Giovanni Cardone Aprile 2023
Fino al 2 Luglio 2023 si potrà ammirare al Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese Roma la mostra dedicata a Pericle Fazzini . Lo Scultore del Vento a cura di Alessandro Masi, con Roberta Serra e Chiara Barbato. L'esposizione, promossa da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e dalla Fondazione e Archivio Storico "Pericle Fazzini", presenta una selezione di circa 100 opere dell'artista tra sculture, bozzetti, disegni e grafiche. Le opere di Pericle Fazzini, "lo scultore del vento", come lo definì il grande poeta Giuseppe Ungaretti, tornano finalmente in mostra a Roma dopo trent'anni, in occasione dei 110 dall’anniversario dalla sua nascita. La mostra ripercorre l'intera vita creativa del maestro marchigiano, attraverso sculture di piccola e grande dimensione - fra legni, bronzi e gessi - disegni e opere grafiche: dalle prime prove degli anni Trenta e Quaranta come "Donna nella tempesta" (1932) e "Sibilla" (1947) fino ai bozzetti originali della "Resurrezione" della sala Pier Luigi Nervi in Vaticano, ultimo cantiere di un artista unico dopo la Cappella Sistina di Michelangelo.
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Di particolare interesse sono il "Ritratto di Anita" (1933), il "Giovane che declama" (1937-38), il "Ritratto di Sibilla Aleramo" (1947), l'"Uomo che urla" (1949-50) e il "Profeta" (1949), quest'ultimo raramente esposto. In una mia ricerca storiografia e scientifica sulla figura di Pericle Fazzini apro il mio saggio dicendo : In un itinerario iconografico sentito come modello di una classicità perenne da una parte mentre dall’altra era sentito come una matrice immaginativa. L’influenza di maestri come Casorati e Carrà è evidente anche nel gioco dialettico delle contrapposizioni. Altri luoghi iconografici di incontro sono l’universo umanizzato del mondo del lavoro, ora esaltato come realizzazione individuale ora visto come legame con la terra e il paesaggio; la vita metropolitana e il sereno ambito domestico delle relazioni familiari; la festa e i suoi apparati colorati. Comune è anche l’inclinazione a legare bellezza femminile e ambiente, naturale o domestico. Infine, un senso estatico della natura, come Eden ormai remoto se non perduto, è riconoscibile in diverse opere figurative di questi anni. Se la chiave iconografica dà la possibilità di superare rigide schematizzazioni e contrapposizioni a vantaggio di un itinerario di lettura che consente di scoprire non solo le concordanze poetiche ma anche le dissonanze rivelatrici e significative, un secondo parametro "topografico" può rivelarsi non meno fruttuoso per l’identificazione di singoli profili e complessità di situazioni. Si consideri, in questa direzione, il ruolo propositivo, di influenza e di attrazione che negli anni trenta hanno avuto rispettivamente Torino, Roma e il bipolo Milano-Bergamo per il periodo che vede congiunte l’affermazione degli artisti di Corrente e quella del Premio Bergamodi cui gli stessi giovani pittori sono protagonisti. A Torino, nella svolta del decennio, l’accorta lungimiranza di Casorati e l’ardore insieme cristiano e europeo di Persico critico non conformista , non disposto ad autarchici arroccamenti né a consegnarsi a una separata "torre d’avorio" del mondo dell’arte - possono dimostrare l’inevitabilitàdi una scelta insieme modernista e legata a una solo, produttiva, cultura continentale. "I sei di Torino" Boswell, Chessa, Galante, Levi, Menzio, Paulucci esprimono chiaramente la necessità di collocare la ricerca pittorica, al di là di ogni magniloquente esercitazione retorica, in stretta vicinanza con il "gusto" europeo, particolarmente francese, derivato dalla esperienza, ma anche dalla iconografia "moderna" impressionista e postimpressionista. Quella che si è potuta definire "Scuola romana" o "École de Rome" si ricordi che la fortunata designazione si deve a Waldmar George che così definisce nel 1933 il lavoro di Cagli, Capogrossi e Cavalli esposto a Parigi e che Longhi, a proposito dell’opera di Mafai, Raphael e Scipione, aveva già parlato nel 1929 di "Scuola di via Cavour" e come ai nomi sopracitati debbano essere aggiunti Afro,Scialoja, Stradone, Pirandello, gli scultori Leoncillo, Mazzacurati, Fazzini è un clima artistico che accomuna una nuova generazione pervasa da istanze etiche di rinnovamento e dal desiderio di dare una forte rappresentazione fantastica alla vita emozionata e quotidiana di tutti. È su questo terreno, ideale e formale, che si sviluppano le profonde concordanze con gli artisti giovani operanti a Milano radunati alla fine del decennio in "Corrente", movimento che utilmente accomuna in uno stesso spazio operativo e riflessivo pittori e scultori con poeti, critici e filosofi. I modi di un rinnovato linguaggio espressionistico, adombrati nelle opere di molti artisti romani, sono qui più marcati ed espliciti così come le opzioni verso una rappresentazione figurativa che esprima la necessità di non separare libertà dell’arte e libertà delle manifestazioni di vita, individuale e sociale, secondo quanto andava sostenendo in quegli anni il filosofo Antonio Banfi. Il nuovo profilo dell’arte italiana alla fine degli anni trenta risulta ben rappresentato nelle quattro edizioni del Premio Bergamo dal 1939 al1942, autentico proscenio per una giovane generazione di pittori che sapranno dare un volto originale e riconoscibile nell’aperto contesto internazionale all’arte italiana del secondo dopoguerra. Continuano le esposizioni sull’arte durante il ventennio fascista e si continua a restituire il giusto merito ai fermenti artistici di quel periodo fortemente incoraggiati dal regime per mano di uomini illuminati come il ministro dell’educazione Giuseppe Bottai che promossero quello che è stato probabilmente l’ultimo movimento artistico italiano di portata internazionale.

