Giovanni Cardone Febbraio 2025
Fino al 7 Settembre 2025 si potrà ammirare al MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna la mostra Felice ironia . L’ironia nell’arte italiana tra XX e XXI secolo a cura di Lorenzo Balbi e Caterina Molteni. L’esposizione collettiva pensata per gli della Sala delle Ciminiere ospita più di 100 opere e documenti d’archivio di oltre 70 artisti la mostra attraversa un arco di tempo di circa settant’anni ovvero dagli Cinquanta a oggi ella si propone di ripercorrere la storia dell’arte italiana attraverso il tema dell’ironia. Questo evento nasce in occasione del Cinquantesimo anniversario della fondazione della Galleria d’Arte Moderna di Bologna del MAMbo- Museo d’Arte di Bologna del Settore Musei Civici di Bologna. In una mia ricerca storiografica sull’Ironia nell’arte e sulla visione dell’arte dagli Cinquanta ad Oggi apro questo mio saggio dicendo: Umorismo e ironia sono due termini complessi: entrambi rimandano a campi semantici molto vasti che in parte si sfiorano o si sovrappongono, in parte risultano reciprocamente distinti. È sufficiente scorrere qualcuno dei numerosissimi studi dedicati ai concetti di umorismo e ironia per rendersi conto della molteplicità dei significati attribuiti ai due termini; e risulta chiaro come ogni autore possa, in ragione di questa molteplicità, considerare ironia e umorismo in accezioni più o meno vaste, ovvero più o meno ristrette, così da avere separazioni nette fra i due termini, oppure al contrario la loro fusione, con uno dei due concetti compreso nell’altro.

Di fronte a questa situazione si può arrivare allo scetticismo arrendevole: all’idea, cioè, di umorismo e ironia non quali concetti stabili, ma risultanti delle opinioni diverse sui due termini avanzate di volta in volta da diversi autori. È pur vero, però, che il problema si manifesta come tale solo nel momento in cui si vuole tentare di costruire una teoria generale che funzioni “una volta per tutte”, fornendo una definizione stabile dei termini. Per il resto, l’oscillazione dei significati non impedisce ad un singolo studioso di portare avanti una ricerca proficua nella misura in cui venga chiarito in che senso si utilizzino i termini in un particolare lavoro. Si può trovare assai poco condivisibile la definizione ristretta che Pirandello fornisce a proposito dell’umorismo, e la contrapposizione fra questo e l’ironia avanzata nel suo celebre saggio. Tuttavia ciò non toglie valore al lavoro di Pirandello, poiché l’accezione ristretta con cui viene utilizzato il termine umorismo descrive dei casi particolari che sono effettivamente l’oggetto specifico dello studio. Una volta chiarito che cosa Pirandello intende con ‘umorismo’ si può agevolmente seguire il suo discorso. Ma, certo, non lo si può considerare come una chiarificazione valida né del concetto di umorismo né tantomeno dell’ironia, visto che facilmente si possono trovare altrove definizioni contrastanti con quelle proposte da Pirandello. Con questo non voglio cercare una scappatoia, quasi a voler intendere che i termini ‘umorismo’ e ‘ironia’ possano essere plasmabili a piacimento da ogni studioso, senza alcun ritegno. In realtà ho fatto queste considerazioni iniziali solo per sfuggire da subito all’ingenua pretesa di poter proporre delle definizioni definitive e non problematiche di due termini - e due concetti - fra i più instabili e discussi che sia dato d’incontrare. La scelta di utilizzare ironia e umorismo (assieme) per la mia ricerca è stata induttiva, suggerita cioè dall’oggetto di indagine. Proverò a chiarire in che senso li intendo, tentando di definirli nella maniera meno arbitraria possibile. Il mio obiettivo, però, non è quello di stabilire dei punti fermi, validi necessariamente in senso assoluto, ma solo mettere a fuoco degli strumenti di indagine. Contro l’idea di una vicinanza o addirittura identità fra umorismo e ironia si hanno casi di studiosi che considerano i due concetti come cose distinte, se non opposte. Per Bergson, ad esempio, la distinzione fra ironia e umorismo deriverebbe dal fatto che nell’ironia ‹‹si enuncerà quel che dovrebbe essere fingendo di credere che esso sia precisamente ciò che è››, mentre nell’umorismo ‹‹si descriverà minuziosamente e meticolosamente ciò che è, dando a credere che è proprio così che le cose dovrebbero essere››. Esplicito nello svalutare l’ironia rispetto all’umorismo, poi, è Pirandello, per il quale l’ironia – osservata in opera nei poemi cavallereschi del Rinascimento, in particolare in Ariosto resta una ‹‹contraddizione puramente verbale, con connotazioni emotive limitate all’idea di un che di beffardo e mordace››, tale per cui ‹‹i due elementi comico e tragico non si fondono mai››; laddove si fondono, ad esempio nel Don Quijote, secondo Pirandello si ha qualcosa di diverso: ‹‹il riso che qua scoppia… è ben diverso di quello che nasce là per l’accordo che il poeta cerca con quel mondo fantastico per mezzo dell’ironia, che nega appunto la realtà di quel mondo. L’uno è il riso dell’ironia, l’altro il riso dell’umorismo››; un umorismo che, com’è noto, viene inteso da Pirandello come un ‹‹sentimento del contrario›› distinto dal semplice ‹‹avvertimento del contrario›› che qualificherebbe invece il comico puro e semplice . Nel tentativo di distinguere l’umorismo dal comico si può vedere un’eco del dibattito europeo sullo humour inteso come un qualcosa che ha in sé un quid di triste, di serio, di tragico. Ma una simile tesi si regge sul fatto di attribuire ai termini umorismo e comico delle accezioni ristrettissime: come se, infatti, un senso tragico non fosse rinvenibile in molte manifestazioni di comicità, o si potesse negare al comico quella profondità che si vorrebbe connessa al solo ‘umorismo’. All’inizio del Novecento i filosofi russi Sergej N. Bulgakov e Nikolaj Berdjaev guardarono con preoccupazione agli esiti di futurismo e cubismo, avvertendo nella loro volontà di rinnovamento una grave crisi dell’arte e dell’umanità intera. Qualche anno più tardi il filosofo spagnolo Ortega y Gasset individuò una possibilità di salvezza nel “destino ironico” dell’arte. Tra 1915 e 1918 i filosofi russi Sergej N. Bulgakov e Nikolaj Berdjaev, poco dopo aver visitato la mostra di Picasso presso la galleria Š?ukin di Mosca, rilevarono con grande sconcerto la presenza di una grave frattura nel rapporto fra arte e vita, “fra la creatività e l’essere” (Berdjaev, 2012), anticipando una questione che sarebbe stata centrale anche nei decenni successivi e di cui tutt’oggi si discute. Qualche anno più tardi il filosofo spagnolo Ortega y Gasset ne La disumanizzazione dell’arte (1925) tentava di analizzare quel cambiamento senza precedenti innescato all’interno del panorama artistico novecentesco dalle avanguardie storiche, che avrebbero condizionato in maniera irreversibile anche tutte le manifestazioni artistiche a venire, individuando una possibilità di salvezza proprio nel destino ironico dell’arte. Tra le diverse tendenze proprie di questa “arte nuova” il filosofo individuava, infatti, oltre all’inconfutabile presenza di una nuova sensibilità estetica, un’essenziale ironia di fondo e descriveva le nuove correnti artistiche come “un fenomeno d’indole equivoca perché equivoci sono tutti i grandi fatti di questi anni in corso” (2016). Quel carattere serio e ieratico dell’arte del passato, che talvolta “pretendeva perfino di condurre a salvamento la sorte umana” (2016), non sembrava più essere una componente propria dell’arte dell’ultimo secolo. Proprio questa ironia, notava Ortega, è ciò che sconcerta maggiormente la sensibilità delle persone serie, che si rifiutano di riconoscere nella farsa l’essenziale vocazione dell’arte. Questa, infatti, in quanto rappresentazione, risulta necessariamente orientata alla ricerca della finzione, finalità che può scaturire soltanto da una “condizione di spirito gioviale” (2016). Ortega, del resto, non sarebbe stato il primo a evidenziare l’intento ironico dell’arte, dal momento che, come ricorda lui stesso, all’inizio del XIX secolo un gruppo di romantici tedeschi guidati dai fratelli Schlegel aveva dichiarato l’Ironia la più alta categoria estetica ed eletto il poeta moderno come l’ironista per eccellenza (Givone, 2011). Quest’ultimo, infatti, dopo aver sottoposto a un’attenta critica i materiali della tradizione, li trasforma radicalmente, conducendo l’arte verso “l’indistinzione fra apparenza e verità, fra il serio e lo scherzoso” (2011). Nel suo tentativo di creazione di un orizzonte irreale l’arte non si libera del suo concetto di verità, ma questa viene semplicemente trasferita in un altrove, “cui si risale non già perché sia possibile raggiungerla, ma perché il risalimento è compito fine a se stesso” (2011). Prima ancora che Ortega pubblicasse La disumanizzazione dell’arte, la riflessione sull’ironia in relazione alle diverse manifestazioni artistiche, venne affrontata anche da Luigi Pirandello, che ne individuò una certa somiglianza con il concetto di “umorismo” (Pirandello, 1994: 10), strumento essenziale per cogliere le più profonde contraddizioni della realtà, da lui teorizzato nell’omonimo saggio pubblicato nel 1908 (Ardizzola, 2014). Pirandello descrive l’umorismo come “sentimento del contrario”, e cioè come un complesso stato d’animo che consente all’artista di vedere un aspetto della realtà, avvertendone al tempo stesso il suo contrario (Pirandello, 1994). L’umorismo, che consiste dunque in un “fenomeno di sdoppiamento” (1994), non esclude la comicità, ma questa ne rappresenta solo il momento iniziale per lasciare spazio a una riflessione più profonda. L’analisi di Pirandello sull’umorismo, sebbene trovi maggiori affinità con la pittura espressionista più che con le successive manifestazioni artistiche, come non manca di sottolineare Paola Ardizzola (2014), è comunque sintomatica dell’affermarsi della tendenza, rilevabile già nelle opere del belga James Ensor, a servirsi dell’ironia come strumento per aggredire la società del proprio tempo. Il fine era quello di rivelarne superstizioni, vizi e ipocrisie, esortando lo spettatore a modificare la sua idea di arte. Se i pittori espressionisti credevano ancora nell’arte, al contrario, i dadaisti operarono un rovesciamento anche del tradizionale statuto di opera d’arte. La polemica contro la società aveva orientato molte delle opere espressioniste, ma i dadaisti assunsero una posizione ancor più radicale, opponendosi a tutto ciò che era espressione di quella società, comprese le sue manifestazioni artistiche (De Micheli, 2018). Massimo protagonista dell’arte di Dada fu naturalmente Marcel Duchamp, che contravvenne a tutto quello che fino a quel momento era stato elemento portante e imprescindibile dell’opera d’arte e, attraverso una serie di operazioni fortemente connesse al caso e impregnate di ironia, propose come oggetti esteticamente rilevanti comunissimi prodotti pre-confezionati, seriali, anonimi (Barilli, 2005). Come evidenzia Maurizio Calvesi (2008), fondamentale era la decontestualizzazione dell’oggetto prelevato e la sua conseguente destinazione a una funzione inaspettata e inconsueta, che generava nell’osservatore un effetto di spaesamento. Il difficile rapporto tra arte e società, che aveva generato un’accesa polemica dopo la prima guerra mondiale, a seguito della seconda s’inasprì a tal punto che la “morte” dell’arte sembrava ormai imminente e ineluttabile (Argan, 1970). Lo
choc provocato dalla seconda guerra mondiale ebbe profonde conseguenze sulle ricerche artistiche e il volto dell’arte, sottoposto a una continua metamorfosi, non sarebbe più stato lo stesso (Celant 2014). Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, in Europa e negli Stati Uniti, alcuni artisti, come Piero Manzoni, iniziarono a indagare sulla natura e il senso dell’arte, arrivando a mettere in discussione l’oggetto artistico in quanto tale, non più in grado di trasmettere verità assolute e, come osservava Argan (1970), spesso vittima di un mercato che finiva con lo svilire l’opera, abbassata a una merce qualunque. La volontà di trasgressione e rinnovamento, che si fecero più accese soprattutto in seguito alle contestazioni politiche e alle tensioni sociali del Sessantotto, sarebbe proseguita ancora per tutti gli anni Settanta, arrivando a sottoporre a un’aspra critica persino le stesse istituzioni espositive, che divennero oggetto di un’impietosa parodia (Del Puppo, 2013). Tuttavia all’interno di quella che nel 1947 Max Horkheimer e Theodor Adorno definirono come “industria culturale”, l’arte poteva ancora avere una funzione essenziale: rivoltandosi contro il suo essere stata ridotta a bene di consumo, l’arte diventa caricatura e negazione di se stessa, “non nel senso di scomparire, togliersi di mezzo, hegelianamente morire, ma nel senso di tenere aperta la possibilità di uno sguardo controluce sul mondo e di dar voce, paradossalmente, magari ammutolendo, alla ‘vita offesa’” (Givone, 2011). Proprio sfruttando le armi del paradosso e dell’ironia, alcuni artisti tentarono di suscitare un atteggiamento critico nello spettatore, spingendolo a interrogarsi sul proprio modo di percepire e fruire la realtà. Incredibilmente furono proprio gli artisti a minacciare la “morte” dell’arte che, nella sua tradizionale concezione, era stata fin troppo strumentalizzata e banalizzata (Argan, 1970), eppure l’arte, proprio come aveva profetizzato Ortega (2016), “in questa attitudine di annientare se stessa, continua ad essere arte e, per una miracolosa dialettica, la sua negazione diventa la sua conservazione e il suo trionfo”. Dagli anni Cinquanta a oggi, con alcuni fondamentali antefatti rappresentati dal Surrealismo e della Metafisica, Facile Ironia ripercorre la storia dell’arte del nostro Paese attraverso l’espediente critico e immaginativo dell’ironia sviluppato in macro-aree tematiche, utili nell’illustrare le diverse declinazioni e la trans-storicità del fenomeno: il paradosso, il suo legame con il gioco, l’ironia come pratica di nonsense e l’ironia come arma femminista di critica al patriarcato e all’ordine sociale italiano, e poi ancora la sua relazione con la mobilitazione politica e l’ironia come forma di critica istituzionale. Aleggia negli spazi del museo uno humor nero che attraversa più sezioni, una forza apparentemente contraria all’ilarità, che, in modo cinico e dissacrante, spinge a confrontarsi con le contraddizioni esistenziali.
Ad accogliere il visitatore la Mozzarella in carrozza di Gino De Dominicis che traduce la nota pietanza in realtà ed esplicita il primo cortocircuito linguistico dell’esposizione: il paradosso. L’espediente viene intercettato nell’arte italiana del XX e XXI secolo attraverso opere emblematiche, dai lavori surreali di Giorgio De Ghirico considerato una delle figure principali dell’arte del primo Novecento, de Chirico ha influenzato in modo profondo non solo il surrealismo, ma anche una serie di movimenti di ampio respiro, tra cui il realismo magico, la
Neue Sachlichkeit (nuova oggettività), la pop art, la transavanguardia e alcuni aspetti del postmodernismo. A ciò ha contribuito in maniera determinante la costante volontà di sperimentazione dell’artista, che nei suoi settant’anni di carriera (1908-1978 circa) non ha mai smesso di elaborare stili, tecniche, soggetti e colori diversi, in modo non dissimile dal coetaneo e amico Picasso. La natura apparentemente paradossale dell’opera di de Chirico è, per l’appunto, ciò che la rende ancor oggi - a oltre un secolo di distanza dalla scoperta della Metafisica nel 1910 - così fresca e attuale per gli artisti e il pubblico moderno. Promossi per la prima volta nel 1913 da Apollinaire e Picasso (i due grandi mediatori tra modernismo e tradizione), i primi dipinti di de Chirico intonano un “canto nuovo” che affascina e, in parte, galvanizza l’avanguardia parigina degli anni Dieci, seguita dai surrealisti negli anni Venti. “Elaborando un sistema pittorico di precisione matematica che distorce la realtà (attraverso l’uso illogico della prospettiva e della luce, unito all’accostamento irrazionale di oggetti comuni e fantastici in ambienti alterati e insoliti), l’artista produce scene di enigmatico isolamento o inquietante costrizione”, sottolinea Victoria Noel-Johnson, che della mostra è la curatrice. “Pervasa da un angoscioso presagio, l’atmosfera (o
Stimmung, secondo il filosofo tedesco dell’Ottocento Nietzsche) della sua pittura mira a suscitare un senso di sorpresa, scoperta e rivelazione”. Da più di un secolo Giorgio de Chirico affascina, sconvolge e inquieta artisti, estimatori ed appassionati dell’arte del Novecento. La sua produzione artistica è una summa dell’arte del secolo scorso, oltre che un’anticipazione profetica delle dinamiche espressive del nuovo millennio. A partire dal 1908, quando iniziò a dipingere sulla scia dell’entusiasmo generato dalla visione delle opere romantico-simboliste di Arnold Böcklin e Max Klinger, de Chirico non ha mai smesso di stupire. L’esaltazione e poi la lite con i surrealisti, l’aspra polemica in occasione della Biennale veneziana del 1948, passando per l’abbraccio di una visione stilistica classica e poi barocca, fino alla Neometafisica con la ripresa gioiosa dei temi degli anni Dieci, Venti e Trenta. Le evoluzioni, i ritorni e i colpi di scena offerti al grande pubblico da de Chirico si sono susseguiti senza alcuna sosta, facendo di lui uno degli artisti italiani più influenti degli ultimi cento anni. Tra i primi moderni a sbarcare negli Stati Uniti negli anni Trenta, de Chirico seppe accendere un riflettore sull’arte italiana della prima parte del Novecento, assai trascurata a livello internazionale in quel momento storico. Con la Neometafisica, de Chirico ripropose una citazione permanente dei suoi temi e dei suoi oggetti improbabili e misteriosi. Il continuo rimescolamento degli elementi e l’entusiasmo nella creazione di sempre nuove associazioni sembra un’anticipazione del meccanismo citazionistico del postmodernismo. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Giorgio De Chirico apro il mio saggio dicendo : Il grande recupero culturale sviluppatosi in Italia nel 1945, immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha costituito un esempio per l’Europa e ha certamente conferito al paese un ruolo di guida in molti campi, dall’architettura, al design, al cinema, ma il fenomeno tipicamente italiano che più di tutti ha dato forza al recupero culturale italiano è stato il Futurismo, un movimento che nella varietà delle forme in cui si è presentato non avrebbe potuto sorgere in alcun’altra parte del mondo. Con la sua vitalità e il suo dinamismo, che ne sono le caratteristiche principali, una freschezza ben difficili da incontrare, ha influenzato tutta la cultura del suo tempo, dominando la scena culturale per molti anni. Eppure accanto al Futurismo si è sviluppato anche un altro movimento che apparentemente si fonda su una ideologia del tutto opposta e comunque contrastante quella della pittura metafisica. Poche mostre sono riuscite a mettere in evidenza esplicitamente questa doppia natura del pensiero estetico italiano degli inizi del Novecento. Nei primi dipinti di Giorgio De Chirico, a partire dal 1911, si riscontrava infatti con l’esuberante vitalità del primo Futurismo, più o meno coevo. Il filo nascosto tra l’Ulisse del 1922 al Ritorno di Ulisse del 1968, il ritorno al figurativo, che con la mano protesa verso l’orizzonte allude a un viaggio da intraprendere o forse appena concluso. L’eterno ritorno, il pensiero più abissale di Nietzsche, suggerisce e disvela all’artista metafisico un profondo segreto che Zarathustra accoglierà e tenderà in auto-trascendenza, in ebbrezza dionisiaca. Dal divenire eracliteo, infatti, l’artista coglie l’essere, dal χρ?