Goffredo Parise, ovvero l’arte senza critica                                                                            

“La mia prima esperienza artistica è stata l’ambizione per la pittura. Per un paio d’anni ho dipinto davvero un po’, alla maniera fantastica di Chagall. Poi ho visto le tele autentiche di Chagall alla Biennale del ’48 e ho buttato i pennelli per la penna”.                                                          

Io mi sono sempre occupato di pittura. Da ragazzo volevo fare il pittore,
ma poi, molto rapidamente, ho lasciato i pennelli per la penna”
.                                                                                                                                 “Io scrivo per immagini e non per concetti”
                                                                                                                                                G. Parise

Così in due diverse interviste nel 1986 (in: “Eidos”, n. 1, 1987, e “Flash Art”, n. 135, 1986) dichiarava Parise a proposito della sua passione per la pittura e degli inizi della sua scrittura. Eppure, come sappiamo, la scrittura di Parise, per sua stessa ammissione, nasce sempre da una forte impressione visiva, da una prepotente forza dello sguardo che penetra persone e cose per estrarre da esse quei sentimenti che suscitano poi il suo personalissimo linguaggio. Difatti, sempre nel 1948, si consoliderà in lui l’influenza delle arti figurative nella sua vocazione di scrittore: “Un altro incontro importante per la mia scrittura è stata la visita alla prima Biennale del dopoguerra: Cézanne, Modigliani, Gauguin, tutti quelli che hanno rotto col passato, che hanno cambiato le carte in tavola, che hanno inventato un nuovo modo di guardare il mondo”. Ecco, questo è ciò che interessa Parise: il “nuovo modo di guardare il mondo”, ed è quello che lui stesso farà  nella suo opera di scrittore. “Il suo sguardo” - ha scritto Silvio Perrella, in La scrittura nomade di Goffredo Parise (2003) - è ”spietato e chirurgico di chi vuol conoscere il mondo servendosi di immagini in cui la vita e la morte sono impastate della stessa materia”. Infatti, sin dal primo romanzo, Il ragazzo morto e le comete (1951), Parise si è ispirato ad un famoso film, Il terzo uomo, di Carol Reed e Orson Welles, che si ambienta nella vita notturna tra le macerie di Vienna dopo la Seconda Guerra Mondiale: “in quella Vienna notturna, quel contrabbando oscuro - egli ha detto -  hanno messo in moto in me una serie di sensazioni che si sono tradotte nelle pagine visionare del romanzo”.
Ma il definitivo interesse per la pittura e per gli artisti Parise lo troverà dopo il trasferimento a Roma, come lo scrittore ricorda: “… quando negli anni '60 in una Galleria di Piazza del Popolo che si chiamava “La Tartaruga” un, chiamiamolo così, bizzarro regista di arte figurativa, Plinio De Martiis, ha messo insieme un gruppo di giovani che erano chiamati «La scuola Pop Romana». Devo dire la verità, trovavo molto più interessante la compagnia dei pittori che quella dei letterati, per cui stavo sempre insieme a loro e ho potuto seguire così le vicende della loro arte, come si sono sviluppate nel tempo. Come capofila c’era Mario Schifano, che del resto è pittore ormai famoso, e poi molti altri di cui ho scritto”. E’ da queste premesse, dunque, che è nato quel volume Artisti, apparso per la prima volta nel 1984 nell’edizione ”Le parole Gelate” di Luciano Martinis, e ripubblicate dieci anni dopo nel 1994 a cura di Mario Quesada per le edizioni Neri Pozza. In particolare l’ambiente de “La Tartaruga” viene evocato da Parise in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 28 giugno 1983, La fertile stagione di quei giovani artisti, in occasione di una mostra che lo stesso De Martiis aveva allestito nella sua Galleria nel giugno del 1983: Roma 1960. La Scuola di Piazza del Popolo, dove furono presentate opere di Angeli, Ceroli, Festa, Fioroni, Kounellis, Mauri, Pascali, Rotella, Scarpitta, Schifano, Tacchi. Nella sua recensione Parise formula giudizi molto personali e originali, quando afferma che Schifano “dipingeva con velocità fulminante alla De Pisis, di cui è il solo e vero erede…”, di Festa, invece, ricorda che “la sua pittura romana fatta di persiane romane, di cieli romani, barocco quel tanto da far pensare un poco a De Chirico”, e poi: “Giosetta Fioroni con i suoi cuori e la sua deliberata ideologia color rosa, di immagini tenere e casalinghe”. Parise ricorda ancora Pino Pascali “forte e bello”, e “Cesare Tacchi coi suoi ingrandimenti imbottiti”, “Scarpitta con le bende intrecciate e funebri”, e di Ceroli sottolinea il “tavolato grigiastro e ammuffito”. Di Mauri cita gli “schermi vuoti e cinematografici”, mentre descrive “Kounellis, un piccolo greco con moglie, piccoli, neri e legnosi tutti e due, con le sue frecce e numeri”.
Brevi notazioni, dunque, al di là del linguaggio tradizionale della critica d’arte (che a Parise non interessa e quasi respinge), in base ad un principio da lui stesso enunciato in un’intervista a Meneghelli (”Flash Art”, n. 135, 1986): “L’arte non si parla, non si discute, ma si fa e sempre per un miracolo o per caso”.
Eppure lo stesso Parise, proprio nell’articolo su ”La Tartaruga”, che ho più sopra citato, non manca di concludere con un passo da autentico critico d’arte, laddove afferma: “Tuttavia un appunto si deve fare al regista De Martiis. Ne manca uno di pittore [nella mostra Roma 1960. La Scuola di Piazza del Popolo, n.d.r.], forse il più famoso del mondo, che proprio lì alla Tartaruga iniziò la sua aleggiante carriera, e che fu, in un certo modo, il maestro un po’ di tutti: Cy Twombly […]. Ci voleva, grave omissione ometterlo”.
di
Mario URSINO                                                                        Roma 30 / 8 / 2016