Fabio Rotelli giugno 2025
Negli ultimi anni, i tarocchi stanno vivendo una larghissima diffusione e un’esplosione creativa paragonabili soltanto a quelle degli anni successivi la loro nascita che avvenne durante il XV secolo quando le famiglie ricche e nobili italiane facevano a gara per avere il mazzo di carte più bello e pregiato1. I tarocchi sono diventati oggetti preziosi e sono entrati nell’immaginario di tutti i giorni: li ritroviamo in librerie, pubblicità e giornali, ci sono canzoni sui tarocchi e commedie che mettono in scena le personificazioni di queste figure dall’alto contenuto simbolico2
I mazzi di carte di tarocchi più antichi sono quelli rinominati Visconti-Sforza, commissionati in origine dal duca Filippo Maria Visconti (1392-1447) e in seguito da Francesco Sforza (1401-1466)3 nello scenario del ducato di Milano che raggiunse gli apici del suo splendore durante il periodo di reggenza della famiglia capace di combinare le doti politiche e militari  con una spiccata passione per le arti che permise alla città di diventare un polo culturale di primo ordine4
Le carte giunte fino a noi sono capolavori di raffinata fattura, vere opere d’arte, dipinte a mano e raffiguranti gli archetipi fondamentali, che chiamiamo “trionfi”, dai quali si svilupperanno nel corso dei secoli tutti gli altri mazzi di tarocchi che, senza finire in considerazioni di carattere esoterico e spirituale, ancora oggi sono motivo d’interesse di molti studiosi, storici della cultura e storici dell’arte, oltre che oggetti ricercati per collezionisti e appassionati. È necessario dunque prendere in considerazione tutta una serie di opere che rientrano nella categoria delle “arti minori” o decorative, molto frequenti tra le commissioni ducali di quel tempo: piccole miniature, oreficerie e gli stessi abiti erano oggetti che contribuivano a mostrare lo sfarzo e l’immagine di una società ricca, potente e attiva. Una società che oltre alle imprese di carattere politico e diplomatico era in grado di equilibrare il proprio tempo con attimi più leggeri, tra battute di caccia, giochi e partite a carte: momenti di ozio che però andavano oltre il semplice gioco e servivano da spunto per riflessioni e dispute filosofiche. È proprio agli artisti che i duchi e i ricchi si rifacevano per ottenere questi oggetti che di fatto ci trasmettono quella che era l’esatta immagine della società del Quattrocento lombardo. Le misteriose immagini dei ventidue “trionfi” o “arcani maggiori” si presentano come archetipi della vita che riguardano tutti noi, da sempre connessi strettamente al nostro quotidiano. Del modello più antico di mazzo esistente che ebbe origine nella Milano viscontea, abbiamo a disposizione solo alcune carte, custodite in diverse collezioni e trattate come vere opere d’arte la cui iconografia ci permetterà di far luce su questioni molto profonde
(Fig.1) legate alla vita, alla cultura e al tempo in cui queste carte sono concepite, in continuo dialogo con tanti altri settori culturali, quali letteratura, e filosofia.
