maurizio%20mariniLa rivista "Valori Tattili" pubblica un fascicolo monografico interamente dedicato all'estremo, ampio scritto postumo caravaggesco di Maurizio Marini, Le opere e i giorni: 1610-2010 'Cronache caravaggesche'. Pietro Di Loreto, grande amico dell'illustre studioso, ne commenta gli elementi più importanti, tracciando al contempo una preziosa biografia intellettuale di Marini.

E’ passato poco più di un anno dall’improvvisa e inaspettata scomparsa di Maurizio Marini, la notte tra il 5 e il 6 agosto del 2011. Gli amici lo hanno ricordato in un incontro organizzato presso il salone espositivo della casa d’aste Minerva Auctions (ex Bloomsbury) nel cuore di Roma; gli studiosi, dedicando alla sua memoria l'ormai tradizionale ‘Giornata di Studi’ - quest’anno presieduta da Pierluigi Carofano ed Emilio Negro - nonché l’interessante mostra di dipinti antichi (per lo più inediti), entrambe ospitate come ogni anno agli inizi di settembre nelle sale del Castello Del Monte a Santa Maria in Tiberina, ad opera della Accademia di Studi Caravaggeschi, che proprio Marini dirigeva; infine la rivista "Valori Tattili", mandando in stampa un ottimo (eccetto qualche refuso di troppo) numero monografico intitolato Le opere e i giorni :1610-2010 ‘Cronache Caravaggesche’ (fig.1) che raccoglie proprio l'ultimo scritto dello studioso romano, una sorta di anticipazione - come chiarisce il curatore della rivista, Pierluigi Carofano - di un volume cui Marini pensava e su cui stava lavorando, in verità, come una sorta di aggiornamento, doveroso ancorché polemico, della monumentale monografia Caravaggio Pictor Praestantissimus, pubblicata per i tipi dell’editore Newton Compton appena nel 2005, ma evidentemente già da aggiornare, specie in ragione di quanto - soprattutto di parziale ed inesatto - era venuto alla luce nelle esposizioni e pubblicazioni uscite come funghi in occasione della ricorrenza del quattrocentenario della scomparsa di Michelangelo Merisi.

Era stato un vero cruccio per Marini assistere all’emergere di iniziative per lo più inutili, discutibili ed improvvisate, in quello che definiva “infausto IV Centenario”, allorquando davvero sembrò che si consolidasse la ‘moda’ del Caravaggio e che perfino certi direttori di museo si prestassero al gioco del consumismo, seguendo quello che lui chiamava il “virus dell’attualizzazione”. “Un morbo - diceva, riferendosi alla discussa mostra Caravaggio-Bacon tenutasi alla Galleria Borghese - che ha generato un confronto parallelo tra l’austera metrica del classicismo cattolico del Caravaggio e la sconvolta figurazione protestante che intride la visione del moderno anglosassone Francis Bacon”.