Dopo le due fondamentali esposizioni di Forlì, “Novecento”, e della fondazione Prada di Milano, “Post Zang Zang Tumb Tuuum”, è appena stata inaugurata a Cremona la mostra dal titolo “Il Regime dell’Arte. Premio Cremona dal 1939 al 1941” in riferimento a quel concorso pittorico d’arte fortemente voluto dal gerarca fascista Roberto Farinacci nella sua città natale a cui si contrappose volutamente negli stessi anni il “Premio Bergamo” patrocinato dallo stesso Bottai. Sebbene sia Farinacci che Bottai abbiano avuto come comune denominatore il fatto di essere fascisti della prima ora, entrambi uomini d’azione fondatori dello squadrismo delle proprie città, il primo a Cremona e il secondo a Roma, i caratteri dei due non poterono essere più distanti. Mentre Farinacci incarnò il movimentismo fascista permanente anche durante gli anni del potere del regime, Bottai, una volta dismessi i panni del rivoluzionario, rappresentò in pieno l’uomo politico borghese con una visione amplissima sulle materie che gli furono affidate, in questo caso specifico l’educazione del popolo italiano e l’arte, diventandone sia un abile manipolatore ma anche, da intellettuale coltissimo quale fu, un uomo rispettoso della qualità creativa in se stessa a prescindere dall’allineamento ideologico dell’artista.Mentre Bottai diventò un uomo politico di apparato dedicandosi a costruire la burocrazia del regime di stato, Farinacci continuò ad essere l’uomo della rivoluzione. Bottai trascorse il primo decennio in adorazione indiscussa del duce per poi, nel secondo decennio, venire a una posizione critica sempre più forte ma sempre nell’ambito di una elaborazione più interiore ed intellettuale che di azione, invece Farinacci tenne sempre una posizione di brutale indipendenza dal capo. Egli fu per Mussolini quello che Ernst Rohm, il fondatore delle truppe d’assalto naziste, le SA, fu per Hitler: un uomo d’azione affidabile per i momenti più incerti ma sempre pericoloso tanto che mentre il capo nazista riuscì a sbarazzarsi del suo amico di vecchia data in seguito a un sanguinoso regolamento di conti avvenuto nel corso di una notte, il Duce non riuscì mai ad eliminare il suo uomo forte un po’ perché ne ebbe sempre bisogno un po’ perché la spinta politica e militare di Farinacci fu sempre tale da mantenergli un’autonomia di azione, anche quando cadde per lunghi periodi in disgrazia. Ad esempio si è sempre pensato che dietro l’attentato a Mussolini di Bologna del 1926, di cui fu addossata repentinamente la responsabilità a quell’adolescente disgraziato di nome Anteo Zamboni che fu linciato sul posto, ci fosse lo stesso gerarca cremonese ma nonostante ciò nessuno gliene chiese conto, nemmeno in fase di indagine formale. Fu un uomo indomabile, violento, estremamente corrotto e, sebbene ricoprì pochissime cariche formali importanti, ebbe sempre un seguito politico non indifferente, soprattutto nella sua città, da cui pubblicava un giornale molto temuto, Il Regime fascista, da cui periodicamente partivano bordate sia verso oppositori politici ma anche verso gerarchi fascisti nemici causandone quasi sempre la caduta in disgrazia. È chiaro sin dai titoli del concorso dove volesse andare a parare Farinacci, come l’arte fosse solo strumento di propaganda sulla scorta dell’esempio tedesco e poco importa che aderirono artisti di livello o che in giuria ci fossero dei critici d’arte di primo piano come Giulio Argan o che le esecuzioni degli artisti in gara, alla fine, fossero state di buon livello: lo schiacciamento dell’arte alla volontà propagandistica ad imitazione del metodo hitleriano, con la sua visione pedante e piccolo borghese, la rese un’arte “minore” e l’intento di snaturare l’impianto artistico impostato da Bottai in un decennio fu vano. I risultati sono evidenti e non lasciano dubbi sulla mediocrità delle tele esposte e non è un caso che siano cadute in un totale oblio per sette decenni e che delle 360 opere solo una sessantina siano sopravvissute. Le poche foto allegate sono sufficienti per rendere chiaro il concetto. Termino ricordando che mentre Farinacci metteva in campo il suo concorso proprio nell’ultimo tenuto dal Premio Bergamo di Bottai, in piena guerra ormai perduta, il 1942, fu premiato vincitore il Cristo crocefisso di Guttuso, un’opera monumentale e rivoluzionaria che influenzerà l’arte nei decennio a venire bel oltre la fine del regime, totalmente fuori dai canoni della propaganda fascista e clericale. Come dice Rosario Pinto: “Non caso, ed in limine, sarà proposta nel 1942 la Crocifissione di Renato Guttuso, un’opera che, però, viene fatta oggetto di dileggio e di rifiuto da parte cattolica, fino al punto di veder comminata, da parte del vescovo di Bergamo Adriano Bernareggi, ai preti che dovessero recarsi ad ammirarla nel cotesto della seconda edizione del ‘Premio Bergamo’, la “sospensione a divinis”. Bottai non solo la premiò ma la difese strenuamente contro la censura fascista che puntualmente arrivò e dal boicottaggio perpetuato dalla chiesa perché ritenuto blasfemo. Da lì a poco tutto precipitò, L’Italia cadde nel caos del 25 Luglio del 1943, Bottai per primo perse tutte le cariche e si diede alla macchia seguito da Farinacci due anni dopo. Si ricordi che mentre Bottai durante la riunione del Gran Consiglio del fascismo si rivoltò contro Mussolini votando la mozione Grandi che portò alla fine del suo governo, Farinacci, nonostante le sue insubordinazioni plateali, si oppose strenuamente a Grandi fu fedele al Duce fino alla fine. Mentre Bottai, come Ciano, fu sempre aspramente antitedesco, Farinacci, tra i gerarchi fascisti, fu il più entusiasticamente filo nazista soprattutto dopo che furono approvate le leggi razziali a cui, peraltro, aderì anche Bottai. Mentre quest’ultimo con senso di disciplina e di responsabilità dava l’esempio ai propri camerati e alle truppe affrontando in prima linea tutte le guerre del fascismo rischiando per davvero la vita, per Farinacci, come per Starace, le guerre furono soprattutto un’occasione per compiere stragi di innocenti tanto da disgustare anche molti gerarchici di altissimo rango come Ciano, per commettere ruberie e passare il tempo in distrazioni lontano dalla prima linea. Perse una mano durante la guerra d’Etiopia mentre pescava con le bombe in un laghetto e tentò di far passare la ferita come causata da un’azione di guerra per averne i meriti militari e per poter usufruire della pensione di invalidità provocando la riprovazione irata del Duce, quando venne a saperlo, obbligandolo a versarla al fondo dei familiari delle vittime di guerra. Non poteva esserci così tanta distanza tra le personalità dei due uomini, in aperto contrasto per tutti i venti anni del regime. E se l’opposizione di Farinacci non costò la vita a Bottai fu perché quest’ultimo aveva un tal controllo della macchina statale, e per lungo tempo la stima sincera di Mussolini, da renderlo intoccabile per tutti. Ed è a questo punto che Farinacci, con l’approssimarsi della guerra nel 1939, decise di sfidare apertamente Bottai nel suo campo, quello della cultura, organizzando il Premio Cremona a cui Bottai rispose con il Premio Bergamo.