Un qualsiasi mazzo di carte dei nostri giorni è il diretto discendente dei tarocchi del XV secolo nonostante col tempo molte carte siano cadute in disuso e dalle settantotto si è arrivati a cinquantadue5. Partendo dai mazzi di carte Visconti-Sforza, possiamo dividere l’intero mazzo in ventidue “trionfi” o “arcani maggiori”, carte figurate con immagini dall’alto contenuto allegorico, e il restante mazzo diviso in quattro serie di quattordici carte ciascuna e che corrispondono a diversi semi: avremo dunque le coppe, le spade, i bastoni e gli ori o danari; questi sono formati da dieci carte numerali e dalle quattro figure, il fante, il cavaliere, la regina e il re. Le carte oggi superstiti degli antichi mazzi Visconti-Sforza possono essere raggruppate in tre mazzi principali conservati in diversi luoghi nel mondo: i tarocchi Visconti di Modrone (o anche conosciuti come tarocchi Cary-Yale), il mazzo Brera-Brambilla e il mazzo Pierpont-Morgan Bergamo. Ognuno di questi mazzi presenta peculiarità differenti a partire dalla commissione, dalla fattura fino all’iconografia e al contenuto di alcune carte: il mazzo Visconti di Modrone è il più antico ed è l’unico che presenta le carte delle virtù teologali, delle fantesche e delle dame a cavallo; le ipotesi principali riguardo la committenza indicano che i mazzi Visconti di Modrone e Brambilla sono commissionati da Filippo Maria Visconti, mentre il mazzo Pierpont-Morgan da Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti in onore delle loro nozze avvenuto nel 1441; tutti e tre i mazzi sono per la maggiore attribuiti alla bottega cremonese di Bonifacio Bembo con l’eccezione nel mazzo Pierpont-Morgan di alcune carte che, visto lo stile diverso, sono attribuite al pittore ferrarese Antonio Cicognara. La struttura complessiva dei “trionfi” si fonda su una concezione tutta medievale così come il simbolismo legato ad ogni immagine, che fa ricorso, talvolta, a tematiche tradizionali codificate, come nel caso delle virtù, talvolta a iconografie specifiche in stretto rapporto con la cultura umanistica del tempo, tanto che possiamo affermare il carattere universale ed emblematico di queste carte entro un’ampia tradizione culturale. Si possono notare diverse variazioni iconografiche trai primi mazzi, definiti “storici”, con i più moderni tarocchi di Marsiglia (di origine francese, che sulla base degli esempi italiani,  sviluppano intorno alla fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, vere e proprie variazioni iconografiche e simboliche), ma anche trai primi mazzi stessi presi in esame entro l’ambito della corte ducale milanese dei Visconti e degli Sforza.
Tra le figure più emblematiche spicca la carta della “Papessa” /tavola 1/ nell’unica versione presente nel mazzo Pierpont-Morgan, una carta il cui soggetto ha portato studiosi di ogni tipo a ipotizzare possibili contatti tra la figura rappresentata e alcuni dei personaggi più iconici relativi all’ambiente religioso medievale. Ieratica e solenne, la papessa siede su un trono appena accennato, ricoperto in gran parte da un lungo abito dorato, la mano destra sorregge l’asta crociata mentre nella mano sinistra un libro chiuso, simbolo di un potere non manifesto, totalmente fuori da ogni temporalità. Se confrontiamo l’immagine della carta con precedenti iconografici simili notiamo una forte somiglianza con la personificazione della “Fede” che Giotto dipinse nella Cappella degli Scrovegni di Padova nei primi anni del XIV secolo, e si avvalora l’ipotesi che l’intento della carta fosse quello di esaltare tale virtù cardinale in senso generale come del resto accade nel mazzo Visconti di Modrone dove la “Papessa” viene sostituita proprio dalla carta della “Fede”6. Lo sguardo solenne del volto è sormontato dalla corona del triregno con possibili allusioni alle personificazioni della Mater Ecclesia, ma l’abitudine tutta sforzesca di attribuire spesso alle figure, immagini di persone reali, esistite o comunque a contatto con la famiglia ducale, ha portato diversi studiosi a ritenere che la donna che incarna il ruolo della papessa potesse corrispondere a suor Maifreda da Pirovano7, dell’ordine delle Umiliate, che nel corso del XIV secolo fu eletta a capo di una setta religiosa, considerata eretica dalla chiesa, promossa, qualche anno prima, da suor Guglielma di Milano. Della vita di Guglielma si sa pochissimo, definita la Boema perché ritenuta di nobili origini, visse durante la seconda metà del XIII secolo intorno a Milano, in particolare nel monastero di Chiaravalle dove fu considerata santa ancora in vita e raccolse intorno a sé diversi fedeli dalle famiglie più nobili milanesi che la consideravano come l’incarnazione dello spirito santo, le furono attribuiti (Fig.2) poteri di liberazione e guarigione da ogni dolore e male e fu considerata eretica solo dopo la sua morte avvenuta intorno al 12828. Trai suoi discepoli vengono ricordati Andrea Saramita e Maifreda da Pirovano, i quali cercarono di rifondare una nuova chiesa grazie allo spirito santo che si era incarnato nel corpo di Guglielma e intorno al 1300, suor Maifreda fu eletta capo di questa setta che di lì a poco fu condannata dall’Inquisizione di Milano come eresia9. Nel 1420 il culto di Guglielma fu reintrodotto dalla famiglia Visconti e in particolare Bianca Maria Visconti non faticava ad esprimere la sua ammirazione per Guglielma, ma ancor di più per suor Maifreda che per questo motivo poteva prendere parte tra le figure del mazzo di carte commissionato proprio dalla famiglia ducale10. Altri studi convergono invece su una possibile relazione tra la figura delle carte con la leggenda intorno alla papessa Giovanna, che con lo pseudonimo di Papa Giovanni VIII fu al potere per soli due anni (855-857). Secondo la leggenda, durante una processione verso San Pietro in Laterano, la papessa fu scoperta poiché diede alla luce un figlio da parte di un suo amante e pertanto condannata. Non abbiamo però documenti che accertano un valido motivo per prendere in considerazione la presenza di questa figura all’interno delle carte della famiglia ducale milanese11.
