Giovanni Cardone Novembre 2024
Fino al 2 Febbraio si potrà ammirare a Palazzo Reale Milano una retrospettiva  dedicata ad Ugo Mulas. L’Operazione Fotografica a cura di  Denis Curti e Alberto Salvadori. Promossa dal Comune di Milano-Cultura e prodotta da Palazzo Reale e Marsilio Arte in collaborazione con l’Archivio Ugo Mulas, con il sostegno di Deloitte e il patrocinio di Fondazione Deloitte. Una delle più ampie e dettagliate retrospettive dedicate a uno dei più importanti artisti di Milano, nato nel 1928 e morto nel 1973. Una rilettura complessiva dell’opera del grande fotografo, cui la città dedica uno straordinario omaggio, lungo il percorso dell’esposizione si potranno ammirare 300 immagini, di cui molte mai esposte prima d'ora, preziosi scatti vintage, documenti, libri e filmati, ripercorrono l’intera produzione di Ugo Mulas: dal teatro alla moda, dai ritratti di artisti internazionali, protagonisti della Pop Art americana, a quelli di intellettuali, architetti e personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo – tra i quali Dino Buzzati, Giorgio de Chirico, Marcel Duchamp, Jasper Johns, Roy Lichtenstein, Arthur Miller, Eugenio Montale, Louise Nevelson, Salvatore Quasimodo, Giorgio Strehler, Andy Warhol – dai diversi luoghi e città fino al nudo e ai gioielli. Il sottotitolo della mostra, “L’operazione fotografica”, trae ispirazione da una delle più importanti serie realizzate da Mulas, le Verifiche (1968-1972), con cui si apre la retrospettiva: quattordici opere nate dalla rigorosa riflessione concettuale dell’autore sulla storia della fotografia e sui suoi elementi costitutivi.In una mia ricerca storiografica sulla figura di Ugo Mulas apro il mio saggio dicendo : Fin dalle loro origini, la funzione artistica e la funzione documentaria hanno rappresentato due poli distinti della pratica e del discorso fotografici. Per quanto concerne la seconda funzione sopra citata, sul finire dell'Ottocento la documentazione fotografica della storia dell'arte o più semplicemente, in una formula che utilizzeremo nella presente tesi, la fotografa d'arte entra a pieno titolo tra gli strumenti didattici. Già dal primo Novecento, con i progressi della tecnica editoriale, essa diventerà anche un mezzo essenziale per la divulgazione delle opere. Anche nella seconda metà del Novecento, quando cioè il medium si ritaglia uno spazio privilegiato nelle pratiche dell'arte contemporanea, la fotografa artistica e la fotografa d'arte saranno considerate come due attività ben distinte: la prima è vista nella sua tensione creativa verso la produzione di “belle” fotografe; la seconda come semplice supporto documentario, editoriale o didattico. Questa netta distinzione dei due ambiti inizia a incrinarsi a partire dagli anni Sessanta, periodo in cui la fotografa d'arte assume anche un valore critico (non solo documentario, come ben esemplifica la figura di Ugo Mulas che tratteremo oltre) e la fotografa, intesa come pratica, assume una certa rilevanza in ambito artistico (si pensi alle operazioni di artisti come Piero Manzoni, e soprattutto Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, ecc.). La fotografa inizia a essere considerata non più segmento culturale e sociale irrelato al mondo artistico, perché strumento di documentazione tout court, o comunque sottoposto all'arte, o strumento del piacere di pochi, ma è parte della cultura dei media che va diffondendosi e sviluppandosi. Numerosi fotografi iniziano allora a occuparsi di documentare le opere, gli artisti, le mostre, le operazioni artistiche all'insegna dell'effimero si pensi alle installazioni e alle performance, in modo sistematico e con una consapevolezza e una maturità inedite nei confronti sia dell'ambiente artistico sia del proprio strumento. In altri termini, il binomio arte-fotografa tende a scomporsi per generare un terzo modello operativo in cui l'atto fotografo non è più o tensione creativa o semplice supporto documentario, ma è percepito in primis dai fotografi stessi nella sua complessità.
