L'arte della santità

San Nicola Saggio di Longobardi

di Pietro AMATO

Un lavoro ricco di implicazioni, di forte rilievo spirituale e religioso, di notevole caratura storico-artistica, ma anche affascinante e pieno di stimoli per ulteriori approfondimenti, quello che Pietro Amato ha dato recentemente alle stampe in due volumi con l’evocativo titolo L’arte della santità. San Nicola Saggio di Longobardi. 1650 – 1709, pubblicato dall’ Ordine dei Minimi (Figg. 1, 2), cui appunto il mistico calabrese, oggetto di quest’analisi, appartenne. Un lavoro che sicuramente può diventare un modello di ricerca per altre figure simili non adeguatamente esaminate dagli studiosi e che in ogni caso contribuirà alla riscoperta, qualora ce ne fosse bisogno, o comunque a tenere nella giusta considerazione la vicenda di Nicola da Longobardi, asceso agli onori degli altari nel 2014, ben tre secoli dopo essere stato beatificato.

Nato nel 1649 da Fulvio Saggio e Aurelia Pizzini, Nicola incontrò grandi difficoltà da parte della famiglia quando, molto giovane, fu pervaso dalla irrefrenabile vocazione a monacarsi. Proveniva da una famiglia modesta e tanto Fulvio Saggio che sua moglie –ancorché devoti e religiosissimi- si opposero risolutamente a che il loro Giovanni Battista (così era stato battezzato) entrasse nel convento dove era andato a bussare, cioè il convento dei Minimi del suo paese, dov’era particolarmente forte la devozione verso san Francesco di Paola. La mamma, donna austera e molto pia, si dice arrivasse perfino a strappargli di dosso l’abito votivo con il quale il ragazzo –aveva allora circa vent’anni- voleva presentarsi alla porta del convento. Accadde a questo punto un evento catalogato come miracoloso, ma che forse oggi potremmo inserire tra le patologie di carattere psicosomatico, cioè al giovane venne meno la vista, diventò cieco, cosicché i genitori, pentiti e addolorati, gli promisero che non lo avrebbero più contrastato e quindi –a stare ai racconti dell’epoca raccolti nella Bibliotheca Sanctorum della Pontificia Università Lateranense- il ragazzo riacquistò la vista e poté adempiere alla sua missione.
La sua vita si svolse nel segno della carità, della dedizione totale verso i poveri, della castità, ossia i valori fondanti del francescanesimo, e che caratterizzano da sempre in particolare l’ordine dei Minimi; fu autore di miracoli ma anche preda di trasporti e di visioni mistiche, come vedremo, e morì in odore di santità. “Il transito –scrive Amato- costituì un evento”, tanto che furono numerosissimi coloro che “mossi dalla divozione di esso Servo di Dio vennero a baciargli le mani”, come raccontò un testimone :”Io stesso vi bagiai le mani, e trovai, che erano morbide, e fresche, come se fossero di persona vivente …”.

