Giovanni Cardone Settembre 2023
In una mia analisi sull’opera di Flavio Gioia apro il mio saggio dicendo : Penso che l’esperienza estetica si è contraddistinta in questi ultimi anni certamente è possibile ritrovare nel multiforme panorama dell’Arte concettuale un movimento nato intorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento con l'intenzione di spostare l’attenzione artistica dalla dimensione sensibile ed emotiva al piano concettuale. Nel fare ciò l’artista assunse un atteggiamento di tipo analitico, spostando in questo modo i procedimenti del fare artistico dal piano espressivo o rappresentativo, a quello riflessivo di ordine metalinguistico. Attraverso questo spostamento, l’artista fu chiamato ad impegnarsi nella costruzione di un discorso sull’arte a partire proprio dal momento stesso in cui iniziava la sua produzione artistica. In aggiunta, l’investigazione concettuale, nello specifico, si servì del linguaggio come strumento indispensabile per risalire dal dato sensibile a quello astratto, dalla fisicità della cosa ai procedimenti mentali che sottendono ad essa per arrivare a comprendere ciò che sta a monte della formazione dell’arte.

All’insieme di questi meticolosi processi si interessò in particolar modo Joseph Kosuth, padre dell’Arte concettuale,che si rivela essere quindi, in questo orizzonte di ricerca, una figura emblematica per comprendere l’evoluzione di tali questioni . L’artista infatti elaborò nella sua poetica un abile intreccio atto non solo a svelare la natura dell’arte, come sottolineò fin dai suoi primi scritti, ma anche a penetrare nelle dinamiche che si celano nella società contemporanea,frutto delle relazioni di potere e mercato, figlie della società capitalista, impegnandosi inoltre nel ridefinire il ruolo dell’artista, non soltanto mero esecutore ma soggetto attivo nella ricerca del significato dell’arte. In aggiunta, Joseph Kosuth elaborò un forte dissenso nei confronti di tutta quella sfera di critici e intermediari dell’arte che professavano valori autentici, a favore di un’arte alta; nonostante ciò, tuttavia, le sue riflessioni presentano nella loro essenza molteplici contraddizioni che sottolineano ambigue aderenze proprio a quel sistema che lui stesso mise in discussione sin dall’inizio della sua carriera. Tali questioni presero voce quindi a partire dai suoi primi scritti, ed in particolar modo nella vivace critica che l’artista mosse contro il formalismo del critico statunitense Clement Greenberg. Nel 1969 Joseph Kosuth scrisse: ‘L’arte dopo la filosofia’ da qui nasce il significato dell’arte concettuale testo fondamentale per comprendere il fare dell’artista fin dai suoi primi albori. All’interno dello scritto emergono alcune questioni molto importanti riguardanti la funzione specifica dell’arte, la sua vitalità e la conoscenza più precisa del termine “Arte concettuale”. Il concetto più importante che emerge da questo scritto e che accompagnerà Kosuth in tutto il suo percorso è l’idea che l’arte sia una tautologia linguistica: in questa prima fase della sua carriera l’opera d’arte quindi non fornisce informazioni di nessun tipo sull’esperienza concreta; essa è soltanto una presentazione dell’intenzione dell’artista, ovvero una proposizione linguistica presentata nel contesto dell’arte a commento sull’arte . Solo in questo modo infatti, secondo il padre del Concettualismo, l’arte si poteva allontanare da errate supposizioni filosofiche, prendendo pertanto le distanze dalla concezione di arte formalista che era stata elaborata dal critico Clement Greenberg per cui l’arte e l’estetica erano la stessa cosa. Infatti, l’arte e la critica formalista accettavano secondo Kosuth una definizione di arte fondata unicamente su basi morfologiche in questo modo l’arte era semplicemente decorazione e puro esercizio estetico . Agli esordi della sua carriera, infatti, l’artista concettuale considerò l’arte e l’estetica così come due categorie separate, poiché secondo il suo punto di vista l’estetica si occupava essenzialmente della percezione; quest’ultima pertanto, secondo Kosuth, rimaneva su un livello estraneo alla funzione o ragion d’essere dell’oggetto di cui invece l’arte si sarebbe dovuta occupare, ovvero l’arte stessa . È chiaro quindi come in queste affermazioni Kosuth si riferisse in modo specifico a Clement Greenberg e a tal proposito si osservi perciò la parte del testo in cui l’artista