Questa fenomeno di scomposizione del binomio arte-fotografa genera ciò che ci piace definire un “luogo di contaminazione”, uno spazio “terzo” capace di accogliere sia la tecnica, in funzione del valore documentario, sia le riflessioni sul mezzo, sia i valori della professione, che comprendono la conoscenza dell'ambito artistico in cui i professionisti dell'obiettivo operano. In questo modo il fotografo assume una funzione di mediatore tra l'arte e la fotografa.  Si potrebbe far riferimento in questo caso alla nota formula di Bourdieu (1965) che etichetta la fotografa come arte media. Secondo il discorso storiografico corrente, gli anni Settanta sono i primi anni in cui si afferma il valore autoriale dei fotografi. A mio avviso, l'origine di tale emergenza del valore autoriale va ricercata in questo “luogo di contaminazione” le cui tracce risalgono al decennio 1960, quando il dibattito in ambito fotografico e in ambito artistico si incrociano e si contaminano, appunto, gettando le basi per la produzione della fotografa d'autore. In ambito italiano il testo che in maniera più ampia e sistematica analizza i rapporti tra fotografa e arte nel XX secolo è Fotografa e pittura del Novecento. Una storia senza combattimento, dello storico e critico Claudio Marra (1999). Pubblicato in un periodo di pieno sviluppo della storiografa fotografica italiana, il volume esamina la produzione d’autore in rapporto alle correnti artistiche del secolo scorso. Nel porre a confronto l'arte del Novecento e le coeve vicende fotografiche, l'autore fa dialogare le due pratiche estraendo, al contempo, le reciproche affinità culturali. Lo svolgimento delle tesi di Marra riflette la più comune tra le impostazioni dell'analisi del rapporto arte-fotografa; impostazione che procede, perlopiù, per rimandi tematici e per confronti interni al circuito dell'arte, e che si trova alla base anche di alcune mostre che associano, in un unico contesto espositivo, artisti d'avanguardia e artisti-fotografi. Il volume è per noi illuminante di un'impostazione che non produce una vera analisi di quel contesto storico in cui la fotografa è ormai innestata come parte integrante della cultura del tempo. Marra descrive molti esempi di produzioni afferenti al circuito di diffusione della fotografa e a quello dell'arte contemporanea, rapportandoli tra loro. Tra gli strumenti utilizzati da Marra a conforto delle sue tesi è interessante citare la ripresa di alcune teorie di Rosalind Krauss, storica dell'arte che ha più volte indagato l'apporto della fotografa all'arte contemporanea, considerandola più come oggetto teorico che come pratica del fotografare. Riprenderemo e approfondiremo nella prossima parte del capitolo le riflessioni dell'autrice statunitense. L'autore prende a prestito alcune conclusioni della Krauss per analizzare diversi movimenti artistici e metterli in relazione con le coeve tendenze della fotografa. Per inciso, non riteniamo si debbano definire “movimenti” o “avanguardie” le diverse modalità d'uso della fotografa, ricorrenti nella sua storia.  Vedremo nel corso del capitolo alcuni esempi significativi. Sebbene in alcune storie della fotografa si siano volute utilizzare etichette come la fotografa formalista, d'avanguardia, pittorialista, neorealista ecc., alla base della nostra impostazione sta l'assunto che la fotografa ha accompagnato sin dalla sua nascita gli sviluppi teorici e tecnologici della cultura occidentale, costituendosi raramente in veri e propri movimenti paragonabili a quelli definiti nella storia dell'arte. Tra le varie citazioni prese in prestito dall'autrice statunitense troviamo ad esempio l'indice, termine ripreso e rielaborato a partire dall'intuizione semiotica di Charles Peirce per cui la fotografa veniva inclusa tra gli segni linguistici . Semplificando, l'autrice riconduce l'attività artistica di Marcel Duchamp sotto una prospettiva concettualmente indicale, dunque fotografica (Krauss 1977). L'indicalità del ready-made diviene per Marra il paradigma di analisi dell'uso della fotografa nell'Arte Concettuale. Altrettanto, introducendo le riprese fotografiche dall'alto, Marra cita Krauss per descrivere le affinità tra Hans Namuth e Jackson Polloch all'insegna di un'“analogia” che si giustifica in entrambi nello “sfruttamento di qualità specificatamente fotografiche”  qualità che, volendo riassumere il più complesso ragionamento di Krauss , l'autrice riconduce alle vedute fotografiche aeree. Marra utilizza questo parallelo per interpretare il lavoro di Henri Cartier-Bresson sotto l'ottica dell'Informale. Il tentativo di Marra, che abbiamo ripercorso rapidamente e per esempi, è dunque di condurre confronti tra arte e fotografe prendendo spunto da teorie tratte dalla storia dell'arte contemporanea. Il risultato di questo arroccio permette di ridefinire la fotografa come forma d'arte riconoscendo in definitiva a essa le medesime qualità artistiche riscontrabili nelle coeve correnti artistiche d'avanguardia. La critica che si può avanzare è che questo modo di rappresentare il binomio arte-fotografa conduce a un'assimilazione della fotografa nell'arte, propone cioè una perdita di valore della prima assoggettandola alla seconda. Nell'introduzione al suo volume, Marra esplicita il suo approccio contestando un accostamento tra la fotografa e la pittura in funzione di una più ampia solidarietà  di matrice storico-artistica - tra le due pratiche: “Apparentemente simile a un quadro la fotografa si è dimostrata assai vicina e anzi