La carta della “Forza” del mazzo Pierpont-Morgan /tavola 2/ si discosta dall’iconografia tradizionale di qualsiasi altro mazzo in cui è presente l’immagine che allude alla fortezza e rappresenta pertanto un vero e proprio unicum iconografico. Vediamo un giovane fanciullo, riccioluto, con una corazza classicheggiante, in una posa ben poco aggraziata rispetto a tutti gli altri personaggi del mazzo. Ben protesa verso l’alto, pronta a colpire, una clava di legno che in pochissimi secondi sarà scagliata contro un leone che sembra non essersi accorto del pericolo. Questo tipo di iconografia ci avvicina sempre di più alla figura di Ercole che viene ripreso durante una delle sue dodici fatiche: in particolare, la presenza del leone può portare a ritenere che la fatica in questione sia l’uccisione del leone di Nemea, ma stando alle fonti letterarie che spiegano le vicende dell’eroe, tale fatica fu eseguita quando Ercole era già maturo e sopratutto a mani nude, nella carta ci appare invece come fanciullo imberbe e con una clava tra le mani. Tra le fonti ricordiamo la “Biblioteca” di Apollodoro in cui si riporta una variante della tradizione secondo cui Ercole uccise, in giovane età, un primo leone sul monte Teumesso in Beozia. Coluccio Salutati nel “De laboribus Herculis”, testo chiave per la fortuna dell’eroe nel Rinascimento, dà un’interpretazione allegorica alle fatiche e ritiene che l’uccisione dei due leoni, prima quello sul monte Teumesso e poi quello di Nemea, simboleggia la capacità dell’eroe di superare due dei vizi fondamentali, l’ira e la superbia, in particolare la primissima impresa sul monte (e quindi quella che vediamo nella carta) rappresenta il superamento dell’irascibilità attraverso la scelta morale12: siamo davanti alla fotezza morale che vince sull’istinto brutale e irascibile. Ritroveremo questa iconografia soltanto durante il Cinquecento all’interno della decorazione della sala dei concerti di palazzo Poggi a Bologna, dove Nicolò dell’Abate rappresenta immagini di riunioni mondane alternate alle imprese dell’eroe greco, tra cui appunto quella di “Ercole che uccide il leone sul monte Teumesso”13. Secondo H. Farley, questo giovane fanciullo presenta una fisionomia simile a quella di alcuni dipinti coevi di Francesco Sforza, potrebbe dunque essere proprio lui che viene associato al mitico Ercole, in grado di vincere su ogni nemico con la sua forza fisica ma sopratutto morale e il suo ingegno. Infine c’è anche un probabile gioco di parole che associa il personaggio della carta a Francesco: il cognome “Sforza” significherebbe per l’appunto “forza”, la virtù a cui viene legato il significato di questa carta14.
