Giovanni Cardone Febbraio 2022
Fino al 1 Marzo si potrà ammirare la mostra presso il Palazzo Reale di Napoli Dante a Palazzo Reale a cura di Mario Epifani e da Andrea Mazzucchi.  In occasione del settimo centenario della morte di Dante Alighieri il Palazzo Reale di Napoli celebra il Sommo Poeta con una mostra incentrata su tre tele raffiguranti episodi della Divina Commedia, eseguite dal pittore Tommaso De Vivo, allestita negli spazi della cosiddetta “Galleria del Genovese”. La mostra, che apre in uno spazio espositivo per la prima volta aperto al pubblico,nell'area della cosiddetta "Galleria del Genovese", collegamento ottocentesco tra il Palazzo Reale e il Teatro di San Carlo, è organizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli Federico II, il Dipartimento Studi Umanistici Federico II, la Biblioteca Nazionale di Napoli, l’Archivio di Stato e la Reggia di Caserta. Come afferma Mario Epifani Direttore del Palazzo Reale di Napoli : Questa mostra inaugura l'attività espositiva del nuovo museo autonomo del Palazzo Reale di Napoli in ambienti appositamente allestiti in prossimità dell'Appartamento Storico.  Con questo affondo sulle collezioni del Palazzo nel periodo del Regno d'Italia ha inizio il lavoro di indagine preliminare a un intervento di revisione dell'allestimento dell'Appartamento, basato sugli inventari storici, che unisca la possibilità di valorizzare l'eccezionale patrimonio storico-artistico del Palazzo con la volontà di illustrare al visitatore le sue stratificazioni storiche, i personaggi che lo abitarono e le vicende di cui fu teatro. I tre dipinti di De Vivo, realizzati per il re d’Italia Vittorio Emanuele II, in vista il sesto centenario della nascita del Ghibellin fuggiasco del1865, successivamente sono stati divisi tra il Palazzo Reale, la Biblioteca Nazionale e la Reggia di Caserta. Eccezionalmente riunito nella sede originaria dopo un accurato restauro, il ciclo di De Vivo è esposto a confronto con altre testimonianze della fortuna di Dante nell'arte napoletana intorno alla metà dell'Ottocento, dal celebre dipinto di Domenico Morelli raffigurante Dante e Virgilio nel Purgatorio  del 1844, all'album di litografie di Antonio Manganaro che illustra in tono satirico L'Esposizione marittima visitata da Dante e Virgilio del 1871. Il percorso di visita è arricchito dalle proiezioni multimediali, realizzati da Stefano Gargiulo (Kaos Produzioni) che illustrano, attraverso immagini tratte da codici miniati, il viaggio di Dante nell'aldilà. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Dante e in particolar modo, Dante e Napoli apro il mio saggio dicendo : Ogni età si arroga il diritto di rileggere e reinterpretare la tradizione secondo le proprie esigenze e competenze. Riflettere sul modo in cui poeti, e soprattutto poetesse, estemporanei a cavallo tra Sette e Ottocento si appropriarono di Dante può diventare una delle chiavi per rivelare l’insospettata produttività del modello della Divina Commedia nell’Italia agli albori della modernità. Questa riflessione si prefigge di delineare due percorsi: il primo ci porterà a sondare la fortuna di temi e personaggi danteschi in un ambiente colto ed elitario quale fu quello della settecentesca Accademia dell’Arcadia il secondo, invece, a verificare la presenza di moduli danteschi nei repertori della poesia estemporanea, sia in ottava che in terza rima, di tradizione popolare, spingendoci fino alle soglie dell’Unità in un parallelo tra suggestioni letterarie e spinte patriottiche. Vedremo, infine, come la fortuna di alcuni episodi danteschi venne supportata lungo tutto l’Ottocento da un’intraprendente editoria di stampe e illustrazioni che promuovevano la diffusione di composizioni e narrazioni in ottava rima, ispirate proprio a celebri brani della Commedia, su scala nazionale a costi contenuti e per un bacino d’utenza allargato anche alle classi popolari. Prima di passare all’esame di alcune testimonianze, e per coglierne appieno la valenza, sarà necessario tratteggiare almeno per sommi capi i principali assunti che, nel panorama della storia letteraria italiana, qualificano la ricezione settecentesca dell’opera dell’Alighieri. Come accade per molti aspetti della storia letteraria dell’Italia settecentesca, il rapporto che il secolo dei lumi intrattenne con Dante