Giovanni Cardone Maggio 2023
Fino al 31 Maggio 2023 si potrà ammirare al Palazzo delle Arti Beltrani Trani la mostra dedicata a Letizia Battaglia. Testimonianza e narrazione una delle più grandi interprete e testimone del ‘900 ad un anno dalla sua scomparsa. Il progetto espositivo ideato da Marta e Matteo Sollima, nipoti della fotografa e curatori dell’Archivio Letizia Battaglia di Palermo. Trenta scatti in bianco e nero del periodo dal 1972 al 2003 provenienti dall’Archivio palermitano ‘Letizia Battaglia’. Letizia Battaglia non è stata soltanto una grande fotoreporter, ma una testimone lucida e vibrante del suo tempo e di numerose ferite ancora aperte della storia recente italiana. Il percorso espositivo tranese intende restituire l’intensità che caratterizza tutto il suo lavoro, testimonianza vera, spesso crudele e cruenta, dell’appassionato impegno civile e politico di chi per trent’anni ha fotografato la sua terra, la Sicilia, con immagini che denunciano l’attività mafiosa, ma non solo. Una carrellata che va dall’attività editoriale a quella teatrale e cinematografica, passando per l’affresco della Sicilia più povera e la denuncia dell’attività mafiosa, della miseria, del degrado ambientale, conseguenza della deriva morale e civile
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. Fotografie che hanno segnato a fuoco la memoria visiva della storia del nostro Paese, passando dalla inconsapevole bellezza delle bambine dei quartieri poveri siciliani (uno su tutti ‘La bambina con il pallone del quartiere Cala di Palermo’) al volto di Pier Paolo Pasolini, ai morti per mano della mafia, tra cui Piersanti Mattarella, e poi, ancora, le processioni religiose, Giovanni Falcone, Rosaria Costa, la vedova dell’agente Schifani, fino all’arresto del feroce boss Leoluca Bagarella. Emergono dalla mostra monografica di grande impatto tutta l’arte, l’impegno civile, la partecipazione della fotografa “pasionaria” passata dai coraggiosi reportage per il quotidiano «L’Ora» di Palermo al riconoscimento del
New York Times come una delle undici donne più influenti al mondo dell’anno 2017 per l’impegno dimostrato come artista. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Letizia Battaglia apro il mio saggio dicendo : Io penso che il ruolo delle donne nel mondo della mafia è rimasto a lungo in secondo piano. La rappresentazione sociale diffusa in passato offriva un ritratto della figura femminile siciliana o meridionale deviante. Donna chiusa in casa avvolta da uno scialle nero, prima schiava del padre, per essere successivamente schiava del marito. Effettivamente, in una Sicilia e in una Palermo importunate dalla mafia, la privazione di alcune delle regole fondamentali per una vita civile è sentita certamente molto di più dalle donne, insieme ai bambini e alle persone anziane, che rappresentano la parte inefficace della società. Tuttavia, grazie ad una ricerca condotta dal Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” e l’Associazione delle donne siciliane per la lotta contro la mafia , ci ha permesso di dire che il ruolo delle donne è spesso attivo, soprattutto negli ultimi anni la presenza femminile nelle attività mafiose è cresciuta. Pur restando un’organizzazione mafiosa formalmente maschile. Le donne dei mafiosi sono soltanto complici, vengono utilizzate per alcuni incarichi. Sono tante le donne spacciatrici di droga nei quartieri più degradati di Palermo, ma oltre alle spacciatrici, ci sono donne che possono definirsi trafficanti, come Angela Russo, soprannominata “Nonna eroina”, che aveva organizzato un traffico di droga assieme ai suoi familiari, e che si è comportata al momento del processo, da perfetta mafiosa, tacendo e dichiarando che il figlio - diventato collaboratore di giustizia - che aveva parlato era “pazzo ed infame”. Inoltre le donne, in abito mafioso, sono state intestatarie di quote notevoli di imprese o fanno di prestanome, nel caso in cui i congiunti non possano comparire. Inoltre, il ruolo tradizionale di una donna mafiosa era quello di educare e trasmettere la cultura e il codice mafioso ai propri figli.
