si tratta di una nota con la quale il bibliotecario dei padri teatini Pietro Bonfito affermava, cito a memoria, “Abbiamo perduto il dipinto di Caravaggio e con il dipinto il denaro dato in anticipo, perché il pittore è stato ammazzato”. Dunque i teatini, ordine assai potente, avevano commissionato un dipinto a Caravaggio e poi a causa del fatto che questi era stato ammazzato avevano perso dipinto e denari.
E’ credibile questo documento? Che interesse aveva il bibliotecario ad annotare quelle cose? Perché avrebbe dovuto inventarselo? Per vantare tra i loro artisti anche il più grande? Ma ai teatini non mancavano proprio i grandi artisti nelle loro committenze; e poi va considerato che c’era un legame tra Merisi e loro, e risaliva alla committenza della pala delle Sette opere di Misericordia, che era stata promossa grazie al marchese Cesare Sersale, divenuto chierico regolare teatino e imparentato con i committenti Carafa Colonna
D. Comunque, dal momento che la corsa verso Porto Ercole appare così poco verosimile, c’è da chiedersi perché si parla proprio di quella località come ultimo approdo dell’artista.
R. Perché andava bene credere che il pittore si fosse allontanato quanto più possibile da Roma; gli eventi finali dovevano svolgersi lontano dalla Chiesa, dai Cavalieri di Malta, dalla marchesa Colonna. Non dimentichiamolo: figlia di Marcantonio, del difensore della cristianità; su lei e sugli altri non doveva addensarsi il benché minimo sospetto…
D. A questo punto necessariamente si apre uno scenario nuovo, alternativo a Porto Ercole, perché tutta la ricostruzione sembra non tornare più.
R. Basta ragionare: siccome Caravaggio non arriva neppure come cadavere a Porto Ercole, visto che il cadavere non esiste, né arriva in nessun’altra parte del mondo, che fine ha fatto? Come si fa a far scomparire un cadavere? C’è un modo semplice: il mare. Oppure nelle segrete del palazzo di Palo, nel palazzo Odescalchi di Palo.
D. E la tua ricostruzione quale è?
R. Io credo che viene ucciso a Palo e poi gettato in mare; credo che vivesse nel timore di essere ucciso: i cronisti del tempo parlando dell’aggressione che subì a Napoli alla taverna del Cerriglio, scrivevano che qualcuno diceva che fosse morto; certamente alla fine di maggio 1610 era ancora vivo, perché dovette intervenire sulla tela del Martirio di sant’Orsola, che era stata esposta malamente al sole e si era danneggiata. Inoltre - ma questa è una ricostruzione personale - se si osserva bene l’autoritratto che lui si fa nel
David e Golia della Galleria Borghese (fig. 10), si nota che rispetto agli altri autoritratti - quello della
Sant’Orsola (fig. 11) o quello della
Cattura di Cristo dell’antiquario romano Mario Bigetti (per me è questo l’originale, non quello di Dublino) - qui nel
David e Golia appare differente: il pittore appare più invecchiato e malandato, si vede bene che ha una palpebra aperta e una semichiusa. I medici che hanno lavorato con me affermano che ciò fosse dovuto agli effetti di una ferita occipitale che aveva offeso il nervo ottico; allora io penso che questo quadro con l’autoritratto risalga appena dopo all’aggressione che subì al Cerriglio, dove rimase “malamente ferito” come riportano le fonti.
D. Dopo di che, secondo la tua idea, gli fanno credere che lo portano a Roma e che con i tre quadri per Scipione Borghese se la sarebbe cavata: e così?