soggiace ad una lettura contrastiva, risultando profondamente ipotecato dalla straordinaria fortuna del poeta nel secolo successivo, che gli riservò una produzione critica di ampie proporzioni. La lettura risorgimentale e romantica dell’opera e della figura storica del poeta fiorentino costruisce quell’efficace modello di exul immeritus in cui molti patrioti costretti all’esilio furono pronti ad identificarsi; ma contemporaneamente lo trasforma anche in «un mito astorico, utile in quanto attualizzato, ma perciò anche storicamente ‘falsato’». Di fronte alla constatazione ottocentesca ma ripresa e condivisa almeno fino agli anni Ottanta del Novecento che «solo con l’Ottocento Dante ha la sua naturale perfezione e il suo naturale commento nella vita pubblica», la critica letteraria ha esitato a valutare l’importanza del Dante settecentesco. Gli studi sulla fortuna dantesca nell’Italia del XVIII secolo sono quasi unanimemente diretti a segnalare quanto scarsa sia stata la considerazione riservata in questo periodo al sommo poeta, e tendono a classificare eventuali testimonianze di vitalità della sua opera come casi d’eccezione: o per l’importanza di coloro che le producono, oppure per il tipo di attenzione, essenzialmente stilistica, dedicata al testo. «L’antico, Dante» finì dunque per prevalere sugli illustri concorrenti nel canone letterario nazionale ormai in via di definizione al tramontare del XVIII secolo, ma soltanto dopo essere passato per «un lungo, aspro e confuso travaglio critico». Infatti, nella maggior parte dei casi, le posizioni della critica novecentesca circa la fortuna del poeta nel Settecento ondeggiano tra una negazione, cauta o decisa, dell’esistenza di un culto dantesco anteriore alla fin du siècle e i tentativi, molto più sporadici, di anticiparne una rinnovata attenzione ai primi decenni del secolo, ma solo attraverso casi isolati: Michele Barbi connetteva l’inizio dell’attenzione settecentesca per Dante all’operato di Alfieri, indicando il 1790 come data post quem della sua vera e propria ricezione critica e negando al secolo dei lumi un autentico interesse per l’autore della Commedia oppure, a metà Novecento, Luigi Russo rifiutò drasticamente di trovare nel XVIII secolo tracce plausibili di un’attenzione per Dante. Questo atteggiamento ha origini antiche e risale alle posizioni di un autore che più di altri tenne a marcare l’unicità del suo rapporto con Dante, «un autore che sulla vicenda biografica dantesca modellò la creazione del proprio mito di esule» quell’Ugo Foscolo che nel Discorso sul testo e opinioni diverse prevalenti intorno alla storia e alla emendazione critica della Commedia di Dante, del 1825, dichiarò: Per tutto il secolo scorso, la poesia di Dante non trovò giudici competenti, se non quando la gioventù crebbe preparata allo studio della Divina Commedia, sì per le nuove opinioni che cominciavano a prevalere in Europa, e sì per l’educazione che gl’ingegni di Vittorio Alfieri e di Vincenzo Monti desunsero in guise diverse da creatore della poesia e della lingua italiana. Si delinea così chiaramente quella trinità che ancora oggi fa di Alfieri, Monti e Foscolo i punti di riferimento più significativi per definire la ricezione di Dante nel Settecento: Alfieri e Foscolo vi entrano di diritto per il loro operare nel segno di un’esaltazione di Dante come grande poeta e insieme come uomo magnanimo, in un afflato già tutto rivolto verso la ricezione romantico-risorgimentale; Monti, invece, assurge a punto di riferimento essenzialmente stilistico, sia per la sua adozione della terzina, sia per la particolare attenzione critica alla componente linguistica della Commedia. Attraverso questa connessione, operata dal Foscolo, la ricezione dantesca del Settecento viene circoscritta entro chiari limiti cronologici, alla fine del secolo, e messa in relazione con una precisa tipologia culturale, impregnata di classicità e spesso di esplicito orientamento antifrancese e antitirannico. Eppure l’interesse per la Commedia fu scatenato in primis, in Italia, da un evento che doveva aver per forza preceduto l’impeto foscoliano ed anzi esserne fra le motivazioni più profonde: la Rivoluzione francese. A fare chiarezza nell’intricata questione ci vengono ancora una volta in soccorso le illuminanti argomentazioni di Dionisotti.