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Le donne hanno rivestito un ruolo fondamentale nella socializzazione dei figli all’odio e alla vendetta e nella trasmissione di un certo modo di porsi. Una madre mafiosa ha il compito di radicare ai propri discendenti l’ideologia mafiosa, ovvero le tradizioni e i disvalori di cui si nutre la criminalità mafiosa quali omertà, vendetta e disprezzo dell’autorità pubblica. Un esempio di madre che ha cresciuto i figli in base ai “valori” della mafia è, sicuramente, quello di Ninetta Bagarella. Sorella di Leoluca Bagarella e la moglie di Totò Riina capo dei capi di Cosa Nostra fino ai primi anni novanta dimostra di compiere tutti i doveri di una moglie del boss, rimanendo accanto al suo uomo nei momenti difficili e condividendone la latitanza. Si occupò dell’educazione dei suoi 4 bambini, e, essendo stata maestra, fece loro anche da insegnante dato che, vivendo in clandestinità, non potevano frequentare la scuola. Le ragioni per cui i ruoli femminili nelle organizzazioni mafiose sono state a lungo sottovalutati si baserebbero specialmente su una supposta incapacità delle donne di mantenere l’obbligo di omertà. Le donne sono ritenute degli esseri inaffidabili. Per anni l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori pubblici si erano adattati a questo stereotipo, dato dalla società, della donna silente, che aveva come unico ruolo quello di occuparsi della famiglia e dei figli, trascurando così la responsabilità penale delle donne. Tale immagine è andata pian piano dissolvendosi a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, quando le testimonianze dei collaboratori e soprattutto delle collaboratrici di giustizia hanno svelato una realtà nascosta facendo emergere ruoli femminili più attivi rispetto agli stereotipi dominanti associati ad una donna mafiosa. In questa sede mi pare importante approfondire il ruolo delle donne, che pur provenendo da ambienti vicini alla mafia, o contigui o succubi, hanno collaborato con la giustizia piuttosto che ricercare la vendetta privata. Una particolare attenzione deve essere rivolta alle donne mafiose “pentite”, coloro che non condividono il percorso mafioso, e si schierano clamorosamente contro i mariti o la propria famiglia. Uno dei luoghi comuni sulla mafia è quello secondo cui i mafiosi non si confiderebbero con le loro donne perché queste sarebbero incapaci di tacere. Le dichiarazioni di tutte le collaboratrici dimostrano che le donne di mafia sanno tutto e spesso condividono tutto. Alcune tra di loro l’hanno detto espressamente, come Serafina Battaglia, la prima testimone di giustizia donna, che decide di collaborare con la magistratura per rendere giustizia alla sua famiglia. Serafina Battaglia esprime in uno dei suoi processi: “Mio marito mi confidava tutto e perciò io so tutto. Se le donne dei mariti ammazzati si decidessero a parlare cosi come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo.” In seguito alle diverse ricerche effettuate per capire cosa spingesse queste donne a pentirsi, ho rilevato che soltanto alcune di loro si possono chiamare “pentite”, ovvero quelle donne che, interni all’associazione mafiosa, hanno commesso numerosi reati ma, una volta processate o incarcerate, decidono di collaborare con le forze armate e, pertanto, si definiscono anche collaboratrici di giustizia. Possono essere altre le ragioni che si nascondano dietro a confessioni e/o rivelazioni di queste donne che provengono da famiglie mafiose e hanno scelto di collaborare con la giustizia. Anche se questa è una scelta coraggiosa, nasce comunque un dubbio. Queste donne lottano per pura scelta o per vendetta? Non avremo mai una risposta esatta, ma questo dubbio nasce dal fatto che queste donne, mogli, madri, figlie di mafiosi più o meno potenti si sono decise a parlare soltanto dopo che i loro congiunti sono stati uccisi. Come nel caso di Serafina Battaglia che subito dopo la perdita del compagno e del figlio, cerca di ottenere giustizia attraverso le vie giudiziarie. Tuttavia, queste donne, ognuna di loro con una propria storia di vita e le diverse ragioni proprie e personali, che le hanno condotte sulla via del pentitismo, sono le collaboratrici che hanno permesso di rompere l’equilibrio dell’organizzazione, il pilastro importante su cui si fonda, ovvero il silenzio. La storia dell’antimafia è fondamentalmente una storia maschile. Lo è quella ufficiale, che si nutre degli elenchi dei protagonisti, degli eroi e delle vittime. Lo è quella della memoria popolare, fatta di volti, parole e leggende. Nella società italiana e ancor più marcatamente nell’Italia meridionale i ruoli di responsabilità istituzionale, di direzione politica e sindacale sono esercitati da uomini.