teoricamente solidale con tutte quelle pratiche artistiche che nel Novecento si sono poste come alternative alla pittura stessa”. Per esempi vedremo come questa chiave di lettura è alla base di alcune mostre che a partire dal 1973 per giungere al 2006 hanno trattato la fotografa includendola nell'ambito delle pratiche artistiche. Posso dire che Ugo Mulas realizza negli anni 1970-1972 crea una serie di esperimenti fotografici attraverso i quali compie una riflessione teorica sul mezzo fotografico stesso. È un vero e proprio trattato di linguaggio fotografico, e la cosa interessante è che esso è fatto di fotografie. Tuttavia, come sarà tra poco chiaro, queste esperienze hanno senso se prese nell’insieme. Sicuramente l’autore prevedeva la pubblicazione e nessuna di quelle che egli stesso chiama “verifiche” deve essere tralasciata, così come hanno senso se completate della parte testuale che le accompagna, e che l’autore stesso ha scritto. Rapporto tra immagine e testo, riflessione teorica attraverso il mezzo fotografico ma anche attraverso la descrizione dell’operazione. Infatti, l’immagine in sé, o le immagini, non sempre risultano decifrabili facilmente, né tanto meno è sufficiente il titolo/didascalia per comprenderla. Come dichiara lo stesso autore questa operazione assume il significato di una riflessione teorica che viene compiuta dal fotografo quando ha raggiunto una piena maturazione, come una sorta di pausa riflessiva nella routine del lavoro. Significativo e sorprendente anche che queste opere siano le ultime realizzate da Mulas che scomparirà di lì a poco prematuramente. Le Verifiche sono 14 anche se non si tratta di 14 immagini: alcune sono composte da più immagini, altre sono solo descritte testualmente e, di fatto, non realizzate. Prenderemo in considerazione l’insieme delle Verifiche soffermandoci maggiormente su alcune, ma soprattutto all’interno di questo contesto ci piace sottolineare l’ordine logico delle Verifiche in base all’operazione fotografica, un ordine che Mulas non ha rispettato a nostro avviso, preferendo probabilmente l’ordine della sua realizzazione. L’unico aspetto incontrovertibile è che la prima e l’ultima debbano essere necessariamente tali; dato che sono legate tra loro formalmente e concettualmente. Nella Verifica 1. Un rullino fotografico non impressionato viene provinato a contatto come solitamente si faceva, ottenendo una mera sequenza di immagini inesistenti bianche, ovvero trasparenti sul negativo e quindi nere nella stampa di cui rende conto la sequenza dei numeri lungo i bordi della pellicola. Innanzitutto, abbiamo il rullino fotografico come contesto della fotografia nel 1970, cioè la fotografia per tutti; quindi, specificamente questo rullino in attesa di essere impressionato rappresenta una potenzialità: cioè tutte le immagini possibili. Che si tratti di un rullino non impressionato ce lo dice la coda bianca nella stampa, che corrisponde a quella parte iniziale che prende luce necessariamente durante il caricamento della fotocamera. Il resto del rullino, quindi, non ha preso luce. Ora non potrà più nemmeno prenderla, perché dopo lo sviluppo ciò è impossibile dato che il processo è irreversibile. Il soggetto dell’immagine è sia l’aspetto tecnico, quel rullino specifico (marca, sensibilità, formato), sia il procedimento fotografico (prima operazione da farsi: scegliere una pellicola adeguata al nostro scopo), sia l’idea del fotografare e quindi la sua potenzialità (le immagini che avrebbero dovuto essere catturate) che però è stata negata. La prima operazione in camera oscura è la provinatura a contatto della pellicola, per una valutazione preliminare degli scatti. Ma qui gli scatti non sono stati fatti, quindi il soggetto è il fare, la procedura, e non il risultato. Non avrebbe avuto senso fare degli scatti generici, la nostra attenzione sarebbe stata distratta dal riconoscimento dei soggetti. Qui invece il soggetto è la pratica fotografica in senso generale. Avrebbe potuto presentarci un rullino fotografico non esposto e non provinato a simboleggiare la potenzialità dell’immagine, magari ancora chiuso nella sua confezione, come avrebbe fatto Piero Manzoni , ma non sarebbe stata la stessa cosa. Il provino a contatto di un rullino non impressionato è la traccia incontrovertibile di un fallimento. La Verifica 2 . dal titolo L’operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander, ha come tema l’inquadratura e si lega al mito dell’origine di tutte le arti visive: autoritratto, specchio, ombra: tutto viene incluso in questa immagine in modo sintetico. Il primo soggetto col quale un artista ha a che fare è sé stesso, il modello più facilmente disponibile il suo riflesso in uno specchio. Il fotografo si mostra nello specchio, ma si nasconde dietro la macchina fotografica, ci presenta la sua ombra ma anche indirettamente la luce, lo strumento principale della pratica fotografica. È interessante anche rilevare che l’autore abbia voluto espressamente dedicare quest’opera a un altro fotografo appartenente alla sua generazione, anzi di 6 anni più giovane, colui che a suo avviso ha avuto la maggiore consapevolezza della macchina fotografica come barriera tra l’autore e la realtà che si cerca di conoscere. A nostro avviso in questa immagine viene ribadita la presenza dell’autore che c’è in qualsiasi immagine scattata, ovvero la sua personalità, il suo punto di vista. Il fotografo, anche se doppiamente nascosto nei suoi tratti somatici, sia dall’ombra che dalla fotocamera, diventa il soggetto di questo autoritratto. Non autoritratto di Mulas in quanto persona ma del Fotografo in senso ampio. Quindi viene tematizzata la componente di soggettività che esiste in ogni operazione fotografica, la visione del mondo che inevitabilmente ogni fotografo ci trasmette. La Verifica 11.  