Giovanni Cardone Luglio 2025
Fino al 2 Novembre 2025 si potrà ammirare alla  Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea e alla Fortezza Medicea di Arezzo l’Antologica dedicata a Marino Marini – ‘Marino Marini. In dialogo con l'uomo’ a cura di Alberto Fiz e Moira Chiavarini, con il coordinamento scientifico di Alessandro Sarteanesi. L'esposizione prodotta e organizzata dal Comune di Arezzo e dalla Fondazione Guido d’Arezzo è stata progettata dall’associazione culturale Le Nuove Stanze e Magonza. In mostra oltre 100 opere è prevede due percorsi che si integrano tra loro, il primo alla Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea con una straordinaria serie di dipinti insieme a gessi e bronzi, il secondo alla Fortezza Medicea con grandi sculture e opere monumentali. Il progetto, reso possibile dai prestiti provenienti dalle due istituzioni che rappresentano l’artista, il Museo Marino Marini di Firenze e la Fondazione Marino Marini di Pistoia, consente una lettura articolata dell'indagine condotta dal grande artista, a partire dagli anni Dieci fino ai Sessanta in un percorso che affronta le tematiche principali della sua intensa ricerca. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Marino Marini apro il mio saggio dicendo: Posso affermare in base alle mie ricerche che la bibliografia di Marino Marini è vastissima questo lo si evince dai cataloghi delle sue mostre  sia personali che antologiche e sia da quelle collettive, e poi infine le pubblicazioni dei suoi pensieri sull’arte e delle sue interviste. Molti artisti si sono misurati con questo grande artista uno di questi è stato Augusto Perez che si formò con Emilio Greco ma s’ispirò tantissimo in particolar modo nei suoi primi lavori. Ma la situazione paradossale è che di fronte a tale massa di pubblicazioni mancano studi critici sulla sua opera. All’inizio del Novecento le sculture di Arturo Martini come quelle di Boccioni hanno molto influenzato Marino Marini, possiamo dire che lo spirito spregiudicato e di grande libertà di questo grande scultore che seppe liberare la scultura da scorie accademiche mantenendo uno schema classico e senza ideare forti sperimentazioni questa in parte fu la grandezza di Marino Marini. Possiamo certamente affermare che la presentazione al pubblico del primo esemplare della serie dei cavalli e cavalieri suscitò ampie discussioni negli anni successivi alla sua esposizione. Un errore rinvenuto nel catalogo riguarda la datazione di l’Angelo della Città, un’opera rilevante nella produzione plastica di Marini, il catalogo riferisce che esistono due esemplari in bronzo, quello nella Peggy Guggenheim Collection di Venezia ed uno in collezione privata. Arrivato ha questo punto mettere in discussione tutte le date delle opere che presentano composizioni analoghe a l’Angelo della Città  che se si trattò di uno studio dell’artista, dato che  l’opera in seguito venne fusa per la vendita, oppure divennero opere indipendenti. Il problema della datazione è di vitale importanza per comprendere se Marini realizzò prima l’Angelo della Città o il rigido e verticalissimo Cavaliere  come è indispensabile capire se il corpo mutilo del cavaliere titolato Angelo della Città , di cui esistono una versione in gesso e due fusioni in bronzo, sia da intendersi come uno studio. La biografia, tuttavia, sembra più che altro tacere ed omettere le informazioni che sarebbero risultate più significative. Marina parla velocemente degli anni trascorsi a Locarno, tra il 1942 e il 1946, quando lei e Marini ripararono in Svizzera per fuggire alla seconda guerra mondiale. Si trattò di anni fondamentali per Marini perché poté vedere in presa diretta il rivoluzionario linguaggio plastico delle nuove sculture di Alberto Giacometti e di Germaine Richier, che era solito frequentare. Pochi sono i riferimenti al rapporto di stretta amicizia tra Marini e Moore, iniziato nel 1948 quando si conobbero alla Biennale di Venezia. Si trattò di un’amicizia intensa, di incontri praticamente annuali, durante i quali Marini e Moore si scambiavano riflessioni sulla scultura. Così come sono brevi e veloci i ricordi dei sei mesi trascorsi a New York quando Marini, per l’inaugurazione della sua personale da Curt Valentin , soggiornò con la moglie nel 1950. Erano gli anni in cui si stava affermando l’espressionismo astratto, in cui New York stava diventando la capitale mondiale dell’arte, centro nevralgico di mostre, rassegne, innovazioni. Lo storico quindi ha pochi