La rivoluzione che portò la letteratura italiana in piazza e ne fece l’insegna di una religione civile e nazionale, e che per altro verso trasformò il quadrumvirato dei poeti maggiori in un principato dantesco fu indipendente affatto dal Vico  e di giusta misura precedette il Foscolo, o più esattamente si impose a lui giovinetto, durante il suo noviziato letterario. Fu insomma una rivoluzione conseguente a quella politica che di Francia si ripercuoteva fortemente sull’Italia. Dante riapparve d’un colpo in tutta Italia non più come il remoto e venerando progenitore, ma come il maestro presente e vivo della nuova poesia e letteratura così come accade nella Basvilliana del Monti, che dava voce alla reazione antifrancese provocata dal Terrore. In quella particolare congiuntura storica quando le speranze rivoluzionarie furono prima corroborate dall’entusiasmante presa della Bastiglia e poi stroncate dalla giacobiniana “politica del terrore” e, allo stesso modo, le altrettanto avvincenti conquiste napoleoniche già severe verso i tanti focolai insurrezionali sorti un po’ ovunque in Europa furono infine travolte con la sconfitta di Waterloo e la restaurazione operata dal Congresso di Vienna la figura dell’Alighieri si caricò di inedite valenze attualizzanti: fu il poeta che in quei frangenti, onde erano mutate le condizioni di vita e le speranze di sopravvivenza degli uomini di ogni parte, fornì le parole e gli accenti di una eloquenza insolita, aspra, veemente, quale pareva richiesta, e di fatto era, dalle circostanze straordinarie e dai compiti nuovi che la letteratura si trovava ad assumere. Si spiega che il quadriumvirato poetico, al quale l’Alfieri aveva sperato di potersi aggiungere, cominciasse allora a scompaginarsi, e la lezione di Dante, che sempre era stata facoltativa e marginale, a prevalere su quella, che in Italia sempre era stata fondamentale, del Petrarca, dell’Ariosto e del Tasso. Non è che questi si fossero allontanati; ma Dante solo si era fatto incomparabilmente più vicino. Dante, per il suo linguaggio “aspro” e l’insolita eloquenza con cui parlava alle masse, fu un vero e proprio catalizzatore d’attenzione e divenne l’emblema di una letteratura militante di cui si sentiva tanto bisogno. Ed è così che si assiste, sul finire del secolo, ad una ragguardevole quantità di stampe della Divina Commedia e di elogi per il suo autore, sia in veste di poeta che, soprattutto, di uomo politico. In tal senso Andrea Rubbi dimostrò grande fiuto circa il mutamento dei tempi prima con la pubblicazione della tragedia Ugolino Conte de’ Gherardeschi  e poi, nel 1783, integrando ai suoi Elogi italiani tra cui spiccava l’elogio alla figura del Metastasio anche quello del poeta fiorentino, a firma di uno sconosciuto veneziano, Giuseppe Fossati fra gli arcadi Artemisio Dedaleo. La polemica antidantesca, che era stata al suo culmine a metà Settecento in favore dell’eleganza stilistica del Petrarca e della melodia metastasiana, si era nel frattempo esaurita per la forza stessa degli eventi: Non già che fossero venuti meno i pregiudizi avversi a Dante. Perduravano bellamente e avevano ancora in serbo una lunga vita. Ma a dispetto di quegli intatti pregiudizi sulla stravaganza e rozzezza gotica, come allora si diceva per dispregio, dell’opera di Dante, un crescente numero di lettori mostrava curiosità e desiderio di conoscere più a fondo quell’opera e si entusiasmava in essa a tratti più di quanto facesse leggendo altri testi superiori a ogni controversia e levigati da una ammirazione secolare.  