R. Proprio così.
D. E chi sarebbe colui che ha montato tutta la storia?
R. La marchesa Costanza Colonna.
D. E a qual fine?
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R. Perché Costanza Colonna, vedova del marchese Sforza di Caravaggio, aveva cinque figli e allora se non avevi un regno era difficile sistemarli; uno di questi era Fabrizio che, come Caravaggio, si era macchiato di un delitto; la marchesa lo fece processare a Malta dove, dopo cinque anni di carcere, divenne però capitano delle galee, cioè della flotta maltese; ma ne aveva altri quattro e a quest’epoca lei non poteva che contare sull’aiuto della Chiesa o di Malta per sistemarli. Ripercorriamo un attimo la vicenda; Caravaggio era stato imprigionato a Malta per aver offeso un cavaliere, ma per una cosa del genere non lo potevano trattenere in prigione: è il pittore più famoso e più ricercato al mondo, non è possibile tenerlo al fresco e quindi lo fanno scappare; ma io non credo affatto alla storia dell’offesa, in realtà deve aver commesso un fatto più grave che evidentemente non si deve trascrivere nelle carte ma che si può immaginare. A Malta la vita non era certo quella di Roma o di Napoli; lì non c’erano bordelli, prostitute ecc.; i Cavalieri erano tenuti al voto di castità, ma sappiamo che avevano a disposizione donne e ragazzi; ad ogni modo Merisi finisce carcerato; ma dalla prigione di Malta è impossibile evadere, quindi lo fanno scappare: però l’offesa rimane e deve essere lavata; se infatti entriamo un po’ nello spirito del tempo capiamo che tra i Cavalieri di Malta lo spirito di corpo è elevatissimo e le offese non si dimenticano; ecco dunque che Caravaggio viene fatto evadere e poi arriva in Sicilia imbarcato su una nave di Fabrizio Sforza Colonna; le mosse successive sono secondo me quelle che abbiamo visto.
D. Insomma, tutta la storia degli ultimi giorni di vita di Caravaggio dovrebbe essere rivista.
R. Andrebbe accettata l’idea di vedere la realtà in faccia, questo è il punto. Ma per finire, una cosa vorrei dire sul periodo siciliano, perché qui anche il suo stile cambia, come sappiamo, pur rimanendo Caravaggio sempre dell’idea della pari dignità di tutte le cose; pensiamo a come dipinge gli spazi vuoti delle catacombe nella
Santa Lucia di Siracusa (fig. 12), o l’interno della stalla nella
Natività di Messina (fig. 13), con quella luce sui fili di paglia e sulla borsa dei ferri da falegname di Giuseppe; è proprio la sua struttura mentale che non gli fa trascurare nulla; ma a guardare bene è la struttura mentale di chi vive solo, di chi non ha famiglia e quindi frequenta le osterie per mangiare, dorme nella bottega di pittore e si abitua a tante cose piccole e grandi per vivere. Insomma, un uomo capace di rivoluzionare la storia dell’arte occidentale ma profondamente solo, tanto in vita quanto in morte.
Luca Bortolotti e Pietro Di Loreto, 30/03/2014
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Nato a San Salvatore Telesino nel 1939,
Vincenzo Pacelli ha insegnato Storia dell’Arte Moderna all’Università Orientale e alla Federico II di Napoli. Autore di numerosi saggi e monografie sull’arte meridionale, sull’iconografia e la storia sociale dell’arte, ha dedicato gran parte delle sue ricerche allo studio della vita e dell’opera di Michelangelo da Caravaggio, approfondendone in special modo la produzione matura e il soggiorno meridionale, tra Napoli, Malta e la Sicilia.
In questo settore privilegiato dei suoi studi rammentiamo in particolare il saggio monografico sul
Martirio di sant’Orsola della collezione Intesa San Paolo (1980),
Le Sette Opere di Misericordia (1984), le tre edizioni de
L’ultimo Caravaggio (1994, 1995, 2002) e ovviamente l'ancor fresca pubblicazione
Caravaggio tra arte e scienza (2012), summa delle ricerche da lui dedicate al grande pittore lombardo. Fra i suoi impegni più recenti sono da ricordare anche i lavori monografici su
Pacecco de Rosa (2008) e
Giovan Battista Beinaschi (in collaborazione con Francesco Petrucci, 2011).