studi di riferimento e una massa di dati, opere, disegni, pitture, scritti da analizzare e vagliare, superando i clichés su cui si è sedimentata, negli anni, la critica. Un intervento significativo sulla critica e il suo rapportarsi alle opere di Marini è il saggio di Paolo Campiglio pubblicato nel 1998 nel catalogo di una mostra curata da Flaminio Gualdoni. Di fronte all’assenza di studi storici sull’attività scultorea di Marini negli anni cinquanta, ho  preferito in questo saggio prendere in considerazione momenti precisi dell’evoluzione stilistica del tema iconografico del cavallo e del cavaliere. Si è partiti dal primo Cavaliere  del 1936 per compiere un ragionamento sul sistema allusivo di fonti e suggestioni visive messo in atto da Marini. Relativamente agli anni cinquanta, sono stati analizzati l’Angelo della Città, la serie dei Miracoli e quella dei Guerrieri, cercando di far parlare le opere e comprenderne il significato nel contesto del sesto decennio. Un momento di disattenzione e di curiosità troppo svagata che qualche opera secondaria o decorativa di Marini può benissimo suscitare e l’analista sarà indotto a sopravvalutare certe sfilacciature di Picasso o Carrà che affiorano nell’ardente crogiuolo dell’esperienza mariniana. Son le scorie intellettualistiche di una fusione densa, per fortuna, di altri elementi: i residui di un’attività assimilatrice. Ogni apporto intellettualistico inteso nel senso arcinoto di una trasposizione di motivi culturali sul piano dell’attività creatrice, resta scoperto, isolato, rilevato sull’opera mariniana con una evidenza che ne consente la determinazione e ne agevola l’eliminazione: e ciò dipende dall’ottima qualità della sostanza vitale su cui l’apporto medesimo dovrebbe e non riesce ad incidere . Con queste parole Nino Bertocchi, dalle pagine del Popolo d’Italia, nel 1937 commentava polemicamente la pubblicazione parigina di Paul Fierens su Marino Marini, avvertendo il lettore di come il critico belga non avesse tenuto in debito conto la vastità d’interessi critici suscitati, fra noi, dall’opera martiniana e di come l’impostazione del testo rischiasse di spingere a scambiare il fortissimo scultore toscano per uno dei tanti “naturalisti” che oggi la critica parigina, a corto di soggetti d’eccezione, rimette a galla sulle acque stagne del commercio europeo. Ciò su cui incalzò maggiormente Bertocchi fu l’indagine superficiale e frettolosa di Fierens sul sistema di riferimenti visivi e citazioni rinvenibili nelle sculture di Marini, di fronte alle quali uno solo poteva essere l’atteggiamento da assumere di procedere con molta cautela nel districar la matassa delle famose “influenze” . L’articolo riassumeva con efficacia i dati già acquisiti dalla critica italiana sull’opera plastica di Marini, in particolare sulle “influenze”, era chiaro a tutti che i riferimenti visivi all’arte antica e contemporanea fossero lasciati deliberatamente riconoscibili dallo scultore e da questi sfruttati come soluzioni tecniche. Lo ribadì Vitali nella prima monografia italiana dedicata a Marini per le edizioni Hoepli: l’avvicinamento nel periodo giovanile a Medardo Rosso, ad esempio, era sfociato nell’appropriazione di una tecnica per modellare per trapassi sottilissimi con sfumato proprio della cera “innestata” in sculture che volevano raggiungere il gusto opposto rispetto alle opere di Rosso che avevano un impianto monumentale, ricerche di forme piene, pesanti, pochissimo modulate, risolte per grandi blocchi come in Popolo del 1929, La borghese del 1930, Donna dormiente del1930 ed Ersilia  del1931. Allo stesso modo, Vitali sottolineò come Marini, per raggiungere una scultura antimpressionista, quindi regolata da precise leggi architettoniche, monumentale per impianto, dalla quale l’elemento racconto fosse bandito a vantaggio di valori puramente formali, avesse fatto appoggio alla scultura egizia ed antica per ottenere un moto immobile e, citando una frase di Fierens, l’equilibrio rigoroso della precisione matematica dell’astratto . La critica italiana era consapevole che le fonti visive di Marini fossero colte, prelevate da un bacino culturale allargato, ma che al contempo fossero delle allusioni stilistiche o assimilazioni di soluzioni tecniche, di certo non semplici prelievi o, termine tanto contestato da Bertocchi, mere “influenze”. Del resto, Marini rivelava ai suoi commentatori le opere che più lo suggestionavano, come testimoniò lo stesso Vitali dicendo: “Marini non nasconde che