Ma il confronto non poteva essere più impietosamente impari. Mentre Bottai era già stato promotore per almeno dieci anni di esposizioni, concorsi, triennali, quadriennali, confronti culturali e pubblicazioni di altissimo livello qualitativo, un immane lavoro teso a dare la massima visibilità alla produzione artistica del paese sia per permettere al regime di servirsene ma anche per il gusto di elevare lo spirito culturale del paese arrivando ad assicurare agli artisti e agli uomini di cultura una impensabile seppur relativa autonomia di pensiero e quindi creativa, invece l’intento di Farinacci era di seguire ideologicamente la linea culturale tracciata da Hitler in Germania ovvero di negare la dignità di arte a quella che quest’ultimo in persona denominò “arte degenerata”, da Picasso in giù. L’arte ammessa era solo quella asservita all’idea di stato, un’arte retorica, stereotipata, priva di fantasia, apertamente funzionale alla propaganda del regime nazista. Questo fu lo spirito del concorso di Cremona e i titoli che diedero il nome alle gare nei tre anni in cui si tennero sono esplicativi della minima dimensione intellettuale: 1939, “Ascoltando alla radio un discorso del Duce”; 1940, “La battaglia del grano”; 1941, “La Gioventù del Littorio”.Non si discute l’indubbio merito della mostra di far riemergere dall’oblio della storia anche questa coda terminale dell’espressione artistica italiana di quel periodo ma piuttosto l’intento dei curatori di porlo alla stesso livello di qualità creativa del concorso di Bottai se non, addirittura, dell’intero movimento artistico italiano del periodo fascista. Cosa che a mio avviso non fu importante per capire meglio la cultura del tempo questo lo esprime attraverso le sue opere anche Mario Sironi con ‘I teleri’ per il Palazzo delle Poste di Bergamo il 19 gennaio 1934 venivano fissati sulle pareti della Sala accettazione dei telegrammi del nuovo Palazzo delle Poste, progettato da Angelo Mazzoni e già inaugurato nell’autunno 1932, i due grandi dipinti a olio di Mario Sironi dedicati uno all’Architettura ovvero, Il Lavoro in città e l’altro all’Agricoltura poi la famosa rappresentazione Il Lavoro nei campi che nel contempo divennero trasparenti e riconoscibili allegorie delle due più tipiche immagini della cultura e dell’habitat bergamasco. Commissionati all’artista nel 1932, i bozzetti preparatori avevano ricevuto il benestare del Ministero delle Comunicazioni ai primi di giugno, venendone prevista la realizzazione per l’autunno dello stesso anno in occasione della inaugurazione del Palazzo delle Poste. Le opere sironiane non trovarono posto se non due anni dopo, nel gennaio 1934, portati da Milano in ferrovia, sotto le cure di Vittorio Barbaroux, direttore di una delle gallerie milanesi maggiormente impegnate nel sostenere gli artisti contemporanei. Aveva probabilmente tardato Sironi nella consegna dei teleri a causa dei fitti incarichi professionali che lo chiamavano in questo stretto giro d’anni a grandi impegni, dalla mostra romana per il Decennale della Rivoluzione Fascista del1932 alla direzione degli interventi di pittura e scultura alla Triennale di Milano del 1933, accompagnati da fondamentali elaborazioni di ordine teorico, delle quali il Manifesto della pittura murale del 1933 è certamente il più significativo. I due dipinti per le Poste di Bergamo, dal punto di vista storico artistico, hanno dunque speciale rilevanza per la collocazione cronologica nell’itinerario creativo di Sironi, per le modalità rappresentative e le procedure tecniche adottate: la nuova scala monumentale delle rappresentazioni figurali, il particolare trattamento dei soggetti iconografici espresso in una cifra in cui si bilanciano modernità di temi e trasposta visione classica, la semplificazione radicale dell’apparenza pittorica, orientata a una chiara definizione dei rapporti tra temi rappresentati e ordinata complementarietà rispetto alla scansione dell’ambiente architettonico complessivo. I teleri sironiani per Bergamo segnano una svolta decisiva nella ricerca dell’artista prefigurando gli sviluppi dei successivi cicli monumentali e decorativi degli anni Trenta, e lasciano della città una metafora eroica e un’appassionante apologia. Il profondo rapporto tra Sironi e Bergamo si collega d’altra parte anche all’esperienza umana dell’artista che dispose alla sua scomparsa di riposare a Bergamo, accanto alla madre Giulia Villa ed alla figlia Rossana. Per quasi quarant’anni i due dipinti per il Palazzo delle Poste sono stati le opere d’arte contemporanea più vicini alla consuetudine quotidiana della vita della città. La Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, debitamente autorizzata, è stata ora attrezzata in modo da consentire la piena fruizione delle due importanti opere di Sironi dando così una concretarisposta al desiderio, molte volte ribadito negli ultimi anni, della città di Bergamo. Prendo la statua dal particolare meno interessante, cioè il meno importante, quello che può suggestionarmi meno, quello che può dare a me più confidenza e meno soggezione; e quindi non parlo mai nel fare una statua, che essendo un’immagine già mi turba.

E vado avanti, avanti, immaginandomi l’aldilà, che non voglio mai vedere. Quando capisco che, adagio, questa operazione sta riuscendomi, e che è in pieno mio dominio, allora mi volto, e guardo la statua per la prima volta. Con un colpo, le apro gli occhi, ed è viva.
. In questo modo incominciando dal particolare, che non era nella visione, che non apparteneva all’immagine avuta inizialmente, cominciò da ciò che non avevo pensato. Il famoso verso, che vien da Dio, me lo riservo per ultimo e le do il soffio finale. Il soffio è un tradimento inaspettato per la statua, e bisogna sempre aspettare un suo momento di distrazione. Mutevole come un barometro, l'artista vive continuamente in alternative di speranze illusorie e di esagerate disperazioni. Le disuguaglianze dei suoi sentimenti producono le più curiose dissonanze spirituali. Dei suoi mutamenti formali non si possono dare che spiegazioni molto approssimative. Chi può infatti incasellare le sue inquietudini, le sue emozioni, se egli vive continuamente con qualche demone? Il corpo non ha espressione, ha carattere; e la testa è soltanto un'appendice indifferente, il più delle volte un'intrusa. Gli apparati sensori non sono in vista come nel viso e per questo le superfici diventano larghe e raccolte, e la costruzione pura. Ogni volta che noi vediamo un nudo, ci sembra sia stato creato allora, se ne riceve un senso di meraviglia, e infatti una strana animalità lo avvicina e lo lega come parte di una vitalità misteriosa alle altre cose della natura. In questi ultimi tempi si parla molto di derivazione dell'Ottocento, di atteggiamenti neoromantici; in fondo credo che è meglio partire dalla radice vicina che risalire ai tempi delle corazze e delle toghe. Noi assistiamo continuamente alla demolizione di tutto ciò che è appartenuto all'Ottocento e io ne sono stato testimone, quando ho visto la mia vecchia casa cadere, i muri crollare ad uno ad uno, le camere aprirsi un attimo alla luce e poi diventare calcinaccio e polvere. La pittura, per esempio, ci libera da molta accademia, l'individuo comincia a essere rappresentato un po' come è, nella sua luce naturale, nei suoi gesti particolari: e non si dipingono più tante storie di santi, cupidi alati, uomini dignitosi e presuntuosi: e di questo, sinceramente, dobbiamo essergliene riconoscenti. La sostanza delle cose conta più dei colori, è la sostanza che determina la forma, mentre la plasticità è intensificata dallo strato d’aria che avviluppa le cose. E’ l’aria che ci fa indovinare e vedere col nostro cervello il lato per noi invisibile degli oggetti.