sostiene che: “ la nozione che esistesse un legame tra arte e estetica non è vera. Fino ai tempi più recenti questa idea non è mai entrata nettamente in conflitto con considerazioni artistiche, non solo in ragione delle caratteristiche morfologiche dell’arte che perpetuavano questo errore, ma anche perché le altre apparenti “funzioni” dell’arte e di raffigurare temi religiosi, ritrattistica di aristocratici, rappresentazione di particolari architettonici, ecc.. usavano l’arte per mascherare l’arte” . Da queste parole si può evincere come l’artista non riuscisse a vedere nell’estetica una via per conoscere la funzione dell’arte, a meno che, così come egli sottolineò in un passo successivo, la ricerca non seguisse le orme tracciate da Greenberg, ovvero qualora essa si fosse rivolta soltanto agli aspetti percettivi dell’arte, che Kosuth considerava meramente estrinseci. In quel caso però l’indagine sulla funzione e sulla definizione si sarebbe comunque basata soltanto ed esclusivamente sulla morfologia senza accedere a un significato più profondo. Alla luce di ciò, a parere dell’artista, la critica formalista promossa da Greenberg non era in grado di aggiungere una nuova conoscenza alla comprensione della natura o funzione dell’arte, poiché si distingueva esclusivamente per essere un’analisi accurata degli attributi fisici degli oggetti che casualmente venivano posti in un certo contesto morfologico. Su questa scia quindi l’arte si poteva definire tale solo in virtù della sua rassomiglianza alla forma e a opere d’arte più antiche appartenenti al passato. Quanto sostenuto dal padre del concettualismo giunge a noi in tutta la sua forza e influenza, e proprio per questo risulta necessario osservare con più precisione ciò che venne messo in luce nel testo preso in considerazione. Infatti, tali affermazioni acquistano pienamente senso solo se relazionate in maniera opportuna con quei punti focali attorno a cui l’artista fa ruotare l’evoluzione della sua riflessione, cioè la discussione sulla natura dell’arte e sul ruolo dell’artista. A questo riguardo, fin dai suoi primi scritti, Kosuth affermò che essere un artista significava mettere in discussione la natura dell’arte poiché solo attraverso ciò si poteva arrivare a comprendere la sua funzione. Gli artisti dovrebbero quindi adempiere a questo compito,sebbene i critici e gli artisti formalisti non fossero a suo modo di vedere assolutamente in grado di calarsi in questi aspetti cruciali per la ricerca artistica. Essi infatti, a suo parere, sceglievano quali lavori si potevano considerare arte e quali invece no, soltanto attraverso la forza della loro autorità aderente al sistema. Nella prospettiva concettuale invece l’opera di Marcel Duchamp che rappresentava un importante esempio di cambiamento della natura dell’arte poiché con l’avvento del ready made si passò dalla mera questione morfologica alla questione funzionale portando quindi a compimento quel passaggio essenziale dall’apparenza delle cose alla loro concezione . Inoltre, per comprendere il concetto di tautologia promosso da Joseph Kosuth è necessario osservare alcune questioni importanti che si legano agli intrecci che corrono tra l’arte e l’universo del linguaggio. L’artista, all’inizio della sua carriera, sostenne, esplicitandolo poi chiaramente nelle sue prime opere, che l’arte sarebbe composta da un insieme di proposizioni analitiche nella forma di tautologie in cui l’arte è sia il soggetto che l’oggetto della predicazione, che possono trovare il loro senso solo e unicamente nel contesto dell’arte stessa, lontano dai dati concreti dell’esperienza. Il prodotto artistico poteva essere concepito come una tautologia: l’idea che l’arte consista in una proposizione sull’arte medesima portava con sé l’assunto che si potesse valutare qualcosa come arte senza uscire dal contesto artistico. Secondo questo meccanismo l’arte quindi non avrebbe niente a che vedere con l’esperienza e le sue infinite sfaccettature, in particolare con l’esperienza percettiva,poiché la validità delle proposizioni costituenti l’arte non deriverebbe da presupposti empirici o fattuali ma linguistici, che possono essere ricondotti a logiche esatte e definite. Tuttavia, affermare ciò significava chiudere l’arte in un sistema vero a priori, evidenziando come la verità dell’oggetto dell’arte fosse astratta e lontana da ogni implicazione ricettiva e di percezione .