L’ottica e lo spazio. Ad Arnaldo Pomodoro, è un progetto non realizzato fotograficamente, ma presente solo sotto forma di testo. Il fotografo ci racconta una serie di immagini che hanno a che fare con la scelta del punto di vista, ma non sono state realizzate. Dobbiamo immaginarci una sequenza di avvicinamento al soggetto (l’artista al lavoro nel suo atelier) che parte dalla descrizione dell’ambiente nel suo insieme fino ad arrivare al dettaglio delle sue mani al lavoro. Una serie di differenti inquadrature che vogliono raccontare un luogo: per fare ciò il fotografo si sposta nell’ambiente, assume differenti angolazioni e inclinazioni rispetto al soggetto, misura differenti distanze tra il suo occhio e ciò che lo circonda. La Verifica 8 . Gli obiettivi. A Davide Mosconi, fotografo, testimonia delle caratteristiche tecniche di due differenti obiettivi e quindi della necessità sia dell’adeguamento di questi al soggetto sia delle valenze espressive, linguistiche di tale variabile. Inoltre, introduce considerazioni sulla verità della fotografia quindi, potremmo azzardare, sul suo dire sempre il falso. Non esiste infatti una fotografia più esatta dell’altra, forse ce n’è una che corrisponde meglio a quello che vede il nostro occhio, ma in realtà non è nemmeno così. Porsi il problema della veridicità dello sguardo fotografico vuole dire adottare convenzionalmente un criterio di “normalità” della visione. Qui è come se si dicesse che anche la fotografia è estremamente soggettiva. Abbiamo già sottolineato come l’occhio umano dia informazioni solo parziali sulla realtà visibile. Ecco allora che l’occhio della fotocamera, qualsiasi obiettivo venga adottato, rischia comunque di essere più veritiero del nostro molto limitato organo di senso. La Verifica 3. Il tempo fotografico. A J. Kounellis, ha come soggetto un’opera di Kounellis (1936-2017) per l’esposizione Vitalità del negativo al Palazzo delle Esposizioni di Roma tra fine 1969 e inizio 1970. Si tratta di un pianoforte a coda nell’angolo di una stanza col quale veniva eseguito un brano ciclico per qualche ora ogni giorno. Non potendo rappresentare il suono né il tempo che scorre con una fotografia, Mulas decide di utilizzare ancora l’espediente della provinatura a contatto e della serie di scatti. L’attenzione ricade ancora sulla successione delle immagini e sulla loro ricorsività così analoga all’essenza dell’opera di Kounellis. Il performer è quasi irriconoscibile all’interno dell’inquadratura e le immagini sembrano essere pressoché identiche, anche se noi sappiamo che in realtà esse non lo possono essere. Ogni fotografia è la rappresentazione di un istante e la negazione per definizione di un prima e un dopo. Una serie di istanti pressoché identici ci descrive la natura meccanica del tempo, la sua ciclicità. Mentre nessuno potrà mai sapere quanto tempo è passato tra uno scatto e l’altro. Oggi sarebbe difficile sostenere questo con la quantità di informazioni che sono racchiuse nel file di una immagine digitale. La rappresentazione spaziale del tempo è la sua negazione qualitativa, la restituzione quantitativa, omogenea, frammentata tradisce i limiti della nostra percezione sensoriale. Nella Verifica 9.  Il sole, il diaframma, il tempo di prova, Mulas mette in scena la pratica della ripresa fotografica come una scelta di variabili: luce, diaframma, tempo di esposizione. Per poter fare questo, senza che il nostro sguardo venga distratto dal soggetto, sceglie di fotografare il sole, la fonte di luce per antonomasia, che diventa quindi il protagonista della nuova sequenza. Ancora una volta adotta l’espediente del provino a contatto per testimoniare il variare dei fattori utilizzati tra uno scatto e l’altro. Partendo dalla massima chiusura del diaframma e con un filtro rosso che possa permettere di fotografare il sole direttamente, unitamente a una bassa sensibilità della pellicola, Mulas incomincia la sua serie di scatti giungendo via via alla massima apertura (immagine completamente bianca, bruciata) per poi tornare gradualmente al punto di partenza attraverso il variare del tempo di posa. L’accoppiata tempo/diaframma è infatti inversamente proporzionale e a parità di condizioni di luce e con un cavalletto che sostenga l’apparecchio o comunque con un soggetto statico, fare una fotografia a 1/125 – f:4 equivale a farne una a 1/30 – f:8, ad esempio. La breve dedica che accompagna questa operazione ci vuole sottolineare inoltre che il vero soggetto di questa Verifica è la luce: «Il secondo libro fotografico di Fox Talbot, edito nel 1845, s’intitola Immagini della Scozia fatte dal sole». La Verifica 13. Autoritratto con Nini, riprende il tema della presenza del fotografo nella fotografia, qui insieme al soggetto a lui caro. Si presenta come una sorta di meditazione sull’impossibilità per il fotografo di essere presente nella sua immagine, con la stessa “qualità” del suo soggetto, di “vedersi” come egli riesce a vedere il mondo. Viene adottato l’espediente della doppia esposizione (cioè la mascheratura alternata di parte dell’immagine), non sappiamo se in fase di ripresa o di stampa. Non è uno scatto realizzato con un timer, ma in due tempi. L’unione dei soggetti avviene grazie