Considerando la carta dell’ “Appeso” /tavola 3/ vediamo un uomo appeso per un piede ad una traversa di legno, la gamba destra, libera, è piegata dietro la sinistra, le mani, probabilmente legate, dietro la schiena, il volto è sereno nonostante la scomoda posizione. Un’immagine che la società del XV secolo doveva conoscere bene poiché fa parte di quella che viene chiamata “pittura infamante”: coloro che erano considerati traditori, come cattivi debitori, cospiratori o persone fraudolente, erano ritratti sulle pareti esterne di palazzi pubblici, appesi, spesso a testa in giù, in modo da infamare il proprio nome, o quello della famiglia cui appartenevano, e fare da monito alle persone in modo da evitare certi comportamenti. Si distingueva l’ infamia facti (o vulgaris o popularis) dall’ infamia iuris o legalis: in ogni caso i colpevoli dovevano essere dipinti sulle pareti di palazzi civici importanti e solitamente accompagnati dall’iscrizione del loro nome, condizione e delitto. L’uso di queste immagini infamanti si diffuse molto rapidamente a partire dall’Emilia e dalla Toscana durante il corso dell’XIII secolo15. Durante il Quattrocento era pratica assai diffusa sopratutto a Firenze dove è noto il caso di Andrea del Castagno che nel 1440 dipinse gli Albizzi e i loro complici sulla facciata del palazzo del podestà, tanto che per questa commissione fu soprannominato, secondo le parole del Billi, “maestro Andrein delli impichati”16. La presenza di questa figura tra le carte del mazzo Pierpont-Morgan, voluto da Francesco Sforza si spiega soltanto grazie all’influenza che la città di Firenze e i suoi metodi sociali, e in particolare modo, l’amicizia con Cosimo de’Medici, aveva sul (Fig.3) temperamento del duca milanese17. Possiamo trovare un precedente iconografico dell’appeso tra le figure dei dannati all’inferno nell’affresco in San Petronio a Bologna dipinto da Giovanni da Modena: il pittore bolognese dipinse la cappella Bolognini nel 1410 e citando Carlo Volpe, dimostra “[…] una nuova vitalità incontenibile della fantasia figurativa gotica […] nella descrizione delle bolgie infernali […] contenute nelle celle rocciose […] sul culmine delle quali s’innalzano contro l’orizzonte di pece, uniche apparenze vegetali, gli scheletrici tronchi e le ramaglie nelle quali sono trafitti o dalle quali pendono altri dannati”18. Tra tutti i dannati, due figure sono appese, una frontale, l’altra di schiena, nella stessa posizione assunta dall’ “Appeso” delle carte dei tarocchi, una scritta divisa ne identifica la colpa: “Ido/latria”, sono due idolatri, che cultori delle immagini di falsi dei, sono condannati a rimanere appesi a testa in giù per l’eternità essendo tale colpa, la più alta forma di tradimento, poiché disconosce Dio19.
Durante gli anni del primo Quattrocento, in tutta Europa, così come in Italia, il recupero della letteratura classica e della mitologia greca fu connesso ad un risveglio dell’astrologia attraverso le opere di Tolomeo, Manilio e altri scrittori che portarono alla formazione della figura dell’astrologo ufficiale, gran conoscitore della tradizione astrologica antica e impiegato all’interno della corte dai grandi signori per formulare predizioni annuali in base ai movimenti dei corpi celesti. Nella corte milanese di Filippo Maria Visconti, l’astrologia era fondamentale, il duca era solito farsi fare predizioni astrologiche dal suo segretario Marziano da Tortona, gran conoscitore dei movimenti degli astri e autore di quel trattato che sulla base delle sue conoscenze dell’antico, sarà il primo scritto per la creazione di un mazzo di carte, prototipo, oggi perduto, dei tre mazzi di tarocchi superstiti. È normale dunque che troviamo tre carte di carattere astrologico all’interno del mazzo Pierpont-Morgan: le carte della “Stella” /tavola 4/, della “Luna” /tavola 5/ e del “Sole” /tavola 6/, non sono presenti negli altri due mazzi, ma la nota passione per i temi astrologici di Filippo Maria, committente, ci porta a credere che tali carte siano andate perdute, così come quelle del mazzo di Francesco Sforza, ma in seguito sostituite da quelle che vediamo oggi, riportate in vita dalla mano di un artista più tardo rispetto a quelli della bottega di Bonifacio Bembo, il ferrarese Antonio Cicognara. Le tre carte astrologiche assumono una valenza simbolica poiché nellordine (stella, luna e sole) corrispondono ad un processo in cui l’uomo agisce seguendo i movimenti dettati dalle costellazioni, osserva il movimento dei corpi celesti affinché possa condurre una vita regolata e agire nel momento più opportuno seguendo le influenze della luna e pian piano giungere sempre di più vicino al sole, la divinità in tutto il suo calore e splendore. Un rapporto che unisce l’astrologia e la religione, fattore assai comune durante il XV secolo dove i papi spesso si servivano dei consigli e delle guide di astrologi, così come la corte e i duchi che desideravano condurre vite perfette, agendo secondo giusti criteri che li avrebbero poi elevati verso la gloria ma sopratutto verso la divinità20.