dinanzi allo Scriba del Louvre come, più tardi, di fronte ai ritratti e alle maschere del musei di Berlino, egli ebbe un’emozione nuova e fonda, quella che gli segnava in modo preciso la strada da imboccare” . Nelle opere di Marini, scrisse Borgese nel 1938 : “puoi riconoscere i modelli magari diversi modelli entro uno stesso pezzo : ciononostante riconoscerai sempre pezzo dopo pezzo Marino Marini, lui, col suo nervosismo e il suo idillismo, col suo desiderio di unità, di “forme chiuse ed ermetiche” secondo una frase mariniana, ma anche con la sua vaga indecisione tra finito e indefinito, tra frammento e monumento, tra il volume sintetico e l?ironica veristica scrittura che l’incide”.  Per quanto riguarda la serie dei cavalli e dei cavalieri si possono, in linea di massima, individuare due direzioni sulle quali si mosse Marini fino alla fine degli anni cinquanta: la prima fu una riflessione interna e un confronto, spesso dissacrante, con il sistema delle arti italiane. Il periodo iniziò con l?esposizione alla Biennale di Venezia del 1936 del primo cavaliere e terminò con la fine della seconda guerra mondiale. Marini in questo periodo adoperò le fonti per contrastare aspetti teorici, come ad esempio le teorie di Ojetti, Oppo e Sarfatti sul recupero dell’antichità. La seconda direzione vide Marini aprirsi all’ambiente contemporaneo ed assimilare i lessici plastici più in voga per marcare la sua presenza nel panorama artistico internazionale. Questa fase cominciò alla fine della seconda guerra mondiale e interessò tutti gli anni cinquanta. Il rapporto di Marini con le fonti visive fu duplice. Innanzitutto le sue non erano sempre citazioni dirette di un’opera pittorica o scultorea erano piuttosto allusioni al contesto culturale a cui l’opera stessa apparteneva, che la riportavano alla memoria in un periodo in cui i dibattiti artistici erano rivolti ad altre questioni. Presentare allo spettatore fonti visive non attuali  pur tuttavia riconoscibili significava attuare una frattura con ciò che si svolgeva nella contemporaneità, portando l’osservatore ad una reazione attraverso una provocazione esplicita. In secondo luogo la citazione di un’opera fosse essa antica o contemporanea che permetteva a Marini di impossessarsi di una tecnica o di un’invenzione plastica per inserire delle variazioni in una produzione seriale. Un caso evidente di come Marini agì con le fonti visive è il primo cavaliere. Marini realizzò il primo cavaliere nel 1936 in un periodo particolare della sua attività artistica e della sua vita. Nel 1929 si era trasferito da Firenze a Milano dopo essere stato chiamato da Arturo Martini a succedergli alla cattedra di scultura all’Istituto d’Arte di Villa Reale a Monza. Nel 1932, dopo le personali alla milanese Galleria Milano e alla Galleria Sabatello di Roma, si staccò definitivamente dal Novecento sarfattiano. Il trasferimento a Milano fu per Marini una rivelazione dove scoprì una città che, come rivelò in seguito,appartiene all’Europa, perché si vive lo stesso clima dell’ Europa, si hanno le stesse sensazioni che si hanno in Germania, in Inghilterra, in Francia. Cioè, gli uomini vivono su una legge moderna che li dirige e su una responsabilità del proprio lavoro. Il passaggio da Firenze a Milano significò per lo scultore uscire da un periodo un po’ oscuro, un po’ vago, e da un momento di sovrapposizione di idee, di sentimenti, di sensibilità di limitazioni che poi lentamente si chiarisce quando entrò nella sua vita, quando entro a far parte di una città come Milano. Milano, quindi, città moderna ed europea e il desiderio di staccarsi dalla cultura mediterranea attraverso la contrapposizione con la cultura nordica. Nel 1934, durante un viaggio in Germania, Marini rimase colpito da una statua equestre collocata sulla mensola di un pilastro del coro orientale del duomo di Bamberg: quell’esperienza gli suggerì l’idea di esplorare un nuovo soggetto plastico. Nei primi anni trenta, l?ambiente artistico e culturale milanese aveva trovato un punto di riferimento nella figura di Edoardo Persico. Questi, trasferitosi a Milano nel 1930, aveva dato un concreto sostegno alle nuove generazioni di artisti al cui aiuto risolutivo scrisse Venturi dopo la sua prematura scomparsa: “ Marino Marini si debbono tanta parte della loro educazione estetica e morale”. La posizione di Persico, improntata su un’impegnata contrapposizione al Novecento di Margherita Sarfatti e sulla formulazione di una nuova stagione artistica