νος, che divora se stesso e gli enti, l’uomo metafisico cattura l’α??ν, dall’oscurità -che sembra precedere ogni inizio e precipitare ogni fine- egli può scorgere il numen dell’eterno. Inizio e fine sono punti di un medesimo circolo, senza discontinuità, tanto che la periodizzazione della pittura di de Chirico da questo riceve una diversa prospettiva in una «strana rassomiglianza»che ha del perturbante ovvero di unheimlich in senso freudiano non si tratterebbe più di distinguere la prima pittura metafisica del 1910-1918 dalle copie dei maestri antichi o del passato del 1919-1924, le opere neobarocche eseguite dal 1938 ai primi anni Sessanta dalla pittura neometafisica del 1968-1978. Questa rassomiglianza straniante genera singolari accostamenti tra gli enti all’interno di un dipinto e tra più opere appartenenti a periodi differenti: è il senso dello spaesamento, ma anche del disvelamento che vuole cogliere il demone, il divino, l’occhio interiore insito in ogni cosa εποπτε?α, l’epopteia dionisiaca che spesso de Chirico rappresenta simbolicamente come geroglifico sulla fronte dei suoi manichini. L’Ulisse del preambolo esorta a passare alla prossima stanza, quella degli Esterni metafisici; i dipinti qui esposti non appartengono al primo periodo, tuttavia riecheggiano motivi e stilemi ricorrenti come archetipi: è possibile contemplare una piazza d’Italia, Souvenir d’Italie del 1924-1925, passando attraverso Le muse inquietanti fine anni Cinquanta sino all’Offerta al sole del 1968 e a rivisitazioni più tarde risalenti agli anni Settanta. Forse l’Offerta al sole genera il desiderio di ritrovare un’analogia, un correlativo rispetto all’apollineo e al dionisiaco, infatti quanto di essi è possibile scorgere nella pittura del grande Maestro, a dispetto delle letture di Nietzsche da parte dell’artista non possiamo fare a meno di sottolineare nella sua pittura una prevalenza dell’apollineo nella preferenza per le geometrie, per i contorni, per la prospettiva seppure nelle linee di rottura e di infrazione; tuttavia nell’Offerta al sole si riesce finalmente a scorgere la dualità sole-luna nel cromatismo di rosso, giallo e nero, ripreso dai fili bicolori di Arianna che legano gli astri ai correlativi terrestri. Altro tema ricorrente lungo il cerchio del tempo, che abbraccia senza discontinuità passato, presente e futuro, è quello del figliuol prodigo, parabola di erranza e di redenzione, che de Chirico ha raffigurato in tutto l’arco della sua carriera, dal 1919 al 1975 proprio una delle ultime versioni, quella del 1975. In questa tela il padre appare come una statua in pietra vivente, così come gli edifici in prospettiva che incorniciano la scena e che simboleggiano la tradizione, egli è colto nell’atto di abbracciare e accogliere il figlio, ritratto come uno dei caratteristici manichini animati simboli di modernità. Ai critici contemporanei, come Roberto Longhi, tali accostamenti dovevano generare un effetto straniante e irritante, eppure voluto dallo stesso pittore e, tuttavia, non allo stesso modo dei surrealisti, quindi secondo la cifra del sogno e dell’irrazionalità. Il senso dell’accostare enti apparentemente estranei quali statue ed edifici classici, manichini, attrezzi per il disegno, giochi e dolci è nel segno del disvelamento metafisico, nel tentativo di dipanare la trama del sogno e di conferire visione e prospettiva alla presenza degli enti nel tempo. La modernità non deve pretendere di essere originale, piuttosto è originaria, infatti non può fare a meno di cogliere e riprendere il passato e le forme della classicità, rimanendovi prospetticamente fedele. L’essere originali riprendono i temi già affrontati nel periodo ferrarese dell’artista, durante il primo conflitto mondiale, e ripresi nel periodo neometafisico. In Interno metafisico con officina e Interno metafisico con paesaggio romantico de Chirico colloca dipinti raffiguranti esterni all’interno delle tele e induce l’osservatore a dubitare delle proprie percezioni; in entrambe le opere si crede di veder rappresentata una finestra aperta, mentre la vera finestra che inquadra lateralmente un paesaggio urbano sembra un dipinto, secondo una suggestione concettuale simile alle litografie di Escher. Il tema del sole riappare anche negli Interni, esplorato alla luce dell’indistinguibilità tra esterno e interno; con Il sole sul cavalletto del 1973 sono raffigurati due soli e due lune collegati da cavi lungo i quali la corrente di energia è intermittente cosicché uno dei corpi celesti appare illuminato mentre l’altro è spento, il tutto all’interno di una scenografia che rende l’accostamento ancora più enigmatico e spiazzante. Se in questi interni con finestre e ritratti è possibile individuare riferimenti alla classicità con teste di Esculapio e di Mercurio in un continuum spazio-temporale, i rimandi alla medesima appaiono ancora più misteriosi ed emergenti nei titoli dei dipinti della parte successiva del percorso “Protagonisti metafisici”. Ettore e Andromaca, Oreste e Pilade, il trovatore, le maschere, quali figure solitarie o in coppia, appaiono con teste ellissoidali, prive di lineamenti ma con un simbolo centrale che allude alla visione interiore, contemplativa; una versione in interno del Figliuol prodigo, risalente al 1974, coglie tiepidamente l’abbraccio tra un manichino-padre, seduto in poltrona in abiti borghesi, e un figlio-statua di marmo con dettagli che intersecano passato e presente. Canzone meridionale e Gli archeologhi sono tele degli anni Trenta, qui i manichini delle origini si evolvono in sembianze più umane, quasi ad accennare una remota distinzione maschile - femminile nelle vesti e nella corporatura; seduti vicini o abbracciati come per darsi conforto lungo il viaggio, trasmettono più emozioni rispetto agli omologhi solitari e distaccati degli anni Dieci, presentano forme sproporzionate e il loro ventre è riempito di frammenti di paesaggio, di statue classiche, di colonne e libri, segno dei passaggi della storia e della civiltà. La riproposizione di temi già affrontati nel primo periodo spiega perché de Chirico non si sia mai realmente distaccato dalla visione metafisica, piuttosto la fedeltà ribadita nei confronti del classicismo e delle tecniche pittoriche dei maestri del passato gli consente di esplorare nuovi orizzonti rimanendo fedele a se stesso e alla propria unicità creativa. Non dobbiamo dimenticare le sue incursioni nella letteratura con due romanzi che trattano del viaggio dei suoi protagonisti, Hebdomeros (1929) e Signor Dudron (1945), così come più significativo nel testimoniare il suo «ritorno al mestiere», è nella teoria e nella prassi Il piccolo trattato di tecnica pittorica. Pubblicato nel 1928, è il primo libro di Giorgio de Chirico e insieme l’apice della sua riflessione sulla questione della tecnica, iniziata sulla rivista «Valori Plastici»con il saggio Il ritorno al mestiere del 1919. Il testo di de Chirico è una delle principali fonti per la storia delle tecniche artistiche nel Novecento, concepito come un ricettario in cui l’autore illustra con tono colloquiale i procedimenti esecutivi e i materiali che ha usato testimoniando il confronto incessante con la tradizione. È proprio nel confronto con la tradizione che possiamo percorrere le ultime stanze dedicate alla Natura metafisica e ai ritratti. De Chirico si era già confrontato col genere della natura morta
9 a partire dagli anni Dieci con I pesci sacri, esposto ora nella mostra genovese in una versione degli anni Trenta; qui si coglie ancora il genio dell’artista che vuole indurre l’osservatore al consueto effetto di depaysement: le due aringhe affumicate sembrano appese a una cornice oppure poggiare su un basamento secondo una tecnica già vista negli Interni. L’artista spiega nel saggio del 1919 Sull’arte metafisica che ogni cosa ha due aspetti, uno corrente che gli uomini innocenti vedono in generale, l’altro spettrale e metafisico che possono vedere solo rari individui in momenti di chiaroveggenza e astrazione;a questo aspetto se ne aggiungerebbero altri, tutti differenti dal primo ma in stretta relazione con il secondo. Sarebbe solo la catena dei ricordi ad indurci a collocare le percezioni secondo un ordine spaziale e logico rassicurante, se per ipotesi questo filo si spezzasse gli interni di una stanza ci apparirebbero decisamente meno rassicuranti e chissà con quali sentimenti di stupore e terrore accoglieremmo questa visione. Al proposito mi viene in mente un racconto di Borges dal titolo There are more things, contenuto nel Libro di sabbia; qui un visitatore si trova a confronto con gli interni di una casa che aveva imparato a conoscere in precedenza, ora abitata da un oscuro personaggio che vi aveva apportato incomprensibili e oscure modifiche. Il protagonista, morbosamente curioso di verificare l’accaduto, si introduce nella dimora e accende le luci: nessuna delle forme insensate da lui percepite in quella luce corrisponde a una forma umana o a un uso concepibile; atterrito, egli arriva alla conclusione che se vedessimo realmente l’universo lo capiremmo. Triangoli, squadre, archi, portici, torri sono i segni di questo nuovo alfabeto metafisico, il perturbante è rappresentato dal loro inserimento analogico nello spazio, probabilmente con richiami esoterici e simbolici a un inconscio più archetipico che personale. Ad animare queste visioni della natura sono suggestioni neobarocche che de Chirico esplora tra la fine degli anni Trenta e i Sessanta, influenzato dai paesaggi di Rubens e dai cavalli di Delacroix. Preziose sono le testimonianze offerte dalle tele degli anni Trenta: il tema classico e platonico della coppia di cavalli, uno bianco l’altro nero, è presente sia in un dipinto ad olio su tela del 1929 (Le cheval d’Agamnenon) sia in Cavalli in riva al mare (olio su tela, 1935 circa). Pur riconoscendone l’importanza, De Chirico non amava Platone, «generalissimo del pompierismo filosofico». Come Nietzsche de Chirico prediligeva Eraclito, che invocava il δα?μων; è inevitabile, tuttavia, ravvisare segrete corrispondenze tra la sua pittura metafisica, volta a rivelare l’essenza non manifestamente visibile degli oggetti, e il mito platonico della caverna, così come nel privilegiare la parousìa,la presenza dell’Idea nelle cose. È sempre attraverso Nietzsche che Giorgio de Chirico avverte la realtà quale sistema di segni: «accostandosi al mondo in una prospettiva psicologica e non logica, il filosofo svelò all’artista l’esistenza di un linguaggio nascosto del mondo, che offriva la possibilità di nuove costruzioni». Il tema dei cavalli e delle figure mitologiche, che ricordano il legame mai reciso con la Grecia e la Tessaglia dell’infanzia, torna in opere degli anni Sessanta, accentuato dalle sperimentazioni neobarocche dell’artista e con un più vigoroso tratto del pennello sulla tela sia ad olio sia nella tecnica dell’acquerello (Il carro del sole, 1970, ). La metafisica incontra la tradizione, sono l’esplorazione attraverso copie originali o in dettaglio, da Raffaello e da Perugino della ritrattistica dei secoli d’oro svolta già a partire dagli anni Venti da parte del Pictor Optimus sia per padroneggiare i segreti dell’arte pittorica del XV e del XVI secolo sia per reagire alle difficili condizioni del mercato dell’arte in seguito alla crisi del 1929. A partire da questa data egli iniziò a dipingere una serie di nudi femminili dalle tonalità pastello à la Renoir figure di bagnanti solitarie, di divinità addormentate nel bosco o distese di schiena che presentano familiarità nella ripresa della posa anche con il neoclassicismo de La grande odalisca di Ingres. Richiami e suggestioni a parte, de Chirico sembra sempre seguire un filo nascosto, quello lasciato e mai reciso da un’Arianna abbandonata nel sonno, figura centrale nelle piazze rappresentate dall’artista dagli anni Dieci sino alla fine; ecco il riflesso dell’Arianna di Nietzsche in Ecce homo e nei Ditirambi di Dioniso, ma possiamo estendere la ricostruzione iconografica di questo mito all’orizzonte culturale e figurativo dell’ambiente greco di fine Ottocento e di primo Novecento in cui ebbe luogo la formazione del giovane artista, il quale affrontò i primi studi accademici proprio ad Atene, in una capitale di sovrani mitteleuropei, e poi a Monaco di Baviera. L’Arianna dormiente viene colta in una sospensione temporale tra un tempo di nostalgia-passato e di attesa-futuro, nel quale le passioni dell’anima appaiono quietate dalla consapevolezza angosciosa dell’abbandono e dal presentimento vago di un futuro indefinito che solo la rappresentazione figurativa riesce a domare. Finché Arianna ama Teseo, finché ne è la madre, sorella o sposa ovvero lo specchio femminile dell’uomo, ella non ha modo di esprimersi se non accettando passivamente l’abbandono o reagendo con la potenza vendicatrice di unna Medea, mentre reazione e risentimento continuano ad animare le sue passioni tristi. Solo dopo l’abbandono di Teseo, Arianna può raccogliere in sé la potenza femminile sopita, dire dionisiacamente sì alla vita e al divenire, in modo benefico e affermativo: «il raggio di una stella splenda nel vostro amore! La vostra speranza dica: “Possa io partorire L’Oltreuomo”». De Chirico sembra cogliere con queste figure femminili proprio il momento della sospensione temporale prima della successiva trasfigurazione del femminile nel ‘Sì’. Concludono la serie dei ritratti due tele del 1947-1948, Autoritratto in costume del Seicento e Autoritratto con corazza, dove al gusto scenografico e neobarocco per i costumi teatrali che il Maestro noleggiava dall’Opera di Roma egli unisce la sovrapposizione della propria testa su quella del modello (Filippo IV) già raffigurato nell’opera di un grande maestro del Seicento come Velázquez, attraverso l’eterno ritorno del passato nel presente. Il fatto che Giorgio De Chirico e Carlo Carrà siano comparsi sulla scena dell’arte negli anni stessi, in cui si sviluppa il Futurismo, appare in sintonia con la natura misteriosa ed elusiva dei loro primi lavori. Essi rappresentano l’altro aspetto di ciò che significa essere giovani di fronte al mondo, fornendoci così una visione completa dell’arte di quel periodo. Se incerti possono apparire i legami tra Futurismo e Cubismo, è invece palese l’influenza della pittura di De Chirico su un altro movimento, quello surrealista, che avrebbe dominato la cultura europea per almeno due decenni, sottolineando, tra l’altro gli scambi sempre stretti tra Parigi e l’Italia. Tanto più che Filippo Tommaso Marinetti aveva pubblicato il manifesto di Fondazione del Futurismo proprio a Parigi e lo stesso De Chirico vivrà a lungo nella capitale francese come molti artisti italiani. Nel clima di generale ritorno all’ordine europeo Giorgio de Chirico si era posto come teorico di un peculiare “ritorno al mestiere”, sviluppando a partire dal 1919 una coerente riflessione teorica mediante una sistematica serie di scritti, culminanti nel Piccolo trattato di tecnica pittorica del 1928, manualetto appositamente redatto alla maniera degli “antichi”. Avendo già avuto modo di analizzare presupposti, dinamiche e risvolti di tale percorso (1919-1928) , con il presente contributo si intende focalizzare l’excursus compiuto dall’artista successivamente alla pubblicazione del Piccolo trattato, fino all’inizio del secondo dopoguerra (1930-1945). Un periodo che vede de Chirico alle prese con nuovi mutamenti stilistici e iconografici, perseverando però in una complessa ricerca teorico-pratica intorno alla materia pittorica, alla tecnica, al “mestiere” e alla “tradizione”. Vedremo anche come tale passione abbia influenzato diversi artisti, grazie all’attività pubblicistica da lui condotta su alcune riviste italiane ma soprattutto tramite la lettura del suo Trattato sulle tecniche pittoriche. Un interesse che risulta talora condiviso attraverso lo scambio di idee e precetti, spesso veicolato dai contatti epistolari. Alla fine degli anni Venti, in un clima di crisi internazionale segnato dal crollo della Borsa negli Stati Uniti, Giorgio de Chirico cambiava nuovamente stile e tornava nelle “sale del museo”, stavolta quello impressionista, movimento da lui tanto disprezzato in passato. Dal 1925 l’artista era tornato a risiedere a Parigi, dopo la lunga parentesi italiana caratterizzata dall’adesione al Ritorno all’ordine. Questo secondo periodo parigino lo aveva visto produrre opere con nuove iconografie dal carattere paradossalmente metafisico, se pensiamo che nel 1926 aveva rotto i propri rapporti con il gruppo surrealista anche a causa del “ritorno al mestiere” di cui si era fatto teorico negli anni precedenti. Sul finire del decennio l’artista attua l’ennesimo mutamento stilistico. Le nuove opere parigine, improntate al naturalismo di Renoir, sia nudi che nature morte, furono presentate per la prima volta nella personale tenuta a Milano nel 1931 alla Galleria Milano. Insofferente del clima parigino, caratterizzato da una forte crisi del mercato dell’arte, all’inizio degli anni Trenta il pittore ricominciava infatti a frequentare l’Italia, pur mantenendo la residenza ancora a Parigi. Nei quadri dechirichiani intorno al 1930, contestualmente all’iconografia e allo stile, mutava anche la resa pittorica: l’olio, caratterizzante tutti i dipinti del secondo periodo parigino, si faceva ora più pastoso sulla tela, per avvicinarsi alla tecnica di Renoir, soprattutto quello delle Grandi bagnanti. Nelle nature morte di questi anni, che più tardi ribattezzerà Vite silenti , la tavolozza si schiarisce al pari dei grandi nudi alla Renoir. Il colore costruisce ariose composizioni attraverso radi tocchi che identificano i frutti; il ductus della pennellata diventa rapido e vibrante, negando la solidità degli oggetti per esaltarne la leggerezza. Sono caratteristiche che si evidenziano, per esempio, nel dipinto Bagnante coricata realizzato da de Chirico nel 1932, da lei stessa donato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel 1989 e che probabilmente la raffigura. Bisogna osservare come le tecniche esecutive dei dipinti di questi anni trovino rispondenza nella terza parte del Piccolo trattato di tecnica pittorica, quella dedicata alla pittura a olio. I precetti di questa sezione, piuttosto che riflettere i procedimenti esecutivi del suo primo periodo metafisico, dove pure adoperava la tecnica a olio, si legano alla pittura di quest’ultimo periodo parigino, caratterizzata dal ritorno all’uso del legante oleoso, dopo aver praticato per alcuni anni esclusivamente la pittura a tempera. La tecnica più rapida che impiega adesso, per alcuni aspetti vicina a quella “impressionista”, trova il proprio referente in quegli ultimi passi del Trattato, in particolare dove suggerisce l’uso dell’olio di papavero, sgrassato con essenza di trementina, per asciugare più velocemente. È noto che gli impressionisti preferivano l’olio di papavero al più comune olio di lino, per soddisfare la loro esigenza di chiarezza e luminosità, connessa alla pittura “en plein air”. Inoltre, la ricerca di un effetto opaco, al posto della brillantezza tipica della pittura verniciata di stampo accademico, li faceva optare per una pittura magra, ottenuta mediante l’uso di diluenti volatili nel legante oleoso, come per esempio l’essenza di trementina metodo appunto suggerito da de Chirico, oltreché applicando sul supporto delle preparazioni piuttosto assorbenti.