Tutto ciò, se visto in una prima e sfocata luce,potrebbe apparire chiaro e privo di dubbi; tuttavia,confrontando le prime affermazioni risolute dell’artista con la critica alle tesi promosse da Clement Greenberg, insieme al contesto culturale che portò Kosuth all’elaborazione di tali considerazioni, la prima impressione tende a mutare fino ad assumere i toni divergenti di una interpretazione più complessa e sfaccettata. Infatti, affermare che l’arte si possa ridurre soltanto a pure idee e contenuti mentali, nei quali ciò che conta è soltanto il linguaggio che li esprime e quindi rinunciare ad un’arte che sia anche emozione e partecipazione -, era in verità una scelta precisa per criticare il sistema dell’arte del tempo e i modelli di sviluppo proposti dal consumismo di origine capitalista. Tutto ciò aveva chiari legami con motivazioni sociali e politiche poiché negando o minimizzando il prodotto consumistico si voleva delegittimare anche la società capitalista che l’aveva concepito. La voce di Kosuth, quindi, deve essere inserita in questo preciso contesto, che si mostra a noi come un quadro drammatico in cui gli artisti concettuali anziché dipingere prospettive nuove e alternative alla realtà cercarono di annullare l’oggetto stesso dell’arte con l’illusione che ogni espressione artistica sarebbe potuta nascere e morire soltanto nella mente di chi l’aveva concepita . Inoltre, il movimento dell’Arte concettuale e quanto sottolineato da Joseph Kosuth, fu determinante per comprendere una questione aperta tutt’oggi sul rapporto tra l’opera d’arte e i contesti istituzionali che accolgono e legittimano la produzione artistica. Il movimento, infatti, nel suo procedere,riuscì a porre un’attenzione specifica sulla modifica dello statuto dell’oggetto artistico, sul rimodellamento delle strategie espositive e sulla ridefinizione del rapporto tra arte, critica e informazione. Fu probabilmente proprio per il fatto che gli artisti toccarono tematiche così delicate che non furono accettati fin da subito dalla critica dominante, proprio come sottolineato da uno scritto di Kosuth comparso nella rivista The Fox nel 1975. Secondo l’artista, infatti, la gang di Greenberg era piuttosto scettica verso i nuovi artisti degli anni Sessanta e inizi Settanta non inquadrabili con la loro produzione nella continuità della storia che era invece tanto cara ai formalisti. La distanza tra Arte concettuale e formalismo fu caratterizzata da svariati fattori, le differenze furono notevoli. Tuttavia, si possono rintracciare connessioni, influenze e relazioni tra quanto sostenuto da Kosuth con la sua idea di arte come tautologia e il formalismo di Greenberg. Infatti, il critico d’arte statunitense, così come l’artista concettuale, si interessò allo statuto epistemologico della natura dell’arte indicando tuttavia un approccio differente da quello concettuale, che doveva essere rivolto alla ricerca sul mezzo artistico piuttosto che sui concetti. Nonostante ciò, anche Greenberg considerò la tendenza all’astrazione un carattere distintivo dell’arte nonché un passaggio necessario per l’evolversi della riflessione sul fare artistico. Alla luce di ciò, la funzionalità dell’arte era connessa alla riflessione sul medium poiché era proprio tramite questo, secondo il critico, che era possibile individuare la specificità e l’identità dell’arte stessa. Tali considerazioni si inserirono in una cornice che dava loro senso poiché orientata verso l’idea che potessero esistere dei valori oggettivi e definitori nel campo artistico, ciò quindi legittimava la volontà di eliminare da ogni disciplina artistica tutti gli effetti che non le appartenevano per essenza. Ecco, proprio in questo è il valore, l’apporto la conoscenza della scoperta di Flavio Gioia all’irriducibilità dell’Informe, all’impossibilità di piegare completamente l’Irrazionale alle ragioni della Ragione. E viceversa. Perché se è vero che “il cuore ha delle ragioni che la ragione ignora”’ Blaise Pascal è altrettanto vero che spesso (quasi sempre) “c’è del metodo nella nostra follia”.