Contro e pro il paesaggio La pittura di paesaggio è femmina e le sue conseguenze sono il rammollimento del gusto,l’esigenza e la smania delle soluzioni ambigue che solleticano il senso, il piacere, il capriccio, la fantasia, e in ultimo lo spirito, la malinconia e la baldoria e in genere tutti i romanticismi,la lontananza dalle soluzioni rigidamente logiche e necessarie. In conclusione l’amore di tutte le inutilità che trasportano la mente senza sorreggerla né guidarla nelle aspre avventure dello spirito. Mario Sironi, 1930 Il sole tramontante proietta sul paesaggio lunghi fasci di luce. I campi sono illuminati da questa rivelazione di luce, che qua e là si spegne, conferendo al paesaggio una sensazione del divino. Sotto questa sensazione del divino prendo i pennelli e dipingo il paesaggio che mi sta solenne davanti. Al di là della pittura da cavalletto, al di là del frammento pittorico La pittura, perduti i rapporti con l’architettura, cioè con la vita, si decompose, si frantumò, annunziando fatalmente il trionfo del frammento, l’avvento del quadro da cavalletto, dell’espressione individualista. I bifolchi del sentimento - i romantici - continuarono a lungo a speculare sopra questa misera superficie di pochi centimetri quadrati illudendosi di riassumere in un rettangolo di modeste proporzioni evaso dall’ambiente funzionale, la potenza suggestiva del linguaggio plastico dei primitivi o dei classici, di coloro cioè che a contatto con Dio o con la terra, con l’immagine plastica e con l’architettura avevano compreso il compito umano dell’arte. La generazione dei bifolchi del sentimento - cioè dei pittori e scultori romantici che attribuiscono al quadro da cavalletto e al frammento pittorico o plastico poteri universali o valori plastici è in agonia. L’agonia è lenta, ma la certezza di questa fine è in noi. Noi futuristi italiani, precursori d’ogni felice indirizzo artistico e plastico, sentiamo imperiosamente la necessità di arginare l’attuale disorientamento della pittura e della scultura per la sopravvalutazione e sovrapproduzione del quadro e del frammento plastico, che ha esaurito totalmente lo sviluppo storico delle arti plastiche e la loro funzione in rapporto alla vita di un popoloin completa rinascita.
Enrico Prampolini, 1934.I Sei di Torino La prima mostra dei "Sei pittori" fu il risultato di una lenta elaborazione di idee, e di un lavoro sotterraneo da cui erano esclusi ogni facile estro ed ogni speranza di successo.Per quindici giorni, Torino assistette a un carnevale non meno rumoroso e divertente di quello che nella capitale subalpina ha tante tradizioni di spensieratezza goliardica: la critica e il pubblico si accanirono contro i "Sei" con l’intuizione di un pericolo irreparabile; i giornali pubblicavano colonne e colonne di luoghi comuni, mentre i visitatori si accampavano nella saletta della mostra a spacciare le spiritosaggini più inaudite. Alla collera degli avversari, e alla impreparazione del pubblico, i sei pittori, fiancheggiati da un gruppetto di amici, opponevano quotidianamente il tranquillo decoro della ragione, e trasformavano la bottega di piazza Castello nella sede di un bizzarro comitato di salute pubblica.
Edoardo Persico, 1931Era un ragazzo atletico e rosso di faccia, un’andatura da semidio e un ridere improvviso e pieno. A guardarlo, a sentire il calore della sua voce e l’impeto dei suoi discorsi, nessuno avrebbe pensato al male che lo rodeva, alla febbre che non lo lasciava più ormai da un pezzo. Tutti conoscevano il suo male, ma nessuno pensava alla sua morte. Ma Scipione aveva nel cuore la pena terribile di saper che non aveva tempo per esprimere tutto quel che dentro gli urgeva. Era di quei temperamenti dai quali ci si può attendere all’improvviso l’impossibile. Della sua generazione, era l’artista più completo e giovane, quello in cui erano più possibilità di imprevisto ed irruenza di genialità. Fu disegnatore grandissimo. Tra i moderni fu il primo a piegare ogni precedente esperienza disegnativa per raggiungere un particolare segno a tocchi improvvisi e sinuose sensualissime linee penetranti. In lui nessuna sciccheria, nessun modernismo d’accatto, nessun partito preso. Fra due pitture corrono cento, duecento disegni, espressi con mano nervosa, con ampiezza di scrittura rapidissimi, liricissimi. Era giovanissimo quando insieme a Mafai creò a Roma uno dei fenomeni più importanti nella storia della pittura dell’ultimo decennio. Chi erano questi due artisti che tra 1930 e 1931, Mario Mafai e Scipione al secolo Gino Bonichi uno dei maggiori protagonisti della Scuola di via Cavour ovvero la ‘Scuola romana’, il cui sviluppo fu seguito da vicino da Roberto Longhi, cominciano a collaborare continuativamente, l’uno come corrispondente da Parigi e l’altro come illustratore, con ‘L’Italia letteraria’. Mafai firma importanti articoli dove è chiara l’adesione ad alcuni principi critici maturati all’interno del dibattito sull’arte e il Fascismo a partire dagli anni Venti. Parallelamente Scipione esegue e pubblica numerose illustrazioni satiriche, influenzate nello stile da precise personalità artistiche europee e dedicate a fatti e scenari nazionali e internazionali Biennale, Quadriennale, Surrealismo, Galleria d’Arte Moderna di Roma, Reale Accademia d’Italia dove la sua capacità critica trova un’inaspettata e originale sintesi grafico-narrativa. Entrambi i contributi dei pittori romani meritano un più vasto approfondimento, ancora tralasciato dagli studi specialistici, e vanno inquadrati nell’ampio contesto culturale del Ventennio. Le sortite critiche di Mafai e Scipione infatti, posseggono un alto valore esemplificativo all’interno del complesso sistema culturale dell’Italia entre-deux-guerres. Il saggio è volto a dimostrare come la politica culturale fascista, col sostegno di molti intellettuali e artisti, fosse stata in grado, già nel 1930, di favorire l’elaborazione e l’applicazione di particolari strategie culturali e critiche finalizzate all’affermazione di un “primato” italiano anche in campo artistico-contemporaneo, per nulla disinteressato al contesto europeo. Il sodalizio artistico che legava Mario Mafai e Scipione- Gino Bonichi cristallizza oggi una stagione feconda dell’arte italiana che, secondo la vulgata, sbocciò inaspettata come un fiore nel deserto di un supposto immobilismo, proprio nel cuore dell’epoca fascista. Meriti di consapevole resistenza interna e di malcelata opposizione sono stati distrattamente attribuiti a posteriori all’operato di questi due artisti, i quali con il loro espressionismo avrebbero ingaggiato una lirica contropropaganda, cosmopolita e politicizzata, al regime. Ricalibrare tali semplificazioni, giustificate da necessarie, quanto fuorvianti ragioni ideologiche, può condurre ad ampliare la portata di un percorso che invece non ignora il complesso contesto culturale in cui si sviluppa e anzi aiuta a chiarirlo1 . Ed è un fatto che l’attività dei due sulle colonne de ‘L’Italia Letteraria’, cominciata nell’estate del 1930 e grosso modo coincidente con il loro debutto sulla scena artistica nazionale, possa essere un importante viatico per comprendere e valutare certe posizioni estetiche e politiche, destinate, nel caso di Mafai, ad evolvere fino alla sostanziale inversione, ma non completa trasformazione, e, in quello di Scipione, a fruttificare nella manciata d’anni che di lì in poi gli fu concesso dalla sorte di vivere. Il famoso sodalizio, peraltro non esclusivo non durò più di dieci anni, se