a un intervallo di tempo e a un permanere (in ripresa sulla pellicola, in stampa sulla carta) dell’immagine latente del primo fino al sopraggiungere dell’immagine latente del secondo. Che si rivelano contemporaneamente durante il processo di sviluppo. Con la Verifica 7. Il laboratorio. Una mano sviluppa, l’altra fissa. – a Sir John Frederick William Herschel, si entra finalmente ed esplicitamente in laboratorio. Da ora in poi (nell’ordine di lettura che qui stiamo proponendo) vengono infatti prese in esame tutte quelle operazioni che portano al risultato finale, posteriormente allo scatto fotografico. La prima di queste operazioni consiste nella considerazione che in camera oscura si ha a che fare con una pratica manuale di trasformazione chimica. Questo viene illustrato dalle mani dell’autore che lasciano le loro impronte sul foglio fotosensibile. A causa della consuetudine pratica di utilizzare le due mani, destra e sinistra, per non rischiare di mescolare tra loro i chimici utilizzati (rivelatore e fissaggio) pena il loro annullamento reciproco, Mulas decide di realizzare una “fotografia” di questo “fare”. Ancora una volta si coglie l’essenza del processo che si vuole far vedere senza l’utilizzo di un soggetto anedottico e per fare ciò, come dice lo stesso Mulas, la macchina fotografica deve essere esclusa. La dedica a John Frederick William Herschel si riferisce a colui il quale ha introdotto l’iposolfito di sodio come fissativo. Riuscendo a porre rimedio al maggiore problema della storia della fotografia delle origini: fermare l’azione della luce sul materiale fotosensibile (qualsiasi adottato) perché altrimenti l’immagine fotografica avrebbe continuato ad annerire. La Verifica 10 (indicata come “verifica non fatta”) non è presentata nella raccolta che ne fa Mulas, sappiamo tuttavia che essa avrebbe dovuto avere come soggetto il formato di stampa. Quanto ingrandire ma soprattutto che dimensione finale scegliere per le proprie stampe è uno degli elementi del linguaggio fotografico: in esso concorrono sia questioni meramente tecniche relative alla qualità della resa finale (evidenziazione della grana vs gradualità delle sfumaure), sia qualità visive in relazione alla destinazione finale fotografia tascabile, da appendere in casa o in una galleria d’arte. Vi sono poi due verifiche, la n°5 e la n°6. Che hanno come tema il fattore di ingrandimento. Nella Verifica 512 abbiamo la messa in opera della resa tecnica cui si accennava poco fa. Un provino a contatto di un rullino che ha come soggetto il cielo (presenta solamente una serie di variazioni di sfumature di grigio) viene dapprima contrapposto a una buona stampa di un formato medio (ottimale per la sua resa qualitativa), infine a quest’ultima viene affiancato un ingrandimento spinto al massimo delle possibilità tecniche permesse dal laboratorio di Mulas. Il risultato di questa immagine è un “rumore” indistinto dove i singoli alogenuri d’argento diventano l’unico soggetto visibile. Nella Verifica 6. Il gioco è analogo ma meno paradossale. Vi è un motivo contingente che spinge questa volta Mulas a scegliere un “soggetto” naturale, cioè una veduta dalla sua finestra, che vuole, come esplicitato nella dedica, ricordare la prima veduta fotografica di cui vi è traccia, cioè quella prima immagine evanescente che viene posta all’inizio della storia della fotografia e che rappresenta proprio una veduta da una finestra. Inoltre ciò che attira l’attenzione del fotografo, tanto da dedicare un’ulteriore verifica al tema dell’ingrandimento fotografico, subito dopo la precedente, è la presenza nell’inquadratura dell’insegna di un negozio di materiali fotografici. Realizzare la sequenza delle tre immagini proprio con una pellicola Agfa come si vede dalla provinatura nella prima immagine e come si può cogliere nel dettaglio estremamente ingrandito della terza costituisce un insieme ancora una volta estremamente coerente dove viene rappresentato uno degli aspetti salienti della pratica del fotografo: cioè scegliere a posteriori un taglio fotografico che non necessariamente coincide con quello di ripresa. L’immagine di partenza è infatti orizzontale, mentre quella finale verticale. La Verifica 41. L’uso della fotografia. Ai fratelli Alinari, ha come tema la manipolazione che può essere fatta a posteriori di un’immagine fotografica, quindi la post-produzione, sia direttamente sul negativo fotografico che sulla stampa finale. Mulas ha provinato a contatto una lastra fotografica in vetro contenente due immagini dello stesso soggetto, in questo caso un ritratto di re Vittorio Emanuele II. Le due immagini a confronto ci restituiscono quasi due differenti persone: sono state ammorbidite le rughe, eliminati i segni troppo evidenti dell’età. L’utilizzo dell’immagine fotografica determina il grado della sua manipolazione. Oggi questa pratica ci sembra inevitabile con l’uso dei software di fotoritocco. È come il ritorno della manualità del pittore che recupera il suo spazio estromesso dal mezzo tecnico. Ma a parte le considerazioni sull’abilità nel saper nascondere l’intervento postumo, quello che ci interessa sottolineare è ancora una volta l’ambiguità di fondo di ogni immagine fotografica. Una nota a margine invece deve essere spesa sulla paternità di questa Verifica: non è certo Mulas l’autore del ritratto al re, egli l’ha semplicemente utilizzato per dimostrare la sua tesi. Analogamente a quanto detto sulla sparizione del soggetto e dell’opera d’arte che può risultare di fatto