Si spiega così come un grande detrattore dantesco quale fu Saverio Bettinelli si trovò nella condizione di dover giustificare e difendere proprio quella sua ormai remota stroncatura delle Lettere Virgiliane, al cospetto di una nuova moda poetico-politica e di costume, quando, nel 1801, pubblicò a Venezia il tomo XXII delle sue opere: al suo interno, una Dissertazione accademica sopra Dante, ribadendo per certi versi in modo anacronistico le posizioni passate, conferiva, paradossalmente, legittimazione alla parte avversa. Avendo più volte scritto di Dante dopo le lettere di Virgilio agli Elisj, e vedendomi ognor più accusato qual critico ingiusto, qual novatore, qual nimico dell’uomo grande, e della gloria quindi del Parnaso italiano, permettetemi, accademici pregiatissimi, di dirvi le mie ragioni facendo quasi il mio testamento letterario, poiché corsa l’età di ottantadue anni e più nelle lettere son vicino a quel punto in cui domina la verità, e l’uom brama lasciar di se buon nome. Dall’enfasi autodifensiva del Bettinelli, ansioso di difendere la propria autorità e di rispondere alle critiche sopraggiunte nel corso degli anni, si evince il montare di una tendenza di proporzioni davvero massicce e ormai impossibile da contrastare con gli argomenti del buon gusto. Ce lo confermano ancora le acute riflessioni di Dionisotti: Era di fatto una moda, che non temeva di essere offesa né si preoccupava di difendersi dai contrari argomenti e principi. Insomma i difetti di Dante e del suo secolo ancora erano quelli, inaccettabili dall’illuminato buon gusto dei moderni; ma sulla bilancia le virtù di lui pesavano ormai incomparabilmente più dei difetti.  Era stata aperta la strada che avrebbe condotto all’indimenticabile e solenne momento in cui Ugo Foscolo poté iscrivere nei suoi Sepolcri 1807 e dunque nel nuovo canone letterario italiano – l’opera del «Ghibellin fuggiasco», ormai considerata patrimonio di una tradizione comune. Bisogna pensare dunque che il nuovo canone Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso, oggi fin troppo acclarato, fu nel Settecento il risultato di un’operazione ben più complessa, perché l’apoteosi dell’antico Dante aveva preteso la cacciata del moderno Metastasio e la conseguente riduzione dello strapotere del regolarismo classicista. Dopo quattro secoli l’opinione del popolo fiorentino che cantava Dante è confluita nella riflessione dei letterati post-illuministi. È la visione di un passato che si propone come energia del presente. Il quadro della ricezione dantesca che emerge in questa prospettiva risulta più o meno volontariamente in linea con il prevalente modello risorgimentale e romantico, come sottolineato anche da Tatiana Crivelli: «il fenomeno di Dante settecentesco viene pertanto, ancora una volta letto in funzione di ciò che seguirà, in un’interpretazione critica tutta proiettata in avanti, più o meno volontariamente teologica». Eppure  assecondando il discorso della Crivelli  non si dovrebbero sottovalutare alcuni nodi cruciali del fenomeno: «perché allora non sottolineare, ad esempio, che sia Alfieri che Monti non furono soltanto precursori di tendenze a venire, ma anche due membri di spicco di quella così settecentesca Accademia dell’Arcadia di cui si ricorda spesso e volentieri, appunto, la sola antipoesia  e pienamente uomini del razionalista secolo dei Lumi?» . Allargando dunque il campo di indagine oltre questi consueti riferimenti, per esplorare un’eventuale diffusione del modello su più larga scala e in una prospettiva meno rigidamente storicistica, ci si potrà rendere conto di una ricettività verso il modello dantesco che si estende ben al di là dello stereotipo del Dante risorgimentale “Padre della Patria” e che, sia dal punto di vista cronologico che da quello dei generi letterari, le aree di influenza dantesca sono ben più ampie di quanto convenzionalmente si sarebbe portati a credere. Seguendo le tracce meno note della fortuna dantesca si può dunque tentare di ricostruire una diffusione di “tono minore” del poema parallela e anteriore ai tre grandi apporti di Alfieri, Monti