A cura di
Valfredo Siemoni,
Empoli, Nuova IGE, 2016, 64 pp. (fuori commercio).
di
Michele CUPPONE
Escono nel giro di un anno, grazie anche a una veste editoriale snella
in forma di fascicolo, gli atti della giornata di studio tenutasi a Empoli l’11 aprile 2015, i cui lavori furono aperti da
Mina Gregori e presieduti da
Bruno Santi e che vide la partecipazione di specialisti e studiosi di respiro internazionale.
Da Caravaggio. Il San Giovanni Battista Costa e le sue copie (https://www.youtube.com/playlist?list=PLBg8tBPXVhJyNX_RwypvjP6HRk6DJEAZM) prendeva le mosse dal
restauro della copia, custodita presso la chiesa di S. Stefano degli Agostiniani, dell’omonimo quadro caravaggesco del Nelson-Atkins Museum di Kansas City. Ma appunto,
illustrate le novità storico-documentarie e tecnico-diagnostiche sulla versione concittadina, si ricollegava all’originale e alle altre copie note, purtroppo non tutte di facile fruizione e studiate come ora quella in oggetto, per estendere lo sguardo su altri aspetti di particolari interesse e fascino. Gli atti, vedremo meglio, si sono arricchiti di un ulteriore contributo rispetto ai già molteplici contenuti del simposio:
se molto sapevamo o pensavamo di sapere del prototipo merisiano, questa pubblicazione riserva sorprese anche su di esso.
Non possiamo non condividere l’opinione diffusa, con cui apre
Nicole R. Myers, secondo cui
il Battista Costa è il Caravaggio di qualità più elevata, per non dire il più bello, tra quelli conservati in America. In una lussureggiante vegetazione che è una convenzionale trasfigurazione del deserto in cui predicò il santo, non priva di valenze simboliche anche per la presenza del verbasco, fa bella mostra di sé, riparato sotto una quercia, un prestante e scapigliato ragazzotto dallo sguardo più torvo che meditativo, che Merisi ha ammantato di porpora e pelle animale aggiungendovi poi una croce di canne, il tutto bastevole a dare la parvenza di un giovane Battista a quello che altrimenti potrebbe apparire il vivace e originale ritratto di un suo conoscente.
Quanto ci tenesse Ottavio Costa ai tre quadri del milanese in suo possesso, lo sappiamo bene dalle disposizioni testamentarie in cui raccomandava agli eredi di non alienarne nessuno, specie la
Giuditta (il terzo è il
San Francesco di Hartford). Eppure fu lo stesso, geloso banchiere a permettere che ne venissero tratte precocemente delle copie; per lo meno ciò accadde con il
San Francesco da cui si ricavò la copia ora ai Musei Civici di Udine, e con il
San Giovanni destinato all’omonimo oratorio della natia Conscente ma che, proprio per il suo valore tanto estetico quanto certamente affettivo, Ottavio decise di tenere per sé e sostituire con una copia, attualmente al Museo Diocesano di Albenga.
Non è dato sapere in quali occasioni furono realizzate le
altre versioni che, ricordiamo, sono
quella di Capodimonte in cui Roberto Longhi inizialmente ravvisò l’originale, prima che questo fosse individuato in Inghilterra, e, molto meno note (così anche per alcuni relatori del convegno), una in
collezione Kenmore a San Francisco e da ultimo una passata in asta presso
Sotheby’s a Londra nel 2010. E poi naturalmente questa di Empoli su cui ci si sofferma negli atti. Molto di più conosciamo o possiamo ipotizzare intorno alle sue relativamente recenti vicende storiche e passaggi di proprietà, grazie alle ricerche di
Valfredo Siemoni. Essa appartenne a monsignor
Giovanni Marchetti, che dovette acquistarla a Roma nei primi
decenni dell’Ottocento come un originale di Caravaggio, in uno dei momenti più bui della fortuna critica del pittore, come si evince dalle disposizioni testamentarie del 1829. Secondo queste, la tela a Empoli avrebbe dovuto campeggiare nella sala principale di una costituenda biblioteca dedicata dal prelato al santo eponimo; ed è da lì nel convento degli Agostiniani che, a seguito di riallestimenti in chiave funzionale degli ambienti, la stessa dovette essere trasferita nell’attigua chiesa di S. Stefano, dapprima in sagrestia, quindi nell’ubicazione attuale della cappella Zeffi.