invisibile, si assiste alla sparizione dell’autore, al suo nascondimento dietro un altro autore. Con la Verifica 12. La didascalia. A Man Ray, si compie un ulteriore passo nella direzione della considerazione dell’immagine fotografica come un elemento dotato di una sua vita autonoma. Nel senso che una volta scattata la fotografia attraversa tutta una serie di processi che ne determinano il suo aspetto finale, come abbiamo fin’ora visto. Tuttavia con le operazioni di post-produzione, nelle quali rientra la scelta del titolo o didascalia che accompagnerà l’immagine, si entra nella fase di completamento dell’opera. Che ora ha acquistato una configurazione definitiva. Questa Verifica vuole sottolineare l’importanza della parola che accompagna l’immagine, e ci sembra di poter dire che Mulas con le Verifiche lo abbia ampiamente dimostrato, scegliendo con cura un breve testo di accompagnamento che spieghi il senso di ogni operazione fatta. In questo caso vi è un testo che entra fisicamente nell’immagine. Vediamo Man Ray che, indicando un enorme riquadro architettonico vuoto, “dice” questo è il mio ultimo dipinto. Nella fotografia la voce è esclusa. Ma l’espediente della trascrizione, il codice adottato, fanno “sentire” la frase. D’altronde non è possibile fotografare una battuta, così come all’interno del “quadro” di Man Ray non c’è nulla. Inserendo la scritta nel “falso quadro” di Man Ray, Mulas è come se avesse fatto un’opera a quattro mani con il vecchio surrealista. Nello stesso tempo è interessante rilevare che il titolo, o didascalia, della Verifica in questione non coincide con la frase di cui sopra. Infine con la Verifica 14. Che tuttavia non è numerata come le altre ma ha solamente per titolo la dicitura Fine delle Verifiche. Per Marcel Duchamp il cerchio si chiude ritornando al punto d’origine, quella provinatura a contatto di un rullino non impressionato che era stata la negazione della possibilità del fotografare. Qui si complica del fattore casuale, quella rottura del vetro tanto emblematica della celebre opera di Duchamp che egli volle conservare come segno della “vita” dell’opera stessa. Nell’arte “meccanica” della fotografia, nel tema della sua intrinseca riproducibilità tecnica, Mulas introduce l’elemento dell’unicità dell’imprevedibile: un vetro non può spezzarsi due volte allo stesso modo. Il segno grafico che si disegna sull’ultima Verifica vuole essere il riconoscimento dell’importanza nell’arte contemporanea, e nella riflessione teorica sul mezzo fotografico, della figura di Duchamp. È come se tra la prima dedica a Niépce e l’ultima a Duchamp ci fosse racchiusa tutta la consapevolezza linguistica della fotografia secondo Mulas. Negli ultimi anni , si è assistito a una rivalutazione della fotografa d'arte, concepita come pratica che va al di là della pura documentazione e intesa come prodotto del pensiero critico del fotografo che si approccia all'interpretazione delle opere. Di fatto, questa impostazione è stata messa in atto pressoché su di unico autore, Ugo Mulas appunto, elevato ormai al rango di più importante fotografo d'arte del Secondo dopoguerra. Mulas era considerato o l'artista delle Verifche o il grande reporter degli artisti americani e italiani degli anni Sessanta. In realtà il distinguo è arbitrario: il celebre volume del 1967, New York arte e persone, non è che parte di un percorso intrapreso già nel decennio precedente; e le stesse Verifche già citate precedentemente nascono spesso dalla documentazione di eventi artistici. L'aura attorno a Mulas è quella del fotografo-intellettuale, forse il primo in Italia a poter rivestire l'agognato titolo di autore(-fotografo). Maestro nel relazionarsi con il contesto che lo circonda, primo e consapevole sperimentatore di forme inedite della fotografa d'arte, Mulas opera in un ambito culturale in cui è la natura stessa dell'arte ad essere in gioco e a diventare, al contempo, oggetto di analisi della fotografa. Termine di confronto per altri fotografi che, nello stesso periodo, operano nel settore artistico, Mulas non fu tuttavia l'unico a solcare, in maniera preponderante, il terreno della fotografa d'arte come vedremo nel successivo capitolo. Mulas comincia a fotografare ufficialmente, secondo un'epopea consolidata , proprio in ambito artistico, alla Biennale di Venezia del 1954. Dopo un decennio di fotografa professionale in diversi settori, dalla pubblicità all'industria, dal design alla cronaca, con il 1962 Mulas si avvicina definitivamente al mondo dell'arte documentando la manifestazione Sculture in Città, organizzata a Spoleto da Giovanni Carandente. A seguito della mostra, due anni dopo, viene pubblicato il volume Voltron, dello scultore David Smith. Il volume integra un testo di presentazione dello storico dell’arte napoletano e le fotografe di Mulas realizzate a Voltri nella fabbrica utilizzata dall’artista come atelier durante la preparazione delle opere per la mostra. Nella stessa manifestazione sono presenti Alexander Calder e Pietro Consagra, soggetti di altri due libri realizzati da Mulas. Eccezion fatta per le esperienze di Mulas, bisognerà attendere la fne degli anni Sessanta e il relativo sviluppo di modalità espositive inedite perché si possa assistere a un rinnovamento nell’uso delle immagini fotografiche in ambito artistico. Il primo esempio è senza dubbio offerto dalla manifestazione artistica Campo Urbano (Caramel-Mulas-Munari 1969). Non a caso Mulas figurerà come parte attiva nell’organizzazione dell’evento. A partire da