Non devono meravigliare queste affermazioni; le possiamo ritrovare frequentemente nelle cronache relative alle vicende di quanti, divenuti popolarissimi in vita per le loro facoltà miracolose, morivano in odore di santità. L’incorruttibilità del corpo costituiva allora molto spesso la prova provata per avviare alla beatificazione, tanto è vero che dopo le esequie di grandi predicatori e mistici, francescani e non, le spoglie anche molti giorni dopo il transito non mostravano alcun segno di decomposizione e le folle le prendevano d’assalto in una vera e propria caccia alle reliquie. Qualcosa di molto simile infatti accadde a Felice da Cantalice, a Filippo Neri e ad un altro frate francescano meno noto, non dell’ordine dei minimi ma dei minori, la cui vicenda (che abbiamo rievocato in un numero speciale di Valori Tattili, n.5-6; 2015, pp. 153-178 ) per molti aspetti anticipa quella di San Nicola. Si tratta del recolletto (questo è il nome dei minori francescani spagnoli) Angelo dal Pas, uno straordinario predicatore, tra i più influenti francescani presenti a Roma negli ultimi anni del Cinquecento. Nato nel 1540 in Catalogna anche a lui i genitori tentarono vanamente di impedire l’entrata in convento, ed anch’egli morì in odore di santità. Durante l’escussione dei testi, nel corso del processo di canonizzazione, fu riferito che aveva operato numerosi miracoli, tra cui “l’aver guarito toccandolo e benedicendolo col segno della Santissima Croce” un arto “stroppiato” del giovane Federico Cesi (il futuro fondatore dell’Accademia dei Lincei) che perfino Filippo Neri non era riuscito a risanare.
Dal Pas morì nel convento di san Pietro in Montorio nell’agosto del 1596, e nonostante che il suo corpo non venisse subito seppellito per consentire l’omaggio dei numerosissimi fedeli, rimanendo quindi esposto per alcuni giorni alla calura, pare che “i suoi arti –così riportano le cronache del tempo- si conservassero così morbidi e maneggevoli come se ancora vivesse”. La consonanza con il ‘caso’ di san Nicola da Longobardi non lascia meravigliati ché, anzi, a leggere le cronache, si trovano altre sorprendenti somiglianze, ma non per quando riguarda la sorte successiva, dal momento che il suo processo di beatificazione si arrestò, nè quella del cadavere che non ebbe la stessa fortuna –se si può dire- di quello del santo calabrese, perché non uscì del tutto indenne dall’assalto dei fedeli i quali, alla spasmodica caccia di reliquie, riuscirono a strappargli le unghie e brandelli di carne, oltre alla veste funebre.
Va detto per inciso che questo costume di raccogliere resti di ogni tipo che evocassero eventi miracolosi, era strettamente collegato al culto dei santi e non riguardava solo le plebi cittadine; molte famiglie aristocratiche ne facevano vanto (ed anche commercio) e si sa che lo stesso Filippo Neri considerava le reliquie “incomparabili ricchezze”, tanto che dopo la sua morte nelle sue stanze ne vennero catalogate più di un centinaio.

Le vite e le vicende dei due francescani (ma se ne potrebbero citare altre) come dicevamo si assomigliano al punto che addirittura si potrebbero perfino sovrapporre, nonostante accadano a cent’anni di distanza l’una dall’altra: Dal Pas muore nel 1596, il 26 agosto, a 56 anni; san Nicola invece nel 1709 nel collegio di san Francesco di Paola ai Monti, a 60 anni; ma c’è un filo rosso che le collega all’insegna di valori del francescanesimo.
La carità, in primis, come lo stemma che è l’attributo di san Francesco di Paola (Fig 2), (di cui ricorre quest'anno il sesto centenario della nascita) autentica testimonianza di una vita anche in questo caso caratterizzata da estasi, miracoli ed eventi extra ordinari, grazie ai quali San Francesco di Paola, il fondatore dell’Ordine dei Minimi, in effetti ebbe a godere a suo tempo di un prestigio assoluto che non si attenuò mai neppure dopo la sua scomparsa (1507). Ed infatti, ad ottant’anni di distanza, suor Maria Maddalena dei Pazzi ancora al suo insegnamento faceva appello, allorquando preoccupata per le condizioni in cui versava la chiesa, di cui vedeva “infermi sia il capo sia le membra”, come scriveva in una lettera del 1586 al gesuita Pietro Blanca, auspicava che ci si dovesse risollevare dalle difficoltà facendo conto proprio sui frati dell’ordine dei Minimi di san Francesco di Paola, che la santa carmelitana considerava un esempio, approfittando del momento in cui si veniva a delineare anche a Roma, proprio sul finire del XVI secolo, un movimento favorevole alla proposta di riabilitare e canonizzare Gerolamo Savonarola.