Il “Mondo” Visconti di Modrone /tavola 7/ è la carta conclusiva del ciclo degli “arcani maggiori”. L’immagine può essere divisa in due parti: nella parte inferiore vediamo rappresentate quattro città murate, il mare in lontananza solcato da diverse navi, un fiume che attraversa il terreno, navigato da una piccola barca, un pescatore è seduto sulla riva sinistra, mentre dalla città sulla destra giunge un cavaliere su un cavallo bianco. Probabilmente siamo di fronte ad una rappresentazione delle quattro potenze maggiori del nord Italia del XV secolo: la città sulla sinistra è Milano, famosa per il caratteristico color rossastro dei mattoni degli edifici, il fiume che la divide dalle altre città corrisponde al fiume Po che sfocia nel grande mar Adriatico su cui si affaccia la città di Venezia, la città di fronte a Milano è Bologna, mentre l’altra, più piccola tra le due è Firenze. Oltre ad essere le più grandi potenze del nord Italia, queste città hanno tutte a che fare con la storia della città di Milano, che più volte si è battuta contro di esse21.  Questa scena geografica viene introdotta entro un arco alla cui sommità c’è una corona, simbolo del potere regale di queste città, indipendenti sa dall’impero sia dal papato, che fa da basamento per l’apparizione di una figura assai emblematica e decisamente importante: una donna vestita con abiti regali, tiene tra le mani uno scettro e una corona, attributi che ci conducono ad un’iconografia ricorrente durante il Quattrocento e in particolare modo a questa carta, l’iconografia della fama, in particolare il personaggio che simboleggia la gloria. Ci ritroviamo nell’ambito delle illustrazioni dedicate ai “Trionfi” del Petrarca che questa personificazione ha assunto la sua forma nota, fra i suoi attributi principali si possono ritrovare spesso le trombe che annunciano la gloria dei suoi personaggi, oppure l’immagine stilizzata del mondo e dei suoi confini su cui trionfa la figura regale della fama che esercita il suo potere con lo scettro o la spada22. Se osserviamo la figura femminile che domina la parte superiore della carta, vedremo che molti degli attributi tipici della fama sono rispettati, così come il significato, poiché, essendo l’ultima delle carte dei “trionfi”, si giunge all’apice della storia della dinastia dei Visconti, che attraverso la protezione della fama, sono elevati a capo di ogni tipo di dominio delle altre città italiane e rimarranno per sempre ricordati tra gli uomini illustri del loro tempo.