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Molte critiche si possono rivolgere alle tesi di Marini, ma non che si sia qualche volta prestato al richiamo delle mode. Riguardo a questo, anzi, va detto che molti dei suoi strali polemici non hanno risparmiato bersagli anche tra i più importanti, specie in relazione ad iniziative curate o partecipate troppo spesso da studiosi privi di competenze specifiche, con risultati che non solo non portavano alcuna vera acquisizione nella conoscenza di quanto ancora è avvolto nelle nebbie circa la vita e l’opera di Caravaggio, ma al contrario troppo spesso rimettevano in forse perfino le certezze acquisite. Traspariva evidente nei suoi scritti e nelle sue parole la delusione per l’occasione mancata rappresentata dalla grande mostra del ‘Quattrocentenario’ tenutasi alle Scuderie del Quirinale a Roma, una delusione non certo attenuata, anzi in qualche misura ampliata, dall’enorme successo di pubblico registratosi nella circostanza.
Ci sembra davvero di riviverle ancora oggi le molte accese discussioni nel suo studio all’insegna della polemica, con i suoi lapidari giudizi riguardo quello che doveva essere il fiore all’occhiello del IV Centenario, la Mostra-Evento del 2010, stroncata come  “sostanziale regresso per gli studi e deviante sfoggio di certezze raccolte nelle schede, sommarie e scientificamente inaffidabili, in quanto in gran parte affidate a ‘caravaggisti’ occasionali … (con) molte situazioni non prive di imbarazzante inopportunità didattico-espositiva ”. 
E non era stato evidentemente per un caso che proprio lui, certamente tra i più conosciuti e competenti ‘caravaggisti’, fosse stato addirittura tenuto fuori da quell’evento, in forza di chissà quale ‘veto’ arrivato da qualcuno che evidentemente ne temeva, per averlo sperimentato, il rigore scientifico e la coerenza metodologica, che di sicuro lo avrebbe portato a modificarne l’impostazione ‘restrizionista’, che in effetti comportò la rinuncia a esporre capolavori assolutamente tipici della produzione caravaggesca.
D’altra parte, il contraltare al ‘restrizionismo’ dei curatori romani (la Sovrintendente  Rossella Vodret e Francesco Buranelli, la prima appena nominata in sostituzione di Claudio Strinati, ideatore della mostra ma che poi però si era defilato) si era avuto pressoché in contemporanea con la mostra fiorentina Caravaggio e caravaggeschi a Firenze (fig.2) che, al contrario, aveva avuto una direzione ‘espansionistica’, anzi di autentica inflazione attribuzionistica complessiva, “dove”, per usare le parole di Marini, “… l’attribuzione purchè sia ha assunto l’aspetto di un tarlo che ha scavato gallerie invisibili ma i cui danni hanno raggiunto la superficie degli studi percettivi storico artistici”.
 
fig_2La prova provata di questa impostazione, non certo condivisa da lui che pure non accettava affatto il ‘malinteso purismo’ dei ‘restrizionisti’, era in effetti la presenza in mostra, a Palazzo Pitti, di un discusso dipinto presentato come autografo caravaggesco in modo quasi accorato nella scheda di Mina Gregori, il controverso Cavadenti (fig.3), una autentica truffa - era stata la sua reazione – “perpetrata ai danni granducali in anni in cui la richiesta delle ormai rarefattesi opere dell’artista sollecitava la proliferazione di attribuzioni elargite a puro scopo truffaldino”.
Vero è che di un quadro di questo soggetto dipinto per la famiglia medicea fa menzione un documento seicentesco, e su questo fa forza la Gregori - anch’essa studiosa di primaria importanza dell’opera di Caravaggio - per la sua attribuzione al Merisi. Ma proprio qui tocchiamo un punto che a Maurizio Marini stava molto a cuore. Come capire l’autenticità di questi capolavori? Come individuarne in modo quanto più esaustivo possibile i caratteri che li rendono di sicura autografia? Bastano a questo scopo documentazioni che risalgono a secoli e secoli addietro? Insomma: quali dipinti e perché dovrebbero essere ritenuti autentici? E poi ancora: quali tra loro possono essere considerati repliche? Quali invece copie? 
Il lettore che vorrà scorrere le pagine che "Valori Tattili" ha dedicato all’ultimo scritto di Marini troverà molti argomenti di chiarimento a questo proposito, altri di discussione, ma sicuramente rimarrà convinto dalla metodologia che il grande studioso metteva in opera per parte sua. I suoi contributi - riconosciuti fondamentali dai suoi stessi detrattori - hanno sicuramente contribuito a fare piazza pulita di alcuni tra i più vieti luoghi comuni inerenti la figura di Caravaggio, considerato nel corso del tempo da troppi critici malaccorti come il classico “pittore maledetto”, il personaggio “maudit”, allo stesso tempo “omosessuale” e “puttaniere”, “ateo e blasfemo, anarchico, simpatizzante luterano”, o all’opposto “una specie di sagrestano del tardo Rinascimento”, perfino un “teologo spretato”  e così via.