Se per essa si era pensato anche a una fattura ottocentesca, spingono piuttosto a considerarla seicentesca, per pigmenti e preparazione, le
indagini diagnostiche effettuate – diverse tra le principali, assente in particolare la radiografia –, purtroppo va detto solo a restauro ultimato, cui sarebbero state di maggiore ausilio (l’intervento eseguito da
Sandra Pucci è qui introdotto da
Cristina Gnoni Mavarelli). Tali esami, di cui dà conto
Anna Pelagotti, hanno avuto come faro, ma verrebbe da dire come meta ideale, il confronto con la tecnica del genio milanese e la possibile riconduzione a essa, sebbene al limite si possa concludere che l’(ignoto) autore non abbia trascritto fedelmente una qualsiasi delle altre redazioni conosciute ma abbia elaborato consapevolmente “l’immagine proposta”. Tuttavia già l'occhio porta ad ascrivere il quadro – che ha valore più in termini di documento storico che di manufatto artistico e si discosta dagli altri esemplari per la base più corta (ma le analisi confermano non esservi mai state decurtazioni) – a un copista non di talento anche se gli si attribuiscono sicurezza e velocità; ma forse è il caso di parlare piuttosto di un’esecuzione affrettata (e incerta), laddove egli talvolta si correggerà e sarà
sommaria la resa generale e su alcuni dettagli in particolare. Interessante comunque la
presenza di sovrapposizioni, assenti nella versione qualitativamente superiore di Capodimonte restaurata nel 2006, di cui pure si pubblica la relazione tecnica di
Angela Cerasuolo (che molto attinge ad analisi e considerazioni di
Marco Cardinali,
Maria Beatrice De Ruggieri e
Matteo Positano). Per quest’ultima era stato fatto sin dal 1802, data di acquisto, il nome di
Bartolomeo Manfredi, attribuzione non priva di fondamento se peraltro vi è stato riscontrato l’utilizzo della vernice come legante, metodo cui già accennava
Giovanni Baglione nella biografia del mantovano, mentre
Pierluigi Carofano e
Gianni Papi hanno proposto in alternativa, rispettivamente, i nomi di
Orazio Riminaldi (che pure trova un sostegno nei documenti) e
Angelo Caroselli. Se giova in tale sede poter comparare in qualche modo su base scientifica le copie di Empoli e Napoli, per saperne di più su quella di Albenga si attendono i risultati delle indagini effettuate da
Paolo Sapori.
Per tornare sulla committenza Costa del prototipo, questa è illustrata da
Maria Cristina Terzaghi, che molto e proficuamente si è spesa sul tema. Di grande importanza resta la sua scoperta di una
ricevuta di pagamento da Ottavio a Merisi del 21 maggio 1602, uno dei rari (tre in tutto) documenti autografi del pittore, nondimeno l'ultimo rinvenuto in ordine di tempo e anche il più antico. Comprensibilmente, la studiosa collegò deduttivamente tale versamento, per un soggetto non specificato, proprio al
Battista, poiché il
San Francesco e la
Giuditta erano stati sempre reputati capolavori giovanili o comunque lontani da quella data.
Ed ecco il
vero colpo di scena del volume: nel suo contributo a margine rispetto alla giornata del 2015,
Gianni Papi, che aveva già sovvertito un dogma di matrice longhiana – superato ultimamente, nell’ordine, anche da
John Gash (
http://www.oxfordartonline.com/subscriber/article/grove/art/T013950)- Rossella Vodret,
Clovis Whitfield (
https://news-art.it/news/caravaggio-opere-a-roma---l-ultimo-repertorio-delle-opere.htm), e
Nicola Spinosa (
http://www.assonet.org/caravaggio400/Spinosa2016-AttornoCaravaggio.pdf) – secondo cui
la Giuditta si colloca prima del debutto pubblico nella Contarelli, giunge a ipotizzare che proprio essa sia
il quadro cui il pittore stava lavorando nel maggio 1602, e lo fa principalmente su basi stilistico-iconografiche e di natura storica. L’argomentazione regge, e bisogna dire che per molti versi è singolarmente complementare a quanto pubblicato in via indipendente dallo scrivente, giusto una settimana prima dell’uscita degli atti, su
News-Art [
https://news-art.it/news/caravaggio-quando-dipinse-la-giuditta-e-oloforne-.htm] e poi approfondito nelle giornate di studio
Caravaggio e i Suoi (
https://news-art.it/news/rivelazioni-su-caravaggio--importanti-novita-al-convegno-di.htm) e ripreso più sinteticamente ma con qualche nuova considerazione nel catalogo
Artemisia Gentileschi e il suo tempo (
http://www.assonet.org/caravaggio400/Cuppone2016-GiudittatestaOloferne.pdf)
Ai validi elementi addotti da Papi se ne possono difatti aggiungere utilmente altri, come il
livello di espedienti tecnici adottati sulla Giuditta, estraneo ai dipinti ante Contarelli – vedi ora De Ruggieri e Vodret nei due tomi su tecnica e stile delle opere romane di Merisi. L’idea poi di collegare alla ricevuta del 1602 il