Guardando le opere fotografiche di Flavio Gioia penso che come disse lo studioso tedesco Lessing il quale porta avanti una teoria che vuole, per la prima volta, attraverso la distinzione fra le arti, rintracciare un sistema estetico basato sul riconoscimento della ‘pluralità’ dell’esperienza estetica intesa come un processo a cui fanno capo fattori eterogenei anche extrartistici o addirittura extralinguistici. L’esperienza estetica, secondo Lessing, non può più limitarsi al mero concetto di bellezza, ma deve anche coinvolgere la conoscenza sensibile e il soggetto nella sua totalità, vale a dire la conoscenza intellettuale. Lo stile fotografico di Flavio Gioia e fatto di sensazioni che scaturiscono dalla visione dei suoi scatti che risvegliano qualcosa che va oltre la mera contemplazione del reale. Eppure c'è sempre un qualcosa che è evidente o implicito in funzione di una visione più analitica che conduce il pensiero oltre lo sguardo. Questo accade forse per un'applicazione metodica della teoria barthesiana del
punctum, forse più probabilmente questo accade per la sua sensibilità personale, che lo spinge a ricercare di volta in volta il cuore palpitante del nostro “io” più nascosto. Le foto di Flavio Gioia rappresentano quei riflessi di luce e di ombra che danno movimento al corpo all'interno di uno spazio armonico o dissonante, solo o in relazione con altri corpi, ci racconta di sé e della sua storia. L'abilità di Gioia sta nel riuscire a ritrarre quel corpo con una prospettiva tale, fornendolo di uno sfondo tale, aspettando la tale, giusta nota, per esaltare al massimo i suoi personaggi che narrano tutto se stesso. Tutti gli elementi costitutivi della rappresentazione sono come parti di un movimento. Mentre unica e indiscussa protagonista è la fruizione dell'arte, il dialogo muto che si crea attraverso l'occhio è l'opera d'arte, sia essa pittura, scultura o fotografia, e il pensiero estetico del pubblico, che giudica, sorvola o gode, s'arricchisce. La cifra stilistica di Gioia, improntata sulla rappresentazione tra reale e irreale che tende ad annullare l’oggetto e nel contempo esalta il concetto di spiritualità dove la trascendenza ci riporta in un mondo mistico e rituale . Le fotografie di Flavio Gioia vanno verso un concetto metafisico . Gli scatti rappresentano l’essere umano in nome di un'attenzione ancora più concentrata sul dettaglio e sulla movenza, ‘senza volerlo’ Flavio Gioia ha realizzato quella che si potrebbe definire 'fotografia metafisica'. Quest'ultimo termine va inteso nel suo significato aristotelico di 'ciò che sta oltre la fisica': la fotografia di Flavio Gioia rappresenta qualcosa del reale facendo però intravedere in maniera chiara ciò che vi sta oltre, trattasi di considerazioni esistenziali o sociologiche, trattasi di suggestioni estetiche. E quello che fa Flavio Gioia con la sua ricerca e con il suo linguaggio cerca di descrivere un mondo dove anima e corpo e vita e morte sono la stessa cosa. Ma essendo egli un’artista contemporaneo tende a denunciare le discrasie di un mondo senza morale, dove l’angoscia e la paura sono il tema portante della nostra società contemporanea ma il compito dell’artista attraverso la sua ricerca è di innovare il messaggio fatto di parola e immagini . Ecco perché egli in parte si rifà ad uno dei punti di forza dell’argomentazione lessinghiana relativa al Laocoonte e dunque alla differenza di rappresentazione dell’arte , che è relativa a quello che lo studioso definisce ‘einzigen Augenblick’ il momento pregnante, che, come vedremo, ritornerà anche nelle teorie sull’