 
fig_3Gli approfondimenti di Marini hanno invece restituito la figura di “un artista la cui rivoluzione etico-pittorica impone una diversa considerazione per concetti come ‘natura’, ‘forma’, ‘luce’,‘ombra’, nonché ‘Fede’ e finanche ‘classicità’ … Non sono più accettabili letture iconografiche letterarie, dannunziane o descrittive  … Per Caravaggio e la sua estetica ci si dovrà comunque muovere in base alla falsariga della storia e, soprattutto, della sua pittura ”.
In un’epoca in cui in Italia ancora si avvertivano gli echi delle polemiche tra gli esponenti delle varie ‘scuole’ in cui si divideva la critica d’arte (oltre che le istituzioni accademiche), Marini impose letteralmente il suo metodo di lavoro nel definire l’autografia dei quadri. “L’attribuzionistica – sosteneva - non è una scienza esatta ma può avvicinarglisi qualora sia suffragata da concause sinergiche come i dati tecnici”: vale a dire, l’occhio del conoscitore, poi le componenti tecnico-materiche tipicamente riscontrabili in un artista del passato, quindi la struttura preparatoria di un dipinto, lo studio delle pennellate del pittore che determinano il ‘cretto’ nella superficie”, vero e proprio “patrimonio genetico del quadro, unico e irripetibile per ogni autore”, che ci dà “le impronte digitali” dell’opera stessa. Insieme a tutto ciò, ovviamente, la documentazione, la bibliografia antica, in una parola “la ricerca archivistica”. Citava ultimamente a questo proposito come esemplari e degni di nota i lavori di Monsignor Sandro Corradini, ma anche di Giacomo Berra, di Stefania Macioce, di Mario Marubbi, di Loredana Lorizzo, e riteneva, fra tutte le scoperte fatte recentemente sull’argomento, come la “più significativa” quella di Vittorio Pirami, autore del ritrovamento dell’atto di battesimo di Michelangelo Merisi, che metteva fine ad una querelle durata anni.
 
E tuttavia egli insisteva di continuo sul fatto che la vera conoscenza nasce dall’esperienza dello studioso che consente di riconoscere la forza di un autografo dall’eventuale copia, anche se questa fosse arrivata fino a noi in sostituzione dell’originale: un’impostazione non del tutto consona alla prassi in vigore nelle sedi accademiche; e non a caso anche qui trovava sfogo la vis polemica di Marini quando affermava che “la percezione visiva associata alla selezione mnemonica delle immagini non è apprezzata nelle sedi universitarie, forse perché gli stessi docenti non sono dotati di tale attitudine e quindi non sono in grado di comunicarla ai discenti…”.
Naturalmente, la sua capacità di conoscere e studiare qualsiasi aspetto dell’opera caravaggesca lo aveva portato ad analizzare anche le più recenti tesi circa l’influenza delle scoperte scientifiche sul lavoro del genio lombardo. Si tratta, com’è noto, di un tema complesso, peraltro già esplorato a cominciare da Roberto Longhi, cui non era sfuggita la concomitanza tra le scoperte del geniale scienziato napoletano Giovan Battista Della Porta in materia di ottica e la nuova pittura del Merisi. La ricerca storica circa quella disciplina ha evidenziato che se non fu lo scienziato di Vico Equense ad inventare la famosa ‘camera obscura’ fu certo lui a tirarla fuori, per così dire, dal chiuso del laboratorio, inaugurando un percorso che, passando attraverso l’uso che ne avrebbero fatto nel corso del Settecento i vedutisti veneziani, sarebbe arrivato - a metà Ottocento - fino alle scoperte di Louis Daguerre.
Della Porta aveva in ogni caso sperimentato con successo come fosse possibile raddrizzare, tramite una lente biconvessa, le immagini luminose che passando in un foro di una ‘camera obscura’ si riflettevano capovolte, ed inoltre come proiettando l’immagine su un foglio bianco se ne sarebbero potuti segnare i contorni; ne conseguiva la possibilità di dar corpo ai colori che vi si riflettevano ed arrivare così ad un esito pittorico. Addirittura, in un passo del suo volume De Rifractione, pubblicato nel 1593, rimarcando come la struttura della ‘camera obscura’ fosse analoga a quella dell’occhio stesso e al funzionamento della vista, aveva finito col sottolineare gli effetti della luce negli ambienti in ombra: proprio quello su cui analogamente avrebbe concentrato la sua attenzione Caravaggio, secondo quanto riportano gli storiografi del tempo.
E’ noto che da tempo alcuni studiosi, come Roberta Lapucci e Clovis Withfield, hanno avanzato tesi non certo cervellotiche, ancorché ricusate in larga misura da gran parte degli esperti, sul metodo di Caravaggio, su come egli lavorasse ‘praticamente’, in funzione dell’uso della camera oscura, dello specchio parabolico, di sostanze fluorescenti impastate nella mestica. “Teorie - notava Marini - al cui riscontro non sussistono prove tecniche pittoriche o storiche”; teorie a suo parere nate sulla base di forzature o fraintendimenti dei testi dei biografi caravaggeschi. Come nel caso di un noto passo del biografo Giulio Mancini che ha lasciato scritto come fosse tipico del Caravaggio “lumeggiar con lume unito che venghi dall’alto senza riflessi, come sarebbe in una stanza da una finestra con le pareti colorite di negro”; frase che va intesa semplicemente a mo’ di esemplificazione - secondo Marini -, da leggere cioè ‘come sarebbe se ci si trovasse in una stanza con le pareti nere’, che non voleva affatto dire che Caravaggio avesse intonacato di bitume le pareti del suo studio, essendo “del tutto improbabile l’artificio delle pareti nere”; così come è “impossibile interpretare questi due oggetti [vale a dire ‘uno specchio grande’ e uno scudo a specchio, citati nell’inventario dei beni del pittore] al di fuori dell’uso quotidiano esteso a quello dell’illuminazione scenografica dei modelli”.
 