queste brevi notizie biografiche si può cercare di valutare l'essenziale lavoro di Mulas pubblicato nel 1967. Grazie all'esperienza e le conoscenze acquisite nell'ambito dell'arte contemporanea, Mulas, con l'appoggio di Alan Solomon e Leo Castelli, parte per una ricerca nel mondo artistico newyorchese. Questa sua ricerca si svolge in tre tappe tra il 1964 - anno dell'approdo della Pop Art americana alla Biennale di Venezia  e il 1967 . New York. Arte e Persone, del medesimo formato di quello del volume di Liberman, si fa notare per la cura dell'apparato fotografico, ad opera di Michele Provinciali responsabile dell'impaginazione o il design (la prima definizione è della controcopertina, la seconda del frontespizio). Per questo motivo Provinciali è citato al pari degli autori nel frontespizio del libro. Il saggio di presentazione del volume inizia con queste parole: “Questo libro è la documentazione fotografica di un lungo momento della storia dell'arte contemporanea americana”. Questo “lungo momento” non è fatto solo di opere, anzi. La forza del libro sta nel rappresentare un ambiente attraverso le fotografe. Il testo che scorre nelle pagine è del commissario per il padiglione alla biennale del 1964, Alan Solomon, e narra delle vicende e dei personaggi della scena artistica di New York dai primi anni Cinquanta alla metà dei Sessanta. Un racconto, a volte autobiografco, che spesso coincide con ciò che si vede nelle immagini pubblicate. Immagini, come si diceva, che non riproducono solo le opere, che scorrono nelle pagine del volume quasi in secondo piano, ma si concentrano sui protagonisti, artisti e galleristi della vita mondana newyorchese. Ritratti, feste, incontri . E poi approfondimenti su singoli nei loro ambienti , in posa, al lavoro, insieme alle loro opere, da soli. Spiccano le significative sequenze di un Lichtenstein costantemente dentro le sue opere, mai veramente al lavoro, ripreso come un personaggio dei suoi “fumettoni”. Oppure il goliardico John Chamberlain e l'afascinate Jasper Johns. La serialità è espressa in Frank Stella, con diverse serie di 3 immagini per pagina di ridotte dimensioni, non a piena pagina (come la gran parte delle immagini del libro). Così anche in Warhol ritornano immagini seriali riprese durante la visione di alcuni flm dell'artista. Una sequenza ci pare di particolare interesse e riprende alcune scene del flm Henry Geldzahler, 5 strisce da 3 fotogrammi di un negativo. Mulas ha il merito di rappresentare la personalità degli artisti attraverso un sentimento di partecipazione, seguendo la strada tracciata da Solomon nella sua introduzione: “In ogni caso, comunque lo si definisca, di questi giorni chi si interessa d'arte ha parecchio da fare. Invece di compiere un tranquillo giro in una mostra, un membro della comunità artistica, un partecipante alla scena, deve scalare oggetti, infilare le dita in buchi, premere bottoni, oppure sedersi e aspettare che capitino delle cose. Insomma accadono più cose, e il fatto che artisti e pubblico abbiano l'impressione di trovarsi là dove c'è azione crea un clima assai diverso da quello che accompagnava la visita alle solite mostre”. L'ambiente fotografico milanese dimostra da subito di apprezzare di lavoro Mulas. Una mostra con una parte delle fotografe del libro si tiene alla galleria “Il Diaframma”, dal 28 novembre al 14 dicembre del 1967, come penultimo evento del primo anno d'apertura dello spazio milanese di Lanfranco Colombo. L'anno successivo il volume si aggiudicava il premio Nadar italiano, premio congegnato dal Centro per la Cultura della fotografa di Luigi Crocenzi, con cui Mulas aveva lavorato per la realizzazione della serie Ossi di Seppia . Anche la critica d'arte si interessa al volume. Tommaso Trini registra le ottime qualità della fotografia di Mulas descrivendo come “di ognuno dei sedici artisti viene rappresentata la personalità, il tipo di tensione mentale” . È più cauto Alberto Boatto che, nella sua recensione, definisce parziale il lavoro di Mulas, poiché non mette in luce il rapporto tra gli artisti e la metropoli: “le foto inquadrano quasi sempre degli interni - senza collegamenti col mondo esterno che pure ovviamente sono fortissimi nell'opera e nella vita di un Oldenburg, di un Rauschenberg o un Segal ad esempio”. Di un certo interesse il commento sull'impaginazione che risulta “rigida come una colonna di piombo e la disposizione delle didascalie sotto le immagini nella sua studiata complicazione fa girare letteralmente la testa”.  Il commento del Boatto pare pertinente. In effetti l'impaginato statico di New York non è che un esempio tra tanti dell'editoria fotografica del periodo. Vedremo come testi e immagini dialoghino in modo più dinamico in altre pubblicazioni nella terza parte della ricerca. Al confronto con altri, il volume di Mulas deve molto ad una visione da rotocalco, dove a pagine intere si alternano sequenze, particolari, ma in cui la descrizione delle immagini è più tradizionale, e si svolge tramite semplici didascalie poste sotto all'immagine. Mentre il testo di Solomon si dipana lungo il volume in grossi blocchi con una minima apertura alle immagini. Il critico Aurelio Natali sull'Unità elogia l'opera: “una delle più belle inchieste fotografiche apparse nelle librerie italiane. Non solo per la qualità delle immagini, ma per l'acutezza e la sensibilità con cui ha saputo cogliere e tradurre un ambiente tanto complesso e contraddittorio quale quello delle giovani generazioni artistiche americane”.