Ma ciò che appare centrale nel ragionamento svolto da Pietro Amato è l’idea che le esperienze pastorali e mistiche di san Nicola di Longobardi, come di Dal Pas, come di molti altri, si propongano come testimonianza ed emblema di una spiritualità assolutamente esemplare, non inquinata dal trascorrere del tempo, dal cambiamento dei contesti, dall’affermarsi di concezioni diverse, dal mutare di circostanze ed eventi. Lo dice del resto chiaramente lo studioso già nella sua Introduzione quando sottolinea che “il tutto è promosso dal mistico anelito di uguaglianza fraternità e giustizia”.
Del resto occorre sottolineare come la solidità e il valore testimoniale di questo lavoro escludono di per sé ogni tendenza agiografica, in una indagine che ci appare incentrata sul santo studiato prima come uomo e poi come mistico. E’ insomma come se con questo libro l’autore prospettasse un percorso che riguarda anche tutti noi, perché nato dalla civiltà cristiana che proprio “la centralità data all’uomo” ha come fondamento.
Amato analizza gli elementi originari che incisero e determinarono il tragitto del santo di Longobardi: da quello dottrinale, a quello pratico, a quello carismatico: tutti fattori essenziali per comprendere come e perché questi poté condurre una vita di santità e come maturò la volontà di abbracciare proprio ‘quella’ verità di fede. Ma non minore importanza riveste il contesto socio geografico e il retroterra storico e culturale in cui tutto prese avvio.

Quando Nicola da Longobardi nacque il viceregno di Napoli era ancora lacerato da una profonda crisi, il cui più noto evidenziatore era stata la rivolta di Masaniello (1647); ma la tensione sociale esplosa nella capitale era deflagrata anche in quella parte dove la nostra vicenda si situa, ossia nelle Puglie, con una serie di sommosse non meno sanguinose, culminate con quella non così nota ma certo di altrettanta durezza che si scatenò senza successo a Nardò, contro Giovan Gerolamo d’Acquaviva, conte di Conversano, un sinistro despota macchiatosi di crimini orribili, meglio noto come il Guercio di Puglia (uno studio completo ed appassionato a questo riguardo resta quello di Ludovico Pepe, Nardò e Terra d’Otranto nei moti del 1647-48, Manduria, 1962).
Non è certo questa la sede per ripercorrere quegli eventi nè per riprendere i motivi che portarono al loro fallimento; tuttavia non va sottovalutata la circostanza che nel tentativo –solo a volte cosciente, molto più spesso no- di far saltare il precario equilibrio feudale controllato dalla Spagna, intervennero motivazioni assai differenti e non di rado al centro delle congiure e degli avvenimenti si trovarono degli ecclesiastici. Nè va dimenticato che il viceregno era stato anche travagliato  da “infiltrazioni razionaliste ed ereticali di tempra protestante, considerando l’accoglienza fatta a Bernardino Ochino “già orientato verso il protestantesimo” e del quale stretto seguace fu il cappuccino Girolamo da Molfetta, nonchè la predicazione – che “non fu né indolore né asettica a Napoli”- di Juan de Valdes, riguardo al quale, già all’indomani della sua istituzione, nell’estate del 1542, il Sant’Uffizio romano aveva maturato la convinzione che avesse “infectato tutta Italia de Heresia”; per non dire della “eccentrica posizione di Giovan Bernardino Bonifacio, marchese di Oria, che aveva causato la sommossa di Francavilla Fontana”; esperienze assai pericolose insomma, cui poi si erano aggiunte la “circolazione di teorie antitrinitarie del nolano Giordano Bruno e del pugliese Giulio Cesare Vannini” ” (per queste vicende e per le citazioni, cfr lo studio di Clemente Brancasio e Gregorio Scherio, I dioscuri dello scotismo estra-accademico nel mezzogiorno d’Italia nel secolo XVII, “Studi francescani”, a. 82, 1985, n.3-4, p.274),