italiana basata su radicati principi etici, venne delineata da diversi scritti pubblicati tra il 1930 e il 1936. Persico fece leva sulla costituzione di un “ordine nuovo nell’arte italiana”, rivendicando il diritto di continuare le polemiche aperte da La Voce e Lacerba e difendendo principi di onestà e decoro, di difesa della pubblica moralità, di instaurazione di una coscienza europea dell’arte. Punto di riferimento divenne la Galleria Del Milione, attorno alla quale gravitarono giovani artisti capaci, agli occhi di Persico, di imporre all’arte italiana uno stile veramente europeo, nel segno di un’unità morale, di umiltà, di motivazioni etiche e di virtù di mestiere. Persico contrastava, come ribadì nel 1935 nel volume dedicato alla scultura romana, qualsiasi invito alla retorica, alla celebrazione dell’antico e al monumentale. Deplorava ogni intento accademico e rifiutava di condividere l’opinione di Ugo Ojetti che l’Italia avesse: “la più insigne scultura d’Europa”. I veri scultori italiani, secondo Persico, erano difatti costretti a riparare all’estero e quelli che vincevano agli imbrogli dei concorsi per i monumenti pubblici erano certi marmorini che portavano ad una inevitabile decadenza dell’arte del nostro Paese . A Marini queste posizioni non dovettero essere sconosciute: come lui, Persico insegnava all’Istituto d’Arte di Villa Reale a Monza. Né gli dovettero essere estranee le teorie di Persico a proposito di una lettura dell’antico e della tradizione non in termini retorici, ma come un processo culturale e storico: con il primo cavaliere Marini dimostrò come ci si potesse relazionare con l?antico mediante un approccio storicistico. Tale aspetto non passò inosservato, specialmente a quella parte della critica che, dopo l’esposizione del Cavaliere alla Biennale di Venezia del 1936, reagì con estrema durezza e vena polemica. Primo fra tutti Ugo Ojetti, che definì l’opera il sommario imballaggio d’una statua equestre tanto che si può riempirlo con la stoppa di qualunque idea di mammalucco equestre . La reazione dei detrattori del cavaliere di Marini era innanzitutto legata alla immediata, inequivocabile e dissacrante lettura dell’opera: una versione antimonumentale e antiretorica del monumento equestre. Il rapporto sproporzionato tra le dimensioni del cavaliere e quelle del cavallo produsse un effetto umoristico che irrideva il genere classico del monumento equestre e il tema iconografico del condottiero a cavallo. Il mancato rispetto delle proporzioni che Marini mantenne anche nei cavalli e cavalieri degli anni seguenti,funse da rovesciamento della fonte antica che rinnegava la maestosità e l’imponenza dei monumenti equestri. Questo andava inevitabilmente anche a contrastare la diffusione delle sculture monumentali finalizzate alla mitizzazione delle glorie del regime e dei caduti della prima guerra mondiale. Marini con Cavaliere negò alla statua una dimensione monumentale e una funzione ideologica, indirizzandosi verso una concezione dell’arte slegata da scopi pratici. Per le dimensioni sproporzionate tra cavallo e cavaliere Marini avrebbe potuto guardare a più opere, a lui note: la formella del mese di maggio raffigurante un cavaliere di Benedetto Antelami nel Battistero di Parma , o il monumento equestre a Bernabò Visconti  al Castello Sforzesco, ma pure il Balbo Equestre  conservato al Museo di Napoli. Marini sarebbe anche potuto risalire alla fonte dei due bronzi Fede e La Luce e La forza degli Eroi del1934 di Martini, esposti a Genova nel 1934 ed immediatamente acclamati dalla critica per aver incarnato l’idea eroica dei principi fascisti: i Dioscuri di Locri Epizefiri pubblicati su Emporium nel 1928 e da Pericle Ducati in l’arte classica nel 1927 , un volume particolarmente apprezzato all’epoca. Al di là della questione delle fonti visive, è utile confrontare il differente rapporto con l’antico tra le due sculture di Martini e il cavaliere di Marini. Mentre Martini aveva recuperato un pezzo dell’antichità in chiave ideologica, Marini fece esattamente l’opposto. Il Cavaliere di Marini alludeva esplicitamente a opere antiche ma negava la loro strumentalizzazione retorica e le poneva su un piano storicistico. Il riflettere di Marini su una scultura che presentava, come avrebbe definito più volte negli anni futuri, l’interessante incrocio della linea verticale  del cavaliere con la linea orizzontale del tronco del cavallo, costituì per lui un approccio astratto alla scultura, che proveniva