I paragrafi conclusivi del testo dechirichiano riguardanti, tra le varie cose, l’uso del bianco, la velatura, la “sfregatura”, trovano dunque applicazione pratica nei quadri “alla Renoir”. Va anche evidenziato come, piuttosto che a un generico Impressionismo, il richiamo stilistico di de Chirico vada alla produzione del Renoir degli anni Ottanta e Novanta, ovvero quella successiva al viaggio in Italia dell’artista. Durante quel viaggio Renoir ebbe modo di riflettere sulla pittura “classica” e interiorizzarne la lezione, come mostrano le Grandi bagnanti realizzate in quegli anni. Le consonanze col Renoir di quel periodo sono probabilmente motivate anche dalla comune riflessione sulla tecnica, se si considera che il pittore francese aveva letto proprio nel 1883 il Libro dell’arte di Cennino Cennini, di cui scrisse poi la prefazione alla seconda edizione francese del 1911. La prefazione al libro di Cennini è riconoscibile come uno dei primi testi novecenteschi in cui si sottolinea l’importanza del “mestiere”, facendo di Renoir in età matura un paladino della tradizione e un precursore del Ritorno all’ordine. Nel testo di Renoir, che peraltro era nato artigiano, la pratica di bottega acquisisce un’aura di spiritualità, portando con rigore e disciplina gli allievi a una conoscenza profonda del “mestiere”, per imparare a fabbricare da sé i pennelli, i colori e a preparare i supporti con una sapiente stratificazione di gesso e colla. Renoir critica la modernità, che con l’industrializzazione ha comportato anche la standardizzazione dei materiali artistici, per esempio con la fabbricazione dei colori in tubetti, di cui peraltro proprio gli impressionisti erano stati i primi grandi consumatori. Le stesse critiche rivolte ai contemporanei per la decadenza del mestiere le ritroviamo, in maniera singolare, nei testi dechirichiani a partire dal 1919, fino al Piccolo trattato di tecnica pittorica e oltre. Giorgio de Chirico continuerà infatti a insistere per tutta la vita sulla decadenza del mestiere e della tecnica negli artisti moderni, criticando con sarcasmo buona parte della produzione coeva e guadagnandosi, com’è noto, l’ostilità di molti critici e artisti. Bisogna infine ricordare che de Chirico aveva dedicato uno scritto a Renoir già nel 1920 dove, tra le altre cose, ne celebrava la maestria tecnica. L’esigenza di una pittura dalla tecnica più “compendiaria”, chiara e luminosa, caratterizzata da soggetti che richiamano vagamente la tradizione impressionista, oppure dal tema classico della natura morta, probabilmente trova spiegazione anche nella crisi di mercato e quindi nella maggiore vendibilità delle opere. Tali motivi spinsero de Chirico a tornare a frequentare il panorama artistico italiano. Dopo le mostre milanesi, un’occasione molto importante è costituita dalla XVIII Biennale di Venezia, che si teneva da aprile a novembre del 1932, dove la sua presenza è calata all’interno del gruppo degli Italiens de Paris. In aprile si reca anche a Firenze dove l’amico antiquario Luigi Bellini lo invita a svolgere una personale presso lo spazio espositivo per l’arte contemporanea che aveva aperto nella prestigiosa sede di Palazzo Ferroni, al lungarno Soderini, diretto dal poeta Roberto Papi. Bellini costituirà d’ora in poi una figura di riferimento nella sua vita, ospitandolo a Firenze dal momento in cui decide di tornare a lavorare in Italia. Dopo aver trascorso alcuni mesi a Milano, de Chirico e Isabella si trasferiscono presso i Bellini tra la fine del 1932 e l’inizio del 1933; qui, pur non disponendo di uno studio, continua a dedicarsi assiduamente alla pittura. Nel frattempo si sposta per partecipare a mostre in altre città italiane, tra cui è importante quella tenuta alla Galleria Il Faro di Torino, dal 18 febbraio al 2 marzo del 1933, poiché in tale occasione conosce Romano Gazzera, che all’epoca praticava la pittura per diletto, deciderà alcuni anni dopo di lasciare la sua professione per dedicarsi all’arte in modo esclusivo grazie anche all’incoraggiamento di de Chirico, prestando molta attenzione alla questione della tecnica. L’argomento sarà infatti al centro del loro rapporto, intessuto di consigli riguardo ai procedimenti esecutivi e alle ricette per la realizzazione dei leganti pittorici o della preparazione per la tela, soprattutto attraverso il mezzo epistolare. Si tratta di interessanti testimonianze sulla ricerca di de Chirico intorno al “mestiere” e delle sue evoluzioni dopo il Piccolo trattato di tecnica pittorica. L’evento artistico principale che lo vede coinvolto sulla scena italiana nel 1933 è però indubbiamente la V Triennale di Milano, che ha come sottotitolo: Esposizione internazionale delle arti decorative e industriali moderne e dell’architettura moderna. La mostra, che apre il 10 maggio 1933 nel nuovo Palazzo dell’Arte, appositamente costruito su progetto di Giovanni Muzio nel parco di Milano, ha il suo fulcro nella nuova proposta di congiunzione tra decorazione e architettura moderna, concretizzata nell’esperimento della pittura murale. A sostenere l’iniziativa era stato Mario Sironi, componente del direttorio della manifestazione assieme a Gio Ponti e Carlo Alberto Felice. Una trentina di artisti furono perciò invitati a realizzare dipinti murali provvisori su temi allegorici che si inserivano nell’ampia prospettiva della retorica fascista: la V Triennale vedeva infatti la totale adesione di Mussolini. Gli artisti venivano, dunque, chiamati ad affrontare un impegno collettivo e sociale intorno a cui si sarebbe acceso il momento forse più vivace del dibattito sulla rinascita della pittura murale in Italia e sulle sue tecniche. Giorgio de Chirico fu invitato a realizzare un grande dipinto murale nel Salone delle Cerimonie, insieme a Campigli, Funi, Severini e lo stesso Sironi. L’opera, intitolata Cultura italiana , dipinta su quindici metri quadrati di superficie nel fondo del salone, di fronte alla solenne parete sironiana, è documentata dalle riproduzioni apparse sulle riviste dell’epoca. Essa appare come un grande palcoscenico che ospita un montaggio di elementi iconografici tipici della sua produzione più recente: il cavallostatua, frammenti di templi greci, un calco di testa ellenistica, il pittore al cavalletto. Sullo sfondo vi sono i simboli delle città di Firenze, Bologna e Roma, mentre la scena si popola di poeti, letterati, pittori, scultori e musici, che nei dettagli rimandano ai costumi che stava allora preparando per I Puritani di Vincenzo Bellini, su commissione del Maggio Musicale Fiorentino. Il pittore ricorda così l’impresa: In quel tempo eseguii, pure a Milano, al Palazzo della Triennale, una grande pittura murale; la eseguii in pochissimo tempo ed in circostanze oltremodo difficili; la eseguii con la tecnica della tempera all’uovo e quella pittura mi costò, solo di uova, la somma di centocinquanta lire. Quella mia pittura suscitò grandi livori; non fu riprodotta sui giornali e nemmeno sulle cartoline illustrate . Dopo la chiusura dell’esposizione furono distrutte tutte le pitture di quella sala, probabilmente perché non ardirono, ché sarebbe stato troppo scandaloso, distruggere solo la mia. In realtà tutte le opere furono distrutte perché già previste come effimere. In ogni caso, la prima grande prova di Sironi si risolse dal punto di vista pratico in un insuccesso, poiché tutte le opere presentarono presto delle alterazioni. Tra i limiti c’erano stati la ristrettezza dei tempi di esecuzione e la mancanza di una preparazione specifica sulla pittura murale da parte degli artisti, compreso de Chirico. Così la tecnica del “buon fresco” era stata rimpiazzata da procedimenti più veloci, quale ad esempio la pittura al silicato usata persino da Sironi e da Carrà. Il primo a denunciare queste condizioni dei dipinti fu Gabriele Mucchi, uno dei pittori coinvolti nell’iniziativa, in un intervento su «Quadrante» del mese di ottobre, sottolineando anche come nessuna delle pitture fosse veramente definibile “affresco”. Il cantiere sperimentale della V Triennale vide inoltre operare i fratelli de Chirico a stretto contatto: Alberto Savinio fu infatti incaricato di realizzare un dipinto murale dal titolo Africa italiana, nella Sala della Mostra degli ambienti moderni, di cui non si conosce però l’iconografia, non essendo mai stato riprodotto sulle riviste dell’epoca. Possiamo facilmente supporre che l’opera saviniana fosse eseguita a tempera, così come quella del fratello, anche perché Savinio si era volto all’uso di questa tecnica nella pittura su tela all’incirca dopo il 1930. Le opere presentate nelle mostre personali da lui tenute in Italia tra il dicembre 1932 e il marzo 1933 sono tutte realizzate a tempera, come tiene a segnalare il critico de «Il Popolo d’Italia» in una delle recensioni apparse in tale periodo. Si tratta probabilmente di una tempera grassa, che risente dell’influenza delle elaborazioni teoriche del fratello, che l’aveva consacrata nel Piccolo trattato di tecnica pittorica del 1928. In questo senso può risultare interessante il dipinto del 1932 intitolato Creta, conservato presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, nella cui relazione di restauro la tecnica è descritta come olio e tempera su tela. Anche Corrado Cagli aveva optato per la tempera nella realizzazione del dipinto murale assegnatogli presso la V Triennale di Milano, intitolato Preparativi alla guerra, molto probabilmente aiutato nell’esecuzione dal giovane Afro. L’utilizzo della tempera all’uovo, non senza influenze da parte di de Chirico e Savinio, è peraltro testimoniato da Gabriele Mucchi. D’altronde, nelle sue imprese murali precedenti l’artista si era cimentato quasi sempre con la tecnica a tempera, mentre quella dell’affresco propugnata da Sironi risultava carica di significati e valori che Cagli non condivideva, come si evince dall’aperta polemica costruita nel suo articolo Muri ai pittori. Con questo testo, pubblicato nel maggio 1933, Cagli dava avvio all’infuocato dibattito sulla rinascita della pittura murale. L’altro momento nodale di questo dibattito sarà la pubblicazione del Manifesto della pittura murale, firmato da Sironi, Campigli, Carrà e Funi, su «La Colonna» del dicembre 1933, che sancisce il progetto sironiano di sintesi delle arti, modellato sugli esempi antichi e lanciato con la V Triennale. Nell’ambito del muralismo degli anni Trenta il caso del giovane Afro è a sua volta interessante ai fini della nostra riflessione. Dai restauri effettuati sulle sue opere murali realizzate a Udine, sua città di origine, dalla Soprintendenza del Friuli Venezia Giulia, si registra una predilezione per l’impiego della tempera grassa, comprensibile solo se inserita nel dibattito tecnico-formale di quegli anni e alla luce del sodalizio con Corrado Cagli. Per quel che sappiamo, Afro non usò mai la tecnica dell’affresco e ciò avvenne probabilmente per l’influenza di Cagli, che lo portò ad avvicinarsi alla sua poetica del primordio, lontano dall’uso ideologico dell’affresco che fu proprio degli artisti di Novecento, in testa a tutti Sironi. D’altronde, già la critica contemporanea sembrava aver notato la predilezione di Afro per la tempera grassa, come si evince da una recensione di Luigi Aversano alla sua mostra personale del 1937 presso la Galleria La Cometa di Roma. Sulla scorta di tali considerazioni, sembra quindi possibile accogliere la tesi di Teresa Perusini, secondo la quale l’artista friulano in quegli anni avrebbe utilizzato la tempera grassa tanto nella pittura da cavalletto che in quella murale, ipotizzando una derivazione dei suoi metodi esecutivi dalla lettura del Piccolo trattato di tecnica pittorica di Giorgio de Chirico. In ogni caso, la questione della tecnica acquisì un’importanza fondamentale per la rinascita della pittura murale negli anni Trenta, come dimostra anche la polemica che si sviluppò riguardo al cattivo stato delle opere della V Triennale. La scelta della tecnica da utilizzare era cruciale quanto il problema del rapporto arte-architettura e quello del contenuto da esprimere. Tali questioni si radicano nel più vasto fenomeno del Ritorno all’ordine, che si era originato nel decennio precedente. Una sorta di ponte ideale sembra infatti collegare la riflessione sul “mestiere” dei primi anni Venti, promossa in prima istanza da de Chirico al tempo di «Valori Plastici», con le ricerche dei primi anni Trenta. Ora però quella cultura, densa di principi costruttivi e di richiami alla tradizione, acquisisce sfumature ideologiche, finalizzando il recupero delle antiche tecniche che avevano fatto la storia della “grande arte italiana”, alla realizzazione di un più generico “italianismo artistico”. In questo contesto, legato alla riflessione sulla funzione sociale dell’arte e all’ideologia nazionalista, in cui si colloca innanzitutto la riscoperta sironiana dell’affresco, si inquadrano anche le ricerche di Severini sul mosaico e quelle di Ferrazzi sull’encausto, queste ultime con minori implicazioni retoriche. In particolare la tecnica dell’encausto aveva assunto una certa importanza dopo le scoperte fatte con la ripresa degli scavi a Ercolano e Pompei e la pubblicazione del saggio di Amedeo Maiuri sulla Villa dei Misteri nel 1931. La bellezza di queste pitture e le condizioni conservative quasi perfette impressionarono molti artisti, spingendoli a sbizzarrirsi in una serie di tentativi, più o meno scientificamente corretti, di ritrovare la tecnica originale, alcuni con l’illusione che si trattasse della leggendaria tecnica dell’encausto. Tra gli artisti suggestionati dai dipinti pompeiani troviamo anche Alberto Savinio. Nei suoi articoli sulla terza pagina de «La Stampa» tra il 1933 e il 1934 egli affronta il problema della tecnica pittorica in termini ideologici, contrapponendo la pittura a tempera, ritenuta tecnica italiana per eccellenza, alla pittura a olio, riconosciuta come tecnica di origine settentrionale. Trattata per la prima volta nel 1933, la questione viene ripresa da Savinio in modo più deciso e con ampiezza di argomentazioni l’anno successivo nel testo Tempera e affresco. Per rivendicare l’italianità della tempera Savinio fa appello a un intervento precedente sullo stesso giornale del restauratore Michele Pozzi, che definiva la tecnica di esecuzione dei dipinti murali di Pompei come una “tempera” a base di cera, e non come affresco. L’interpretazione saviniana della pittura pompeiana come tempera a cera, dunque definibile anche come “tempera encaustica”, richiama la ricetta per l’encausto proposta da de Chirico nel suo Piccolo trattato di tecnica pittorica, che non a caso si intitolava Tempera a cera o incausto [sic] a freddo. Inoltre, la sua lode alla tempera quale simbolo della “italianità artistica” in funzione antitetica rispetto alla pittura a olio, “nemica” di ascendenze nordiche, sembra ricondursi alle teorie proposte nel decennio precedente da de Chirico, che nel testo La mania del Seicento opponeva polemicamente la tempera grassa, da lui riconosciuta come la tecnica per eccellenza del Rinascimento italiano, all’olio “fangoso” dei pittori fiamminghi del Seicento. La diffusione delle idee dechirichiane sul “mestiere” e la conoscenza dei suoi precetti tecnici, attraverso la lettura dei suoi saggi e soprattutto del Piccolo trattato di tecnica pittorica, è d’altronde più estesa di quanto non si pensi. Tra gli artisti che a cavallo degli anni Venti e Trenta si appassionarono alla sperimentazione con la materia pittorica per merito della sua influenza troviamo per esempio Gianfilippo Usellini, uno dei più giovani partecipanti al cantiere decorativo della V Triennale. Esponente dell’ambiente artistico milanese di Novecento, usa la tempera grassa su tavola per realizzare le proprie opere sin dall’esordio, che avviene nella seconda metà degli anni Venti, mentre negli anni Trenta comincia a dedicarsi anche alla pittura murale, sperimentando peraltro con l’antica tecnica dell’encausto. La poetica di Usellini si presenta come un classicismo venato di meraviglia, una metafisica insieme quotidiana e visionaria, che si alimenta dell’amore per i maestri del passato, in particolare del Quattrocento: una passione che lo accomuna a de Chirico . Da questi, molto importante nella sua formazione, deriva l’idea di una pittura come rivelazione, ma soprattutto ne condivide l’idea del “mestiere” e l’interesse per la tecnica pittorica degli antichi maestri. Sassu, che lo conobbe ed ebbe modo di frequentarlo negli anni Trenta, ricorda come discutessero a lungo di questioni e soluzioni tecniche e di come il volumetto di de Chirico fosse da entrambi non solo consultato, ma anche integrato e arricchito. Come de Chirico, Usellini amava l’impiego delle velature in pittura, testimoniato dai restauri su alcune sue opere, ma soprattutto dall’artista Vincenzo Ferrari, suo assistente dal 1959 fino alla scomparsa. Lo stesso Ferrari ci riferisce infine dello scambio epistolare tra i due artisti, che certamente ha corroborato la passione di Usellini per la sperimentazione. Dal canto suo, de Chirico era invece tornato alla tecnica a olio dal 1925, come già ricordato, dopo aver utilizzato la “tempera grassa” tra il 1920 e il 1924, sostenendola con una coerente e articolata attività teorica. La pittura murale, in cui si era cimentato per la V Triennale, è un momento isolato nella sua carriera artistica, né compare nei suoi scritti, compreso il Piccolo trattato, alcun accenno sulle tecniche e i materiali da utilizzare, a parte la citata testimonianza delle Memorie relativa al cantiere milanese. Il pittore prosegue le proprie ricerche in nuove direzioni, continuando a usare l’olio e sperimentando tra gli anni Trenta e Quaranta un medium sempre più grasso, fino ad arrivare al cosiddetto “olio emplastico”, di cui si dirà più avanti. I nuovi sviluppi della sua ricerca avranno luogo a Parigi, dove de Chirico decide di tornare a vivere alla fine del 1933, in seguito alle esperienze deludenti avute in Italia. Nella capitale francese la situazione era tuttavia peggiorata rispetto al tempo in cui l’aveva lasciata, poiché i suoi mercanti avevano cessato ogni attività; nonostante ciò riprendeva con entusiasmo le proprie ricerche, come testimonia nelle Memorie. Jean Maroger, pittore, restauratore e consigliere tecnico del Louvre, aveva studiato a lungo la tecnica dei fratelli Van Eyck, cercando di carpirne il segreto che consisteva nell’aver saputo riunire, secondo lui, la rapidità di essiccamento e la trasparenza della tempera a colla con la resistenza e l’elasticità dell’olio. I primi risultati delle proprie ricerche li comunicò all’Accademia delle Scienze nel 1931, e poi una seconda volta nel 1933. Riuscì così a mettere in commercio il famoso medium che avrebbe dovuto avere le stesse caratteristiche di quello inventato dai Van Eyck nel Quattrocento. In seguitò pubblicò anche un noto manuale di tecniche pittoriche, dove illustrava le tecniche dei grandi maestri del passato. Le ricerche di Maroger sono conosciute anche da Gino Severini, altro grande maestro del Ritorno all’ordine italiano, che si rivela interessato quanto de Chirico a perfezionare la propria materia pittorica con l’utilizzo della vernice messa a punto in quegli anni dal restauratore francese. Secondo quanto riporta Severini nel suo libro, questo medium di Maroger sarebbe un’emulsione composta da una soluzione acquosa di colla animale o vegetale con olio di lino cotto – a circa 200 ºC e con un siccativo a base di manganese mescolato a caldo a resina Mastice (ovvero una vernice grassa). Il nuovo soggiorno parigino vede inoltre de Chirico alle prese con l’ennesimo mutamento iconografico. Nel 1934 appare infatti il primo nucleo dei Bagni misteriosi, soggetto tra i più enigmatici della sua produzione, nelle dieci litografie della cartella Mythologie, tirata in centoventi esemplari, con testi di Jean Cocteau. Il tema compare successivamente in un gruppo di sette dipinti tra quelli inviati alla II Quadriennale romana alla fine del 1934, dove a de Chirico è dedicata una sala personale, da lui stesso presentata in catalogo. Tale interesse ritorna infatti nella corrispondenza con Nino Bertoletti, pittore che aveva conosciuto ai tempi in cui frequentava il Caffè Aragno di Roma, punto di incontro degli artisti gravitanti intorno a «Valori Plastici». A poche settimane dall’inaugurazione della Quadriennale romana, de Chirico, non potendo muoversi da Parigi, gli scrive chiedendogli di occuparsi dell’allestimento della sua sala e della manutenzione dei quadri. La prassi per realizzare le velature con olio di papavero ed essenza di trementina in parti uguali è indicata nell’ultima sezione del Piccolo trattato di tecnica pittorica, dedicata alla pittura a olio, dove è consigliato anche l’uso del vaporizzatore. La Vernis à retoucher Vibert è invece menzionata nella prima parte del trattato, dedicata agli strumenti pittorici, dove è consigliata come vernice provvisoria in caso non si possa aspettare il tempo necessario per dare quella di finitura. Tra i dipinti presentati alla Quadriennale, peraltro ancora una volta oggetto di critiche, vi era l’Autoritratto nello studio di Parigi, che meglio di ogni altro simbolizza la centralità del “mestiere” dichiarata nell’autopresentazione, ponendosi quale manifesto del nuovo corso della sua pittura. Lo studio è il luogo del lavoro solitario, microcosmo delle scoperte e delle invenzioni, dove de Chirico si rappresenta in piedi intento a dipingere un nudo femminile. La testa classica che si scorge a terra, probabilmente di Apollo, richiama infine i suoi testi programmatici del tempo di «Valori Plastici», in cui prescriveva agli artisti di copiare dai calchi in gesso per “tornare al mestiere”. In questa prima metà degli anni Trenta il suo incessante lavoro di ricerca affiora in modo significativo nel carteggio, peraltro ancora in gran parte da esplorare, dove l’artista si mostra interessato, oltre che al legante pittorico, in particolare ai metodi di esecuzione degli strati preparatori della tela. A questo aspetto aveva dedicato un paragrafo nella prima sezione del Piccolo trattato di tecnica pittorica dove, fatta una distinzione tipologica fra preparazioni assorbenti, semi-assorbenti e non assorbenti, precisava la sua predilezione per una preparazione assorbente realizzata secondo il metodo tradizionale a gesso e colla. Momento caratterizzante era poi la realizzazione di una particolare emulsione da applicare sulla superficie dell’ultimo strato, una volta asciutto, per facilitare lo scorrimento del pennello sulla superficie così assorbente. Quanto enunciato dall’artista nel suo Trattato non ha tuttavia valore definitivo, essendo egli animato dal continuo bisogno di sperimentazione. Negli anni propone dunque diverse varianti delle proprie ricette per gli strati preparatori, così come per i leganti pittorici, soprattutto nelle lettere indirizzate ad amici e colleghi. In una missiva inviata a Carlo Carrà il 27 maggio del 1931 da Parigi, dopo averlo ringraziato per la lodevole recensione su «L’Ambrosiano», gli suggerisce un legante per la preparazione composto da svariati ingredienti dosati come in cucina a mo’ di “cucchiaini da minestra” o “da caffè”: Bianco di Zinco, Bianco di Spagna, Carbonato di Calcio, olio di lino, vernice Damar o Mastice, latte, colla gelatina, glicerina e miele. Nell’estate del 1936, insofferente del clima parigino come lo era stato di quello italiano, de Chirico decide infatti di spostarsi nuovamente, scegliendo una destinazione ancora più lontana: New York. Il periodo americano sarà caratterizzato dall’acquisto di numerose opere da parte di importanti musei e di collezionisti privati, tra cui il miliardario Albert C. Barnes, ma anche da un’intensa collaborazione alle prestigiose riviste di moda «Vogue» e «Harper’s Bazaar». De Chirico e Isabella torneranno in Italia nel gennaio 1938, trovandovi però una situazione ancora una volta poco favorevole. Decisi ad agire energicamente per riguadagnare terreno, si recano a Milano, dove si terrà infatti la prima mostra a marzo presso la nuova galleria di Vittorio Barbaroux. In quel periodo il gallerista curava peraltro un significativo Referendum, promosso dal quotidiano milanese «L’Ambrosiano», sull’arte contemporanea e sul rapporto tra avanguardie e tradizione, da cui scaturirono interessanti risposte. Dal febbraio all’agosto 1938 parteciparono al referendum Carrà, Casorati, de Chirico, Arturo Martini, Severini, Funi e altri artisti del Ritorno all’ordine. Questa generazione si era infatti trovata schiacciata tra la rimozione del passato operata dalle avanguardie storiche e la necessità di riannodare i fili di un rapporto con una tradizione non più percepita come un patrimonio comune. Negli anni Trenta, quando la stagione più vivace del Ritorno all’ordine si era ormai esaurita, la questione si incrociava oltretutto con le esigenze retoriche della cultura di regime. Tra le risposte al Referendum pubblicate per prime c’è quella di de Chirico, che riguardo al problema della tradizione afferma: La tradizione significa per me temperamento pittorico unito a mestiere, a chiaroveggenza, ad alto senso poetico e morale della vita e del mondo e a ferma volontà di rendere sempre migliore, evitando ogni scappatoia, la qualità della propria pittura. Gli fa eco Achille Funi, altro paladino del recupero delle tecniche della grande tradizione italiana, la cui risposta costituisce l’ultima puntata del Referendum e interpreta la tradizione come “una trasmissione di mestiere e di una conoscenza comune delle forme. Sotto un altro aspetto, la tradizione non è che la civiltà di un popolo. Tra Giotto e Masaccio c’è distanza di tempo, ma non di spirito”. In questo periodo de Chirico accarezza inoltre l’idea di insegnare il proprio “mestiere” nelle istituzioni pubbliche. Quello della trasmissibilità del sapere è per lui un aspetto importante, come si può osservare dall’analisi del suo secondo romanzo, Il Signor Dudron, testo dalla complessa gestazione e di cui si dirà meglio più avanti. Egli aveva individuato in Italia alcuni giovani pittori che apprezzava perché dediti a una pittura naturalistica e alla ricerca del perfezionamento della tecnica, in particolare Gazzera. Sarebbe perciò stato contento di avere un posto di insegnante presso l’Accademia di Roma o di Milano, dove seguire un gruppo di allievi, “per farli beneficiare delle scoperte tecniche e anche di quelle filosofiche riguardanti la pittura”. Mentre la sua attività espositiva procede intensamente, con frenetici spostamenti sia in Italia che all’estero, la situazione in Italia evolve di nuovo negativamente, nel settembre 1938, con l’emissione dei cosiddetti “decreti per la difesa della razza”. In preda all’inquietudine, essendo Isabella Pakszwer di origine ebrea, i due lasciano nuovamente Milano per Parigi. Qui de Chirico riprende infaticabile le consuete ricerche tecniche, nell’ambito delle quali vivrà un’esperienza definibile come una “terza rivelazione”. Dopo la prima avuta in piazza Santa Croce a Firenze nel 1910, la seconda era avvenuta all’inizio degli anni Venti nel Museo di Villa Borghese e lo aveva portato a riconciliarsi con la pittura del Rinascimento, nonché alla sperimentazione della tempera grassa. La terza, che ha luogo al Louvre e origina nuove importanti ricerche, è così ricordata nelle Memorie. L’episodio dovrebbe collocarsi all’incirca nell’autunno del 1938. De Chirico torna dunque a sperimentare delle emulsioni oleo-proteiche, come aveva fatto ai tempi della “tempera grassa”. Si tratta di un legante maggiormente grasso, con l’aggiunta di una resina, ma soprattutto non più finalizzato a recuperare la materia “chiara e luminosa” del Rinascimento, bensì a imitare gli effetti della pittura di epoca barocca, in particolare di Velázquez e dei fiamminghi, tra cui soprattutto Rubens. De Chirico, in eterna contraddizione, insegue ora il segreto di quella materia pittorica che aveva avversato nei primi anni Venti definendola “fangosa”. Le nuove ricerche, volte alla realizzazione di questa “miracolosa” emulsione, saranno gestite in parallelo con il torinese Romano Gazzera mediante un fitto scambio di consigli e ricette svolto attraverso il mezzo epistolare. Con le emulsioni de Chirico realizzerà quadri che anche sul piano iconografico e stilistico risentono dei modelli seicenteschi. Già nelle mostre del 1938, a Milano, Londra e Venezia, le forme appaiono opulente e la pennellata densa e scattante, lasciando presagire i nuovi sviluppi, come si può osservare, ad esempio, nel piccolo quadro dal titolo Cavaliere con berretto rosso e mantello azzurro, oggi presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. La prima occasione ufficiale in cui può mostrare i nuovi frutti del suo lavoro è la III Quadriennale d’Arte Nazionale, che si svolge a Roma da febbraio a luglio del 1939. De Chirico non ottiene però il risultato auspicato, figurando solo con tre dipinti, peraltro quasi ignorati, in un contesto che privilegia Pirandello, Salietti, Broglio e, soprattutto, Morandi. Dopo l’estate 1939 l’atmosfera internazionale continua a peggiorare e in molti cominciano a lasciare la capitale francese. Così, verso la fine dell’anno i de Chirico, ricaricate le valigie sulla fedele Balilla, riprendono la via dell’Italia con destinazione Milano. Tra il 1940 e il 1942 vivono tra Milano e Firenze, dove nei periodi estivi sono ospiti dell’antiquario Bellini. Ormai definitivamente avviato verso quella pittura “romantica e barocca” che segnerà la sua produzione fino agli anni Cinquanta, l’artista si dedica soprattutto al perfezionamento della pittura ad emulsione, uno strumento che gli consente libertà di esecuzione, di modellare, di sfumare e di dare al quadro ariosità e preziosità di materia. E non si stanca di fornire dettagli riguardo alle sue sperimentazioni a Romano Gazzera, a cui per esempio scrive da Milano nel 1940. La riscoperta della “bella materia”, il cui segreto sembrava essere stato smarrito dagli artisti moderni dalla seconda metà dell’Ottocento, aveva spinto de Chirico alla ricerca sull’emulsione. Nel luglio 1942 arriva persino a pubblicare una Preghiera del mattino del vero pittore, dove la polemica contro il mondo artistico italiano contemporaneo assume toni di graffiante sarcasmo. Gli scritti di questo periodo, per la maggior parte pubblicati su «L’Illustrazione Italiana», confluiranno nel 1945 nel volume Commedia dell’arte moderna, accanto a una silloge di testi più antichi.