Le donne hanno sempre avuto un ruolo inferiore rispetto agli uomini, sia in ambito famigliare che in ambito lavorativo, escludendole così da qualsiasi decisione o dalla semplice condivisione di idee. Fortunatamente, come ho spiegato nel capitolo precedente, le donne sanno, e stanno iniziando a parlare, infrangendo così lo stereotipo di donna siciliana chiusa in casa e schiava del marito, tutto questo grazie alle prime collaboratrici e testimoni di giustizia che si sono fatte avanti in tempi recenti. La presenza delle donne nella lotta contro la mafia si ha già dalla fine dell’Ottocento, durante la stagione dei fasci siciliani : le donne partecipavano e in alcuni paesini, nei pressi di Palermo, c’erano fasci solo donne. Donne in prima linea nei cortei e negli scioperi, che prendevano la parola nelle riunioni e nei progressi, che vigilavano durante le elezioni municipali affinché gli uomini andassero a votare e pattugliavano in gruppo le taverne per impedire agli uomini di tradire il dovere di militanza. Ma oltre alle donne che hanno avuto parte attiva nei fasci siciliani, abbiamo il caso della vedova Giovanna Cirillo Rampolla che non accetta che il sacrificio del marito cada nel silenzio e chiede così giustizia allo Stato contro il sindaco e gli altri mafiosi di Marineo un paese in provincia di Palermo accusando, facendo nomi, ricostruendo puntualmente la vicenda e dando alle stampe il ricorso, evidentemente perché poco fiduciosa in uno Stato che già allora aveva tra i suoi funzionari gente legata alla mafia o mafiosa in prima persona. Pubblica il suo ricorso perché non vuole che la sua richiesta di giustizia sia una battaglia privata, ma che si sappia che ci sono uomini, come era stato suo marito, onesti e amanti di giustizia, e che quello è l’esempio da seguire. La vedova Cirillo Rampolla può essere paragonata a Giovanna Terranova , Rita Costa e a tutte le altre vedove e madri di magistrati, poliziotti, politici uccisi dalla mafia, che in questi anni hanno saputo trasformare il loro dolore individuale in capacità di testimonianza e di lotta contro la mafia. Sono tutte donne il cui impegno nasce da una eminente conoscenza civile, nell’aver condiviso con i propri mariti o i propri figli questa volontà di osteggiare la forza della mafia. Insieme a queste donne va ricordata Felicia Impastato, madre di Giuseppe Impastato, che, pur essendo donna del popolo, senza cultura, ha scelto la strada della lotta contro la mafia, spinta non soltanto da una rettitudine, ma anche dalle idee del proprio figlio. Queste donne sono un fiume in piena forza della natura. Parole sicure e solo poche volte interrotte dall’emozione. Le loro testimonianze sono il racconto della loro vita, della loro solitudine, delle loro sofferenze ma ancor di più una grinta per tutti noi a lottare e agire contro. Ad oggi sono diverse le donne che sempre di più, grazie ai loro piccoli passi, cercano di ottenere un cambiamento. Come lo sono nell’ultime opere di Pirandello, le donne siciliane sono spesso presentate in letteratura con tratti forti e decisi, donne pronte a tutto pur di difendere se stesse, la loro famiglia e la vita delle persone che amano. Sono la personificazione della forza della Sicilia. Rappresentano l’anima dell’isola e hanno una significativa importanza nelle lotte simbolo della Sicilia. Quando si parla di collaboratrici di giustizia, ovvero tutte quelle donne che hanno deciso di affrontare l’universo mafioso, mi sembra opportuno fare una indispensabile distinzione tra testimoni e collaboratrici di giustizia, che potrebbe sembrare alquanto scontata, ma non lo è visto che solo nel 2001, con la legge n°45 del 13 febbraio, le due figure vengono differenziate, insieme ad una riforma dell’originaria disciplina in tema di norme per la protezione dei collaboratori. Il collaboratore è colui che ha commesso dei crimini, in questo caso riguardanti l’organizzazione mafiosa, e decide d’intraprendere un percorso di collaborazione, confessando i propri reati e rilasciando dichiarazioni significative ai fini investigativi e giudiziari.