Comunque, non è stato effettuato uno studio sulla ricezione del volume. Possiamo immaginare che l'impatto sul circuito fotografico non sia trascurabile, soprattutto a Milano dove, oltre al libro, si possono vedere anche le fotografe. Se dobbiamo ricondurre il volume agli esempi americani del 1961, Duncan e Liberman, New York ha l'evidente difetto di non essere accompagnato da testi scritti dall'autore delle fotografe. Anche al confronto con la proposta di foto libro teorizzata da Crocenzi ed evolutasi nell'Arcari dei Quaderni, quest'aspetto appare deficitario. Non possiamo tuttavia attribuire questa mancanza a Mulas. Quando ripubblicherà una parte di queste fotografe nel 1973, sotto il semplice titolo La fotografa, Mulas accompagnerà le immagini con la propria testimonianza, rivalutando il lavoro del 1967 in termini narrativi . Solo grazie a questa presa di parola si può valutare, a posteriori, lo spessore intellettuale dell'opera del fotografo milanese d'adozione. Per la prima volta, nelle sale di Palazzo Reale, unitamente alle Verifiche sono esposti anche gli studi che le precedono, a formare un vero e proprio testamento che ancora oggi ci fornisce le chiavi di lettura per entrare nell’universo estetico e concettuale di Ugo Mulas. Una sorta di ricognizione della fotografia, che ha come punto di partenza un omaggio a Niépce, Verifica 1, su cui l’esposizione si concentra con particolare attenzione. In mostra per la prima volta, inoltre, moltissimi ritratti dei più importanti protagonisti del design, dell’architettura e dell’arte del secondo Novecento, legati alla città di Milano, tra i quali Gae Aulenti, Giulio Castelli, Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Vittorio Gregotti, Bruno Munari, Gio Ponti, Ettore Sottsass, e diverse immagini dell’artista Fausto Melotti, scultore, affezionato amico di Ugo Mulas, cui è dedicata un’intera sezione. Lungo il percorso espositivo, articolato in 14 capitoli tematici (Verifiche, Duchamp, Fontana, Calder, Melotti, Teatro, Milano, Luoghi, Ritratti, Moda, Nudo e Gioielli, New York/Pop, Interno/Esterno, Vitalità del negativo), emerge il profilo di un fotografo "totale", che ha affrontato molti soggetti diversi nel corso della sua breve e intensa esperienza, con la consapevolezza che la fotografia non è mera documentazione, ma testimonianza e interpretazione critica della realtà. La documentazione visiva di Ugo Mulas rappresenta un prezioso contributo alla comprensione della storia culturale e artistica di Milano nel secondo Novecento, del suo fervore economico e sociale, come testimoniano i primissimi scatti del 1953 del quartiere di Brera e del celebre bar Jamaica, luogo di incontro di straordinarie personalità, quali Piero Manzoni o Luciano Bianciardi, o le fotografie delle periferie, della stazione centrale, dei dormitori e dei momenti quotidiani. Milano diviene un racconto polifonico, che riflette, per la profondità degli scatti e dei ritratti, la visione di Ugo Mulas della fotografia, che non corrisponde mai a una semplice registrazione, bensì a un’autentica “operazione conoscitiva” (Ugo Mulas, La fotografia, 1973). Nessuno scatto mira a cogliere un attimo eccezionale o un evento raro, ma costituisce il tassello di un’ampia composizione letteraria, di una narrazione consapevole, di una vera e propria “operazione fotografica”. Al profondo legame con la città di Milano è dedicata l’iniziativa diffusa Ugo Mulas in città, nata dalla collaborazione di Marsilio Arte e la città di Milano, con l’obiettivo di raccontare e celebrare il lavoro di Ugo Mulas attraverso l’esposizione delle sue opere nei luoghi, nei musei e nelle istituzioni significative per il suo percorso biografico e artistico. Pinacoteca di Brera, Palazzo Citterio, Museo del Novecento, Palazzo Morando | Costume Moda Immagine, Museo Poldi Pezzoli e Fondazione Marconi ospiteranno una selezione di fotografie di Ugo Mulas, proponendo un itinerario intellettuale che ripercorre e unisce i luoghi fondamentali per la ricerca artistica del fotografo, invitando il visitatore a scoprire il progetto con una scontistica dedicata. L’esposizione Ugo Mulas. L’operazione fotografica è accompagnata dall’omonimo catalogo edito da Marsilio Arte con i saggi dei curatori Denis Curti e Alberto Salvadori.
 
 
Palazzo Reale Milano
Ugo Mulas . L’Operazione Fotografica
dal 10 Ottobre 2024 al 2 Febbraio 2025
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.30
Giovedì dalle ore 10.00 alle ore 22.30
Lunedì Chiuso
 
Foto Allestimento Mostra di Ugo Mulas. L’Operazione Fotografica © Giorgio Galimberti