dall’elaborazione interna dello schema compositivo della statua al fine di evitare inclinazioni sentimentali, psicologiche, narrative o veristiche. Lo ribadì lo stesso Marini nei testi che pubblicò su Broletto e l’Ambrosiano nel 1938 e su Tempo nel 1939 in difesa del primo cavaliere, che dopo l’esposizione a Venezia del 1936 continuò a suscitare discussioni e critiche dicendo: “ in esso potrebbero essere palesi, in luogo della realizzazione di una minuziosa e cincischiata analisi veristica, la stessa ricerca di un ritmo musicale e il medesimo tendere ad una rigorosa costruzione architettonica. Cavallo e cavaliere è concepito secondo uno spirito geometrico al quale si allinea un pathos immaginativo”  . Musica, architettura e geometria: Marini stava facendo riferimento ad arti non iconiche, ma costruttive, matematiche. In questa maniera, iniziò a plasmare una sua fisionomia in netto contrasto con l’altro scultore emergente che in quegli anni stava affermandosi nel panorama artistico nazionale era Giacomo Manzù. Schemi geometrici e blocchi di costruzione si dovevano raccordare tra loro nella statua in un equilibrio rigoroso, negando un’interazione con lo spazio esterno affinché il soggetto dell’opera apparisse fuori dal tempo, isolato dalla storia. L’assoluta durezza ed assenza di moto della composizione del primo cavaliere non vennero posti da Marini come elementi negativi, ma come valori. In questo senso, si può trovare una corrispondenza con le considerazioni di Lionello Venturi sui concetti della “rigidezza” e del “movimento” in il gusto dei primitivi del1926. Secondo Venturi la rappresentazione di un’immagine passionale in assoluta assenza di movimento ed irrigidita non costituiva una mancanza di maturità tecnica da parte dei primitivi, ma una via da questi ultimi intrapresa intenzionalmente per “serietà sentimentale”. Se Marini ricorse ad un’assenza di movimento fu per far appello ad un rigore linguistico su cui fondare l’incontro dell’antico con il moderno, come aveva insegnato Carrà attraverso il recupero di Giotto in opere come Le Figlie di Loth del1919 . Tuttavia Marini aveva portato in causa, con Cavaliere, altre questioni, una delle quali riguardava il tema iconografico del cavallo e cavaliere. Il soggetto di un cavaliere a cavallo aveva incontrato una particolare fortuna, durante la prima guerra, grazie alle opere futuriste di Carrà, Boccioni e Severini, che lo intesero come un simbolo dell’energia dell’assalto e dell’eroismo in battaglia. Terminata la prima guerra, si verificò un cambio di direzione verso la rappresentazione del cavallo, non più adatto a rappresentare la modernità, che spinse a restituirlo come un giocattolo plastico, fuori dal tempo e isolato dalla storia ,gli esempi più calzanti sono La Pulzella d’Orleans del 1920 di Martini e il Cavallo bianco del 1919 di Sironi. Questo passaggio venne anticipato da due opere di Carrà che narravano dell’ inseguimento del Cavallo e del Cavaliere del 1915 e del 1917 l’opera il Cavaliere Occidentale. Inseguimento era un primo allontanamento di Carrà dal dinamismo, dalla simultaneità e dalla scomposizione delle teorie di Boccioni; nonché l?avvicinamento ad uno stile che potesse riunire il senso della modernità, della tradizione popolare e del sentimento lirico. Per quanto nell’opera sopravvivesse un soggetto futurista, di fatto Carrà si staccò dai principi fondativi del futurismo attraverso la chiusura del profilo del cavallo con una pennellata scura che isolava e neutralizzava il moto, portando così l’evento rappresentato ad un livello di distacco dall’osservatore. L’azione ludica e meccanica del fantino e non più del fante in battaglia, scomposto in pezzi tanto quanto il cavallo, aveva l’aspetto di un giocattolo scomponibile ed assemblabile. Questi elementi divennero più marcati in Il cavaliere occidentale del1917, un’opera del Carrà metafisico, nel contempo il cavaliere assunse le caratteristiche di un giocattolo di latta, meccanico e statico, costruito con lamiere assemblate da bulloni . A queste opere di Carrà seguiva cronologicamente il cavallo bianco  del1919 di Sironi, opera esposta nella Prima Esposizione Futurista a Macerata nel 1922 e pubblicata nel catalogo della mostra curato da Ivo Pannaggi. Con quest’opera Sironi aveva rielaborato con attenzioni arcaizzanti secondo il gusto classico che si stava affermando a Roma avrebbe dovuto esporre l’opera alla Casa d’Arte Bragaglia il soggetto di un cavaliere che conduce a piedi un cavallo. I corpi