Un fatto di rilievo è che il volume riporti anche la moglie come autrice, alla quale in sostanza de Chirico attribuisce la sua più recente riflessione teorica. Seppure l’orientamento decisamente tradizionalista del pittore a partire dai primi anni Trenta vada anche riportato all’influenza di Isabella, siamo tuttavia di fronte a una sottile beffa dell’artista, che trasforma la moglie nel suo doppio, adoperando una finzione letteraria che ricorrerà ancora in futuro. Nell’autunno 1942 il pittore ritorna finalmente sulla scena internazionale con la Biennale di Venezia, dalla quale mancava da ben dieci anni, dove ha un’ampia sala personale in cui può dispiegare la sua nuova pittura “barocca”. Ancora una volta le sue opere non sono apprezzate dai critici, che le ritengono discutibili e appesantite dalla ripresa di elementi cinquecenteschi e seicenteschi, ad eccezione di Libero de Libero. Gli oli emulsionati della Biennale segnano comunque la fine di quella ricerca e aprono a nuove elaborazioni, finalizzate a un ulteriore perfezionamento della materia pittorica. Difatti, anche le opere realizzate con la pittura a emulsione avevano cominciato a presentare degli inconvenienti, come risulta fra l’altro dallo scambio epistolare tra de Chirico e Cipriano Efisio Oppo in occasione della IV Quadriennale romana del 1943. Al segretario generale dell’esposizione, che gli scrive per segnalare le difficoltà ad asciugare dell’Autoritratto come pittore in costume rosso.L’intenso lavorio pratico e teorico di questi anni è trasferito con grande ironia nel suo secondo e affascinante romanzo Il Signor Dudron, dalla gestazione lunga e tormentata, la cui versione definitiva è stata pubblicata postuma. Il testo prosegue la vicenda letteraria dell’autore, inaugurata nel 1929 col capolavoro metafisico Hebdòmeros, facendo affiorare una nuova vena realistica intrisa di risvolti ironici e narrativi. Concepito secondo una singolare formula che incrocia biografia e teoria dell’arte, esso ha come protagonista un pittore, Dudron, che costituisce il suo alter ego. Si tratta quindi di un’opera soprattutto teorica, dedicata a ciò che più premeva all’artista in quegli anni: la questione della materia pittorica. Ispiratrice è la moglie Isabella, che come già ricordato aveva reso possibile la rivelazione della “bella materia” davanti a un quadro di Velázquez presso il museo del Louvre. Ella riveste il ruolo di musa filosofica, alla quale de Chirico-Dudron porge i propri interrogativi; attraverso tali colloqui l’autore svolge i temi di cui si compone l’opera nella stesura definitiva, incentrati sulla “bella materia colorata”, sul problema del “mestiere”, della tecnica, e pertanto sulla polemica antimodernista. Rispetto al Piccolo Trattato di tecnica pittorica il testo si avvale di ulteriori informazioni, conseguenti alle ricerche effettuate dall’artista negli anni Trenta presso le biblioteche parigine insieme a Isabella. Va poi soprattutto osservata l’importanza della trasmissione del sapere per de Chirico, che nel 1938 si era rivolto al ministro Bottai chiedendo un insegnamento in Accademia. Raggiunta la maturità, l’artista si sente pronto per consegnare ai posteri le proprie conoscenze sulla pittura; Dudron diventa perciò l’alto garante delle leggi dell’arte. Attraverso il romanzo l’autore sembra articolare un corso ideale per i propri discepoli, i cui argomenti sono riversati direttamente dai saggi teorici da lui pubblicati sulle riviste tra il 1940 e il 1945 e poi raccolti nella Commedia dell’arte moderna, con la coautorialità della moglie Isabella Far. È infatti lei a incorniciare i saggi di volta in volta ripresi nel romanzo, dando così inizio alla finzione letteraria per la quale de Chirico le avrebbe in seguito rivendicato la paternità di numerosi suoi scritti teorici. Tra le vicende descritte nel romanzo, ci sembra significativo un episodio nel quale de Chirico ironizza sull’emulsione pittorica. Infine, ci sembra opportuno menzionare ai fini della nostra riflessione l’opera del pittore friulano Luigi Zuccheri. L’etichetta un po’ sbrigativa di pittore animalista ha in parte oscurato le qualità della sua produzione artistica, tuttavia rivalutata in seguito dalla critica più avveduta. Proveniente dall’aristocrazia friulana, si dedicò alla pittura solo dopo essersi scontrato con il volere della famiglia, studiando privatamente e pertanto lontano dalle accademie così come dai principali focolai dell’avanguardia italiana. Tuttavia, durante un lungo soggiorno parigino intorno al 1930, Zuccheri si interessò al movimento surrealista. Questa apertura insieme ai giovanili studi letterari dovettero influire sulla sua intensa capacità di attenzione fantastica. La sua pittura è in apparenza descrittiva, fedelmente aderente a quella natura che ne costituisce la tematica costante: vaste distese di campi sotto cieli tersi o tempestosi, con in primo piano uccelli in attesa di migrare, o animali da cortile prigionieri rassegnati; talora troviamo i pesci dei fiumi friulani o della laguna di Venezia. Quadri che potrebbero sembrare illustrazioni enciclopediche, ma nei quali l’occhio più attento del critico scorge gli elementi di una realtà trascesa, come in un mondo di favola . Nella prima ampia monografia dedicata all’opera di Zuccheri, il pensiero di Maurizio Fagiolo dell’Arco va dunque a Savinio, come a de Pisis e ovviamente a de Chirico, senza tralasciare grandi maestri del passato quali Bruegel il Vecchio e Hieronymus Bosch, che pure hanno alimentato la visione fantastica di tanta pittura europea tra le due guerre. Nel periodo tra il 1940 e il 1943 il suo travaglio spirituale per le vicissitudini del conflitto mondiale si traduce in una profonda metamorfosi stilistica. E a questo periodo dovrebbero riferirsi anche i suoi primi esperimenti tecnici sulle proprietà dei colori e delle vernici. Zuccheri infatti abbandona progressivamente la più “moderna” tecnica a olio per passare a quella più “antica” della tempera all’uovo, cominciando a riscoprire e studiare antichi ricettari e portando la sua ricerca a livelli di una certa raffinatezza, emulando un percorso compiuto vent’anni prima da de Chirico, quando si fece paladino del recupero della cosiddetta “tempera grassa”. I due si conosceranno dopo la fine della guerra, dando inizio a un intenso rapporto di amicizia, avente come principale oggetto di conversazione proprio i segreti della pittura a tempera, anche attraverso lo scambio epistolare. Intorno al 1947, Zuccheri aveva comprato una piccola proprietà sulle colline nei pressi di Firenze, dove si era presto creato una cerchia di amici scelti, tra studiosi, collezionisti e artisti. Ed è in casa di Primo Conti che avviene il primo incontro con de Chirico, verosimilmente tra il 1947 e il 1948, dal quale nascerà un rapporto decisivo per la sua definitiva maturazione artistica. Non si dimentichi che proprio a Firenze de Chirico aveva tenuto a battesimo la nascita del gruppo dei Pittori moderni della realtà nello stesso periodo. De Chirico è in fondo il pittore che ha maggiori punti di contatto con Zuccheri, del quale sentì profondamente il fascino e che stimò soprattutto per quel peculiare interesse nei confronti della tecnica della pittura. Sulla scia di questa appassionata ricerca, che lo fa sentire più vicino ai suoi antichi maestri veneziani e all’amico antimodernista de Chirico, anche Zuccheri si cimenta nella redazione di un trattatello, Del piturar a tempera, pubblicato nel 1966 per le edizioni All’insegna del Pesce d’Oro di Vanni Scheiwiller , non a caso il figlio di Giovanni, committente ed editore del Piccolo trattato di tecnica pittorica di de Chirico nel 1928. Un ricettario tanto più singolare perché scritto in veneziano, italiano e inglese, reso possibile dalla stima di Scheiwiller, che fra il 1966 e il 1974, anno della morte di Zuccheri, si adoperò in ogni modo per rendere noti a un pubblico più vasto le sue preziose creazioni e il suo straordinario patrimonio di cognizioni sulla pittura a tempera, con una serie di raffinati libretti illustrati. Volumi che non potevano mancare nella libreria di de Chirico, che, nel già menzionato testo commemorativo, aggiungeva: Egli ha anche scritto un trattato molto intelligente ed approfondito che io conservo gelosamente. Da quanto fin qui esposto, risaltano dunque l’ampiezza della diffusione delle ricerche dechirichiane intorno alla tecnica e ai materiali pittorici, anche a distanza di molti anni dall’uscita del suo Piccolo trattato, l’influenza su una serie di artisti più giovani anche in termini programmatici e talora la condivisione di percorsi di sperimentazione, attraverso lo scambio di consigli e di ricette per la pittura. Intanto, nel dopoguerra de Chirico si stabilisce con Isabella definitivamente a Roma, dove prosegue quell’evoluzione barocca che per la critica è un’involuzione, concentrandosi ostinatamente sulla ricerca della “bella materia” e prendendo a modello i grandi maestri del passato che hanno eccelso nella tecnica. Il suo interesse si concentra sui virtuosi della pennellata veloce e fluida, quelli più spettacolari del Seicento ma anche di epoche successive: da Tiziano a Tintoretto, a Rubens, Van Dyck, Velázquez, Fragonard, Delacroix, Renoir e altri ancora. Una fase che si estenderà fino alla fine degli anni Cinquanta, causandogli l’aumento dell’incomprensione e dell’ostilità dei critici, ai quali, dal canto suo, risponderà sempre con il consueto sarcasmo e talora con esacerbato spirito polemico. Negli anni Sessanta con le sue scatolette di Merda d’artista l’italiano Piero Manzoni con un atto ancora più estremo rispetto agli scandali suscitati dalle opere duchampiane (Argan 1970), si era fatto promotore di un’operazione dadaista concettuale d’impronta esplicitamente ironica. Secondo una paradossale messa in discussione dello statuto di opera d’arte, così come era avvenuto per Fountain (1917), l’artista aveva riempito novanta scatolette dei suoi escrementi, ciascuna dal contenuto netto di trenta grammi, tutte conservate al naturale e rigorosamente “made in Italy” (Celant, 2014). In questa ironica operazione di inscatolamento Manzoni aveva trasformato la materia più bassa e umile che esiste, vendendola a peso d’oro e conferendole la dignità di opera d’arte. Qualora si volesse verificare l’effettivo contenuto della scatoletta, si finirebbe col distruggere irrimediabilmente l’opera, annullandone il valore (Criqui, 1992 ). Rifacendosi alle pratiche di rovesciamento e spaesamento proprie dei ready-made
, Manzoni invitava l’osservatore ad assumere una prospettiva differente; se nella frustrazione della visibilità dell’opera, chiusa nella scatoletta, vi è un’adesione a una ricerca di tipo mentalistico e di impronta concettuale, si nota parallelamente una decisa affermazione del valore supremo del corpo attraverso il coinvolgimento delle stesse funzioni vitali dell’artista, che si poneva in anticipo della Body Art (Barilli, 2005). In questa irriverente operazione si rileva, inoltre, una critica verso il feticismo e la brama di possesso di alcuni collezionisti d’arte (Celant, 2014) ad essi l’artista, provocatoriamente, aveva dichiarato di voler offrire qualcosa di veramente intimo e personale come i suoi stessi escrementi (Dutton, 2008). Nell’ottica di Manzoni, al di là dell’atto dichiaratamente demistificatorio, il compito dell’artista doveva diventare anche quello di renderci vigili e consapevoli del nostro stesso esistere: non è più necessario articolare alcun messaggio, “c’è solo da essere, c’è solo da vivere” (Criqui, 1992). Nel luglio del 1960 in occasione della performance condivisa di Consumazione dell’arte , Manzoni invitava il pubblico a cibarsi di un uovo sodo timbrato con la propria impronta digitale (Celant, 2014) con questo atto, dal carattere fortemente simbolico e provocatorio, intendeva trasmettere la propria creatività e lucidità esistenziale allo spettatore-consumatore, coinvolgendolo attivamente e accentuandone la percezione sensoriale
4. Del medesimo anno sono i Corpi d’aria
, “sculture da viaggio” che lo spettatore poteva gonfiare personalmente o acquistare a un prezzo maggiore già gonfiate dall’artista, trasformandosi in tal caso in Fiato d’ Artista. Alla messa in discussione dello statuto di opera d’arte si accompagna, dunque, anche una divertita e sarcastica riflessione sulla mercificazione dell’arte e sulla volubilità con cui il mercato crea valore: l’artista immette sul mercato qualcosa da lui stesso prodotto, che va a confondersi come bene di consumo insieme a una miriade di altre offerte (Celant, 2014). Nell’opera di Manzoni, oltre all’esigenza di ridefinire il ruolo dell’artista nella contemporaneità e di fare dell’opera d’arte un dirompente strumento di provocazione, emerge anche un’evidente critica verso la società dei consumi di massa, al cui rassicurante orizzonte visivo avevano aderito pienamente gli artisti della pop art. D’altra parte, il periodo storico in cui Manzoni si trova a operare, corrisponde all’apogeo del neocapitalismo, nonché allo sviluppo delle moderne strategie di
marketing e al considerevole aumento del numero di consumatori (Del Puppo, 2013). Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta la città di Milano era stata totalmente investita da questo processo di modernizzazione e industrializzazione, che aveva prodotto significative trasformazioni a livello sociale, politico e culturale, con le quali l’arte non aveva potuto fare a meno di misurarsi e interagire (Barbero, Pola 2018). Manzoni non credeva più in un’arte che fosse rappresentazione mimetica della realtà o espressione dell’interiorità dell’artista ed era estremamente critico verso tutti quei pittori che intervenivano sulla tela con il loro corpo e la loro soggettività (Celant 2014). Non potendo più esprimere se stesso attraverso la superficie della tela, come prova la sua serie di Achromes , in cui la materia si mostra come puro significante, Manzoni era arrivato a far coincidere l’arte con il soggetto stesso, con le sue azioni, i suoi gesti e le tracce del suo esistere . A Roma nel 1961, in un’operazione tra il serio e lo scherzoso, aveva iniziato a riconoscere le prime persone quali opere d’arte, certificandone lo status con la propria firma e rilasciando persino una ricevuta di autenticità (2014). Si poteva diventare temporaneamente opera d’arte anche salendo sulla Base Magica
, che poi si trasformerà nello Socle du Monde , piedistallo rovesciato a sostegno dell’intero pianeta che, come un duchampiano ready-made, viene elevato ad opera d’arte insieme a tutti i suoi abitanti (Galimberti, 2012). Nell’opera di Manzoni, con i suoi molteplici livelli di lettura e la presenza di una forte componente ironica, sembra emergere proprio ciò che Ortega avvertiva nelle avanguardie storiche e che poi avrebbe contraddistinto molte delle correnti artistiche successive. Se da un lato l’esito dell’operazione umoristica di Manzoni, di chiara derivazione duchampiana, aveva determinato la dissoluzione dell’“aura” e della sacralità propria dell’opera d’arte come unicum, dall’altro veniva riaffermata con forza la centralità dell’artista e della sua opera. Quella di Manzoni non era dunque una sterile provocazione, ma rientrava in una riflessione più profonda, volta a creare un nuovo rapporto con lo spettatore e a stabilire un più saldo nesso tra arte e vita.