Considerate nell’insieme, le carte dei tarocchi sono una vera e propria enciclopedia per immagini, colma di simboli che nella loro immediatezza stimolano il pensiero umano tanto che venivano utilizzati durante momenti di gioco dai nobili di corte che si dilettavano ma allo stesso tempo disputavano su temi di carattere filosofico e spirituale come possiamo notare per esempio nell’affresco di casa Borromeo “Il gioco dei Tarocchi” /tavola 8/. L’esecuzione degli (Fig.4) affreschi realizzati tra il 1445 e il 1450, della così detta sala dei giochi è attribuita all’artista meglio conosciuto come il Maestro dei Giochi Borromeo. In questa sala infatti vengono mostrati allo stesso tempo i giochi e le facezie dei membri della famiglia Borromeo e il loro status sociale attraverso i loro vestiti e le ricche acconciature23. Questo luogo viene dilatato dalle raffigurazioni parietali che mostrano giovani gentiluomini e deliziose fanciulle che si rilassano durante il gioco dei tarocchi o che passano il tempo divertendosi nel gioco della palmata. Nell’affresco raffigurante il gioco dei tarocchi, cinque giovani giocano a carte in tutta la loro eleganza, tra abiti, copricapi raffinati e acconciature alla moda. Tutto si svolge all’ombra di tre alberi di melograno in un giardino all’aperto, l’aria della scena è tutt’altro fuorché giocosa tanto che i personaggi sembrano sorpresi durante una disputa filosofica. Stilisticamente, il Maestro dei Giochi Borromeo si inserisce nelle peculiarità tipiche dell’arte lombarda tardogotica, nella delicatezza micheliniana e nello sfarzo degli Zavattari, e assimila infine anche la preziosità del Pisanello e la lezione di Masolino da Panicale negli affreschi di Castiglione Olona. Assistiamo ad una vera e propria parata di abiti, acconciature e volti che s’inseriscono in scene confidenziali, allo stesso tempo raffinate ed eleganti, in cui emerge l’aristocratico temperamento della famiglia che riusciva a trovare il giusto equilibrio tra le varie imprese commerciali e i giusti momenti di otium. Queste caratteristiche definiscono sia la vita di questa nuova classe sociale emergente, ma soprattutto quella di corte che faceva del gioco, e in particolare del gioco di carte o dei tarocchi, un momento che andava oltre il semplice passatempo.
Col passare del tempo assistiamo ad una grande diffusione del gioco di carte come momento piacevole, positivo e in perfetta consonanza con la vita di corte come dimostra il fregio dipinto da Niccolò dell’Abate nella sala dei concerti a palazzo Poggi a Bologna dove alle scene di convito, tra cui anche quella del “Gioco di carte” /tavola 9/ si alternano quelle relative alle fatiche di Ercole che secondo S. Cavicchioli non sono da contrapporre, ma da leggere in un insieme che vede in maniera positiva i momenti di ozio cortese come i concerti e il gioco di carte, prodotto di spiriti colti, in armonia con la figura di Ercole, emblema di virtù, che manifesta la bellezza dell’anima in atto, coerentemente con lo spirito del committente Giovanni Poggi24.
È interessante anche l’intreccio con il grande capolavoro della letteratura italiana, anch’esso conservato nella biblioteca dei Visconti e conosciuto nelle corti del Quattrocento italiano, i “Triumphi” del Petrarca. Si nota (Fig.5) subito il legame tra il titolo dell’opera e il nome dato alla serie delle carte figurate dei mazzi di tarocchi che come abbiamo visto erano vere e proprie allegorie alle quali spesso vengono affiancate le rime dei “Triumphi” petrarcheschi. Scritti tra il 1352 e il 1374, i “Triumphi” narrano di ricche sfilate di carri allegorici al cui seguito compaiono schiere di personaggi esemplari, tratti dal mito e dalla storia, antica e recente, ispirati ai trionfi dei Cesari, con l’intento di esaltare le virtù che avvicinano l’uomo a Dio secondo la tipica concezione umanistica e neoplatonica del tempo25. La struttura del poema è abbastanza semplice, il poeta viene rapito in una visione in cui gli appaiono una serie di trionfi: il primo è quello di amore che viene vinto dal trionfo della castità a sua volta vinta dalla morte, la fama però ha vittoria sulla morte, ma cede comunque al tempo il quale si dissolve nel trionfo dell’eternità, l’ultimo26. Questo testo fu alla base di numerose rappresentazioni artistiche che diedero immagine alle terzine di Petrarca come per esempio i pannelli di un cassone matrimoniale attribuiti al Pesellino /tavola 10/ /tavola 11/in cui tutti e sei i trionfi sono raffigurati in processione, immagini che come abbiamo già notato per le figure di Cupido e del tempo, fecero da base iconografica per l’esecuzione delle figure delle carte dell’ “Amore” e dell’ “Eremita”. E proprio con alcune delle carte dei tarocchi, G. Berti trova un parallelo diretto con i sei trionfi petrarcheschi e nell’ordine:
  • Al trionfo di amore corrisponde la carta dell’ “Amore”.