semplici e severi erano debitori delle opere di De Chirico pubblicate nel 1919 su Valori Plastici . Successivamente, il tema iconografico del cavallo e cavaliere conobbe una nuova fortuna, attraverso tre vie. Innanzitutto attraverso le sculture di genere equestre, celebrative e retoriche realizzate sotto il regime, come i sopracitati bronzi la Fede e la Luce e La forza degli Eroi del1934 di Martini. In secondo luogo, mediante la proliferazione di immagini di Mussolini a cavallo sulle pagine di riviste e giornali o sculture che lo ritraevano trionfante su un destriero, come il monumento equestre a Benito Mussolini nel Littoriale di Bologna realizzato da Giuseppe Graziosi nel 1929. La terza via che fece riprendere attualità al tema iconografico del cavallo e cavaliere fu la pubblicazione di condottieri a cavallo della statuaria greca e romana. Su Pan, rivista fondata e diretta da Ojetti, era stato pubblicato nel settembre 1934 un intervento dell’archeologo Enrico Paribeni sulle nuove sculture nei musei di Atene, accompagnato da pregevoli illustrazioni. Tra di esse, figurava quella dell’opera che Paribeni celebrò come una tra le sculture più significative, la figura di un giovane cavaliere , uno di quegli efebi appassionati d’ippica di cui ci viene ancora l’eco dal fregio del Partenone . In un momento in cui il tema iconografico del cavallo e del cavaliere aveva, per vie diverse, ripreso attualità, Marini compose una scultura decisamente anticlassica, che apparve come un manichino, un giocattolo monumentale. Questo aspetto non era legato solamente al rapporto sproporzionato tra la figura rigida ed immobile del piccolo cavallo e quella del cavaliere, ma proprio dalla resa del corpo maschile del cavaliere stesso. Come Marini aveva scritto su Broletto, dicendo : “gli acerbi commenti che il Cavallo e cavaliere suscitò quando apparve all’ultima Biennale Veneziana, starebbero a significare che questo gruppo deve essere tenuto per l’infelice frutto di una involuzione, non certo come il logico, necessario sviluppo di un problema già posto e per quel che mi sembra, risolto in opere precedenti. Il Cavallo e cavaliere è uscito dalla medesima famiglia dei tre grandi legni, e specie del Pugile, realizzati negli anni prima”. I tre grandi legni erano Nuotatore  del1936, Icaro  del1933 e il Pugile  del 1936. Tuttavia conviene tenere in considerazione, per l?analogia con la postura del cavaliere del 1936, il Giocoliere  del1933 in terracotta, per la cui posa rigida e statica del torso e le braccia appoggiate alle cosce Marini aveva fatto riferimento a Il Saggio Imhotep, bronzetto egizio di epoca saitica conservato al Museo Archeologico di Firenze. Le gambe allargate con i piedi sollevati alludevano invece a Il Bevitore del1928  di Martini, esposto per la prima volta nel 1948 alla Biennale di Venezia, ma riprodotto negli anni trenta in più pubblicazioni dedicate all’opera dello scultore trevigiano. Il Bevitore era un’opera che spingeva a focalizzare sulla costruzione geometrica ed architettonica di un corpo maschile e si trattava di una figura composta dal montaggio di volumi conici, ovoidali, cilindrici, spezzati da angoli retti; si raccordava a quel ritrovato stile antico che Carrà e De Chirico avevano raggiunto nel loro periodo post-metafisico; escludeva l?emozione e il sentimento. Non dovette, oltretutto, essere difficile per Marini rinvenire negli angoli stondati delle braccia, nella posizione del busto, nella posa delle gambe flesse del Bevitore delle citazioni dirette a Idolo ermafrodito del1917 di Carrà, ben noto a Martini ai tempi di Valori Plastici . Nel periodo in cui realizzò Giocoliere, tuttavia, le attenzioni di Marini erano ancora legate alla ricerca di una resa sentimentale e psicologica del soggetto: si può rintracciare una vibrazione emotiva nella testa del Giocoliere attraverso l?assimilazione di opere di Vincenzo Gemito come Moretto  Di tutt’altra natura fu la riflessione plastica di Marini per il Pugile del 1936 : lo scultore pensò ad una composizione più naturalistica e umana, andando a sciogliere la durezza egizia della posa del Giocoliere attraverso l’assimilazione di una statua romana, il Pugilista, pubblicato da Della Seta nel noto volume sul nudo nell’arte di cui riprese la fasciatura delle mani. Per conferire maggiore dinamicità, sollevò il volume della testa la cui fonte era un canopo etrusco del Museo Archeologico di Firenze  verso l’alto; la posa scomposta echeggiava il Malato alla Fonte  di Arnolfo