di
Serafina TROIA
Se fosse un film sarebbe di Alfred Hitchcock, se fosse una mostra sarebbe quella curata da Luca Massimo Barbero. “La finestra sul cortile” non ricorda solo il titolo di un capolavoro di Hitchcock del 1954 ma anche la scritta che campeggia sulla facciata della Galleria d’Arte Moderna di Milano sottotitolata “Scorci di collezioni private”.
Dallo scorso 22 novembre infatti si possono ammirare alcune opere provenienti dalla Collezione Panza e dalla Collezione Berlingieri di artisti contemporanei come Christo, Joseph Kosuth, Richard Long, Giulio Paolini, Julia Mangold inserite nella vasta esposizione permanente della Galleria milanese.
Il curatore introduce i visitatori in una nuova composizione della scena. In una sala del piano terra troviamo le scritte del 1970/71 di Lawrence Weiner proiettate sulle pareti come fossero titoli di testa. Il continuo gioco di luce e ombra che alterna le prime cinque sale è metafora dell’alternarsi del giorno e della notte nella pellicola di Hitchcock.
Al riaccendersi delle luci dopo la fine del primo tempo nelle sale cinematografiche si fa una breve panoramica delle facce che siedono vicino a noi, il tutto sembra accadere nuovamente quando ci si ritrova di fronte a ritratti ottocenteschi di “ospiti permanenti” della Galleria ai quali viene contrapposto un monocromo di Phil Sims, Untitled 1993.
Quella sconcertante sensazione di avere gli occhi puntati addosso e la loro assoluta compostezza viene a rompersi nella proiezione di Monster del 2002 opera di Douglas Gordon, in cui l’artista stacca fisicamente la pelle dal suo volto. Sono immagini lente, senza audio che irrompono in maniera cruda. In quel frangente si riflette sul senso del ritratto, del ritrarsi, dell’egocentrismo o deterioramento dell’ego, quell’essere spettatori impassibili, passivi e non protagonisti esattamente come il fotoreporter del film che non può intervenire per via della gamba ingessata, può solo osservare le vicende che gli si presentano di fronte.
Il meraviglioso dialogo contraddittorio però che caratterizza il percorso espositivo, a mio avviso, è dato dall’imponente istallazione dell’artista concettuale Sol LeWitt. Non si può fare a meno di notarla, perché le strutture quadrate che misurano 70x70 cm occupano quasi l’intera sala, sono bianche come le pareti attorno eppure guardando attraverso di esse si può inquadrare più volte le opere di Realismo Sociale poste ai margini. Uno dei quadrati incornicia il bronzo Lavoro Notturno del 1891 di Antonio Carminati, lo riporta all’attenzione, lo fa rivivere. Si restringe l’inquadratura su un ragazzino accartocciato con la testa all’ingiù, una mano sull’altra, abbandonato al sonno. Ancora più interessante è notare che proprio le opere di LeWittt basate sul ritmo ossessivo della ripetizione sono perfettamente in sintonia col lavoro meccanico, col gesto ripetuto migliaia di volte che porta quel piccolo uomo al bisogno di fermarsi e spegnersi. Lui dorme ma la macchina da presa continua a girare. E così s'incorniciano i particolari dentro spazi più piccoli proprio come fa naturalmente il nostro occhio nell’osservare un soggetto.
Inevitabilmente ci si trova a “vedere” gli spazi del museo sia interni ed esterni da una prospettiva differente perché cambiando anche solo una delle opere in ogni singola stanza, cambia il contesto narrativo, si guarda quell’elemento nuovo in relazione a ciò che sta intorno. Oppure si guarda l’elemento vecchio in relazione a quelli appena posti.
Questo concetto non è per niente nuovo, ma è merito di un grande regista scegliere l’inquadratura del particolare per anticipare il tema della scena, per evidenziare la suspense. Sulla base di queste supposizioni credo che Barbero abbia diretto ogni fotogramma e collocato ogni “inciampo visivo” (come da lui definito) nel posto giusto, anzi nel momento giusto. D’altra parte nell’era virtuale fatta di selfie, di foto profilo e dei “followers” mai espressione risulta più attuale di ciò che l’infermiera nella pellicola americana borbotta al protagonista James Stuart intento a sbirciare dalla finestra: “O Signore, siamo diventati una razza di guardoni!” .
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Serafina Troia Milano, 16 Dicembre 2016