  • Al trionfo della castità corrisponde la carta del “Carro”.
  • Al trionfo della morte corrisponde la carta della “Morte”.
  • Al trionfo della fama corrisponde la carta del “Giudizio”.
  • Al trionfo del tempo corrisponde la carta dell’ “Eremita”.
  • Al trionfo dell’eternità corrisponde la carta del “Mondo”.27
In conclusione, qual’è il vero scopo di questi mazzi di carte? A cosa si deve la loro origine? Per rispondere a queste domande bisogna fare un passo indietro fino a incontrare un piccolo trattato e una figura emblematica ma cruciale per capire bene l’oggetto della nostra indagine: Marziano da Tortona e il suo “Tractatus de deificatione sexdecim heroum”. Nel proemio del suo trattato, Marziano espande gli intenti che portarono il duca Filippo Maria a voler un mazzo di carte che non è da identificarsi in nessuno dei tre analizzati finora, ma ad un altro, oggi perduto, che sarà il primo esemplare dal quale gli altri dipenderanno, un mazzo diverso che è ben descritto all’interno del trattato di Marziano, suo  fedele segretario e ideatore di queste carte che rispecchiano l’animo e lo spirito di questo personaggio emblematico. Marziano nega l’idea che il gioco sia per uomini senza virtù, anzi afferma che è proprio il miglior passatempo che un uomo, stanco dalle sue imprese virtuose, possa fare, sia per riposare la mente, ma anche per trovare attimi di felicità e sopratutto utilizzare l’intelletto essendo di fronte a figure simboliche dall’alto livello culturale, in questo caso ad eroi tratti dalla mitologia antica che nel trattato vengono raccontati e spiegati nei loro dettagli iconografici e simbolici. Un gioco dunque che per la sua forma e immagine trae origine dall’antico, rimanda alle virtù e presuppone l’uso dell’intelletto e che a partire da qui si svilupperà in quello che sarà il gioco dei trionfi che finora abbiamo analizzato nei suoi dettagli. Siamo dunque giunti all’origine di un gioco che come abbiamo visto rispecchia gli ideali di uomini illustri, come i duchi di Milano, che la storia ricorderà e che attraverso le memorabili opere delle botteghe degli artisti più importanti del tempo, prenderà forma e immagine in carte che diventano vere e proprie opere d’arte, la cui iconografia a tratti semplice, rimanda a complessi significati simbolici che ancora oggi suscitano interesse sai in studiosi, sia in appassionati che attingono ad esse per riflettere, cercare risposte o semplicemente divertirsi e passare il proprio tempo libero. I riferimenti alla classicità e ai testi antichi sono dunque il primo passo per comprendere non solo questo mazzo di carte, ma anche lambiente che andava nascendo nella Milano viscontea di primo Quattrocento al quale si deve poi lelaborazione dei tre mazzi di tarocchi superstiti e dai quali poi ne nasceranno altrettanti in tutta Europa, ciascuno con le proprie caratteristiche simboliche e iconografiche, ma tutti riferibili ad un comune punto di origine.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
NOTE
DIDASCALIE IMMAGINI
 
Img. 1: Bonifacio Bembo e bottega, La Papessa, Pierpont-Morgan Library, New York
 
Img. 2:n Antonio Cicognara (attr.), La Forza, Pierpont-Morgan Library, New York
 
Img. 3: Bonifacio Bembo e bottega, L’Appeso, Pierpont-Morgan Library, New York.
 
Img. 4: Bonifacio Bembo e bottega, Il Mondo, Beinecke Library, Università di Yale, Stati Uniti.
 
Img. 5: Maestro dei Giochi Borromeo, Il gioco dei tarocchi, sala dei giochi, casa Borromeo, Milano.