Ma, per tornare al nostro tema, in un contesto così problematico s’inquadra la vicenda del santo di Longobardi, che è l’espressione di una visione del mondo strettamente legata alle tradizioni del francescanesimo ed alle sue capacità di coinvolgimento e in cui rivive la grande tradizione del pensiero cristiano che vede nel mondo il dispiegarsi del grandioso progetto divino della redenzione e della salvazione; una visione del mondo che, come esige la natura stessa dei minimi, si rivolge agli ultimi, guardando con occhi disincantati i rapporti sociali, forse con ingenuità ma certamente con una forte carica di coinvolgimento, in una lotta continua contro il peccato, seguendo il cammino segnato dal Cristo.
La dimensione sociale della vicenda di san Nicola è fermamente popolare, ma per Amato l’essenziale è l’intenzione trascendente, dal momento che l’amore per l’assoluto non può essere condizionato dalla relatività della storia. Il senso delle sue argomentazioni lo si può capire bene dalla progressione delle immagini –molte delle quali inedite- che illustrano l’avventura mistica di san Nicola da Longobardi e che il libro riporta.
Alla presenza del giglio –che indica purezza, vita candida-, si unisce la “entusiasmante visione” dove “al pari di altri mistici –sottolinea l’autore- il padre calabrese ha il privilegio di abbracciare la croce ed entrare così nel novero di quei santi della Riforma cattolica che ebbero il dono dell’estasi come segno inseparabile di santità”. (fig 2). Altro segno dell’estasi, oltre alla Trasverberazione (fig 3),  è “la tenera immagine” del Bambino tra le braccia del frate, come “partecipazione al sacrificio vittimale” (fig 4) .
E’ pur vero che la presenza del Bambino –fosse accolto o donato- tra le braccia di un santo o di un frate dell’ordine, non è certamente una novità dal punto di vista iconografico; anzi, era divenuta una sorta di prassi tra i francescani a partire dal 1223 , l’anno in cui il santo di Assisi realizzò il presepio nella selva di Greccio. Si tratta di iconografie che tuttavia si caricano di un ulteriore senso di religiosità, per la figura del santo o del frate –chiunque esso fosse- che vi compare. Nel nostro caso San Nicola ha in braccio il Bambino e poi appare raffigurato anche in ginocchio davanti alla Vergine, sottomettendosi ad essa, simbolo della madre chiesa, proprio come lo stesso Francesco era stato a suo tempo, sottomesso alla chiesa cioè alla gerarchia, al contrario di altri predicatori e movimenti che invece ne contrastarono l’autorità e per questo vennero combattuti. Il messaggio è chiaro: ribadire visivamente il senso della vera dottrina e a chi appartenesse la facoltà di affermarla; un impegno niente affatto secondario né tanto meno scontato, al contrario, la lezione andava ribadita sempre, affinché i fedeli non la dimenticassero mai.
In questo senso, l’azione del santo, Nicola di Longobardi nel nostro caso, è individuale ma nello stesso tempo corale, capace cioè di coinvolgere, e non solo visivamente, tutti i fedeli, l’intero universo degli umili, affermando significativamente un messaggio di solidarietà e comunanza, che è quello del cattolicesimo, esattamente l’opposto del portato individualistico delle tematiche protestanti.

Si tratta di un concetto che scorre come un filo continuo nel ragionamento di Amato secondo il quale l’assoluto non dipende mai né è condizionato dalla parzialità della storia; ed è un concetto che si deve applicare anche al tema delle immagini. Va detto sotto questo aspetto che non esistono immagini –pitture o sculture- del Trecento o del Quattrocento o del Seicento e così via; esistono immagini fatte, realizzate, dipinte o scolpite nel Trecento, Quattrocento o Seicento ma che trasmettono -naturalmente seguendo le modalità del tempo- valori che esistono da sempre, che sono assoluti, come assoluti, perché sempre presenti, sono gli eventi –in tema di arte religiosa- che tramandano (e che per un fedele si attualizzano sempre tramite la sacralità del rito).
Si capisce insomma perché  venga rivendicata nel libro d Amato l‘importanza assunta dalle pitture di ritratti, la cui veridicità, come scrive l’autore, costituisce “una eredità della Riforma cattolica che risponde alla Riforma protestante”, considerando come i protestanti di tutte le varie confessioni sminuissero, fino a negarla, l’importanza del culto dei santi e della vergine.

Ecco dunque è il ritratto di san Nicola da Longobardi inciso originariamente (Fig 5) e quello raffigurato post mortem in pittura (Fig. 6). Altre ed altrettanto importanti immagini del santo calabrese, oltre a quelle già citate che lo raffigurano con il bambino in braccio (Fig 4), nella trasverberazione (Fig 3), e nell’abbracciare la croce (Fig 2), sono quelle riemerse grazie alla ricerca  di Pietro Amato, che lo mostrano anche scolpito, in estasi, in pittura e in scultura; ed infine raffigurato nella visione della trinità con Francesco di Sales.