Pur nella sua brevità, l’esperienza di Piero Manzoni, con la sua straordinaria carica innovativa, si rivelerà fondamentale per comprendere molti dei percorsi intrapresi dagli artisti degli anni Sessanta (Serraller, 1992). Il percorso continua con le finte sculture di Pino Pascali posso affermare che tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta si formarono in Italia numerosi raggruppamenti artistici sotto il nome di Gruppo N, fondato nell’inverno del 1959 a Padova, di Gruppo T, nato nello stesso periodo a Milano, di Gruppo Uno, formatosi nel 1962 a Roma e a seguire il Gruppo Atoma di Livorno, il Gruppo Tempo 3 di Genova ed altri ancora, accomunati da una medesima idea in cui l’opera d’arte nasce da un progetto che tende ad evidenziare le strutture psichiche, tecniche e ottiche dei fenomeni percettivi che l’opera stessa ricostruisce e propone di percorrere. La singolarità di questi raggruppamenti fu determinata dal fatto che le loro opere furono presentate come lavoro di gruppo, sotto la firma del raggruppamento stesso, abolendo così l’idea tradizionale e individuale dell’artista. Sotto il profilo formale i loro lavori si caratterizzarono per l’attenzione di processi di percezione dei fenomeni visivi, volti ad un maggiore coinvolgimento emotivo del pubblico. Appare chiaro, quindi, che l’opera fu arricchita di un parametro nuovo incarnato proprio dal pubblico stesso. Questi si trasformò da fruitore passivo ad animatore attivo dell’opera d’arte in quanto, spesso, gli venne chiesto di azionare il meccanismo che l’azionava l’opera, avviando così il procedimento artistico. In questa nuova concezione dell’arte, l’opera fu quasi sempre concepita per essere in movimento, dove quindi all’immagine statica venne a sostituirsi da un fenomeno temporale in corso. Per la realizzazione di queste opere non erano richieste conoscenze delle tecniche tradizionali del fare artistico ma abili capacità tecnologiche e meccaniche, e di essere a conoscenza dei fenomeni ottici per quel ciò che riguardò le opere statiche. Le diverse esperienze vissute dai vari gruppi vennero etichettate dalla critica sotto la dicitura di arte ottico-cinetica, nate con la precisa volontà di superare il soggettivismo insito nell’informale. Il paesaggio dell’arte che si aprì in Italia fra la fine degli anni Cinquanta e per tutto il decennio successivo vide non solo l’imporsi dell’esperienze ottico-cinetiche ma anche l’affermarsi di diversi movimenti artistici che si incrociano tra loro. Sono proprio quelli gli anni dell’affermazione di movimenti internazionali come il New dada, la Pop e la Minimal art, la cui diffusione in Italia avvenne attraverso diversi canali di conoscenza, tra cui la Biennale di Venezia, l’attività espositiva di alcune gallerie private e la nascita di nuove riviste specializzate in arte. Il panorama delle arti visive che si andò delineando presentava molteplici direzioni di ricerca sperimentale, tutte svincolate delle tecniche tradizionali di realizzazione, segnando l’inizio di una profonda trasformazione nel tessuto culturale in Italia. Si assistette innanzitutto alla definitiva fine dell’arte ideologica, di ‘impegno’ politico e sociale, di cui si erano nutriti i dibattiti del dopoguerra, tra i sostenitori di un’arte realista e quelli di un’arte astratta, nonché si affermò la volontà di superare le componenti romantiche, esistenziali ed estetizzanti dell’Informale. Parallela all’esperienza ottico-cinetica nel 1959 si affermò in Italia il New dada, attraverso le opere di Jasper Johns e di Robert Rauschenberg, esposte rispettivamente a Milano e Roma. e nel 1960 Pierre Restany pubblicò a Milano il manifesto del “nouveau réalisme”. Tale conoscenza del neodadaismo internazionale ebbe notevoli ricadute su alcuni artisti italiani, che partendo dalla messa in discussione delle tecniche tradizionali giunsero alla formulazione di una nuova estetica che ruotava attorno l’idea di oggetto artistico. Fu subito chiaro che l’utilizzo di nuovi materiali e di nuove tecniche dovesse inevitabilmente condurre verso nuove forme e un nuovo modo di fruire l’opera d’arte. La rottura con l’arte del passato, intesa non solo nelle tecniche ma anche nei contenuti, condusse gli artisti alla sperimentazione di ogni sorta di materiale a loro disponibile e alla creazione di nuovi linguaggi visivi. In tale ambito, significative furono le opere di Manzoni, Linee (1959), Corpo d’aria (1959-60), Uova scultura (1960), Merda d’artista (1961) che generarono grosso clamore, in quanto ai tradizionali valori estetico-culturali del bello, dell’eterno, dell’appagante si affermavano di contro nuove concezioni per l’opera d’arte legate al transitorio e all’inconsistente. Ma il panorama dell’arte in Italia all’epoca appariva molto vario e articolato, pertanto all’esperienza neodadaista si affiancarono opere di gusto pop, come dimostra de resto l’opera di Pino Pascali intitolata Omaggio a Billie Holliday. Labbra rosse (1964). Ma il percorso artistico di Pascali, contraddistinto da una continua sperimentazione di materiali non convenzionali, come il cartone, la plastica, le retine di metallo, il legno, la tela, la paglia, il terreno, l’acqua, come si possono rintracciare in opere come 1 Mc di Terra e 2 Mc di Terra (1967), 32 Mc di mare circa (1967), Bachi da setola (1968), si indirizzò anche verso ricerche di stampo poverista come vedremo in seguito. Posso dire che: Giuseppe (Pino) Pascali nacque a Bari, in via Dalmazia, il 19 ottobre 1935. I genitori erano entrambi di Polignano a Mare e Pino era il loro unico figlio. I genitori riuscivano a farlo stare fermo e tranquillo solo dandogli dei giocattoli meccanici o elettrici, delle matite, dei pastelli, o delle forbici e carta di giornale. Allora lui se ne stava buono lì a colorare e a ritagliare la carta e a costruire aeroplanini, animali, navi o armi. Dal 1940 al 1941, durante il conflitto italo-greco-albanese, il padre venne trasferito ad un posto di polizia a Tirana, in Albania. Sua moglie, insieme al piccolo Pino, attraversò più volte l’Adriatico per raggiungere il marito, da Bari a Durazzo o Valona e viceversa. Spesso viaggiavano su aerei civili o militari e su navi a convoglio. Su queste ultime, quando scattava l’allarme di attacco, Pino faceva di tutto per divincolarsi dalla madre e per sfuggire al controllo dell’equipaggio e rimanere sopra coperta a guardare gli aerei nemici, dimostrando, con un pizzico di incoscienza, un coraggio non comune per la sua età. Aveva solo cinque anni. Rientrato in Italia, Pino venne iscritto alla scuola materna Regina Elena. Nel ‘45, alla fine della guerra, Pino assistette al passaggio degli alleati dal balcone della sua casa a Bari, salutandoli con gioia e fingendo spari con le pistole finte, i suoi giocattoli preferiti, anche se a volte, nelle mani di Pino capitavano le armi vere del padre sfuggite al controllo dei genitori. A dieci anni iniziò le scuole medie. La sua eccessiva vivacità, la sua forte vitalità crescendo non diminuivano, e i suoi professori osservavano che era difficilissimo tenerlo fermo e concentrato per più di tre o quattro ore. Ma era proprio questa vitalità la caratteristica che lo rendeva simpatico a chiunque. «È chiaro che i discorsi razionali, tutto quello che appartiene, non so, a un fatto organizzato, mentale va benissimo, cioè mi aiuta, però mi annoia terribilmente perché se continuassi all’infinito questo discorso veramente mi distruggerebbe perché sarebbe come un punto che gira in un foglio senza fermarsi mai, lo può riempire tutto ma senza aver fatto neanche un’immagine» . Anche alle scuole medie dimostrò di avere brillanti doti nel disegno dal vero e nelle materie tecniche ed i professori consigliarono i genitori di iscriverlo al Liceo scientifico. Anche al liceo Pino continuava a dedicare più ore ai giochi e ai suoi hobby che allo studio. Cominciò con l’aeromodellismo, costruendo modellini di sua invenzione. Poi passò a costruire modelli a motore che funzionavano a carburante con i quali partecipò ad alcune gare indette da diversi enti qualificandosi sempre primo . Questa passione per i motori e la tecnologia faceva sperare il padre che Pino potesse proseguire gli studi iscrivendosi alla facoltà di ingegneria. Ma il suo professore di disegno, che aveva notato una indiscutibile predisposizione artistica, gli consigliò di iscriverlo all’Accademia di Belle Arti. Le intuizioni del professore si rivelarono giuste molto prima del tempo, perché Pino, al IV anno del liceo scientifico già ripetente cambiò indirizzo scolastico e si trasferì a Napoli per iscriversi al IV anno del Liceo artistico dove poi si diplomò. «Gli studi scolastici che limitavano la mia libertà e fantasia mi spinsero a rifugiarmi in un genere di gioco isolato che consisteva nella progettazione dei miei giocattoli. Durante le lezioni, disegnavo e a casa li costruivo. Erano aeroplani, sommergibili, navi da battaglia in miniatura, ecc. In seguito, piuttosto che continuare gli studi scientifici che avevo intrapreso, spinto da questa necessità di libertà, mi sono rivolto allo studio artistico» . Nel 1954 Pino conseguì la maturità al Liceo artistico di Napoli, e nel ‘55, andò a Roma per iscriversi al corso di scenografia dell’Accademia di Belle Arti . Pino seguì con forte impegno ed entusiasmo i corsi ed aumentò notevolmente il suo rendimento lasciandosi conquistare dai temi, dalle tecniche e dagli stimoli sempre più interessanti proposti dagli insegnanti, sperimentando e muovendosi in totale libertà. Alla fine del quadriennio, nel 1959, si diplomò in scenografia con una tesi su Oskar Kokoschka con il massimo dei voti. A Toti Scialoja era affidata la cattedra di scenotecnica , ma la materia lo interessava poco e i suoi insegnamenti erano molto poco tecnici. Nell’anno accademico 1957-58 Scialoja fu trasferito alla cattedra di “Bianco e nero”, da anni vacante ed oggi completamente eliminata. Al corso di “Bianco e nero” si studiava prevalentemente il disegno della figura in bianco e nero e sembra che fosse un corso legato alla Scuola libera del nudo. Nonostante ciò, Scialoja preferiva seguire un programma personale, tanto che il tema che decise per «quell’anno fu sul “collage”, e quello per l’anno seguente sulla “pittura materica”» . Scialoja portava con sé una didattica diametralmente opposta allo stile di Peppino Piccolo: via l’accademismo, via il realismo, via lo stile ottocentesco. Voleva far fiutare ai suoi studenti l’atmosfera del nuovo decennio che stava per arrivare, e indicava ai ragazzi i nuovi orizzonti dell’arte internazionale. Come la mostra di Rauschenberg alla Tartaruga di Plinio De Martiis che visitò insieme ai suoi studenti di Accademia, fra il ‘58 ed il ‘59, destando curiosità, disprezzo, paure, giudizi positivi e valutazioni negative. Questa didattica innovatrice, unita alle due Muse ispiratrici, lo scherzo ed il gioco, fu fondamentale per determinare in Pascali il suo percorso stilistico. Toti Scialoja tornava dall’America, dove l’esplosione della Pop Art era ormai prepotentemente entrata nelle gallerie d’arte e dalla quale aveva appreso le nuove tendenze che in Italia faticavano a radicarsi. Scialoja disse basta alle tempere e propose ai suoi studenti l’uso del bitume, delle vernici, di materiali fino a quel momento neanche immaginati come la sabbia o la polvere di marmo. E soprattutto uno stile tendente all’astrattismo, forse derivante dalla sua precedente attività di scenografo per balletti, dove una scenografia prevalentemente astratta ben si presta a fare da sfondo ad una coreografia guidata da una musica sinfonica. «La materia, la materia è importante», disse una volta a Mambor mentre insieme, passeggiando in via del Corso, si erano fermati ad osservare una scolatura di catrame ancora calda e di cui Pino parlava come di una cosa viva. Mambor non condivideva il pensiero del suo amico, che giudicava troppo legato all’Informale. Certo è che Pino Pascali aveva una passione per la materia e fu entusiasta delle nuove tecniche suggerite da Scialoja. A differenza degli insegnamenti tradizionali come l’uso di matite, carboncini, acquerelli e colori a tempera, Pino fu il primo a comprare bitume, petrolio, smalti e diluenti alla nitro. Questo poter variare tecniche, lo spinse a sperimentare anche la benzina, l’olio, la cenere di sigaretta, la tempera murale e a creare nuove mescolanze. Versava questi ingredienti su fogli di carta o di cartone e li trascinava con un pennello o con una stecca di legno aggiungendo o togliendo questi componenti al fine di ottenere gli effetti che desiderava, che risultavano sorprendenti. Oltre ai pennelli, interveniva con garze, carte assorbenti, spugne, sabbia e nastri adesivi. Si impegnava molto in quello che stava facendo e, più che un lavoro, sembrava una sfida. Non tutte queste sostanze si amalgamavano, anzi, spesso si respingevano, dando vita a forme ed immagini nuove ed inconsuete. Non correggeva mai; se qualcosa non lo convinceva, buttava via tutto e ricominciava daccapo, con una caparbietà rara. La stessa irrequietezza che aveva alle elementari, Pascali continuava a manifestarla anche all’Accademia. Aveva una fantasia esuberante anche in classe. Tullio Zitkowsky compagno di Accademia ricorda che quando non c’era nessuno, Pascali entrava in aula, prendeva una squadra ed una stecca o una riga e imitava il mitra, sparando qua e là. O ancora, mentre Piccolo spiegava in classe che cos’è una piattabanda, Pino divagava con la fantasia e disegnava una fila di omini col mitra, inquadrandoli in un rettangolo stretto e lungo: una banda piatta. Aveva la tendenza a scherzare con il doppio significato delle parole e trasformare il linguaggio verbale in linguaggio visivo. Si pensi, a questo proposito, ai calembours di certi titoli come Biancavvela, Vedova blu o Bachi da setola. Nonostante la sua infatuazione per la pittura americana, la Pop Art, era tormentato dal fatto di essere italiano, un italiano del sud, nato nella profonda terra del meridione, e di non avere nulla a che fare con la Coca Cola, ma semmai con la zolla e con l’aratro. «Cercava disperatamente di capire come avrebbe potuto conciliare questi due aspetti che non avevano alcun legame logico. Gli facevo osservare ricorda Giuliano Cappuzzo compagno di Accademia che non poteva preconcettualmente porsi questi limiti, e che l’influenza della pittura d’oltre Oceano avrebbe avuto comunque il suo peso. Le opere degli artisti della scuola americana facevano le loro apparizioni nelle mostre più importanti della città, e, volenti o nolenti, per il fatto stesso che li guardavamo e li criticavamo, qualcosa era già mutato in noi». E continuava asserendo che, anche se fossero stati fuori dalla cerchia della scuola romana, sarebbero stati comunque positivamente influenzati. «O malamente!», correggeva Pino con ironia. Insomma, l’ “italianità” stava stretta a Pascali, la sentiva come un forte ostacolo che avrebbe limitato la sua creatività artistica e che gli avrebbe permesso di competere solo a livello nazionale, se non addirittura soltanto a livello regionale. Le discussioni su questi argomenti non terminavano mai, a pranzo, a cena, sugli scalini di piazza di Spagna. A Pino non piaceva essere contraddetto. Si ostinava a vedere la Pop Art come un gigante fastidioso che lui, armato solo di un pugno di terra e di un rudimentale aratro, non avrebbe mai potuto combattere, ma in cuor suo Jasper Johns, Dine e Oldemburg gli piacevano. Nei pomeriggi spesso andava con Giuliano Cappuzzo e Jannis Kounellis all’EUR, dove abitava un altro loro compagno di Accademia, Umberto Bignardi. Il quartiere, molto meno urbanizzato rispetto ad oggi, conservava intere aree verdi e prati incolti. Andavano lì per giocare con gli archi, le balestre e le frecce fabbricate da Pino. Fabbricava personalmente arco, frecce e bersagli con materiali rudimentali che risultavano comunque molto belli e armoniosi. Erano sì costruiti artigianalmente, ma perfettamente funzionanti. Aveva anche realizzato una micidiale balestra fatta recuperando proprio la balestra di un’automobile, presa da qualche sfasciacarrozze, e a casa si allenava a tirare avendo come bersaglio un’insegna della Coca-Cola tonda, bombata e di metallo. Finita l’Accademia, Pino cominciava a muoversi e a prendere contatti nel mondo del lavoro, che, chiaramente, cercava nel suo ambiente. Cominciò a collaborare come aiuto scenografo e come grafico pubblicitario, guadagnando di più e cominciando a dare un aspetto più ordinato alla sua vita e permettendosi anche di dedicare tempo e denaro alla sua ricerca artistica. Il nuovo appartamento in via dell’Orso era un grande ambiente unico in cui Pino ricavò una zona letto ed una zona lavoro per poterlo usare sia come abitazione che come studio. Vi si trovava come al solito di tutto: cose strane, curiose, pezzi di ogni genere accatastati, oggetti che andavano dall’ala di un aeroplano, alla ruota di una bicicletta, un rubinetto, pannelli di legno, sassi. Per recuperare questi diversi articoli, era spesso indaffarato a prendere, se li trovava, oggetti lasciati per la strada o buttati via. Più che di uno studio, entrando si aveva l’impressione di trovarsi in un’officina. In via dell’ Orso Pino conosceva tutti, salutava tutti, i bottegai, gli artigiani e dava del tu a tutti. E questi, a loro volta, lo conoscevano e lo salutavano da lontano, quel ragazzo curioso e incantato che osservava il lavoro artigianale con lo sguardo rapito che viaggiava nella sua fantasia, attratto da quella manualità che voleva apprendere per lavorare anche lui la materia, la stessa materia di un restauratore, di un falegname o di un fabbro, ma per farla vivere in un’altra dimensione, distante dal suo logico uso, ma capace di generare nuovi elementi con un sottile gioco ironico. Pino aveva frequentato il corso di scenografia e per questo avrebbe dovuto diventare uno scenografo ma lui si considerava più scultore che scenografo. O forse nessuno dei due. «Io penso di non essere uno scultore, ho questa impressione verso me stesso: è una cosa che potrebbe essere anche grave, per me anche quello è divertente». Di esporre non ne voleva sapere; con Plinio de Martiis della Tartaruga ebbe una discussione da Kounellis perché non voleva neanche mostrargli lo studio». Ma lo spirito da scultore ce l’aveva ed era proprio per questo spirito che gli oggetti casuali risvegliavano in lui la curiosità e diventavano sculture. Un giorno lavorò a delle lamiere di ondulato, lucide e nuove, sfregiandole con dei colpi di accetta. Sandro Lodolo lo prendeva in giro e lo punzecchiava scherzosamente su quello che faceva. Ma quei tagli, come aveva ironicamente concluso il suo amico, non erano il frutto di uno sfogo di rabbia. Pino gli spiegò che aveva cercato degli effetti di luci dati dai tagli sul metallo, come se con un taglio di lama avesse voluto creare un taglio di luce. Esperimenti gestuali di una ricerca visiva, cercata nei modi più vari. Dopo aver abitato per poco più di un anno in via dell’Orso 55, nel 1961 Pino si trasferì a Trastevere, dividendo un appartamento con il suo compagno di Accademia, Giuliano Cappuzzo. Pino continuava a collaborare come scenografo alla RAI e come grafico pubblicitario, e Giuliano lavorava come scenografo nella trasmissione Nata per la musica con Caterina Valente. Nel 1961 Giuliano affittò a Roma un piccolo appartamento in via Pietro della Valle, proprio vicino a Castel sant’Angelo, aprendo uno studio di grafica pubblicitaria, il New Style, in collaborazione con Piero Gratton, un grafico pubblicitario che già lavorava alla RAI. Poco dopo aver aperto il suo studio, Giuliano prese contatti con la rivista dell’INAPLI (Istituto Nazionale Addestramento Professionale per Lavoratori dell’Industria) per realizzare alcune copertine. Il direttore aveva dato libera scelta di realizzazione, preferendo immagini astratte. E Giuliano affidò a Pino questo lavoro, ritenendolo adatto come stile. A Pino non sembrò vero! Questa assoluta libertà di esprimersi, che inoltre incontrava il suo stile astratto e materico, lo proiettò in una copiosa produzione di esempi e prototipi alcuni dei quali vennero poi scelti per la stampa. Queste tecniche, abbastanza innovative per l’epoca, Pino le riportava sulla carta ottenendo gli effetti astratti per i lavori di Giuliano e che calzavano perfettamente con la linea che si voleva dare allo studio che, appropriatamente, si chiamava New Style. Inoltre a Pino fu affidata la realizzazione di una sorta di campionario da proporre ad eventuali altri clienti: furono realizzati dei bozzetti inventati da presentare come lavori già eseguiti per cercare di aumentare il prestigio della società. A Pino, Giuliano aveva anche messo a disposizione lo scantinato del suo studio per poter realizzare pannelli decorativi su lamiera di zinco, di medie e grandi dimensioni, usando bitume e benzina, che poi Pascali vendeva a dei negozi di arredamento. Oltre a collaborare con Giuliano, Pino condivideva con l’amico svago, uscite serali e gite ai Castelli. Il gruppo era vario ma quelli che lo componevano erano Umberto Bignardi, Jannis Kounellis, Ettore Innocente, Pino e Giuliano. Occasionalmente si univa anche Sandro Lodolo che, sia per amicizia che per medesima attività lavorativa, frequentava il gruppo, portando il suo punto di vista sull’arte e contribuendo ad aumentare le discussioni sul valore e sul senso dell’espressione creativa. Renato Mambor conobbe il gruppo più tardi e all’inizio si univa occasionalmente. Ad ogni modo, fra tutti, sia che si frequentassero assiduamente o meno, vi era come comune denominatore il concetto di rivoluzione, non tanto politica si è già visto che Pascali non andava alle manifestazioni ma culturale, trovare cioè una linea espressiva che cambiasse il modo di pensare, che aprisse nuovi punti di vista alla società. Nel 1962 i genitori di Pino Pascali si trasferirono a Roma e presero due piccoli appartamenti a largo Boccea, uno per loro ed uno per il figlio. I genitori di Pino erano due personaggi stupendi: la madre, era una donna piccolina, minuta con gli occhiali spessi un dito, che preparava dei pranzetti casalinghi squisiti; il padre, un uomo non alto, magro e dalla carnagione olivastra, era di un’umiltà a volte eccessiva e andava in giro per Roma con la sua Bianchina. Con Sandro Lodolo aveva un atteggiamento a dir poco ossequioso e lo trattava come se fosse stato il presidente della RAI, dandogli ovviamente del lei, nonostante potesse essere suo figlio. L’appartamento a largo Boccea era ad un primo piano dal quale si accedeva, tramite una scala interna, in un altro ambiente a livello stradale, completamente indipendente da quello sopra. Era lo studio-abitazione di Pino dove, oltre a dormire, lavorava alle sue opere. Pieno, anche questo, di mille oggetti e pezzi curiosi, era uno spazio comodo in cui Pascali riusciva, nonostante la gran quantità di materiale, a tenere tutto molto ordinato. Anche se, nei momenti di frenetica attività produttiva, l’ordine veniva “animato” dall’attività creativa. C’è da dire che gli artisti del giro di Pascali, e ancora di più artisti a lui precedenti, un pò per comodità, un pò per moda, avevano tutti gli studi nel centro di Roma, se non in via Margutta, in zone limitrofe e in bei palazzotti antichi, carichi di storia e gloria, anche se molto diroccati come nel caso degli studi che sceglieva Mario Schifano.