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[i] D. Palmieri, Dazare con il matto,  in A. Jodorowsky,  Io, i tarocchi, 2021, Lo Scarabeo edizioni, p. 9
[ii] S. R. Kaplan, I Tarocchi, origini, storia, fortuna, 1972, Oscar Mondadori, pp.11-13
[iii]  J. Hundley, Tarocchi, La Biblioteca esoterica, 2021, Taschen, p. 22
[iv] G. Fattorini, Gian Galeazzo Visconti e il ruolo della Lombardia in S. Settis e T. Montanari, Arte. Una storia naturale e civile, 2019, Einaudi Scuola, p.20
[v] S. R. Kaplan, op. cit. p. 14
La consueta struttura di un mazzo di tarocchi ha col tempo condotto alla formazione dei comuni mazzi da gioco da cinquantadue carte perdendo l’utilizzo di alcune a partire proprio dai ventidue arcani maggiori, ad eccezione della carta del matto che si è trasformato in jolly, mentre il cavaliere e il fante si sono uniti diventando una sola carta, il fante.
[vi] C. Cieri-Via, L'iconografia Degli Arcani Maggiori in G. Berti and A. Vitali, I Tarocchi: le carte di corte: gioco e magia alla corte degli Estensi, 1987, Bologna: Nuova Alfa, p. 164
[vii] Per prima la Moakley nel 1966 ipotizzò che la figura della Papessa fosse proprio quella di suor Maifreda, eletta a capo di una setta eretica e condannata sul rogo dall’Inquisizione nel 1300.
[viii]B. Garofani, Le eresie medievali,  2008, Carocci editore, p.105
[ix] A. Valerio, Eretiche, donne che riflettono, osano, resistono, 2022, Il Mulino, Bologna, p.80
[x] H. Farley,  A cultural history of Tarot.  From entertainment to esotericism, 2009, I. B. Tauris, London and New York, p.57
[xi] H. Farley, op. cit., p.55
[xii] S. Cavicchioli, La “Visibile poesia” di Nicolò. Fonti letterarie e iconografia dei fregi dipinti a Bologna,  pp. 101-115 in Sylvie Béguin e Francesca Piccinini (a cura di), Nicolò dell’Abate. Storie dipinte nella pittura di Cinquecento tra Modena e Fontainebleau, 2005, Silvana Editoriale, pp.109-112
[xiii] Per la spiegazione del complesso programma iconografico si rimanda a Cavicchioli, op. cit., 2005.
[xiv] H. Farley, op. cit., pp. 65-66
[xv] D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni e emozioni del pubblico, 1993, Einaudi Editore, pp. 371-377
[xvi] A. Zanoli, Andrea del Castagno, 1964, I Maestri del Colore n. 48, Fabbri Editori, p. 2
[xvii] H. Farley, op. cit., p. 72
[xviii] C. Volpe, La pittura gotica. Da Lippo di Dalmazia a Giovanni da Modena, pp. 213- 294, in La Basilica di San Petronio in Bologna, vol. I, 2003, Fondazione Cassa di Risparmio, Bologna, p. 238
[xix] A. Vitali, Arcani svelati, pp. 145-157, in Giordano Berti and Andrea Vitali, I Tarocchi: le carte di corte: gioco e magia alla corte degli Estensi, 1987, Bologna: Nuova Alfa, p. 153
[xx] H. Farley, op. cit., p.78
[xxi] H. Farley, op. cit., p.80
[xxii] G. Guastella, Il Trionfo della Fama fra letteratura e arti figurative, pp. 39-43, in Sonia Cavicchioli e Manuela Rossi (a cura di), Trionfi. Il segno di Petrarca nella corte dei Pio a Carpi, 2014, APM Edizioni, Carpi (MO), p. 39
[xxiii] L. Scalco, Il ciclo dei giochi nel Palazzo Borromeo di Milano, 2011, dal sito http://www.storiadimilano.it/Arte/giochiborromeo/giochiborromeo.htm
[xxiv] S. Cavicchioli, op. cit., pp. 138-144
[xxv] G. Berti, Storia dei Tarocchi. Verità e leggende sulle carte più misteriose del mondo, 2022, Rinascimento - Italian Style Arte Editore, pp. 46-47
[xxvi] G. Bezzola, Premessa, pp. 16-18 in Francesco Petrarca, Trionfi, 1984, Biblioteca Universale Rizzoli, p. 17
[xxvii] G. Berti, op. cit., p. 47