Prima del “Manifesto dei pittori futuristi” (1910)
“Cerco, cerco e non trovo …”: scrive così Boccioni agli inizi della sua avventura artistica. Avverte forte la spinta interiore verso l’arte figurativa (1902) e il suo sguardo si volge a dritta e a manca ma il paesaggio italiano non gli offre che immagini passatiste. Sono i primi anni del nuovo secolo. Altrove, fuori dai confini patrii, è tutto un fermento di sperimentazioni e innovazioni. I macchiaioli hanno fatto la loro parte, a loro modo, al pari degli impressionisti, anticipatori di sommovimenti pittorici. Ma il vento del secolo appena sopravvenuto, che trasporta con sé e diffonde il polline del nuovo quasi ad ogni costo, imperversa sulla società e contagia in particolare la gioventù più disposta ad accoglierne la sfida.
Boccioni, insieme con Severini e Sironi, si lascia in un primo momento suggestionare dal divisionismo di Giacomo Balla. Ben presto, però, questa scuola gli sta stretta e non lo stimola più di tanto. Lascia l’Italia e compie un tour di conoscenza, scoperta e formazione artistica in Europa (1906).
Sintomatico di questo periodo è il suo primo dipinto “Campagna romana”, 1903.
Vi compaiono le tracce, ormai stanche se non stucchevoli, dell’impressionismo più datato. Van Gogh, in primis, quello della “terra”, gli disegna gli alberi e i solchi dell’aratura fresca di vomere e Balla li riempie di trattini colorati: l’intero paesaggio risente delle inquadrature più accademiche e non celebra neppure da lontano (per esempio) il canto pascoliano della natura. Su quel campo arato c’è solo da attendersi l’arrivo del seminatore di Van Gogh o, magari, quello di Millet. Dilaga una campagna senza vita: più che un meriggio o una pittura di paesaggio, è una natura morta.
Boccioni percorre tutte le piazze della sua inquietudine. Dentro gli bruciano le visioni delle opere di Picasso e di Munch. Le sirene delle avanguardie lo vedono legato all’albero maestro della pittura accademica ottocentesca. Nella stanza della sua immaginazione pittorica si aggirano i fantasmi di Hayez e di Pellizza da Volpedo. Urge una decisione metanoica, un capovolgimento né più né meno della memoria storico-estetica in nome di un’idea audacemente rivoluzionaria. Boccioni vede cadere, ad opera degli avanguardisti stranieri, gli antemurali dei fortilizi del passato e neppure in costoro (negli avanguardisti) non scorge tratti così tanto nuovi e, men che mai, rivoluzionari.
Dopo il “Manifesto dei pittori futuristi” (1910)
Urge, allora, tracciare un sulcus primigenius, compiere un atto fondativo di una nuova visione dell’arte. Il momento gli è propizio. Un altro visionario, Filippo Tommaso Marinetti, ha nel frattempo percorso il suo stesso sentiero, compiendo il primo passo di una lunga marcia che lo ha portato a concepire e a lanciare il Manifesto del futurismo (1909), in altre parole il De profundis definitivo di ogni residuale arte tradizionale. Di lì a poco, con la bella compagnia di Carrà, Luigi Russolo, Balla e Severini, sottoscrive il Manifesto dei pittori futuristi (1910) e, due anni più tardi, redige il Manifesto tecnico della scultura futurista (1912), dove, tra l’altro, è possibile leggere: “La scultura, nei monumenti e nelle esposizioni di tutte le città d'Europa, offre uno spettacolo così compassionevole di barbarie, di goffaggine e di monotona imitazione, che il mio occhio futurista se ne ritrae con profondo disgusto! Nella scultura d'ogni paese domina l'imitazione cieca e balorda delle formule ereditate dal passato, imitazione che viene incoraggiata dalla doppia vigliaccheria della tradizione e della facilità. Nei paesi latini abbiamo il peso obbrobrioso della Grecia e di Michelangelo, che è sopportato con qualche serietà d'ingegno in Francia e nel Belgio, con grottesca imbecillaggine in Italia”.
Ve n’è abbastanza per suscitare scandalo e polemiche che non sono certamente mancate, riuscendo perfino a scatenare risse belle e buone tra artisti più o meno allineati. Ma, al di là della lettera resta la sostanza del fatto indubbiamente nuovo e clamoroso. S’apre non uno spiraglio ma un varco attraverso il quale si rovescia su tutto il panorama artistico italiano (e non solo) un’onda vorticosa di ricerca di nuovi stilemi espressivi. Succede quello che i futuristi avevano preconizzato e auspicato. Lo stesso cubismo vacilla, accusato di eccessiva staticità. Si salva, forse solo in extremis, il simbolismo, che pare superare, per la sua intima natura di rimandi e richiami, l’esame estetico condotto dalla nuova teoria futurista. Succede, insomma, in Italia quello che è connaturato agli Italiani: attraverso un misto di blasfemia e volgarità, che vuole rompere con un passato non più sopportabile, appare di volta in volta un Movimento 5 Stelle, che dice di saperla lunga e che vuole spazzare persino l’aria che si respira. Il bello è che, alla fine, finisce con l’avere ragione.