Alcuni venivano dalla estrema periferia, come Maurizio Mochetti ed Eliseo Mattiacci, che all’inizio degli anni ‘60, avevano gli studi sulla via Prenestina, oltre il raccordo anulare, in una sorta di villaggio di studi artistici voluti da uno scultore anni prima. Pino Pascali fece il contrario e dalla centrale, storica e rinomata Trastevere, fregandosene delle mode, scelse di abitare e lavorare in periferia, sulla via Boccea. Fu una rivoluzione. Perché andare in quella squallida periferia anonima, con quella triste architettura “da periferia”? «Cosa potrà mai fare un artista in questo contesto così deprimente?» si chiedeva nel ‘66 la moglie di Calvesi mentre accompagnava il marito a visitare lo studio di Pino. Ma una volta entrata dovette ricredersi: lo spazio era tutto invaso da enormi volumi bianchi: animali decapitati, trofei attaccati alle pareti e il mare di tela. E poi c’era una marea di giocherelli! Al critico e a sua moglie, rimasti senza parole di fronte a questo zoo di tele algide, l’attenzione cadde anche su tutti questi giochi: pentole che si muovevano, trottole e altri oggetti fatti diventare personaggi. L’occasione della visita di Calvesi fu la mostra delle armi alla galleria Sperone di Torino. Ma il critico aveva già incontrato Pascali l’anno prima alla Tartaruga, dove le opere di Pino erano state presentate da Cesare Vivaldi. Gli chiese di andare a visitare il suo studio che era pieno con un terrazzo anche strapieno di relitti di aereo, pezzi di macchine, un accumulo impressionante di oggetti di tutti i tipi. Dalla fine dell’Accademia, da quando Pino collaborava con agenzie pubblicitarie o lavorava occasionalmente come scenografo, la sua situazione, sia economica che lavorativa, era abbastanza serena, e questo gli permetteva di poter dedicare i suoi guadagni alla produzione di opere piuttosto impegnative e di procurarsi arnesi ed utensili necessari al suo lavoro. Pascali riusciva a far piacere tutta la sua arte a tutti. Riusciva a trovare la mediazione giusta. Non a caso era amico di Kounellis, il quale si definiva un vagabondo, un ballerino, un personaggio cioè capace di assimilare ed adattare la propria interpretazione secondo il pubblico che aveva davanti. La mediazione era anche la capacità di Pascali e per questo era amico di tutti. Cosa che diventava la sua grande forza. Ed anche nell’arte questa capacità ha avuto risultati strabilianti perché è riuscito a fare delle opere inserite nella modernità, nell’innovazione, nella ricerca e che piacevano a tutti perché erano belle, esteticamente ben fatte, ben proporzionate. Forse davano l’idea di essere anche queste “buone”. Sì, come hanno detto in tanti, quella di Pascali era un’arte affettuosa. I galleristi, ghiotti di novità e di linguaggi originali, sarebbero stati ben contenti all’epoca di conoscere un personaggio interessante e dotato di una grande forza espressiva. Ma Pino non era ancora pronto e alle mostre nelle gallerie ci andava come pubblico. Proprio in occasione di una di queste, nel 1964 Pascali conobbe Cesare Tacchi alla Tartaruga. Tacchi, un tipo duro al primo impatto ma dal cuore tenero, aveva alle spalle già altre mostre organizzate nel quartiere di Cinecittà, dove viveva e dove abitavano anche Franco Angeli, Tano Festa, Renato Mambor, Sergio Lombardo e Mario Schifano. Insieme avevano esposto alla sezione del Partito Comunista e, nel 1959, alla galleria Appia Antica, di Emilio Villa. Poeta e critico d’arte fuori dalle righe e dagli schemi, Villa sostenne quel gruppo di giovani promettenti intuendone le potenzialità. Si può dire che dall’Appia Antica partì il fenomeno della “Scuola di Piazza del Popolo”. Cesare Tacchi non aveva voluto frequentare l’Accademia di Belle Arti, ritenendola superflua, ma preferendo mettersi a lavorare per conto proprio. In realtà Tacchi si ricorda di avere visto Pascali prima di quell’anno, in occasione di altre mostre alle quali Pino arrivava con un fare sempre molto critico e polemico, pronto alla discussione sulle opere esposte su cui esprimeva il proprio punto di vista arrabbiandosi. Ma la mostra alla Tartaruga nel ‘64, fu l’occasione per conoscersi. Tacchi aveva già esposto da Plinio De Martiis, insieme a Sergio Lombardo e Renato Mambor in occasione del “Premio Tartaruga”. Un anno dopo, nel ‘64, appunto, Tacchi presentò i suoi quadri imbottiti. Si trattava di lavori che utilizzavano la tecnica del tappezziere, per dare al soggetto, in modo artigianale, l’idea del bassorilievo, nel tentativo di uscire dal piano bidimensionale. Le figure erano tratte dalla realtà, dalla pubblicità, dal cinema, eccetera. Oggetti-quadro che colpirono per la loro originalità. Pino arrivò alla galleria e come al solito si accese in forti considerazioni polemiche: rivendicava di avere già realizzato quadri bidimensionali e di avere il diritto all’originalità. Le sue dichiarazioni incuriosirono Plinio De Martiis che volle andare al suo studio per vedere le opere di Pino e scoprì che effettivamente Pascali aveva già realizzato quadri con la caratteristica della bidimensionalità, pur usando un’altra tecnica. Le opere che si trovò davanti erano La gravida, Seni, Primo piano labbra e Labbra rosse, omaggio a Billy Holiday. La polemica verso i quadri imbottiti di Cesare Tacchi servì inconsapevolmente a Pino per uscire allo scoperto con la sua prima personale dove espose Muro di pietra, Biancavvela, Grande bacino di donna, Seni, Colosseo e Ruderi su prato (Sull’Appia Antica). Questi ultimi due, soggetti che, osserva Sandra Pinto, appartengono allo stesso genere dei «simboli romani nei quadri di Angeli e degli “obelischi” di Tano Festa». Alla sua prima mostra a La Tartaruga nel 1965, Pino fu presentato da Cesare Vivaldi. Nonostante questi momenti di polemica, generalmente Pascali aveva la caratteristica un pò inconsueta di essere solidale con gli altri artisti, come in occasione della sua mostra alla galleria L’Attico, nel 1966, in cui si mosse affinché il gallerista Fabio Sargentini conoscesse i lavori di Jannis Kounellis e di Eliseo Mattiacci. Dopo l’incontro-scontro e la polemica sui quadri di Tacchi, i due diventarono amici stimandosi a vicenda. Artisticamente ognuno seguiva la sua strada e non ci furono più motivi di rivendicazioni. Anzi, la stima era un mezzo di sostegno reciproco del gruppo. Ottimismo, fantasia e grande attività erano le caratteristiche con le quali Pascali entrò nel gruppo degli artisti di piazza del Popolo e con i quali organizzò mostre collettive in più occasioni. Tacchi parla delle mostre di Pascali come dei veri e propri eventi, degli spettacoli. Le mostre con Pino diventavano teatro nel quale voleva coinvolgere il più possibile il pubblico. Un desiderio voluto anche da altri artisti, come Michelangelo Pistoletto che già nel 1962, con i suoi quadri specchio, inseriva le immagini riflesse degli spettatori nelle sue opere. Dopo Cesare Vivaldi e Giorgio De Marchis, Pino incontrò un altro critico che si mostrava interessato a conoscerlo: Maurizio Calvesi. Lo conobbe ospitandolo a vedere il suo studio a largo Boccea. Maurizio trovò l’ambiente pieno di cannoni. Alla seconda visita i cannoni avevano occupato anche il terrazzo. Li ritrovò in un garage, e da lì furono trasportati a Torino. «Ma il garage rimase sgombro per poco; quando vi rimisi piede è il caso di dirlo, così al singolare, perché l’altro non arrivava a poggiare da nessuna parte era inondato di cose anche inondato è proprio il caso di dire, infatti vi erano alcune dozzine di onde (un intero “mare”) con dorsi e code di animali acquatici e barche in naufragio né basta, se tutto intorno giacevano ippopotami al naturale, pezzi di giraffe e via discorrendo». Erano i lavori che a breve avrebbe esposto a L’Attico di Sargentini nel ‘66. Calvesi scrisse il testo critico. Infatti, dopo il rifiuto di De Martiis che non volle esporre le armi, Pino cambiò galleria e Maurizio Calvesi lo presentò a L’Attico del giovanissimo Fabio Sargentini. Fabio Sargentini aveva cominciato a lavorare a fianco del padre Bruno che aveva la galleria L’Attico, a piazza di Spagna, dove esponevano artisti come Matta, Fontana, Capogrossi e Mafai. Ma presto cominciò ad avere idee divergenti, dando inizio ad una lunga serie di mostre su nuovi panorami artistici. Circa nel ‘66 Fabio andò da Calvesi, che allora era direttore della Calcografia, per dirgli che avrebbe voluto fare una mostra con Ceroli. Ma non era facile organizzarla, perché in quel periodo Ceroli era molto legato a Plinio De Martiis. E Calvesi aggiunse: «Senti, c’è un altro giovane che tu forse ancora non conosci, ma che è molto, molto bravo anche lui. Si chiama Pino Pascali». Fu così che Fabio Sargentini e Pascali si conobbero, iniziarono un importante periodo di collaborazione e diventarono amici, anzi, secondo Maurizio Calvesi, addirittura fratelli. «Il rapporto che avevo con lui non era un rapporto normale come tra un gallerista e un artista, era un sodalizio formidabile, insomma, perché era il mio più grande amico. Era un sodalizio di amicizia e di lavoro ed era un rapporto particolare perché Pascali trasferiva nella comunicazione con gli altri un senso di onnipotenza». La prima mostra a L’Attico, come si vedrà più avanti, fu fatta nell’ottobre del ‘66 e aveva il titolo “Nuove sculture”. «L’arte è trovare un sistema per cambiare: come l’uomo che ha inventato la scodella per prendere l’acqua la prima volta. Così nasce la civiltà, dalla voglia di cambiare. Dopo la prima volta fare la scodella è accademia. Fare un ponte di corde, fare un dio di legno, vincere una fatalità, un condizionamento, una paura. Quello che faccio è l’opposto della tecnica come ricerca, l’opposto della logica e della scienza». Nel settembre del ‘65 ci fu la manifestazione Revort I alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Palermo. Insieme a Pascali c’erano Lombardo, Ceroli e Tacchi che costituivano il gruppo romano. Le opere che Pascali portò erano Torso di negra al bagno e Primo piano labbra. La manifestazione era curata da Mario Diacono, Vittorio Rubiu e Cesare Vivaldi. A Palermo il rapporto fra Pino e Maurizio Calvesi diventò più amichevole. Una conseguenza comune che nasceva dai rapporti di lavoro fra quasi tutti gli artisti i
critici o i galleristi e che rendeva le relazioni spontanee e cordiali. Anche se Calvesi ricorda sempre un senso di soggezione, benché lieve, nei confronti dei critici, forse per il fatto che fossero di qualche anno più grandi. Ma nonostante queste impercettibili sensazioni di timidezza, il gruppo di artisti come Tano Festa, Mario Schifano, Ceroli, Tacchi, Mambor, Kounellis, Pascali e altri, si “arricchiva” ed allargava sempre di più. Quindi ecco che la sera a Piazza del Popolo si inserivano Fabio Sargentini, Plinio De Martiis, Gian Tomaso Liverani e Giorgio Franchetti, socio del gallerista Plinio De Martiis e collezionista. Franchetti conobbe Pascali attraverso Kounellis. Fu anche lui un visitatore del suo studio a largo Boccea che ricordava così: «Un giorno, trovandomi lì, mi portò in cortile e mi fece vedere un recinto, un parco di armi, macchine da guerra siluri, missili, cannoni. Io rimasi totalmente stupito e sorpreso e, addirittura, come eccitato da questa cosa, scoppiai in una gran risata. Era talmente sorprendente vedere un arsenale in un cortile di un palazzo a Roma, nella periferia di Roma, in un palazzo di sette, otto piani, e questo cortile pieno di polli, di galline e in mezzo un parco di armi. Tanto più che erano fatte talmente bene da ingannare completamente. Sembravano vere Sembrano vere!». L’anno dopo, nel ‘66, ci fu la mostra insieme a Mambor dove Pino conobbe Achille Bonito Oliva. Questi era un giovane poeta non ancora trentenne al suo primo esordio come critico d’arte. La mostra si tenne alla Libreria Galleria Guida a Napoli. Qui c’era la rinomata “saletta rossa”, dove avvenivano incontri e dibattiti culturali e che già aveva ospitato intellettuali e scrittori come Ungaretti, Moravia, Montanelli e Kerouac. All’inaugurazione Achille Bonito Oliva intervistò i due artisti. Pascali esponeva il Muro del sonno e la Clessidra, Mambor i Cubi mobili. Pascali era l’artista che aveva una visione materiale dell’arte, mentre Mambor era più mentale, “magrittiano”. Ma già in Pascali si intuiva l’anticipazione dell’arte povera osserva Achille Bonito Oliva riferendosi a opere minimaliste come il Mare. Pascali non era un artista asettico, scolastico, era vitale e spiritoso. Il giovane critico fu profondamente colpito da questo personaggio ironico e allo stesso tempo profondo, considerandolo già un passo avanti rispetto agli altri artisti del momento. Erano gli anni in cui cominciava un’arte fatta di materiali naturali, col poverismo contrapposto alla civiltà opulenta e industriale. Facciamo a questo punto un riesame delle personalità coinvolte o escluse dall’Arte Povera deve indurci infine a riflettere con più attenzione sul posizionamento di Pino Pascali la sua presenza tra le fila dei Poveristi ha destato sin da subito notevoli perplessità, per via del fatto che egli non regredisce mai a uno stadio effettivamente “preiconografico”, ma rimane implicato nella problematica dell’Im-Spazio. Riosservando attentamente le opere realizzate dall’artista a partire dalla metà degli anni Sessanta, si possono infatti cogliere gli elementi di una poetica genuinamente pop che non verranno mai meno, neppure dopo aver partecipato alla nascita ufficiale dell’Arte Povera. I Frammenti anatomici (1964-65) rivelano la loro radice pop sia nelle forme sintetiche assunte da un labbro o da un torso di donna, sia nella logica del blow-up che ingigantisce i dettagli del corpo. Pascali recepisce notevoli stimoli dalle proposte della Biennale di Venezia del 1964 elaborando poi quella sintassi dell’artificio e dell’oggetto che lo avrebbe portato alla realizzazione delle cosiddette “finte sculture”, esiti di un giocoso bricolage che intende spiazzare e ingannare il fruitore. Anche le Armi (1965), citate nel primo scritto di Celant sull’Arte Povera come esiti di un libero configurarsi dell’artista, pertengono ancora a un universo pop, a una poetica dell’artificio: si tratta infatti di grandi armigiocattolo con cui l’artista può giocare e divertirsi, come dimostrano le note fotografie dell’artista in divisa militare vicino a esse. All’universo ludico appartengono anche i Dinosauri, la Vedova Blu, i Bachi da setola e tutti gli altri animali del 1967-68 “rifatti” con materiali sintetici e coloratissimi, pescati direttamente dal mondo industriale. L’evidente carattere scenografico di queste opere pone il loro fruitore in una condizione quasi attoriale che però non è, come nel caso dell’arte di comportamento, partecipazione ai processi della vita e della materia, ma ingresso in un immaginario fantastico che fa leva ancora su una sintassi iconica, su una sinteticità squisitamente pop. Lo stesso vale per opere del 1967 come Il mare o le Pozzanghere, definite da Celant come “sineddochi naturali di un mondo naturale privato di ogni maschera, violato nel suo tabù di banalità, spogliato e denudato”, che si rivelano invece essere artificiali, sofisticate. Le vasche dei 32 metri quadri di mare circa (1967), esposte per la prima volta a Lo spazio dell’immagine, nel 1967, non contengono acqua marina bensì comune acqua colorata con anilina, che il rigore modulare dei contenitori contribuisce peraltro a determinare plasticamente: il valore visivo appare prioritario rispetto a quello materico e fa ancora leva su logiche illusorie, per una rappresentazione astratta e geometrizzante del mare. Anche la problematica della misurazione, fattasi centrale nelle esperienze concettuali, viene affrontata con una certa ironia, come conferma la presenza di quel “circa” nel titolo, proprio a indicare la vanificazione di criteri esatti in forza di una più sbrigativa approssimazione . Se le strategie dell’Arte Povera prevedono interventi ambientali diretti, senza filtri e senza mediazioni, con fluidi inneschi processuali o piatte e neutre constatazioni tautologiche, quelle di Pascali provvedono invece ad ampliamenti virtuali dell’ambiente stesso secondo una riedizione artificiale degli elementi naturali, risultando perciò diametralmente opposte. L’autore si fa infatti erede di quell’ambizione a una “ricostruzione artificiale dell’universo” che risale al Secondo Futurismo e che portava artisti come Giacomo Balla e Fortunato Depero a celebrare le materie sintetiche, le sostanze sgargiantissime e “i liquidi chimicamente luminosi di colorazione variabile” , come l’anilina utilizzata da Pascali. Le idee di un giocattolo futurista, di un complesso plastico, di un animale metallico o di un paesaggio artificiale messe a punto da Balla e Depero riaffiorano in tutto l’immaginario dell’artista pugliese, che non rinuncia alla forza plastica dei materiali artificiali e scintillanti neppure nel “rifare” oggetti e reperti di antiche civiltà come L’arco di Ulisse, La tela di Penelope o Il ponte, tutti del 1968, realizzati perlopiù in lana d’acciaio e ispirati dalla lettura de Il pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss. L’immaginario è ora mutato e l’artista si avvia alla riscoperta di un mondo lontano e mitico, rigenerando così il rapporto con il proprio, rimanendo pur sempre nella dimensione della virtualità rappresentativa. Restano però da analizzare le due opere con cui l’artista partecipa alla mostra genovese del 1967 figurando nella sezione Arte Povera, ossia 1 e 2 metri cubi di terra, opere in cui Pino Pascali sembra prendere le distanze dall’elaborazione di un immaginario per spostarsi sulle problematiche della tautologia, sposando così la causa poverista . Il carattere geometrico dell’opera, che nella mostra genovese fa da contraltare ideale alla coeva Catasta di Boetti, ispira il rimando a una grammatica minimalista che però stride con la comprovata volontà poverista di evadere la rigidità e la regolarità della forma. Sembra intervenire a ovviare a questo problema un intento analitico, l’indicazione di un tautologico atto di misurazione che ascriverebbe le due opere di Pascali al filone del Concettuale, sottolineando la pura autoreferenzialità del cubo terroso. Ma una più attenta analisi dell’opera ci permette di comprendere come questo tentativo si riveli del tutto fallace, segno forse di un’inadeguatezza dell’autore a quelle problematiche: i cubi di Pascali, infatti, si pongono ancora nell’ordine costruttivo delle sue “finte sculture”. Affissi alla parete, come a sfidare la loro ipotetica pesantezza, i due prismi manifestano una compattezza difficile da ottenersi con un materiale così informe e friabile. I blocchi non sono infatti pieni, ma cavi, perché costituiti da leggere intelaiature in legno, come quella dei Dinosauri, ma ricoperte di terriccio. Come per le Pozzanghere, anche qui le dimensioni fornite sono approssimate, ancora una volta a sfidare l’ipotetico valore di verità insito nell’opera. I Metri cubi di terra, dunque, non sono tali come sembrano suggerire i loro titoli, rivelando un carattere tutt’altro che tautologico, attestando ancora per l’autore l’importanza dell’illusione, della virtualità, dell’opera come ludico inganno. Alcune affermazioni dello stesso Pascali non lasciano dubbi sulla contrarietà dei suoi orientamenti poietici in rapporto a quelli poveristi: Gli americani si possono concedere il lusso di prendere una cosa e di inchiodarla su un quadro e il quadro viene, di prendere un fumetto e rifarlo e il quadro è un quadro perché loro nel loro gesto riassumono storicamente quello che veramente è la loro civiltà, la più progredita dal punto di vista tecnologico. la nostra civiltà è, invece, una civiltà che, sul piano tecnologico, è indietro rispetto a quella americana, per cui un’azione diretta fra uomo e materiale è pazzesco. In fondo, ormai, gli artisti devono usare i materiali che fanno gli scienziati perché la natura si è esaurita, è nata una nuova natura. Siamo nati qui e abbiamo quel patrimonio d’immagini, ma, proprio per vincere queste immagini, dobbiamo vederle freddamente e, proprio, fisicamente per quello che sono e verificare che possibilità hanno per esistere ancora. Se questa possibilità è una finizione, uno accetta la finzione Io, praticamente, per sentirmi uno scultore devo fare delle finte sculture. A differenza delle opere realizzate da Anselmo, Calzolari, Kounellis o Zorio tra il 1966 e il 1968, in nessuna opera di Pascali è possibile avvertire una vocazione processuale, la necessità di un’interazione attiva con il tempo e con la corruttibilità o la resilienza dei materiali. L’evaporazione dell’acqua che si verifica nelle sue Pozzanghere durante il tempo di una mostra non costituisce un elemento significante dell’opera, ma rimane un limite della natura cui è inevitabile ovviare, rabboccando di tanto in tanto le vasche. A fronte del “libero progettarsi” predicato da Celant, Pascali ha peraltro sempre agito nella direzione di una solida coerenza stilistica, talvolta ricorrendo anche a strutture modulari di matrice concretista, ma quasi sempre approntando iconografie sintetiche e replicabili, rispondendo ancora, in pieno clima poverista, a una mai spenta volontà di forma. Posso dire che solo tre anni di attività artistica Pino ha guadagnato l’attenzione dei maggior critici d’arte italiani (Vivaldi, Calvesi, Brandi, Rubiu, Boatto, Bucarelli, De Marchis) e di galleristi d’avanguardia, come Sargentini, Sperone e Jolas che si contendevano le sue opere. La sua breve vita è stata un turbine di attività, di creatività e di idee, grazie al suo carattere estroso, al suo modo di fare ed alle sue capacità espressive. Un carattere particolare nel quale si è cercato di indagare, raccogliendo decine di testimonianze, di aneddoti e di curiosità per conoscere ancora di più questo “ragazzo terribile”.