si considera che Scipione morì nel 1933 come Mafai aveva iniziato ad affermarsi nel mondo delle esposizioni solo nel 1929. Il loro incontro data al 1924 mentre l’esperienza dello studio di via Cavour risale al 1926, ma già nel 1930 Mafai si trasferisce a Parigi, alternando soggiorni italiani e francesi fino al 1932. Tuttavia, esistono innegabili tangenze nel loro percorso, che emergono anche nell’attività per ‘L’Italia Letteraria’, dove i due sostanziano una ben definita proposta artistica e culturale veicolata dalle opere e dagli scritti. Tale proposta non va però confusa con un fiero scisma dal sapore bohémien, tutto giocato in buie conventicole fumose e in cenacoli ristretti. Assecondando le intenzioni che loro stessi apertamente manifestano, nel caso di Mafai principalmente con le corrispondenze da Parigi e nel caso di Scipione con i disegni satirici , va bensì rilevata una reale, e questa sì consapevole, volontà di incidere all’interno delle coeve politiche e dinamiche culturali organiche al regime, con eloquenti prese di posizione che preludono alla fondazione, insieme a Marino Mazzacurati nel 1931, di una vera e propria rivista: ‘Fronte’.L’ambito in cui si sviluppa la collaborazione di Mafai e Scipione con «L’Italia Letteraria» è da individuarsi nelle frequentazioni e nelle personalità che animavano il Caffè Aragno, luogo di ritrovo di parte dell’intellighenzia culturale dell’epoca, tra rondisti e solariani , in una Roma che, al debutto degli anni Trenta, si preparava all’ambizioso progetto di diventare la capitale culturale del cosiddetto “impero spirituale” fascista. In quegli anni infatti si erano trasferite in città le redazioni di importanti testate che, alla metà degli anni Venti, avevano intrapreso e sostenuto campagne ideologiche e culturali in seno al fascismo, creando vaste correnti. Così, ad esempio, ‘Il Selvaggio’ di Mino Maccari, stabilitosi definitivamente a Roma nel 1932, seguito nel 1933 da ‘L’Italiano’ di Leo Longanesi mentre, già nel 1927, era arrivata «La Fiera Letteraria» che, con l’abbandono della direzione di Umberto Fracchia a favore di Curzio Malaparte, affiancato l’anno successivo da Giovan Battista Angioletti, nel 1929 diventava ‘L’Italia Letteraria’. Inoltre, nel 1931, con l’inaugurazione della Prima Quadriennale nazionale d’arte di Roma, sotto l’egida di Cipriano Efisio Oppo, confluisce a Roma tutta l’ ‘Italia artistica’, chiamata a mostrare i frutti della nuova politica sindacale delle arti , orchestrata a partire dal 1927 e con l’adesione anche ideologica di molti artisti compresi Mafai e Scipione di fare di Roma un polo alternativo a Parigi che, in ottica di primato sancisse l’avvento di un nuovo corso culturale europeo e fascista. L’esperienza di Mafai e Scipione su ‘L’Italia Letteraria’ è anche una pubblica manifestazione di adesione a certe declinazioni dell’ideologia fascista così come si era andata articolando all’interno del dibattito sulle arti in relazione al nuovo ordinamento politico. Un confronto in prima istanza coagulato attorno alla nota inchiesta di ‘Critica Fascista’ del 1926 e poi sviluppato negli anni successivi all’interno dei circoli culturali e politici nazionali. Nei loro interventi infatti, è chiaro l’intento di prendere parte attiva nel processo di sistematizzazione e declinazione di un nuovo scenario artistico nazionale nelle vesti di membri di quell’ideale “partito degli artisti”, inquadrato all’interno delle politiche corporative di regime, che anelava di svolgere un ruolo rilevante, anche in termini educativi e morali, attraverso l’esercizio delle arti . Se nel 1926 e negli anni precedenti l’attenzione era rivolta principalmente, seppur non esclusivamente, al fronte interno, nel 1927 il confronto aveva preso sfumature internazionali, con una serrata inchiesta sullo scenario culturale e artistico italiano svoltasi sulle colonne della rivista francese “Comœdia”. Non è superfluo accennare a questa serie di interviste a diversi artisti e intellettuali residenti o di passaggio nella capitale francese , poiché alcune di esse accesero in Italia violente reazioni, che resero il rapporto culturale con Parigi e in generale l’opposizione tra italianismo e cosmopolitismo, un nodo importante del dibattito sulle arti, sviluppato negli anni successivi e ripreso con forza anche da Mafai e Scipione. È nota infatti la polemica suscitata dalle interviste di Alberto Savinio e di Giorgio De Chirico, che sminuirono i risultati delle politiche culturali del regime, non esprimendosi apertamente sul suo operato in altri ambiti. Quelle dichiarazioni costarono ai fratelli l’esclusione da diverse mostre, fra cui dalla Biennale del 1928 e nel 1931 dalla Quadriennale, per la forte e pubblica opposizione di Oppo che, sulla ‘Tribuna’, in relazione alla vicenda nel 1927, parlava di Parigi nei termini spregiativi di “grande Babele” e di “Internazionale artistica”. Meno note sono le interviste di Flippo De Pisis, Umberto Fracchia, Curzio Malaparte, Guido Da Verona, Antonio Maraini, Nino Frank, Pier Maria Rosso di San Secondo e Giuseppe Prezzolini, che pongono l’accento su temi quali la possibilità di un rinnovamento italiano nel fascismo, la creazione di una coscienza nuova, la sostanziale coincidenza di intenti di strapaesani e stracittadini nell’ottica di unrinnovamento nella tradizione e della ricerca di un carattere etnico nell’arte, la quale deve essere moderna ma non modernista, e la libertà della critica di cui discutono in particolare Prezzolini e Malaparte. Tutti questi interventi non sono estranei a Mafai e Scipione che con la loro attività giornalistica si affiancano e arricchiscono questo dibattito, avvicinandosi alle posizioni di Fracchia, Malaparte e soprattutto di Oppo, la cui famigliarità con i due è testimoniata anche da diverse lettere.Esulando da un tradizionale operato artistico dunque, anche Mafai e Scipione, come molti altri artisti italiani tra le due guerre, affidarono al mezzo giornalistico un’eloquente presa di posizione che li proiettò direttamente all’interno delle più vive tematiche legate al coevo andamento politico nazionale. Non dunque degli appartati “artisti di fronda” ma, come visto, consapevoli interpreti di un largo movimento di pensiero e azione direttamente influenzato dai presupposti del fascismo “rivoluzionario” che si esplica con una precisa volontà di partecipare e incidere. Una volta manifestata l’adesione alle politiche artistiche incarnate da Oppo infatti, Mafai e Scipione tentarono di mettersi alla testa di una nuova generazione artistica estranea ai precedenti primo novecenteschi e capace, da Roma, di armonizzare le tendenze nazionali riconducendole nell’alveo di valori politici e morali, rigenerati e normalizzati nel fascismo ed esportabili come un modello: una risposta italiana alla “deriva” culturale europea post-bellica. Il tentativo, tenace quanto concentrato in poco più di un solo anno, sfuma e si perde nella molteplicità di voci che negli anni Trenta si avvicendarono per imprimere una svolta o per affermarsi all’interno del dibattito sull’arte fascista, tuttavia resta essenziale per comprendere gli orientamenti di due artisti destinati a contare nella storia dell’arte italiana del Novecento. Se le condizioni di salute di Scipione ne rallentarono le attività fino alla morte nel novembre del 1933, lasciando appesa la sua eredità ad una celebrazione dai toni a volte idealizzanti, l’attività di Mafai proseguì all’interno del contesto dell’Italia fascista fino almeno al 1938.