di Cambio. Questo intenso studio sul nudo maschile condusse al primo cavaliere. Marini era consapevole che non era possibile spingersi oltre determinati problemi plastici e, come aveva scritto su Broletto nel 1938, il Cavaliere del 1936 era il logico, necessario sviluppo di un problema già posto e risolto. Marini pertanto considerava esaurite le ricerche condotte sul corpo maschile fino al Pugile e necessitava di aprire nuove problematiche, spostando il baricentro delle sue investigazioni scultoree. Per farlo, rinunciò alle conquiste plastiche dei precedenti nudi maschili per raggiungere degli esiti che risultarono inaspettati per la critica, che di lui, sino a quel momento, aveva lodato lo stile elegante e classico. Per ottenere un cavaliere-giocattolo, riprese il Carrà metafisico dell’Idolo Ermafrodito  per la piega stondata del gomito e la posa dei piedi. Nella versione del Cavaliere in legno del 1936-37 l’allusione all’Idolo Ermafrodito fu più marcata, tanto da far apparire l?opera come un monumentale manichino-giocattolo. Per le teste dei cavalieri Marini scelse delle fonti facilmente riconoscibili. Per il gesso e quindi anche per la successiva fusione in bronzo fece riferimento sia a un ritratto d’epoca romana  pubblicato nel volume di Persico dedicato alla scultura romana , a cui semplicemente alluse perché privò il volto di spessore psicologico; sia alla statua egizia del sindaco del villaggio , pubblicata nel volume di Della Seta. La statua egizia, inoltre, con la sua rigida frontalità aiutò Marini a conferire ritmi rigorosi ed equilibrio alla combinazione architettonica dei volumi del Cavaliere. Per la testa del cavaliere in legno Marini si rifece ad una statuetta egizia raffigurante il naoforo Henat conservata nel Museo Archeologico di Firenze: ne riprese il naso sottile, l’espressione ingenua e acerba di un adolescente calvo. Una fonte ideale per enfatizzare l’aspetto burattinesco del cavaliere. Il Cavaliere del 1936 fu una dichiarazione esplicita e dissacrante. Alludere ai manichini metafisici, negare la psicologia della ritrattistica romana, intendere l’antico come uno strumento da poter stravolgere per ottenere un cavaliere antieroico e antimitico sino al punto di restituirlo alla stregua di un cavaliere-giocattolo, significava prendere apertamente le distanze dalle prove di nudo atletico e muscoloso o dalle maestose e virili rappresentazioni di corpi maschili sulle quali parte degli scultori italiani si andavano cimentando in quegli anni. In tal senso, il recupero del Carrà metafisico attraverso l’allusione all’Idolo Ermafrodito aveva un significato che Marini fece appello ad un momento del passato non lontano che era dato come superato dal momento che la discussione era focalizzata sulle nuove opere di Carrà, ma in un tempo storico in cui la fonte potesse essere riconoscibile ai contemporanei. L’eccellenza di Marini stava nel non lasciarsi travolgere dalle fonti alluse, ma nel sfruttarle per sollevare dei problemi plastici e poi risolverli, con un lessico suo proprio ed inconfondibile. Del resto, alla data del 1936, Marini non era un esordiente, ma uno scultore perfettamente formato, capace di comprendere le “mode” del momento, stravolgerle per assaggiare il pubblico con delle possibilità stilistiche che lo lasciavano disorientato. Marini con il primo cavaliere aveva collaudato un metodo con cui continuò a lavorare negli anni successivi per il tema iconografico del cavallo e cavaliere è un sistema allusivo di fonti colte da un ampio bacino culturale che portava nel presente i recuperi del passato e li coniugava con le conquiste artistiche più attuali. Un aspetto distintivo della mostra alla Galleria Comunale è la stretta relazione con l'antico. La Galleria infatti si situa di fianco alla Chiesa di San Francesco, che custodisce il ciclo di affreschi delle Storie della Vera Croce di Piero della Francesca, ed è significativo sottolineare i rapporti tra le figure rappresentate da Marino e quelle del grande artista rinascimentale. In tal senso, va evidenziata la presenza del dipinto Le vergini del 1916 e la Zuffa di Cavalieri del 1927 ca., quest’ultimo messo a disposizione dalle Gallerie degli Uffizi di Firenze, che evocano le celebri composizioni di Piero della Francesca all’interno dell’attigua Cappella Bacci. In mostra, poi, vengono esposte per la prima volta, accanto ad alcune sculture arcaiche di Marino, le sculture ellenistiche in terracotta rinvenute durante gli scavi della Catona ad Arezzo (che l’artista vide pubblicate nel 1920 sulla rivista “Dedalo”, tra le più importanti pubblicazioni di critica d'arte dell'epoca, diretta da Ugo Ojetti) provenienti dal Museo Archeologico Nazionale Gaio Cilnio Mecenate. Ad Arezzo il linguaggio di Marino Marini viene approfondito nelle sue fasi salienti, dall’elaborazione di forme e figure mitiche e armoniose, al passaggio verso una crescente tensione stilistica e formale. Il progetto alla Galleria Comunale d'Arte Moderna e Contemporanea prevede un'organizzazione tematica, dove pittura e scultura sviluppano una relazione dialettica. Come avviene per esempio con l'accostamento tra Studio per Miracolo, un capolavoro plastico del 1953-54 e Orfeo, un dipinto del 1956 che sviluppa una medesima matrice lirica e poetica. Ma la componente bidimensionale e quella tridimensionale trovano una serie di convergenze nella sala dedicata ai Gridi, così come in quella delle Pomone, un soggetto che Marino ha definito come "la prima vera forma mia. Quei nudi rigogliosi sono nati dal confronto tra ciò che portavo dentro come un seme della mia naturale cultura e ciò che ho potuto vedere fuori di casa". Accanto al teatro, dove spicca Il giocoliere, bronzo del 1939, un altro specifico ambito di ricerca è dedicato al ritratto. Marino ne ha realizzati poco meno di 150 e si possono leggere emblematicamente come princìpi intorno ai quali si sviluppa l'indagine sull'uomo. Tra le opere esposte in mostra spiccano gli omaggi agli artisti tra cui Carlo Carrà, Filippo de Pisis, Massimo Campigli, Germaine Richier, Marc Chagall e Jean Arp, collocati accanto a quello di Igor Stravinskij, del suo mercante Curt Valentin e di Marina, sua musa e compagna di vita.  “La doppia mostra proposta ad Arezzo”, spiega Alberto Fiz “stupisce per l'attualità di un grande maestro della scultura che sottopone la forma a continue verifiche compiendo una rivoluzione che si sviluppa attraverso una precisa consapevolezza della storia e dell'uomo. La sua è la capacità di cogliere un tempo interiore dove inquietudine e sofferenza non si placano. I temi a cui Marino Marini si rivolge, tutti presenti nelle due sedi aretine, appaiono come simboli di una costruzione all’infinito dove ciò che conta maggiormente è la relazione tra lo spazio interno e lo spazio esterno, tra l’aspetto fisico e quello psichico”.  Nei suggestivi ambienti della Fortezza Medicea lo spettatore può inoltre ammirare la produzione monumentale di Marino dove spiccano le Pomone, le Danzatrici, i Giocolieri e naturalmente i Cavalieri con il grande Cavaliere del 1949-50, un'opera ieratica di intensa potenza espressiva. Insieme ai Cavalieri, esempi insuperati di un’indagine dove si scontrano forze opposte, destinate a dare vita a un unico corpo magmatico, la mostra presenta i Miracoli dove l’equilibrio perfetto creato in precedenza dall’artista si sfalda. In questo caso appare particolarmente emblematico Miracolo un'imponente scultura in bronzo del 1952 dove «l'idea parte fino a distruggersi» e «la scultura vuole andare in cielo, vuole bucare la crosta terrestre o vuole addirittura andare nella stratosfera», come scrive Marino.  La mostra evidenzia dunque la componente generativa di un’indagine che va all’origine della forma, laddove «nessuna memoria è perduta, ma ogni tempo è recuperato nell’appello di un sentimento partecipe alla vitalità del divenire umano», secondo quanto ha affermato Umbro Apollonio. Ma è probabilmente con la rottura della geometria e con la creazione di forme libere e irregolari, del tutto autonome dal soggetto, che Marino raggiunge l’apice della sua ricerca, in un percorso capace di incidere profondamente nel linguaggio contemporaneo. La mostra è accompagnata da un catalogo in italiano e inglese edito da Magonza con saggi dei curatori Alberto Fiz e Moira Chiavarini e dei testi critici di Luca Pietro Nicoletti e Giovanni Curatola. Le immagini dell'allestimento sono realizzate da Michele Alberto Sereni. 
 
Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea e alla Fortezza Medicea di Arezzo
Marino Marini. In dialogo con l'uomo
dal 4 Luglio 2025 al 2 Novembre 2025
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 11.00 alle ore 19.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00
Martedì Chiuso
 
Foto Allestimento della mostra  Marino Marini. In dialogo con l'uomo dal 4 Luglio 2025 al 2 Novembre 2025 Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea e alla Fortezza Medicea di Arezzo credit © Michele Alberto Sereni