Il testimone, invece, non ha commesso nessun tipo di illecito ed è estraneo all’organizzazione mafiosa, ma decide comunque di denunciare un evento costituente reato, di cui appunto è stato testimone, o di denunciare persone appartenenti alla mafia. Le motivazioni che spingono queste donne a collaborare o a testimoniare non sono del tutto chiare. Infatti, una delle domande più ricorrenti nei dibattiti su “donne e mafia” è: perché le donne? Come mai solo loro osano ribellarsi alla dittatura dell’omertà e della violenza mafiosa? Una risposta certa non è stata ancora trovata, tuttavia come sostiene anche Anna Puglisi, un numero favorevole di donne decide di testimoniare soltanto dopo che uno dei loro cari è stato ucciso. La morte di un familiare è il passaggio finora necessario che ha portato alcune donne a ribellarsi alla mafia e a lottare contro di essa. La morte come “scoperta” della mafia, non più fantasma astratto, ma una violenza che uccide i propri cari e segna per sempre l’esistenza di chi rimane. Le donne antimafia, sono vedove, orfane, madri a cui hanno ucciso i figli e che decidono di passare dal lutto privato alla testimonianza pubblica. Tuttavia, ci sono state donne che hanno deciso di testimoniare con la speranza di costruire un futuro libero dalla mafia, e spinte dal desiderio di affermare la propria individualità, una scelta, quindi definibile come emancipativa. Il silenzio è mafia. Le organizzazioni mafiose si cibano di omertà e silenzi. Crescono giorno dopo giorno nutrendosi dell’indifferenza circonstante. Come ho cercato di spiegare nei capitoli precedenti, chi viveva in ambiti mafiosi doveva imparare a stare in silenzio; la fondamentale regola del silenzio sulla quale Cosa Nostra aveva costruito il suo dominio sui suoi affiliati e su pezzi significativi della società siciliana. Il silenzio era una delle leggi fondamentali non scritte del codice mafioso. Per quanto provi a voltarti dal lato opposto, per quanto provi a tapparti le orecchie e a far finta di niente sai benissimo cosa succede intorno a te. Le tre scimmie sagge vedevano, sentivano e sapevano parlare benissimo. Tuttavia pur di non mettere in pericolo se stessi e la propria famiglia, dovevano stare in assoluto silenzio. Ma non è stato così per Letizia Battaglia, una famosa fotogiornalista italiana conosciuta come “La fotografa della mafia”. Letizia Battaglia è nata il 5 marzo del 1935 a Palermo. Ad oggi, Letizia non è soltanto una fotografa, rappresenta una delle maggiori figure femminili in Italia, per il suo essere forte e indipendente. All’età di 16 anni si sposa con un uomo del quale non conosciamo il nome, ma la relazione tra i due non andò bene. Come dichiara la Battaglia nella sua intervista sul quotidiano “Il Manifesto”: “Io ho avuto un marito che ho amato molto a sedici anni, quando lo sposai. Poi lui ha cominciato a sbagliare con me e io non lo amai più. Era nervoso, dava importanza a cretinaggini, non potevo studiare, non potevo lavorare, non capiva la mia vivacità e mi bloccava come poteva. Io ho continuato a vivere. Là dove c’era l’amore l’ho preso. Volli separarmi.”A 27 anni conosce casualmente il poeta Ezra Pound, questa veloce conoscenza l’avvicina alla sua poesia che divenne grande fonte di ispirazione per tutta la sua vita. Inizia la sua carriera nel 1969 collaborando con il giornale palermitano L’Ora. Letizia era l’unica donna tra i tanti colleghi maschi. Nel 1970 si trasferisce a Milano, dove inizia a fotografare collaborando con varie testate; “La fotografia è stata in un primo momento sopravvivenza.”, come racconta la Battaglia in una delle sue interviste fatte alla Rai, non inizia a fotografare per passione, ma solo per bisogno; doveva pagare l’affitto e dare da mangiare alle sue due figlie. Nel 1974 ritorna a Palermo e crea, con Franco Zecchin, l’agenzia “Informazione fotografica” frequentata da Josef Koudelka e Ferdinando Scianna. Nel 1974 si trova a documentare l’inizio degli anni di piombo della sua città, scattando foto dei delitti di mafia per informare l’opinione pubblica e scuotere le coscienze; “Facevo ciò che potevo per scuotere le coscienze, mostrando non solo i morti ammazzati, ma anche la miseria causata dalla mafia e il potere politico che ha sostenuto il crimine, questo non dobbiamo mai dimenticarlo”. Ci ha mostrato con i suoi scatti che la mafia esiste, ed è