Battista, sebbene pressoché unanimemente riconosciuto più tardo per stile, ha potuto godere di una certa fortuna fintantoché si poteva vedere nell’acconto – termine che indica anche un pagamento parziale, non necessariamente il primo, di una certa partita finanziaria – l’accettazione formale di un impegno, avviato però solo più tardi; e invece a ben vedere il quadro, come peraltro evidenziato già all’uscita delle ricerche sulle ricevute del banco Herrera & Costa, era
già in corso d’opera nella primavera del 1602 e l’acconto risulta essere almeno il secondo ricevuto per lo stesso lavoro (“Io Michel’Angelo Marrisi o riceuto
di più dal Ill.re S.r Ottavio Costa a bon conto
d’un quadro ch’io
gli dipingo venti schudi”). Del resto,
in mezzo secolo di studi antecedenti al ritrovamento del documento, ben pochi si erano spinti ad anticipare oltre il 1603 il Battista, la cui superba qualità segna un punto d’arrivo negli anni romani di Caravaggio: tra questi e per primo naturalmente Longhi, le cui pioneristiche cronologie sono oggi in gran parte superate, ma che con la sua autorevolezza seppe guidare la critica nell’
assegnare coralmente la Giuditta intorno al 1599, avendola egli associata al periodo in cui l’artista cominciava a “ingagliardire gli oscuri”; ma come giustamente osservato da Terzaghi stessa in un recente seminario (
https://www.youtube.com/watch?v=Ue0cEoEEKuc&t=45s) presso la Fondazione Zeri, “la cronologia è un problema centrale per Longhi”, che “ha anche sbagliato clamorosamente” datazioni e sequenza nel catalogo caravaggesco. Certo l’ipotesi di spostare poco più avanti il capolavoro di Palazzo Barberini e ricollocare al suo posto (intorno al 1604) quello del Nelson-Atkins, riveste la sua importanza, oltre che nel restituire una più plausibile esegesi del documento del 1602, nel
comprendere meglio l’iter tecnico-stilistico e biografico del pittore.
Papi ripubblica poi la
Giuditta di Giuseppe Vermiglio riconosciuta presso Grassi Studio, talmente affine al prototipo merisiano da supporre che, benché il Costa fosse parco nel far copiare pezzi di siffatto pregio, taluni artisti poterono frequentare la sua dimora se in qualche modo tra quelle mura trovarono ispirazione.
Ulteriori contributi, anche piuttosto particolareggiati nell’economia della pubblicazione, spostano l’attenzione su
questioni per lo più iconografiche, a partire da
Roberta Lapucci che si sofferma peraltro sull’importanza della figura del Battista tra Firenze e Malta e per Caravaggio, e di cui si segnala la personale lettura in radiografia della prima impostazione del
Cupido dormiente come un piccolo san Giovanni. Segue uno stimolante saggio dell’archeozoologo
Marco Masseti sulle specie zoologiche nell’iconografia tradizionale del santo predicatore; si apprezza l’intelligenza di aver lasciato
la parola ai tecnici, puntuali e oggettivi nei loro referti e utili talvolta per sgomberare il campo da errate quando non tendenziose letture iconografiche, che talvolta lo storico dell’arte
strictu sensu confeziona a servizio di prefissate interpretazioni iconologiche. Masseti ritorna poi sull’identificazione dell’animale del
San Giovannino Borghese come pecora e non agnello che, unitamente alla presenza di pampini di vite e di un semplice bastone di canna anziché in forma di croce, portò a leggervi dubitativamente un Buon Pastore (proposta da svalutare se, per lo studioso, Merisi utilizzò sempre una pecora nelle raffigurazioni del Precursore, e la vite in quella capitolina).
Nel volumetto vi è posto anche per un’avvincente ipotesi di collegamento in
pendant fra due opere nel catalogo di
Elisabetta Sirani, cui è attribuita una
Madonna, dispersa ma nota da fotografia, appartenuta a monsignor Marchetti.
È chiaro in definitiva quanta attenzione meriti questa piccola grande pubblicazione che è frutto di un’o
perazione culturale, pazientemente cucita attraverso la ricerca di finanziamenti privati e il
coinvolgimento di esperti in varie discipline. Per contro, nella
realizzazione del fascicolo tutta giocata in casa passando per una tipografia locale anziché una casa editrice tradizionale, la qualità editoriale generale e redazionale in particolare non sarà forse ineccepibile, né è facile reperire il prodotto al di là del contatto diretto con gli autori (comunque ne è stata prevista una ristampa con, stavolta, la registrazione ISBN che la rende pubblicazione scientifica a pieno titolo).
Resta comunque per quanto perfettibile un esempio virtuoso cui guardare, nel Paese che paradossalmente valorizza e investe ancora troppo poco nel suo vasto e diffuso patrimonio culturale, proprio per questo continuamente da (ri)scoprire.
di
Michele CUPPONE Roma 18 / 2 / 2017
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