Un'altra figura fondamentale fu Renato Guttuso che nel 1933 attraverso Le ragioni implicite disse : “Il momento artistico attuale ha una storia così complessa che sarebbe assai saggio partito non arrischiarsi a parlarne. Forse questo momento dell’arte apparirà, novello Sisifo, come un portento di buona volontà, intesi come si è alla sudata fatica di portarci dietro, costi che costi, tutta una congerie d’indirizzi aprioristici, di schemi, di analisi, di sintesi, di presupposti, di ricognizioni su un passato prossimo,remoto e remotissimo. Pare che sia colpa di un’eccessiva critica: e forse non dipende che dalla personalità degli artisti: ma è anche vero che non siano pure e semplici ragioni politiche ad aver influito così stranamente a sovvertire le naturali funzioni dell’arte. Infatti, un’arte che per il momento almeno, ha perso ogni vitale destinazione deve per forza trovare ragioni sue proprie ed esplicite per vivere e sono forse proprio queste ragioni che a loro volta, la allontanano da una comprensione generale. E in particolare, se, come in questo caso, mi occorresse illustrare o scusare il mio lavoro pubblicamente, dirò che quelle ragioni ho cercato di rendere implicite che non vuol dire negarle etanto meno non essersene avveduto non per programma -che sarebbe assai vecchio - ma pernecessità di esprimere.” Mentre
Fausto Pirandello nel 1935 Il pittore moderno solo i giovani hanno ammesso l’utilità di tutte le esperienze, creatrici di fermenti vitali, e le hanno superate, perché le hanno accettate, semplicemente come si accetta un pane quando si ha fame. Nella posizione pacifica di questo stato e nella sua congenita naturalezza sta la reale libertà d’azione morale del giovane d’oggi e la sua posizione di moderno.
Renato Birolli, 1934 Tempi pericolosi ma straordinari oppure come disse ancora Renato Guttuso nel 1939 : “Eravamo appena ragazzi e ci misero in testa il problema della coerenza o almeno tentarono. Gli amici indicavano, tra i nostri, questo o quel quadro, questo o quel particolare e dicevano: ecco queste sono le qualità tue, questo è il tuo senso, cerca di tenerti su questa strada. Gli amici non capiscono mai i nostri amori e sempre vorrebbero che avessimo i loro. Allora le due "grandi correnti", erano, a Milano il "Novecento", e a Roma il cosiddetto"Neoclassicismo", per cui, a un certo punto, venne la auspicata Pasqua e si parlò di "Novecentismo neoclassico". Queste delizie pretendevano di tenere a battesimo la nostra generazione. Poi vennero ad insegnarci il "tono" e la "materia pittorica" e ci fornirono la solita polemica dei calligrafi e dei contenutisti con l’obbligo di scegliere o di qua o di là. Ora tutte queste avventure ci sembrano vergognose e remote, tuttavia l’aria che c’è in giro non va bene. Sembra che nessuno si accorga che questi sono tempi pericolosi ma straordinari. Se io potessi, per un’attenzione del Padreterno, scegliere un momento nella storia e un mestiere, sceglierei questo tempo e il mestiere del pittore. Le condizioni oggi sono storicamente privilegiate, sempre che si abbia la forza e la libertà interna necessaria in tempi così pericolosi”. Posso dire che Pericle Fazzini nacque a Grottammare il 4 maggio 1913 da Vittorio e Maria Alessandrini. Giovanissimo, iniziò a lavorare nella falegname-: ria di famiglia, accanto ai numerosi fratelli, apprendendo a intagliare il legno e dedicandosi alla scultura nei momenti liberi. Intorno al 1929 il poeta Mario Rivosecchi, suo compaesano e amico di famiglia, convinse il padre ad assecondarne il precoce talento, mandandolo a studiare a Roma. Il Fazzini vi si trasferì nel 1930, iniziando a frequentare la scuola libera del nudo all'Accademia di belle arti. 1 suoi appunti testimoniano, oltre al suo interesse per la scultura barocca, una giovanile ammirazione per A. Rodin, E.-A. Bourdelle e A. Maillol. Tra i suoi primi amici troviamo il pittore Alberto Ziveri, con il quale divise i primi studi e alcune esperienze iniziali: tra queste la partecipazione, nel 1930, alla IV Triennale di Monza, dove i due artisti collaborarono con l'architetto razionalista L. Moretti alla realizzazione della Casa del poeta. Nel 1931 Fazzini vinse il concorso per un monumento a Catania al cardinale G. B. Dusmet (mai realizzato; il bozzetto per il rilievo La peste a Catania è a Catania, palazzo degli Archivi). In quello stesso anno eseguì due ritratti in legno di Orazio Costa . Nel 1932, con il bassorilievo Uscita dall'arca vinse il concorso per il pensionato artistico nazionale, che garantiva per due anni un discreto mensile e l'uso di uno studio a villa Caffarelli sul Campidoglio. Fu l'inizio di un periodo di lavoro molto intenso, i cui primi frutti apparvero nel gennaio 1933 in una mostra tenuta insieme con Ziveri e G. Grassi presso la galleria di D. Sabatello. L'esposizione, paragonata per il suo impatto sull'ambiente romano a quella di M. Mafai e Scipione (Gino Bonichi) tenutasi tre anni prima alla Galleria di Roma., ottenne recensioni favorevoli da parte di P. Scarpa, C. Cagli, A. Neppi, D, Sabatello. In febbraio il Fazzini espose al Circolo delle arti, ottenendo nuovi riscontri di critica da parte di C. E. Oppo (in La Tribuna, 8 febbr. 1933) e G. Pensabene (in Il Tevere, 5 febbr. 1933). Si ampliavano intanto le sue amicizie nell'ambiente romano: tramite G. Ungaretti conobbe Marguerite Chapin Caetani principessa di Bassiano, animatrice della rivista Commerce, che nel 1934 lo invitò a partecipare a una collettiva a Parigi, alla galleria Les amis de l'art contemporain, insieme a C. Despiau, E. Vuillard, P. Bonnard, A. Dunoyer de Segonzac, A. Masson, C. Cagli. Una delle tre sculture inviate dal F. - Anita, in legno - venne poi acquistata, su suggerimento di J. Cassou, dal Musée du Jeu de paume e si trova oggi al Musée national d'art moderne (al Centre George-Pompidou, inv. JP 122 S) di Parigi. Questo periodo di successi culminò nel 1935 con la partecipazione alla II Quadriennale d'arte nazionale a Roma; i due altorilievi