Come adesione ai nuovi ideali, Boccioni presenta il suo biglietto da visita: La città che sale (1910). In quest’opera s’odono gli squilli delle trombe egizie per annunciare la marcia trionfale del nuovo movimento. In effetti, nella pittura, non s’era mai visto nulla di simile: i nuovi canoni dell’arte figurativa futurista, il movimento delle figure, la fluidità delle medesime, sfumate in conati di volatile ebbrezza, la velocità (dea della nascente e risoluta industria automobilistica), rifluiscono nel tema dominante del dinamismo dello spazio. Questa nuova corrente estetica scuote i sipari dei teatri espressivi delle arti figurative.
Nello scompaginamento universale delle immagini che animano questo dipinto, alcune ravvisabili in forme note, altre assolutamente inintellegibili,
una furia irrefrenabile, che sa di tempesta, sconvolge quella che vorrebbe essere, nonostante tutto, la vista di una città. E tale è. Ma trattasi d’una città fantasmagorica, dove s’avverte, profeticamente preconizzata, tutta la sintomatologia della città moderna: il caos del traffico cittadino, il costruzionismo edilizio forsennato, la tensione dei conflitti sociali, la lotta partitica lontana anni luce dal miraggio della polis liberale, giusta, solidale.
Ancora una volta, l’arte, in questa caso la pittura, per mano di un artista geniale, ha giocato tutte le sue carte di visionaria futurista.
Dopo il “Manifesto tecnico della scultura futurista” (1913)
Ma il sovrappiù deve ancora arrivare. In concomitanza con la pubblicazione del “Manifesto tecnico della scultura futurista”, Boccioni supera in questo caso sé stesso, realizzando l’opera più emblematica e rappresentativa della scultura moderna, Forme uniche della continuità nello spazio, un capolavoro indiscutibile della scultura mondiale del XX secolo e un unico assoluto nella storia della scultura di tutti i tempi.
Per suffragare di una qualche attendibilità questa affermazione, si invita il generoso lettore a far conto della seguente considerazione:
Boccioni vuole rappresentare non tanto, alla Rodin, l’Uomo che cammina, bensì l’uomo in movimento nello spazio.
Nella storia della scultura è possibile prendere ad esempio altre sculture di figure umane in movimento.
E così, a caso, si prenda il Discobolo di Mirone.
E si prenda, anche, l’Apollo e Dafne di Bernini.
Il dinamismo – inteso come movimento nello spazio della figura umana – annunciato, ma sospeso nell’attimo che precede il lancio finale, è tutto compreso nel Discobolo.
Il dinamismo – inteso come movimento interrotto nell’attimo della cattura – è plasticamente espresso nell’Apollo e Dafne.
Il dinamismo – inteso come movimento in atto, in sé, della figura umana – né sospeso né interrotto, è compiutamente rappresentato nelle Forme uniche della continuità nello spazio di Boccioni.
In questa brevissima rassegna è forse possibile cogliere l’unicità e l’originalità di questa scultura.
Essa, priva di braccia, fa pensare alla Venere di Milo più che all’Uomo che cammina di Rodin; ma appare soprattutto come icona dello spirito della civiltà moderna, come il Discobolo lo fu della civiltà classica e l’Apollo e Dafne della civiltà del ’600.
In queste Forme uniche della continuità nello spazio si riflette, intanto, tutto lo spirito positivisticamente indagatore dell’uomo contemporaneo, che Boccioni ha il merito notevolissimo di aver rappresentato, a modo suo, secondo le forme più acconce e mirabili proprie della scultura. Le fattezze stesse della figura umana si sciolgono, nell’opera in questione, sfumando in uno slancio vitale verso ciò che non è più materia, ma spazio, cioè entità intangibile: pura forma dialettica in evoluzione. Parallelamente e significativamente Henri Bergson e Teilhard de Chardin, profondi indagatori dell’essere e della sua destinazione, hanno spezzato il diaframma materialistico della visione scientista per affermare l’élan vital all’interno della stessa materia, che tende tuttavia a evolversi in forme sempre più sublimate di immaterialità e, perciò, di spiritualità.
È insito in ciò il valore simbolico della scultura di Boccioni, più ancora che nei connotati propri, comunque pregevolissimi, dell’opera in sé. Nella discontinuità chiaroscurale della sua fattezza si sprigiona la geniale capacità dell’artista di fondere elementi di tensione, di fluidità, di continuità materia-spazio in un’unica natura. E’ stato rilevato: se osservata lateralmente, la figura avanza; se vista frontalmente, la figura appare avviluppata in un moto di torsione e avvitamento. Emblema finale dell’uomo che, pur tormentato da ossessioni di angoscia e spasimi di ricerca, ciò nonostante, avanza, cammina.