Abbiamo già visto quanto quest’ultima figura fosse molto presente nell’immaginario del tempo, pure molti anni dopo la sua morte ed anche le circostanze in cui avvenne  la sua beatificazione, nel 1662 lo confermano vieppiù. In quella circostanza infatti, per la prima volta per un evento di canonizzazione venne approntato in San Pietro, per volontà del pontefice Alessandro VII  Chigi, un grande apparato scenografico, come se si dovesse prefigurare una sorta di incontro tra Chiesa e Stato, un incontro confessionale ben inteso, regolato da un’etichetta tesa al ribadimento della centralità pontificia, di affermazione della sua preminenza, tanto è vero che da allora in poi quanto avvenne nella splendida cornice barocca della basilica petrina per il santo di Sales, sarebbe divenuto consuetudine, ed infatti il nostro san Nicola avrebbe avuto lo stesso trattamento.

Ma per ritornare sull’ambito della ritrattistica e in genere delle immagini, Amato sottolinea che ebbe un ruolo determinante per le popolazioni locali “la circolazione della Vera Effige di fra’ Nicola ritenuta miracolosa e consistente in un’immagine che ritrae le sue vere sembianze”. Il ritratto del santo  -che a parere dello studioso, spetterebbe ad una “mano non italiana”, cioè quella dell’incisore Charles Jacques Voirin,  “fu eseguito dal vero in occasione della morte” ma soprattutto, insiste Amato, venne realizzato seguendo le regole della ritrattistica dei minimi “che non prevede alcun elemento devozionale e/o didattico, ma si limita alla rappresentazione delle fattezze fisiche e alle caratteristiche della sua vita di religioso, illustrata dagli attributi iconografici più salienti”.

Lasciamo ai lettori ripercorre le varie fasi della composizione dell’opera e poi del suo ritrovamento (“una scoperta emozionante” fatta dallo stesso autore) nonché della serie di rappresentazioni iconografiche svoltesi nel corso del tempo, un vero “florilegio delle visioni” come lo definisce Amato, dove il santo ora “in unione mistica”, ora “inginocchiato o stante in amorevole dialogo … “, ora “in profondo deliquio … in una sofferenza senza pari” è però sempre con il dono dell’estasi “segno inseparabile della santità”. Ed allo stesso modo spetterà ai lettori approfondire le vicende delle altre importanti figure di mistici minimi che Amato cita per il rilievo che per vari motivi ebbero nel percorso di san Nicola. Un percorso mistico, la cui ricostruzione analitica appare come uno strumento per la riaffermazione delle verità cristiane, e dove è fin troppo evidente l’intenzione da parte dell’autore di far emergere e riproporre un contenuto dottrinale mediando in qualche modo tematiche teologiche patrimonio dello stesso ordine religioso di appartenenza di san Nicola: ” I religiosi –scrive- hanno proclamato audacemente che le aspirazioni dell’animo coincidono con lo sviluppo e con la qualità della vita” e di conseguenza  “uomini immensi, quali il valenzano Gaspare de Bono, Nicola Saggio di Longobardi, san Francesco di Paola” hanno dato come insegnamento “ai figli ‘minimi’ … volare alto per la poetica della luce umana e divina. L’arte della santità."

Una storia significativa insomma quella che rivive nel libro di Pietro Amato, dove, occorre sottolinearlo, lo svolgimento di un tema in realtà ne sottende tanti altri. Abbiamo solo brevemente accennato in questa sede alcuni elementi analitici, quelli che più competono il campo dello storico dell’arte, campo peraltro riguardo al quale Pietro Amato ha scritto pagine importanti e di sicuro altre è chiamato a scriverne, se vanno considerate come un auspicio le parole che chiudono il libro, prese da una citazione di san Bernardo: ”Che questo sia la fine del libro, ma non la fine della tua ricerca”