Proporre l’opera di Pino Pascali mira a dare continuità al legame tra l’artista e la scenografica dimora manierista ponendo quest’ultima come ideale palcoscenico per la breve e straordinaria parabola dell’autore, innovatore multiforme e poliedrico interprete, e ribadendone il ruolo centrale di officina della contemporaneità dalle forti radici nella storia. L’ esposizione continua con i lavori di Francesco Vezzoli e Paola Pivi, le installazioni di Maurizio Cattelan, Roberto Cuoghi e Lara Favaretto, fino alla collezione di libri di Roberto Fassone. La mostra continua esplorando il gioco e il suo contributo nella sovversione delle regole con artiste e artisti che hanno tratto ispirazione dal mondo dell’infanzia per svelare l’incoerenza del mondo adulto e della società. Si incontrano le opere di Alberto Savinio e di Enrico Baj. La cultura postbellica europea e nordamericana è invasa da “neo” e “post”. Secondo molti critici le seconde avanguardie (o “neoavanguardie”) non furono altro che una ripetizione dei movimenti storici d'avanguardia, magari con la stessa volontà di rottura, ma indubbiamente con meno verve; dagli anni Sessanta in poi gli artisti cercarono di riannodare il filo che si era interrotto a causa delle due guerre, assimilando esperienze e pratiche già di successo. Riscoprirono alcuni degli espedienti delle avanguardie storiche, quali l'analisi costruttivista dell'oggetto, la pittura monocroma, l'immagine-fotomontaggio, il collage e la critica dei modelli espositivi tramite il ready made, inserendoli però in un contesto contemporaneo. Come ricorda Foster, «quella dei ritorni storici è una vecchia questione nella storia dell'arte; anzi, sotto forma di rinascimento dell'antichità classica, ne è uno dei fondamenti». Se gli anni Trenta simboleggiarono il momento culmine del modernismo, gli anni Sessanta segnarono invece l'epoca del postmodernismo. Postmoderno è ciò che segue il moderno e l'avanguardia storica, rappresenta un'epoca, un periodo di nuovo inizio dopo la fine della modernità; è la cultura di una società di consumatori, nella quale le merci hanno un'importanza fondamentale perché lo stesso mercato è divenuto un'autorità culturale in grado di legittimare o meno un autore. Storicamente il modernismo è stato identificato con le avanguardie storiche, a loro volta associate a un concetto di originalità e antagonismo con le poetiche precedenti dell'accademismo. Il loro programma era demolire l'arte e la sua tradizione: con essa e tramite essa è cambiata l'idea di opera, non più concepibile. Il postmodernismo al contrario, non nega ciò che lo ha preceduto, ma lo assimila e lo rielabora nel proprio stile. Fin dal Rinascimento un'opera d'arte era apprezzata non tanto per la sua originalità, quanto per sua la capacità di fare riferimento alla tradizione. La storiografia rinascimentale stabilì un canone di valori e un modello di bellezza ideale, al quale le opere d'arte dovevano attenersi: per Vasari l'arte doveva proseguire verso un classicismo universale che rappresentava la misura per valutare le opere di epoche successive. L'innovazione era contemplata solo come conseguenza implicita del mutare delle condizioni del lavoro artistico e non come fine perseguibile. Di contro, nell'arte moderna l'essere legati a un contenuto particolare o a un determinato tipo di raffigurazione non è più obbligatorio e anzi costituisce un concetto superato, poiché l'arte è divenuta nel tempo uno strumento libero che l'artista utilizza anche con fini introspettivi. Mentre il modernismo simboleggiava una reazione e un tentativo di resistenza all'emergere dilagante della società di massa e della massificazione, il postmodernismo sembra essersi quasi rassegnato nei loro confronti, accettando di venire completamente inglobato nei loro meccanismi. Esso rappresenta una fase storica che occupa quasi tutta seconda metà del XX secolo, durante la quale vi sono state numerose riconfigurazioni materiali e soprattutto culturali, che appaiono come una perdita dei punti di riferimento, quasi in preparazione di una rivoluzione tecnologica. Il suo inizio va ricercato nell'acquisizione del potere rappresentativo: il movimento Concettuale è stato il momento di massima sublimazione ideologica, la prima corrente che si è opposta alle regole del moderno e che ha segnato un punto di non ritorno. In questi anni si è delineata una frattura fra l'ideologia dell'arte e il concetto di “arte per l'arte”; se nel moderno vi è stata la corrosione dell'estetica, nel postmoderno si passa all'esternazione dell'apparenza. Nella società degli anni Settanta l'arte continua a essere un manifesto di etica sociale, ma a seguito del fallimento di determinate ideologie politiche, assume forme e contenuti differenti. Le opere di Kosuth ispirarono intere generazioni di artisti e l'arte Concettuale divenne la rappresentante del portato teorico dell'arte. La pittura è una delle arti in cui il rapporto tra modernismo e postmodernismo assume una valenza chiarificatrice. Il modernismo cercava l’essenza dell'arte: in pittura ciò portò all'eliminazione della rappresentazione figurativa, accusata di eccessiva teatralità, a favore di un ambiente più introspettivo e autocritico. Al contrario il postmodernismo ritiene che l'arte non possa isolarsi dalla quotidianità ed evitare connessioni o scambi con il mondo reale: la teatralità, la rappresentazione e il racconto sono le modalità di articolazione del vissuto umano e quindi simboleggiano una materia che la pittura non può ignorare. A partire dall'architettura il postmodernismo si diffonderà in tutte le arti: in pittura vi sarà il recupero del figurativo, in letteratura l'abbandono degli sperimentalismi, il ritorno dei generi e la commistione tra arte colta e forme più popolari. Il comune denominatore di tutte queste tendenze sarà la rinuncia al dogma fondamentale dell'avanguardia, ovvero la necessità di essere innovatori ad ogni costo. Il postmodernismo abolisce la gerarchia delle avanguardie storiche, secondo la quale ciò che era nuovo doveva inevitabilmente sovrapporsi al passato, rendendolo di conseguenza inutilizzabile e svuotandolo di significato. All'ordinamento fondato sul tempo, tipico del modernismo, sostituisce la valorizzazione dello spazio, privilegiando la performance, che ora rappresenta una forma d'arte vera e propria. Come già ricordato, essa costituisce un evento determinato, che accade in un momento prestabilito, in una sorta di presente perpetuato; il luogo, i partecipanti, le condizioni ambientali in cui tutto avviene diventano le componenti caratterizzanti l'evento stesso. Nella cultura della postmodernità la produzione di linguaggi estetici si inserisce nella perdita di “valore d'uso” e nella riduzione radicale delle opere a “valore di scambio”, in una società votata verso l'esteriorità. Quando Duchamp presentò i suoi ready made negli anni Dieci del Novecento, pose la questione del valore estetico, di cosa contasse veramente nell'arte, suggerendo che in un contesto borghese il valore dipendesse dall'autonomia dell'oggetto, ovvero dalla possibilità di separarlo dal mondo che lo circondava. Da una parte l'opera viene definita secondo il suo valore di scambio (o per Benjamin, l’Austellungswert”, il valore di esponibilità), come accade per una merce; dall'altra essa è definita in termini di valore d'uso. Questo conflitto tra valori rappresenta il punto cruciale dell'ambiguità critica messa in gioco dai ready made. L'arte nel periodo postmoderno favorisce gli investimenti economici, inducendo gli artisti più “integralisti” a isolarsi per evitare compromissioni e perdite di significato causate dalla “contaminazione” con il mercato. Divenuta particolarmente interessante sotto il profilo economico, tanto da rappresentare un vero e proprio investimento monetario, l'arte postmoderna ha progressivamente liberato i propri dogmatismi alla ricerca del successo commerciale e verso la metà degli anni Settanta ha posto fine alle ideologie politiche, iniziando a puntare verso il mercato. L'ideologia sottesa all'azione dell'arte nelle avanguardie storiche e nelle neoavanguardie ha spinto il portato comunicativo verso una radicalizzazione dell'interventismo attivo del singolo individuo; l'arte postmoderna si è posta tra mercato e creazione, tra artista e fruitore, rimanendo però sempre saldamente ancorata al mercato. Il postmodernismo esaurì la propria carica come concetto egemone a livello culturale negli anni Novanta, e ora per indicare la contemporaneità si cercano nuove definizioni, come “era post-umano”, in riferimento ai progressi scientifici e tecnologici e all’intelligenza artificiale. Nel tempo nei confronti dell'avanguardia è stato perpetrato un esproprio di tecniche e linguaggi, ormai da tempo integrati (contro la loro natura) nei sistemi di comunicazione di massa, che ne abusano continuamente; come si vedrà in seguito, il destino di mercificazione e russificazione incombe sull'avanguardia. L’attività artistica del milanese Enrico Baj comprende «mezzo secolo di avanguardie», per citare il sottotitolo delle Conversazioni con Enrico Baj di Luciano Caprile, da lui così motivato: «l’avanguardia è il clima di fondo che permea ogni discorso, ogni pensiero di Enrico Baj» . L’avanguardia per Baj ha infatti un significato metastorico quando il concetto viene riferito a quella pratica artistica che non fa della novità un valore assoluto ma che si mette all’insegna dell’immaginazione. Il Surrealismo per Baj è stato senza dubbio il «movimento più importante del secolo, vuoi per la quantità e la levatura degli aderenti, vuoi per le radici lontane da cui deriva, vuoi per le sue proiezioni, tuttora vitali attraverso l’automatismo e le varie figurazioni simboliche dell’immaginario» .

Attraverso André Breton, conosciuto a Parigi nel 1962, che in un saggio del 1963 a lui dedicato interpreta l’«aspetto ironico di Baj» come «una maschera che camuffa un impegno costante contro ogni forma di distruzione e di oppressione dell’uomo sull’uomo» , Baj si inserisce nel «flusso della fantasia» che egli individua nell’arte di tutti i tempi con quell’«ironia dissacratoria» e quel «continuo rinnovarsi dell’espressività» che secondo la moglie, Roberta Cerini Baj, hanno caratterizzato la sua opera nei vari periodi. Il Surrealismo è per Baj anche legato intrinsecamente alla patafisica grazie all’anticipatore Alfred Jarry, che ha insegnato all’artista milanese fondatore nel 1963 dell’Institutum Pataphysicum Mediolanense, in presenza tra l’altro di Raymond Queneau , che quel «che non può fare la ragione positiva, l’impossibilità cioè di risolvere i problemi dell’umanità, è invece verificabile in patafisica mediante le soluzioni immaginarie». Si tratta dunque di un’interpretazione «propositiva» dell’«accettazione del paradosso e dell’assurdo», e quindi di «una sorta di anarchia della scienza e del potere scientifico». La sovversione patafisica si dirige non solo contro i “dogmi” o “paradigmi” della scienza che Baj riporta all’epistemologo Thomas Kuhn, ma anche contro l’archetipo del potere, l’Ubu Re di Jarry, che va combattuto con l’ironia, definita da Baj «uno dei pochi sistemi di difesa che i popoli hanno, che l’uomo comune ha». Sarà la patafisica “spirale” che parte dall’ombelico di Ubu Re a determinare la predilezione di Baj per gli arabeschi e i ghirigori della fantasia, e a ispirarlo nelle sue battaglie contro «l’estetica dell’angolo retto». Ma anche a tener congiunti in un’unica arte il gioco e la «resistenza all’oppressione in quanto tale», per Baj non esiste contraddizione tra «impegno» e «patafisicità» . Il primo gesto avanguardistico di Baj è la fondazione a Milano del Movimento Nucleare insieme a Sergio Dangelo nel 1951. Questa iniziativa, che secondo Baj stesso a distanza di anni peccava di «avanguardismo facile», costituisce invece anche una costante nell’evoluzione di un’arte volta al paradosso in senso ironicocritico. Sotto la voce Movimento nucleare scrive Baj in Ecologia dell’arte.Il Movimento nucleare che produce vari manifesti avanguardistici è stato studiato ampiamente dalla critica internazionale nel contesto dell’arte nucleare nazionale e globale e della critica dell’avanguardia. Pierpaolo Antonello contestualizza il nuclearismo di Baj e Dangelo all’interno di ciò che chiama il «riduttismo apocalittico» degli anni Cinquanta, ovvero la tendenza sia in Italia che all’estero di «“ridurre” la preoccupazione per questa minaccia da una parte, mettendo in risalto le potenzialità emancipative e materiali dell’energia atomica, dall’altra cercando di comprendere le implicazioni tecniche, belliche e geopolitiche di questo nuovo oggetto». La limitazione della pittura nucleare di Baj a una fase specifica nell’immaginario apocalittico non tiene però conto dell’evolversi della sua opera che porta la «denuncia» contenuta nel Movimento nucleare direttamente a I funerali dell’anarchico Pinelli del 1972 e, dopo lo scoppio di Chernobyl nel 1986, all’allestimento all’interno di un laboratorio artistico per il Centro Studi Libertari della performance Re Ubu a Chernobyl, ovvero da Pinelli all’Apocalisse. Viaggio di gruppo con Enrico Baj tra mostri ordinari e straordinari. Tale continuità di temi all’interno di un’arte civile e combinatoria testimonia di un’interpretazione ontologica dell’avanguardia che rimane costante in Baj e che anch’essa può essere riportata agli anni Cinquanta. Si tratta, secondo Sven Lütticken, di un’interpretazione dell’epoca nucleare postbellica nei termini di una “tragedia esistenziale” più che in quelli di un soggetto politico, e in quanto tale di una concezione profondamente umanistica dell’opera d’arte, che resiste nonostante la minaccia della distruzione totale della cultura e della vita. Alla crisi dell’estetica, resa ancora più acuta dalla minaccia nucleare, Baj risponde dunque con un’estetica che diventa pratica e teoria della crisi. In altre parole, come sostiene Gabrielle Decamous, reagendo a una tecnologia con una bipolarità così radicale come quella nucleare, gli artisti non solo vengono confrontati con quest’ambivalenza tecnologica, ma si sfaldano anche le categorie estetiche binarie di autonomia modernista da una parte e pratiche politicamente impegnate dall’altra. Tale crisi all’interno dell’eredità modernista e della successione progressiva delle avanguardie costituisce allo stesso tempo il potenziale critico per mettere in questione la nozione di progresso nelle scienze . Se si può percepire una “svolta” nell’avanguardismo di Baj a partire dal 1959 , essa è dunque riconducibile sia alle sue riserve nei confronti del Situazionismo, sia alla mercificazione dell’avanguardia, che egli identifica con la Pop Art americana e con la “Factory” di Andy Warhol, campione della filosofia del “commercio” e del “cinismo” nell’arte. La traiettoria di Baj procede invece lungo la linea sperimentale dell’“opera aperta” con cui Umberto Eco nel 1962 teorizzava l’arte informale, e lungo la linea metastorica del continuo riposizionamento dell’opposizione artistica che porta Baj infine alla conclusione, nelle conversazioni con Caprile, che «l’unica posizione possibile di avanguardia oggi è l’inattualità». Quest’ultima posizione paradossale può essere associata a quella di Edoardo Sanguineti, che contro la tesi della normalizzazione dell’avanguardia poneva nel 1976 quella della “nuova temporalità” di un’avanguardia «pienamente consapevole della storicità del museo e della storicità della propria rivolta». Baj incontra Sanguineti a Milano nel 1951 quando questi stava scrivendo Laborintus e lui stesso era alle prese con la prima mostra di pittura nucleare. I due artisti condividevano allora la stessa posizione in bilico tra utopia e distopia riguardo ai possibili effetti dell’energia nucleare sui campi della scienza e dell’arte. Da qui nascerà una lunga collaborazione sperimentale e “resistente” che, dopo la pubblicazione combinatoria nel 1968 di Baj: The Biggest Art-Book in the World, ispirato a Cent mille milliards de poèmes di Queneau del 1961, continuerà con la messa in scena “ironica”, letteraria e pittorica, delle composizioni Apocalisse e Berluskaiser del 1994. Infatti, l’unico significato che può avere per Baj la rivisitazione postmoderna del «passato-museo» è insita nell’«ironia» della citazione come esposta da Eco nelle postille a Il nome della rosa . La sua apertura verso la collaborazione interartistica nonché la predilezione per il collage o l’arte dell’assemblaggio fanno infine di Baj un erede paradigmatico di un approccio interdisciplinare dell’avanguardia, non più riconducibile a categorie o schemi ideologici ma che invece si costruisce nella sperimentalità dell’opera aperta, nella critica dei parametri normativi e nella freschezza e lo zelo della confidenza iconoclasta . Dunque, il progetto di Baj è riassumibile nella messa in pratica di «una ecologia dell’arte e dell’opera d’arte, che si pongono più che mai come metafora e simbolo del nostro immaginario, della nostra fantasia e, in definitiva, della nostra libertà». Ne è un esempio la composizione in progress Apocalisse in cui la metafora dell’immaginario si fa «teatro» e così si sottrae alla cinica logica del mercato. Quest’opera manifesta «un forte impegno civile contro ogni tipo di aggressività» che la mette in continuità con i “generali” degli anni Sessanta e le grandi opere I funerali dell’anarchico Pinelli avvenuti nel 1972 e Nixon Parade (1974), con le quali forma un trittico a cui si aggiungerà Berluskaiser nel 1994. Questa serie mette in crisi la massima libertaria sessantottina dell’immaginazione al potere, e quindi può essere analizzata come la risposta “post-Sessantotto” di Baj a una condizione che egli analizza sulla scia di Gregory Bateson nei termini di un inquinamento mentale che pervade anche «i territori dell’immaginario». Il Sessantotto segna per Baj non tanto un momento di liberazione ma un episodio di repressione che porterà avanti una storia di aggressione e di oppressione sostenuta sia dalla scienza che dall’arte. Negli anni Sessanta l’artista lavora ai “generali” che «rientrano nel tema della mascherata sociale nel modo più critico, come denuncia degli abusi di potere a opera delle più alte gerarchie militari» . Si scontra in varie occasioni con diverse forme di censura, tra cui il sequestro nel 1961 del “grande quadro antifascista collettivo” esposto durante l’esibizione-manifestazione a Milano Anti-procès 3, allestita su iniziativa di Alain Jouffroy e Jean Jacques Lebel in protesta contro la guerra sporca in Algeria, e «perseguitata per offese alla morale corrente, alla religione e a capo di stato estero» e la censura dei generali alle biennali di São Paulo del 1963 e di Venezia del 1964. Quella della premiazione di Rauschenberg alla Biennale di Venezia del 1964 è inoltre per Baj la prova della collusione tra arte e potere: l’avanzamento della Pop Art lo interpreta come un «affare di Stato protetto addirittura dai servizi segreti». Il grande quadro I funerali dell’anarchico Pinelli del 1972, anch’esso oggetto di censura, deve essere interpretato alla luce di questo contesto repressivo. Con i riferimenti al dipinto del futurista Carlo Carrà, I funerali dell’anarchico Galli (1911) e all’opera profetica Guernica di Picasso, Baj si inserisce nella tradizione anarchica delle avanguardie storiche, ma il manifesto che accompagna l’opera introduce anche un’interruzione e uno spostamento di direzione. Mentre i manifesti precedenti pubblicati tra il 1952 e il 1959 si iscrivono ancora pienamente nella retorica del “gesto” avanguardistico, Cosa è un quadro dà una risposta d’artista allo sgretolarsi dell’autonomia dell’arte con l’«espansione propiziatrice della sintesi arte-vita che, come quella clorofilliana, darà, speriamo, nuovo ossigeno alle nostre menti inquinate», e con un quadro che, come già Guernica, si scosterà «dalla generica spinta alla identificazione gestuale con la vita» e che si farà invece «rappresentazione» e «testimonianza» del fatto realmente accaduto. Gillo Dorfles, a proposito del rapporto tra arte e società nell’opera di Baj, descrive il periodo post 1968 come la svolta nell’arte verso «un’esaltazione di fermenti egocentrici o addirittura “autistici”, di più o meno approfondite indagini psicologiche o psicanalitiche» mentre mancano «operazioni» che valorizzino «l’assetto sociale», a eccezione di Baj: «Eppure c’è un artista italiano – uno dei più narcisisti, dei più giocosi, dei più sperimentali, e, in apparenza, dei più “frivoli” – che ha tratto un notevole impulso e una notevole carica creativa dalla situazione sociopolitica in cui viviamo». Tale coerenza sociale deriva anche dal senso di apocalisse che come si è visto accompagna l’artista già a partire dal Movimento nucleare, motivo per cui Eco inserisce il manifesto del 1959 nel compendio all’Apocalisse di Baj. Ricorda Jan van der Marck che Baj, in un’intervista con Ellen Wardwell nel 1977, che aveva già accennato