Danza (legno; Fondazione Giorgio Ronchi, Capri, villa Malaparte) e
Tempesta suscitarono una notevole emozione e ottennero un premio di 10.000 lire. Nonostante l'artista si esprimesse in queste opere con la massima libertà di mezzi, la loro energia convinse anche critici di orientamento tradizionalista come M. Sarfatti (1935) ed E. Cecchi (1935): "Fazzini - scrisse quest'ultimo - debutta come il diciassettenne Michelangelo della zuffa dei centauri, ma sopra superfici dieci volte tanto". Dopo la partecipazione, sempre nel 1935, alla mostra parigina "Art italien des XIX et XX siècles" al Jeu de paume e ai Littoriali dell'arte, il F. fu invitato alla Biennale di Venezia, ma inaspettatamente il pensionato artistico decise di non rinnovargli la borsa di studio, mettendolo così di fronte a serie difficoltà economiche. Gli anni tra il 1935 e il 1938 furono piuttosto difficili. Con il denaro del premio vinto alla Quadriennale lo scultore prese in affitto uno studio in via Margutta, dove lavorò per il resto della sua vita. Si isolò dall'ambiente artistico romano, realizzando in solitudine alcuni dei suoi massimi capolavori, come il ritratto di
Ungaretti (1936, legno; Roma, Gall. naz. d'arte mod.) e la
Danzatrice (ill. in catal., 1984, p. 32), e partecipando alle mostre pubbliche con opere di minore impegno, talora legate ai temi della propaganda di regime: VI (1936) e VII (1937) mostra del Sindacato fascista di belle arti del Lazio (ritratto del
Duce in bronzo); Mostra delle colonie estive (1937:
Balilla armato, grande statua in gesso). Nel 1938 Fazzini pose fine al suo isolamento partecipando alla XXI Biennale di Venezia con un gruppo di sculture che lo consacrò ai massimi livelli della ricerca europea: oltre al ritratto di
Ungaretti erano esposti i cosiddetti
Momenti di solitudine, due figure in legno, rappresentanti un
Ragazzo che ascolta (venduto dopo la seconda guerra mondiale al collezionista Maristany di Madrid, ma non reperito al tempo della mostra del 1984 e un
Giovane che declama (realizzate con insolita politezza formale. Queste due opere costituiscono il punto di arrivo di una ricerca tenacemente perseguita per tutto il corso degli anni Trenta sulla falsariga della scultura greca: dall'arcaicismo (si veda il
Ritratto di Anita n. 2, in legno dipinto come gli antichi
xoana) alla compiutezza di Fidia e oltre, all'eleganza proporzionale di Lisippo e alla libertà compositiva e dinamica dell'ellenismo: un confronto compiuto dal F. senza il minimo senso di inferiorità e senza scendere mai nella citazione, ma, anzi, con un massimo di originalità. Nel 1939, in occasione della III Quadriennale romana, questo confronto si estese ad altri modelli: il bassorilievo
Passaggio del Mareb , raffigurante un momento della guerra di Etiopia, non può non ricordare le superfici tormentate e il senso di dramma storico delle colonne onorarie romane. Nel dicembre di quello stesso anno il F., con altri artisti romani, partecipò, alla galleria Grande di Milano, alla seconda mostra del gruppo di
Corrente, la rivista fondata a Milano per raccogliere le energie e i dissensi della giovane arte italiana, in un momento in cui gli artisti erano chiamati a confrontarsi con una situazione politica sempre più aspra. Nel gennaio 1940, sempre sulla via di un ancora incerto e nascente "realismo", prese parte, con R. Guttuso, V. Guzzi, L. Montanarini, 0. Tamburi, A. Ziveri, ad una importante collettiva alla Galleria di" Roma .Nel 1940 sposò Anita Buy, la scrittrice alla quale era da tempo legato; poco dopo fu chiamato alle armi e raggiunse dapprima Padova, poi Zara. Nel 1941-42 durante il soggiorno a Zara ebbe modo di continuare a lavorare e suoi disegni che vennero inviati alle riviste Primato, Documento, Domus lo scrittore Curzio Malaparte gli acquistò il rilievo
Danza per collocarlo nella celebre villa di Capri lettera di Malaparte al Fazzini citata in catal., del 1984, , ma, soprattutto, Fazzini diede l'avvio a una produzione che doveva rivelarsi molto fruttuosa negli anni sucéessivi, quella dei bronzetti realizzati con l'antica tecnica della cera perduta. Trascorse a Viterbo l'ultimo periodo del servizio militare. Congedato l'8 sett. 1943, fece ritorno a Roma, dove si dedicò ad una importante scultura appena iniziata allo scoppio della guerra: il
Ragazzo con i gabbiani (1944, legno con tracce di colore, coll. Fazzini), in cui la figura umana appare come il mezzo per evocare la luce dell'estate, l'aria, il volo, il rumore del mare. Pensando a sculture come questa, Ungaretti chiamò il F. "scultore del vento" (in
Il Popolo [Roma], 15 apr. 1951). Nel 1945 vide la luce
Il fucilato , una delle più intense espressioni figurative dei dramma bellico appena concluso e una delle prime creazioni fazziniane in cui emerge il sentimento religioso del dolore e della sofferenza umana, un tema sul quale l'artista tornerà con frequenza, dando sfogo ad un lato pessimista, aspro e lucido del suo carattere.