e Foscolo che riguarda il contributo offerto alla causa dalla poesia estemporanea, ritornata fortemente in auge soprattutto fra Sette e Ottocento nei salotti aristocratico-borghesi italiani e anche europei, nell’ambito elitario del movimento letterario dell’Accademia dell’Arcadia. Del modello dantesco diffuso al suo interno solo parzialmente in linea con quello delle tre corone di fine Settecento esamineremo qualche frammento poco noto, rimasto al margine del canone tradizionale; per poi ripercorrere un processo che, a partire sempre dall’esibizione poetica all’improvviso, ci condurrà a scoprire, attraverso vari protagonisti e canali di trasmissione, i legami profondi della Divina Commedia con una sotterranea tradizione di oralità diffusa sia a livello colto che popolare, pressoché in tutti gli strati sociali, giungendo viva e vibrante fino ai giorni nostri. Nel corso degli studi per realizzare la mostra sono stati ritrovati l’atto di battesimo di Tommaso De Vivo, che ne certifica il luogo e data di nascita con un carteggio che smentisce l’ipotesi che i dipinti danteschi fossero stati commissionati dai Borbone, grazie alle ricerche degli storici dell’arte Antonella Delli Paoli e Carmine Napoli. Di recente le tele sono state restaurate da Miranda Giovarelli e Ugo Varriale, con la collaborazione di Francesca Di Martino, nel laboratorio di Palazzo Reale, per essere poi trasferite a Forlì, in prestito alla mostra Dante. La visione dell’arte, che si è tenuta da aprile a luglio scorso nei Musei San Domenico. Dopo il rientro dalla mostra i tre dipinti vengono ora esposti nelle tre sale dedicate e vi si contrappongono le iconografie dei codici miniati, primi esempi di rappresentazioni figurative della Commedia.
Nell’Inferno e nel Purgatorio le immagini dei codici sono proiettate su grandi libri multimediali, nel Paradiso invece le immagini libere da confini ridisegnano la volta della sala. Le opere di Tommaso De Vivo sono state altresì messe in dialogo con altre testimonianze della fortuna di Dante nell’arte napoletana intorno alla metà dell’Ottocento. Tra questi anche il celebre dipinto con cui Domenico Morelli vinse nel 1844, con un soggetto tratto dal secondo canto del Purgatorio, il concorso indetto dal Real Istituto di Belle Arti di Napoli. La tela, Dante e Virgilio nel Purgatorio venne acquistata dalla Real Casa e collocata nel palazzo della foresteria borbonica, oggi sede della Prefettura. Invece, il dipinto di Luigi Stanziano Dante nello studio di Giotto, si allinea alla pittura di storia, tra accademismo e Romanticismo, nell’illustrare il leggendario episodio dell’incontro tra Dante e Giotto, a un anno dalle celebrazioni dantesche del 1865. Come l’opera di Stanziano, appartengono alle collezioni ottocentesche di Palazzo Reale i quattro vasi in porcellana con i ritratti dei maggiori poeti italiani tra ’300 e ’500: Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Ludovico Ariosto e Torquato Tasso. L’album di litografie pubblicato nel 1871 dal pugliese Antonio Manganaro illustra in tono satirico la prima Esposizione internazionale marittima d’Italia, inaugurata alla presenza di Umberto e Margherita di Savoia. Immaginandosi nelle vesti di Dante, accompagnato da uno scheletrico Virgilio, Manganaro osserva le macchine, i prodotti e le invenzioni esposti alla mostra, tra caricature di personaggi dell’epoca e la fortuna del Sommo Poeta si presta qui a una lettura irriverente dell’attualità. Il catalogo inaugura la nuova serie dei "Quaderni di Palazzo Reale", dedicata all'approfondimento di specifici temi legati alla storia del Palazzo e delle sue collezioni edito da Paparo Editore.
Palazzo Reale di Napoli
Dante a Palazzo Reale
dal 3 Dicembre 2021 al 1 Marzo 2022
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 9.00 alle ore 20.00
Mercoledì Chiuso