visibile e tangibile. Li ha immortalati tutti: giudici, poliziotti e uomini delle istituzioni in prima fila nella lotta contro Cosa nostra. Il 6 gennaio 1980 è la prima fotoreporter a giungere sul luogo in cui viene assassinato Piersanti Mattarella. Nello stesso anno il suo scatto della “bambina con il pallone” nel quartiere palermitano della Cala, fa il giro del mondo. Una bambina appoggiata ad un portone, con gli occhi neri e la sua espressione intensa, con un pallone nella mano destra e mille lire nella mano sinistra. Per Letizia questo scatto è molto importante, perché descrive ciò che è stata anche lei da bambina. Per lei è un riferimento. Questa bambina rappresenta l’innocenza, la bellezza e il futuro. Diventa una fotografa di fama internazionale, ma non è solo “la fotografa della mafia”. Da sempre Letizia Battaglia si esprime nel rigore del bianco e nero. Afferma nell’intervista fatta dalla “rivista segno” di non amare il colore: “Ancora oggi il solo pensare al rosso del sangue mi fa star male.

Penso che il bianco e nero sia più silenzioso, solenne, rispettoso.”. Le sue foto si prefiggono di raccontare soprattutto Palermo nella sua miseria e nel suo splendore, i suoi morti di mafia ma anche le sue tradizioni, gli sguardi dei bambini, i quartieri, le strade, i lutti e i volti del potere di una città dalle mille contraddizioni. Eppure, la Battaglia predilige i soggetti femminili: “Amo fotografare le donne perché sono solidali: devono ancora superare tanti ostacoli verso la felicità, in questa società maschilista che le vuole eternamente giovani, belle, con una concezione dell’amore che spesso, in realtà, è solo possesso.” Nel 1979 è cofondatrice del Centro di Documentazione “Giuseppe Impastato”. Letizia Battaglia si è occupata anche di politica negli anni 80’ et i primi anni 90’. È stata consigliera comunale con Verdi, assessore comunale a Palermo con la giunta Orlando. Letizia Battaglia è stata la prima donna europea a ricevere nel 1985, ex aequo con l’americana Donna Ferrato, il Premio Eugene Smith, a New York, riconoscimento internazionale istituito per ricordare il fotografo della rivista americana Life. Nel 1991, viene eletta deputata all’Assemblea regionale siciliana con la Rete. Dopo l’assassinio del giudice Falcone, il 23 maggio 1992, Letizia Battaglia si allontana dal mondo della fotografia, ormai stanca di avere a che fare con la violenza. La Battaglia afferma in una delle sue interviste di essere sfinita dagli avvenimenti disumani che succedevano nella sua Palermo. Tuttavia nel suo film enuncia di avere un enorme rimorso, ovverosia quello di non aver fotografato Falcone e Borsellino assassinati, ritiene questa sua azione, una mancanza di rispetto verso le due figure importanti dell’antimafia. Letizia Battaglia non è la comune donna siciliana di quel periodo. È invece una donna libera, caparbia e decisa. Ha sempre saputo quello che voleva, non aveva paura e affrontava ogni singolo pericolo. Letizia Battaglia ha cambiato marito ben due volte; nel film “Shooting the mafia”, racconta tutte i suoi momenti carnali vissuti con i diversi uomini, incontrati nell’arco della vita. Questo ci fa capire che non ha seguito nessuna regola sociale, ovvero quella di rimanere con lo stesso marito per sempre, regola fondamentale per la società siciliana. In quanto donna, all’inizio della sua carriera, Letizia Battaglia non era credibile, né per la polizia ma neanche per i mafiosi. La Battaglia ha conquistato duramente il suo posto da fotografa nella società: “quando c’era un fatto di cronaca, un morto ammazzato così, la Rai passava, i fotografi maschi passavano, a me qualche poliziotto mi metteva la mano e mi impediva di passare. Dopodiché ho trovato dei metodi per farmi rispettare: mi sono messa a gridare, quando su un luogo dove è successa una cosa tragica, una persona si mette a gridare, qualcuno si imbarazza e dice vabbè fatela passare.”. Letizia Battaglia è stata un esempio per le nuove generazioni. L’onestà intellettuale, il rispetto degli altri, l‘assenza di tracotanza e di superficialità rappresentano le caratteristiche di una società migliore. La mostra è accompagnata dai testi di Alessia Venditti e di Andrea Laudisa, il percorso espositivo è completato dalla proiezione del documentario di Francesco Raganato "Amore amaro” (2012), visibile durante la fruizione della mostra.