Abbiamo citato un solo caso delle numerose messe a punto circa la corretta esegesi delle opere di Caravaggio, che del resto attraversano tutti gli ultimi scritti e le ultime sue iniziative, con cui lo studioso, come amava dire, “rimetteva le cose al loro posto”, e con cui è difficile non concordare; così come con le sue precisazioni, con i suoi interventi spesso sarcastici allorquando controbatteva tesi palesemente inattendibili: come nel caso dell’inverosimile ritrovamento delle ossa di Caravaggio, immediatamente appellate come “buone neppure per farci il brodo” .
D’altra parte, nell’individuazione di ciò in cui consiste l’essenza dell’arte di Caravaggio Maurizio Marini non è stato secondo a nessuno: egli ne ha scandagliato la vita, gli interessi, le scelte, ricostruendo il contesto sociale, politico, culturale in cui il genio lombardo mosse i suoi passi; ha riportato alla luce alcuni capolavori dimenticati o dispersi, ha fatto chiarezza sulle opzioni iconografiche e iconologiche, fornendo strumenti di analisi comparativa fondamentali.
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Pure fondamentale è stato il suo contributo alla conoscenza dell’opera dell’altro grande artista figlio della cittadina lombarda, Polidoro Caldara da Caravaggio (fig. 4). Ma l’interesse di Marini, il suo amore mai sopito per la storia dell’arte e per la ricerca, ha generato - da autentico eccezionale conoscitore dell’arte seicentesca - anche importanti lavori monografici sui pittori napoletani del Seicento, sulla natura morta (fig. 5), su El Greco, su Poussin, su Velasquez e da ultimo su Guercino, con un importante ancorché controverso ritrovamento di un dipinto da lui attribuito all’artista emiliano ma da alcuni contestato (fig.6), a riprova di come in ogni caso le sue iniziative richiamassero sempre - nel bene e nel male - l’attenzione degli addetti ai lavori e dell’opinione pubblica.
Per questo la sua scomparsa ha lasciato un vuoto incolmabile.
                                                                                                                  Pietro Di Loreto


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