ékphrasis. Nelle opere di Flavio Gioia si percepisce il forte messaggio che ha determinato l’eclettismo dell’artista, e che determina attraverso la sua arte lo spazio, per condensare i passaggi temporali di una vicenda, e riassumere in sé il passato, il presente e il futuro. L’arte esprime come sempre una elevata tensione spirituale alla base di tutto questo vi è il ‘sentimento’ che ritroviamo nelle opere dell’artista, che sono un’insieme universale della condizione umana, della realtà, in forme concettuali ideate dall’artista che tende di unire anche altri linguaggi e metodi espressivi. Le opere di Flavio Gioia si nutrano senza volerlo di quell’esigenza di non annullare l’arte ma di attuare in parte un nuovo pensiero essendo egli un’artista che tende di decantare un epoca dove i valori morali sono ormai perduti, ad un tempo però narra dell’amore universale. Ecco perché nelle sue opere la caratteristica principale è l’accumulo di significati. Una pluralità che va di pari passo con la variabile disseminazione di segni, immagini, figure mescolati in un magma che trova proprio nella complessità la sua giustificazione operativa.

Tutto questo lo si può definire l’incontro- scontro tra essere e divenire dove il ‘segno ed il colore’ per alcuni aspetti sono alle base del linguaggio dove l’artista si rifà principalmente al ‘segno e al gesto’ che gli permettono di dare forza al suo messaggio. Questo succede inconsapevolmente nelle opere fotografiche di Flavio Gioia che ha saputo coinvolgere lo spettatore facendo si che l’opera divenisse unica e in parte riconoscibile dove gli estratti dalle apparenze quotidiane, si mescolano ad ectoplasmi misteriosi, fantasmi della memoria, riferimenti onirici. Le opere descrivono in pieno i contenuti dell’artista che in parte si rifà ad un percorso concettuale per far si che tutti possono entrare nel suo mondo, che è tormentato da pensieri e azioni che fanno parte di una società dove regna l’incertezza, l’ambiguità dei significati che non sono fuorvianti, ma generano un seguito di suggestioni che costituiscono proprio la principale connotazione della ricerca di Flavio Gioia. I lavori attuali dell’artista raccontano una nuova e interessante fase di semplificazione, o meglio di aggregazione descrittiva che suggerisce un più ampio campo d’ispirazione, tematiche contigue alle immagini, alla forma allo spazio che narrano per alcuni aspetti il ‘degrado’ culturale della nostra società contemporanea. Si direbbe che l’artista, dopo tante calate nei recessi della coscienza individuale, voglia interrogarsi sul cammino di ognuno e quindi saggiare panorami più vasti di quelli introspettivi, porre in campo simboli di valori universali. Grazie all’operato artistico- culturale di Flavio Gioia volevo citare due Filosofi contemporanei tra cui, Giovanni Gentile non preso nella giusta considerazione ma che nel leggere le sue opere in particolar modo l’Attualismo si può meglio comprendere ciò che ci accade oggi . Gentile parla come è noto con il nome di idealismo attuale, o attualismo. Con questa formula egli intende difendere una concezione della filosofia come pensare vivente, capace di risolvere in sé dialetticamente ogni contenuto.