Nel 1946 Fazzini espose alla galleria del Secolo di Roma, accanto ad A. Corpora, R. Guttuso, S. Monachesi, G. Turcato, opere realizzate dieci anni prima: volontario ricongiungimento a quelle esperienze, nel segno della sintesi formale con cui aveva iniziato il suo cammino. Allo stesso modo va intesa la vittoria al premio Torino del 1947 con una scultura del 1939 Anita in piedi e infine la partecipazione alla prima mostra del Fronte nuovo delle arti a Milano, galleria della Spiga, nel giugno 1947, accanto a quegli artisti tra gli altri Leoncillo Leonardi, N. Franchina, A. Corpora, E. Vedova, R. Guttuso che allora proponevano una ricerca linguistica basata sulla sintassi cubista (o neocubista) allo scopo di riallacciare i fili con la cultura europea. Fazzini ben preparato a queste ricerche fin dalla sua giovanile adesione al clima del razionalismo architettonico e da una innata propensione alla sintesi della forma, giunse su questa linea a esiti di grande qualità con la
Sibilla e con il
Profeta . Nel luglio 1949 partecipò alla rassegna "XX Century Italian art" presso il Museum of Modern Art di New York. Nel 1950-51 riprese il rapporto con l'architettura realizzando l'altare per la cappella di S. Francesca Cabrini in S. Eugenio a Roma. Nell'aprile del 1951 l'Ente Premi Roma ospitò una vasta antologica del F. e nello stesso anno l'Accademia di S. Luca gli conferì il premio Einaudi. Nel 1952 tenne una personale alla galleria Alexander Jolas di New York, inaugurando un periodo di attività in campo internazionale. Nel 1954 partecipò, presentato da G. Ungaretti, alla XXVII Biennale di Venezia con una personale che gli valse il primo premio per la scultura. L'anno dopo ottenne la cattedra di scultura all'Accademia di Firenze e dal 1958 al 1980 insegnò all'Accademia di belle arti di Roma. Del 1956-57 è uno dei progetti più arditi: quello per un
Monumento alle vittime di Auschwitz, non realizzato: "Doveva essere una grande superficie orizzontale di sessanta metri di lato. come una piazza concava, scavata da sentieri che passavano in mezzo alle figure dei morti. E la gente camminando verso il centro si trovava a poco a poco sempre più in basso, fino ad avere le teste scolpite all'altezza degli occhi" . Negli anni seguenti si fece sempre più importante l'impegno in opere a carattere monumentale: nel 1959-60 eseguì il portale in bronzo della chiesa di S. Giovanni Battista sull'autostrada del Sole, nei pressi dell'uscita di Firenze Nord, con scene raffiguranti il
Passaggio del Mar Rosso e
L'arrivo dei re magi . Tra il 1961 e il 1965 si dedicò alla fontana per il palazzo dell'Ente nazionale idrocarburi (ENI) a Roma Eur, immaginando di "proiettare all'esterno il sottosuolo, isolandone un frammento in maniera tale che si abbia la sensazione delle profonde stratificazioni della terra sino alle viscere da cui viene estratto il petrolio" per un mai realizzato monumento a
J.
F.
Kennedy: doveva essere una grande stele (30 m di altezza) con tagli e fenditure nel senso della lunghezza che scoprivano, in controluce, il profilo di Kennedy (una prova di dimensioni ridotte, successivamente intitolata
Metamorfosi e fusa in bronzo, venne donata anni più tardi alla sua città natale). Per il palazzo della Federconsorzi a Roma il F. aveva compiuto nel 1955 sulla facciata un lungo fregio di bronzo (m 52 X I, 15 di altezza) dal titolo
I campi; nel 1965-66 concluse il lavoro realizzando all'interno un grandissimo altorilievo in legno dal titolo
Il solco: un campo arato tra due file di olivi contorti in cui, rievocando il paesaggio marchigiano, ritrovò la straordinaria energia dei suoi rilievi giovanili. Mentre in Italia si moltiplicavano le commissioni per imprese pubbliche, crebbe l'interesse per il F. all'estero: nel 1961 tenne una personale a Darmstadt, nel 1962 alla Kunsthalle di Düsseldorf. Una monografia di R. Pallucchini apparsa in Giappone nel 1963 contribuì alla crescente notorietà dell'artista in questo paese, dove Fazzini espose in mostre personali e collettive nel 1970, 1971, 1972 e 1973. Gli anni Sessanta furono ricchi di sperimentazioni sul piano stilistico: proseguendo la sua ricerca di astrazione dalle forme naturali, il F. realizzò per la IX Quadriennale romana del 1965 la
Conchiglia, una grande scultura mobile in bronzo. Per il porto di San Benedetto del Tronto concepì (1969-70) il
Monumento al marinaio una grande forma bianca ispirata ai movimenti del mare, al vento, al volo dei gabbiani, che avrebbe dovuto innalzarsi per m26 di altezza e muoversi alle correnti d'aria. Negli anni Settanta Fazzini visse l'avventura della
Resurrezione, la grande scultura per la sala delle udienze in Vaticano, che può essere considerata come il punto di approdo di tutta la sua ricerca.
La genesi della scultura fu piuttosto lunga: i primi contatti con il Vaticano si erano avuti nel 1965, ma la decisione finale arrivò soltanto nel 1972, grazie all'intervento personale di Paolo VI. Il lavoro e la successiva fusione richiesero quasi sette anni, fino all'inaugurazione che avvenne il 28 sett. 1977. È facile trovare riassunti nella
Resurrezione i grandi amori del F., "il senso fisico di pelle sulle costole" che nel 1930 lo aveva avvicinato al barocco e a Rodin. il sentimento mistico della natura che lo spinse a reinventare le forme di alberi e nuvole aperti a ventaglio intorno al Cristo; infine il "mestiere" che gli permise anche in questo caso di adottare soluzioni tecniche nuove e avanzate (il punto di partenza della fusione era un prototipo a grandezza naturale realizzato in una sorta di polistirolo con l'aiuto di chiavi elettriche incandescenti). Durante le ultime fasi di lavorazione (nell'agosto del 1975) l'artista, provato dalla grande fatica, fu colpito da trombosi. La ripresa avvenne lentamente il Fazzini trascorse i suoi ultimi anni in relativa tranquillità tra lo studio di via Margutta e la casa costruita a Grottammare presso un bosco di querce secolari, dedicandosi soprattutto ai bronzetti e anche a raccogliere i molti scritti e appunti. Tra le principali fonti di ispirazione ritroviamo gli spazi aperti dell'Adriatico, suggeriti ora anche in una serie di pastelli che aggiungono alla ricerca formale la suggestione del colore, in una estrema sintesi figurativa. Due grandi antologiche riproposero al pubblico la sua lunga carriera: la prima ad Avezzano nel 1983, la seconda nel dicembre 1984 alla Galleria nazionale d'arte moderna a Roma, di nuovo accanto ad Alberto Ziveri. Le opere sono di Pericle Fazzini sono conservate nei maggiori musei di tutto il mondo, le sculture di Fazzini trovano spazio in importanti collezioni private e pubbliche come il Moma di New York, la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, la Guggenheim Collection di Venezia, il Centre Pompidou di Parigi e il Momat di Tokyo. Un ricco e informato catalogo edito da De Luca Editori d'Arte riporta i testi di Alessandro Masi, Bruno Racine, Claudio Strinati, Salvatore Italia, Roberta Serra e Chiara Barbato. Legato all'evento espositivo e di prossima pubblicazione anche un secondo volume, dedicato agli scritti di Fazzini, a cura dello storico della lingua italiana Giulio Ferroni.
Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese Roma
Pericle Fazzini . Lo Scultore del Vento
dal 25 Marzo 2023 al 2 Luglio 2023
dal Martedì al Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 16.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Foto della mostra Pericle Fazzini Lo Scultore del Vento Collezione eredi Fazzini credit © Massimo Napoli- Archivio Storico Pericle Fazzini Oscar Savio – Elio Sorci