Letizia Battaglia Biografia
Nasce a Palermo il 5 marzo 1935. Alla fine degli anni Sessanta inizia a collaborare con il quotidiano “L'Ora" di Palermo, divenendo una delle prime donne fotoreporter in Italia. Nel 1971 si trasferisce a Milano e ne fotografa il fermento culturale. Tornata a Palermo, dirige dal 1974 al 1991 il team fotografico de "L'Ora" e fonda l'agenzia “Informazione Fotografica”. Durante questo ventennio è una delle principali testimoni delle guerre di mafia: fotografa alcuni episodi significativi della storia repubblicana, gli omicidi e gli arresti. Sviluppa al contempo una sensibilità reportagistica verso donne e bambini le cui vite giacciono in una profondissima miseria. Tra gli anni Settanta e Ottanta frequenta il corso di regia della scuola teatrale Teatés diretta da Michele Perriera e dirige spettacoli e laboratori teatrali all'ospedale psichiatrico di Palermo. Il suo sguardo attento, rivolto alla cronaca, le vale il “Premio W. Eugene Smith” per la fotografia sociale, consegnatole a New York nel 1985: è la prima donna europea a riceverlo. È inoltre cofondatrice insieme al suo compagno del tempo Franco Zecchin, del centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato”. Negli anni Novanta diventa assessore alla Vivibilità nella giunta di Leoluca Orlando ed è deputato regionale con "La Rete”. Nel 1992, stravolta dall'assassinio dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sente di non volere più fotografare i crimini mafiosi. Successivamente fonda la rivista “Grande Vu”, la casa editrice "Le Edizioni della Battaglia" e "Mezzocielo", bimestrale ideato e realizzato da sole donne. Nel 1999 a San Francisco viene premiata con il “Mother Jones PhotographyLifetime Achievement Award” per la fotografia documentaristica, nel 2007 riceve il “Dr. Erich Salomon Award” dalla Deutsche GesellaschaftfürPhotographie di Colonia e nel 2009 viene nuovamente premiata a New York con il “Cornell Capa Infinity Award”. Letizia Battaglia viene segnalata per il Nobel per la Pace dal “Peace Women Across the Globe” ed è l'unica italiana inserita dal New York Times tra le undici donne più rappresentative del 2017. Nel novembre dello stesso anno fonda a Palermo il “Centro Internazionale di Fotografia” sito ai Cantieri Culturali della Zisa, presso il quale cura le mostre di Josef Koudelka, Susan Meiselas, Miron Zownir, Franco Zecchin e Weng Fen. Viene invitata a tenere incontri e seminari in musei, istituzioni, scuole e università in Italia e all’estero. Tra il 2020 e il 2021 racconta la storia della sua vita al suo amico regista Roberto Andò, il quale ne realizza un film in due puntate dal titolo “Solo per passione - Letizia Battaglia fotografa” trasmessa in Italia su Rai 1 nel mese di maggio 2022. Un anno prima della sua scomparsa, avvenuta nella casa di Palermo il 13 aprile 2022, fonda insieme ai nipoti Matteo e Marta Sollima l'Associazione "Archivio Letizia Battaglia”, che oggi ne cura e divulga l’opera e la memoria.
Palazzo delle Arti Beltrani Trani
Letizia Battaglia. Testimonianza e narrazione
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Lunedì Chiuso