La critica da lui mossa a tutte le filosofie precedenti, e soprattutto alla filosofia di Hegel, è quella di essere delle dottrine del "pensiero pensato", ossia di una concettualità astratta e priva di vita, perché separata dall'attualità del "pensiero pensante" o dall'"atto in atto". Solo il pensiero pensante è dialettico, perché produttore dell'oggetto, che è propriamente il soggetto stesso in quanto diventa altro da sé. Il pensiero, quando si autoproduce (autoconcetto, o autoctisi), sulle prime tratta il prodotto come assolutamente opposto a sé, come alcunché di estraneo, poi riconosce che l'oggetto nella sua alterità è il soggetto stesso oggettivato, e lo risolve in sé, cioè lo fa identico a sé. Il risultato dell'identificazione di soggetto e oggetto, però, rende di nuovo il soggetto privo dell'oggetto, cioè lo rende astratto. Allora il soggetto, dovendo superare la sua condizione astratta, fuoriesce nuovamente da sé. Ricomincia, perciò, una situazione oppositiva di natura dialettica, la quale stimola al trapasso in un altro momento sintetico, e così via all'infinito. Tre sono, dunque, i momenti della vita del pensare: 1. il soggetto nella sua iniziale separazione, o astrazione, dall'oggetto; 2. l'oggetto nella sua opposizione al soggetto; 3. la sintesi di soggetto e oggetto, come finale identificazione, o risoluzione, nel soggetto dell'estraneità dell'oggetto. Questi tre momenti della dialettica dell'atto sono anche i tre atteggiamenti fondamentali o le tre "forme" dello spirito, cui corrispondono, rispettivamente, l'arte, la religione e la filosofia. Collocazione incerta finisce per avere in Gentile la scienza, a volte assimilata all'arte, a volte alla religione. Volevo concludere dicendo che sia Platone che Aristotele che il nostro Giovanni Gentile ci spiegano quali siano le forze in campo ognuno vuole soggiogare l’altra forza attraverso la scienza e la tecno- scienza questo è il vero dramma.
L’attualismo di Gentile che fa parte di un sottobosco che nessuno prende in considerazione ma se ci facciamo caso è tornato forse nella politica dove le ideologie sono terminate, mentre si dovrebbero rifare di più alla ‘Polis’ greca e alla cultura greca dove l’uomo vive una collettività che dal secolo scorso ad oggi ci è stata negata. Ed Emanuele Severino quando parla della memoria che può divenire cattiva coscienza come si evince dalle opere fotografiche di Flavio Gioia che racconta della manipolazione delle coscienze attraverso i suoi ‘manighini’ che hanno inteso dimostrare con la piena coscienza della precarietà relativistica di ogni 'dimostrazione' che la reductio suggerita dello spazio al tempo è, o potrebbe essere, un modo di riconoscere la friabilità delle conoscenze che abbiamo delle cose, sapendo renderci conto che la dimensione spaziale non è altro che la manifestazione parziale e transeunte di un 'tempo' che si solidifica nelle cose, scegliendo, grazie alla inevitabilità della sua successività, di rivelarsi altro che come memoria. La memoria, insomma, potremmo anche suggerire così, non è altro che il tempo. Tocca a noi saper sfuggire, per quanto possiamo, alla gabbia della prigione del tempo mi ha dato lo spunto leggendo tutto il trattato ho pensato ad Emanuele Severino al suo grande pensiero filosofico, egli ci ha lasciato su questo argomento tantissime riflessioni, la sua filosofia poggiava sulla grande prosopopea di Parmenide: gran parte della riflessione severiniana si configura come una massiccia e controversa rivalutazione dei dogmi ontologici dell’eleate, incompreso e sconfessato profeta dell’essere; prendendo le mosse dalla contraddizione che si pone alla base del divenire l’essere non diviene, poiché il divenire comporta il non essere, ovvero il venire e tornare nel nulla, la celebre dimostrazione severiniana dell’eternità di tutti gli enti vuole contrapporsi alla storica fede prestata dall’umanità, fin dai tempi dei greci, al divenire, fede che ha portato la storia dell’uomo e della filosofia ad essere necessariamente storia del nichilismo, e ad innalzare i cosiddetti Immutabili o Eterni ‘Dio in primis’ ai quali aggrapparsi per tentare di sfuggire all’angoscia dettata dal carattere effimero e transeunte che l’uomo attribuisce agli enti. Entrambi i filosofi sono presenti nell’opera fotografica di Flavio Gioia che da anni tende di unire la filosofia e la fotografia, tutto questa è alla base dell’eterna ricerca e sperimentazione di un artista che attraverso le sue fotografie sa raccontare se stesso e la nostra società contemporanea.