all’opera in preparazione. In alternativa alla dialettica “arte per arte” e “arte impegnata”, Baj propone la “mostruosità” dell’arte. È illustrativa la sua critica verso artisti e critici che scambiano l’autoreferenzialità dell’arte con l’incidere sulla realtà paradigmatica in questo senso la critica espressa da Baj verso i fenomeni della pseudo arte ecologica di Christo, Alberto Burri e dell’Arte Povera e con il valore di mercato . Altrettanto feroce è la sua critica verso quell’arte che si identifica con l’apocalisse da contrastare: l’arte autodistruttiva secondo Baj è un vicolo cieco che può anche degenerare in esiti perversi. Invece la voce Mostri e anamorfosi nel dizionario artistico Ecologia dell’arte contiene quell’idea del dualismo dei significati con cui ama giocare Baj: in sintonia con la patafisica di Jarry, l’artista considera il mostro «il segno di un processo che, dando libero corso a tutte le possibilità, mette in pericolo le certezze». L’apocalisse pullula di mostri che sono stati interpretati dalla critica come costitutivi dell’ambiguità dell’avanguardia di “protesta” e di “gioco” di Baj . Entra così in scena la categoria dell’eterogeneo, elemento già inerente al collage che viene legato non solo alla qualità dell’opera stessa ma anche al suo allestimento in continua mutazione. Così facendo Baj affranca l’opera d’arte dal museo e l’inserisce nella sfera della vita, combattendo allo stesso tempo il mostro della “morte dell’arte” e della «morte generalizzata senza salvezza conseguente» con cui Edgar Morin identifica «L’Apocalisse di terzo tipo» a cui appartiene anche l’Apocalisse di Baj. La sua, infine, è “l’apocalisse critica” attribuitagli da Eco nel suo saggio dedicato all’opera. Eco distingue tre sensi nel pensiero apocalittico. In conclusione, l’avvicinamento al teatro e il discostamento dallo “spettacolo” di Baj è un ulteriore passo verso la “messa in movimento” dell’avanguardia, e può essere considerato l’elemento più innovatore dell’apocalisse “critica” di Baj. Con le sue composizioni l’artista invita a riconsiderare il “post” come il sentirsi postumi alla salvezza e allo stesso tempo essere eredi di una «estrema libertà creativa» che è la «forza dell’arte moderna». Infine voglio raccontare della nascita e dello sviluppo del Movimento Nucleare attraverso una selezione di opere firmate dai fondatori e dagli artisti che con loro collaborarono. e della seconda fase nucleare, in cui si accentua la materialità organica della pittura di Baj. Ma è Luigi Castellano a dettare il passo successivo, promuovendo nel 1958 l’omonimo gruppo formato da giovani artisti napoletani: Biasi, Del Pezzo, Di Bello, Fergola, Luca, Persico, e pubblicando nel giugno dello stesso anno il primo manifesto collettivo, accolto “in un clima di sgomento, di ostilità e di scandalo”. Punti di riferimento esterni alla città rimangono Baj e il gruppo nucleare, trovando inoltre una sponda utile e prestigiosa nella rivista Il Gesto, cui Biasi collabora negli stessi anni. Altro momento chiave giunge nel gennaio 1959, quando la mostra gruppo ’58+Baj alla galleria S. Carlo l’unica galleria che sostiene il gruppo, come viene sottolineato e il parallelo Manifeste de Naples, sanciscono definitivamente il connubio artistico tra la sperimentazione napoletana e quella nucleare, guardando contestualmente alle esperienze di Phases a Parigi e di Edda a Bruxelles: non a caso tra i corrispondenti di Documento Sud compaiono proprio Edouard Jaguer e Jacques Lacomblez, direttori delle due riviste. Contestualmente, è chiaro il ruolo strategico che in Italia svolgono periodici come i già citati Il Gesto e L’esperienza moderna, che non a caso condividono con la pubblicazione napoletana contraddistinta però da una maggiore “intransigenza” e autoreferenzialità autori e artisti, e rimandano nelle pagine pubblicitarie alle stesse riviste internazionali menzionate da Documento Sud, a sua volta posto tra le “riviste raccomandate” da Il Gesto. La rivista diretta da Castellano, in tale contesto, si propone di essere “il ponte” tra varie esperienze, “servendosi soprattutto (e non è un paradosso), di molte inedite tradizioni locali e del materiale di “colore” del vecchio Sud”, cui va aggiunto un certo orientamento generale verso tutto quello sperimentalismo centro-europeo (dalla seconda “vague” surrealista ai “Cobra”, ai “nucleari” ecc.) il quale sottolinea una certa aspirazione universale alla più spregiudicata libertà delle forme, così come è facilmente riconoscibile nel programma dell’avanguardia napoletana (e quindi nel suo organo) una ben precisa simpatia verso tutti i tentativi di instaurazione di una nuova infanzia figurativa (seconda una riscoperta in chiave “magica” del repertorio figurale). Così come vengono dichiarate le fonti ispiratrici, nella mappa culturale redatta all’interno di Documento Sud sono ben chiari anche i poli negativi e i riferimenti artistici da cui differenziarsi. È così che Mario Persico, in “Prima idea per una etica dello scandalo”, invita a superare le “ricette alla Fautrier o alla Wols” che portano ad allontanarsi da una adesione epidermica alla realtà, uccidendo “ogni percezione e sintomologia esistenziale”, e sostenendo invece “una mostruosa unità di pensiero”. Il pericolo, continua Persico, è di “schematizzare delle sensazioni”, riducendo “in formula ogni mistero Ogni cosa è registrata, lo stupore quasi non esiste, ogni immagine ha il suo freddo cifrario.”. La “condanna” di Wols e Fautrier nasce ovviamente dalla necessità di prendere le distanze da un tipo di pittura che, per le crettature della superficie e l’immersione materica del colore, avrebbe potuto essere avvicinata alle sperimentazioni degli artisti napoletani, che invece evidenziavano orgogliosamente la collaborazione con l’ambito nucleare, arricchito da risonanze surrealiste francesi e da un empito panico soggettivo unito alla riscoperta di una materia pittorica pulsante. Ne è chiaro esempio l’articolo “valore delle cose” , dello stesso Mario Persico, che si serve della pittura per spiegare il testo e viceversa, in un dialogo tipografico che costituisce uno dei tratti distintivi di Documento Sud. Gesto pittorico e scavo euristico procedono di pari passo, Persico si concentra sulla valorizzazione e riscoperta di “presenze paleontologiche ancora palpitanti” che progressivamente si impongono sulla superficie dell’opera, dando luogo a un incessante susseguirsi di “Fatti emozionali” enigmatici e sorprendenti di cui percepisco soltanto il fascino, Fatti o Cose che io definisco presenze ancestrali. Un naso, una bocca, un braccio, un organo genitale, o qualsiasi altra cosa può trasformarsi in un essere avente una propria “spina dorsale”. Siamo in effetti sempre all’interno di una dimensione figurativa che viene allentata e fratturata, percorsa da scoppi di colore, ma che pure resiste e riemerge. È una concezione che trova significativamente una stretta corrispondenza con le “immagini attive” teorizzate da Jaguer nell’articolo “Matiere + Mouvement = Feu” pubblicato nel primo numero del Il Gesto giugno 1955. Il critico francese invita gli artisti a creare delle immagini che sorgano dall’immediato confronto con il fluire della vita, liberando l’autore dalle costrizioni socio-culturali imperanti. Una tale volontà artistica non può che confliggere con un altro indirizzo coevo, cioè gli ultimi esiti dell’Informale, oggetto di specifici attacchi sia su Il Gesto che su Documento Sud: in particolare nel contributo “Così come vi furono un tempo dei poeti maledetti.” di Edouard Jaguer per quanto riguarda il primo; nell’articolo “invettive” di Guido Biasi e nel commento di Toni Toniato dedicato a Sergio Fergola per quanto riguarda il secondo. In particolare l’articolo di Jaguer, pur risalente al 1957, sembra funzionare da cornice di quanto emerso fino ad ora, affrontando una ricostruzione più ampia dello sviluppo storico artistico coevo, a partire dalla necessaria rivalutazione del Surrealismo e di Dada e dalla constatazione che le ultime urgenze artistiche nascono dall’“insurrezione contro la trascrizione puramente oggettiva della realtà”. Eppure, “questo movimento che va sotto il nome abusivo di ‘Tachisme’ o di ‘Informe’è evidente che non può minimamente pretendere di aver superato il surrealismo e l’arte astratta dei tempi eroici”. Aperture e chiusure seguono nel raggio di poche righe: Jaguer da un lato concede a Pollock di essere animato “da una foga spettacolare, da una specie di rabbia sacra introducendo tecniche ancora poco usate”, ma dall’altro precisa subito che tuttavia tali tecniche erano “procedenti in gran parte da scoperte anteriori, sovente di marca surrealista”, e che in ogni caso “non si trovava ‘LA’ questa ‘Art Autre’ di cui si è tanto parlato . O piuttosto, si, fu questo ‘ART AUTRE’, ma di fatto esisteva già dall’avvento di DADA”. Se nei primi artisti “informali” Jaguer ravvisa dunque delle note positive pur circoscritte e definite, è contro le derive attuali che viene puntato il dito “oggi assistiamo ad un’orgia reiterata di macchie colorate, sempre più aleatorie sprovviste delle connessioni psichiche che drammatizzavano l’opera di WOLS o di DE KOONING”, individuando invece le radici di un’avanguardia genuinamente rivoluzionaria nell’“azione considerevole del gruppo ‘REFLEX’, del movimento COBRA (1948-1951) e l’attività vigorosamente polemica del Movimento Nucleare di Milano”. Il commento di Toniato, si concentra sulla definizione della pittura come espressione di un dettato interiore, capace di tradurre “una aderenza assoluta alle strutture fenomenologiche e psicologiche” del mondo contemporaneo in “presenze emergenti di una concreta esperienza, di una situazione vissuta nelle sue varie dimensioni ed implicazioni”. Non c’è più il simbolo allora, quanto piuttosto “segni” che nascono da una “de-simbolizzazione dell’oggetto” e che portano in sé memoria del “mimetismo surreale di una loro originaria relazione”. In sostanza, Toniato vuole marcare la lontananza rispetto alla “sensibilità inerte di una incontrollata visione informale”, rispetto alla quale, a suo parere, le opere di Fergola, così come quelle degli altri pittori d’avanguardia napoletani, portano evidenti le tracce di un’archeologia visuale, da ritrovare sia nei ricordi personali, sia negli archetipi mitici meridionali: elementi questi che emergono anche nella scelta di disseminare la rivista di proverbi napoletani e di inserire spesso una foto dedicata a squarci di vita partenopei nelle prime pagine dei diversi numeri. Del resto, il ruolo chiave della figurazione viene giocato anche nel campo della scultura, come dimostra l’articolo di Marcello Andriani su Antonio Venditti , capace di riscoprire temi arcaici, perfino legati “allo stupore religioso del primo uomo: animali, gruppi di figure, e ancora figure, figure, figure…”, e di ridefinirli all’interno “di una mitologia nuova, complessa, misteriosa”. Venditti, sottolinea ancora Andriani, è “uscito sano e salvo dall’incubo dell’astrazione più amorfa”, facendo ritorno a una scultura in grado, oltreché di valorizzare gli aspetti formali, artigianali, della materia, anche di essere “metafora dei propri sentimenti” ancora una volta figurazione, elaborazione di un universo mitico ed echi di memorie personali si amalgamano all’interno di un’articolata ermeneutica interpretativa. Ma figurazione non vuole dire ovviamente scadere nel realismo, visto come conseguenza della negazione della libertà espressiva nei paesi socialisti. Lo testimoniano almeno due articoli: “L’avantgarde en Pologne” di Alexandre Henisz e “Realismo socialista nella Repubblica Democratica Tedesca” di Walter Fedler. Nel primo l’autore, parlando dell’Esposizione d’Arte delle 32 Repubbliche Popolari svoltasi a Mosca nel dicembre 1958, sostiene che il padiglione polacco fosse stato il più visitato, scandalizzando gli “ortodossi” del partito ed esaltando invece il pubblico per il tentativo di riprendere il dialogo con le avanguardie europee, interrottosi dapprima a causa della guerra e poi per le imposizioni staliniste di sviluppare un’arte di impronta realista. Anche Fedler, nel suo pezzo centrato sulla situazione delle arti nella Germania Est, non esita a denunciare una situazione in cui tutto è stato ridotto al livello di “una cattiva arte di fare manifesti”, soggetta alle volontà “dell’onnipotente funzionario culturale” e succube di un contenuto che non deve essere “in disaccordo con le direttive dell’ufficio politico . Vive soltanto il ‘realismo socialista’, l’arte di fare manifesti del pittore politico”. L’obiettivo dei due articoli è evidentemente quello di funzionare da raccordo con quelli rivolti contro l’Informale, per evitare che si ingenerasse nei lettori l’equivoco di assimilare la volontà di sovversione culturale del Gruppo 58, a quella militante partitica degli artisti legati al P.C.I.. Quella promossa dall’avanguardia napoletana è invece una lotta morale che nasce prima di tutto da un’esigenza personale e intima di “liberare” il Mezzogiorno da un’asfissia morale e culturale, con il proposito di “realizzare una graduale ibridazione dei diversi modi di pensare e di essere, tanto necessari a restituirci un individuo più vivo e sensibile”. L’accusa di essere provinciali viene ribaltata dagli artisti napoletani ammettendo da un lato il legame inscindibile con il territorio di provenienza (sottolineato anche nel lessico: “ovemai fossimo ‘guappi di cartone’ il nostro agire sarà sempre meno mortificante che se fossimo artisti disonesti e uommene e niente”), e dall’altro enfatizzando la necessità di promuovere un’arte che non sia imbrigliata in griglie omologanti. D’altra parte, i termini “provinciale” e “dialettale”, intesi in senso provocatorio e positivo, possono essere utili per leggere alcune delle caratteristiche della poetica portata avanti negli anni da Documento Sud, che tra i suoi obiettivi pone anche quello di valorizzare e risemantizzare la tradizione popolare napoletana: non a caso, in uno degli editoriali precedentemente citati si dichiarava di voler dare vita a “un sud laico e popolare”. È così che nascono, in senso antifrastico, i continui richiami alla superstizione e alla numerologia, riletti però secondo un’ottica surrealista, in grado cioè di attivare memorie recondite e creare cortocircuiti inventivi. Ne è un chiaro esempio l’inserto in cartoncino rosso di quattro pagine dedicato alla prima mostra del Gruppo 58+Baj la cui copertina è riquadrata dalla scritta “La superstizione contro la ragione”, commentata a sua volta dall’aforisma di Goethe che recita “La superstizione è la poesia della vita: in modo da non ferire il poeta di essere superstiziosi”. Funziona da controcanto giocoso il trafiletto intitolato “Il vostro destino” al centro della pagina, in cui la superstizione, dopo l’apertura a Goethe, torna a essere ricompresa nel suo senso tradizionale legato appunto alla numerologia e alle previsioni astrologiche. È evidente però che per Documento Sud, nella prospettiva di rileggere e valorizzare le credenze meridionali, la superstizione sia vista innanzi tutto come la capacità poetica di trasfigurare la realtà, facendo emergere sulla superficie significati arcani e reconditi: l’allusione all’arte degli aderenti al Gruppo 58 è lampante, e infatti molti commenti ruotano attorno al potere immaginifico delle pitture degli avanguardisti napoletani, in grado di filtrare e trasfigurare la realtà attraverso la propria sensibilità. La superstizione allora non sarà più un retaggio culturale da nascondere e lasciare nell’oblio, quanto piuttosto un’anticipazione, per certi versi, degli studi psicanalitici. A questo sembra almeno alludere Mario Persico nell’articolo “Gli atti deformanti”, accompagnato da una sua opera del 1959 . Persico sostiene che ogni trasformazione, innovazione decisiva, risieda “in un ‘atto’ o in una ‘deformazione’, indipendenti dalla realtà fino a quel punto concepita; vale a dire in una relazione illogica con essa”: da qui nascono dipinti e lavori in grado di trovare rapporti nuovi con la contemporaneità, a partire da una lettura personale del reale. È un percorso evolutivo che avviene in prima battuta nell’interiorità dell’artista, seguendo un processo euristico che deve molto alla psicanalisi e alle letture surrealiste ad essa connesse: “Freud ebbe coscienza della forza e delle conseguenze di quel ‘non logico’, e mosse da ‘esso’ per esplorare i labirinti dell’IO”. Associazioni mentali incongruenti, capacità inventive fantastiche: è la stessa interpretazione che Henry Delau offre delle pitture di LUCA nell’articolo Imagerie cosmica meravigliosa . Delau spiega infatti che una delle principali qualità di Castellano è quella di trasportare l’osservatore in una dimensione arcana, solcando territori inesplorati eppure visibili, superfici artificiali eppure memori di una loro profonda naturalità esistenti da sempre. Un ruolo chiave, in questa dinamica di riti arcani e tradizioni riaffioranti, è svolto dalla città di Napoli che permea di sé la rivista, sia attraverso la pubblicazione di proverbi e detti locali, sia attraverso opere d’arte che la presuppongono o la ritraggono direttamente. Ad esempio Castellano in Napulione e’ Napule , pubblicata sul secondo numero della rivista, con procedimento simile a quello di Baj di cui si dirà a breve, sovrappone una sua fotografia su una cartolina con il golfo di Napoli: il busto dell’artista emerge dal Vesuvio sullo sfondo, esprimendo un legame indissolubile con la città, e rendendo manifeste quelle intersezioni tra razionale e irrazionale, visibile e invisibile, di cui parla Delau nel suo articolo. Ma questa rilettura in chiave surrealista di Napoli contraddistingue tutto il periodico, a partire dalle foto inserite a fianco dell’editoriale nei primi quattro numeri, e raffiguranti aspetti tipici, folkloristici o legati all’ambito religioso popolare: nel primo numero una fila di reggiseni, nel secondo un teschio sormontato da una candela in quello che sembrerebbe un sepolcro sotterraneo, nel terzo un “madonnaro” all’opera , nel quarto una strada o un cortile con vari oggetti disposti alla rinfusa. L’intento è evidentemente quello di far scattare nel lettore collegamenti visivi e mentali inaspettati, cercando di rendere tangibile, come scrive Mario Persico in un’altra circostanza, “questa compenetrazione di ‘essenze’, facendo convivere il pessimo e l’ottimo, il brutto e il bello, il bene e il male (in tutte le loro accezioni) e tutte le apparenti antitesi che si possano immaginare”. Ideali antenati di simile operazione non possono dunque che essere “i Duchamp, i Max Ernst, gli Schwitters e altri, quando introdussero nel surrealismo il ‘readymade’ e ‘l’objet trouvé’”. Tuttavia, spiega ancora Persico, “essi miravano a produrre una serie di ‘schoc’ del tipo più generale, a trasferire sulla tela quel ‘fortuito incontro di un ombrello e una macchina da cucire su di un tavolo operatorio’ profetizzato da Lautreamont ”, mentre finalità del Gruppo 58 è “annullare ‘il giudizio di valore’, formulare un’estetica dell’accettazione totale”. Ancora più diretto è Guido Biasi che nel suo “Elogio del rifiuto”, partendo dall’assunto secondo cui “oggi il rifiuto è ormai irrifiutabile”, sostiene la centralità poetica e artistica “di oggetti in disuso, di cose usate e smesse, di rottami in disordine, di avanzi confusi”, capaci di riscattare la loro precedente destinazione funzionale attraverso una vita postuma, purificandosi, e tornando a essere “significato” e non più “funzione”: “Il rifiuto è la vendetta fantastica delle cose che si ribellano”. Le carte sono così definitivamente svelate ed è di nuovo Biasi, nelle “invettive” del quarto numero, ad affermare con decisione che “sia inutile negare che il Surrealismo abbia deposto le sue uova segrete in un luogo da noi ereditato, e che esse abbiano maturato il senso delle formidabili avventure che noi ci apprestiamo a vivere. Assistiamo oggi alla metamorfosi del fumoso fantasma onirico in allucinante Realtà di carne”. Quello che viene reclamato è dunque il permanere dell’immagine che segue sentieri associativi e meccanismi visivi surrealisti, abbinati a un senso tattile della pittura ma nel caso del rifiuto e del reimpiego entrano in gioco necessariamente anche Pierre Restany, il Nouveau Réalisme e il suo sviluppo successivo, ovvero la Mec-art, di cui infatti farà parte anche Bruno Di Bello. Snodo fondamentale sono in questo senso le sperimentazioni portate avanti da Baj, tra cui gli “specchi”, che vengono interpretati da Andriani come metafora della fantasia inventiva dell’artista “che ‘specula’, al momento, sulla magia delle superfici ‘speculari’”, ma soprattutto come manifestazione eclatante “di una visione violentata dalle crepe e moltiplicata dai frammenti apparentemente sconvolti”, che rivela a sua volta “un altro aspetto (magico ma presente fino alla più spiccata suggestione e sensazione delle dita) di quella ambiguità e plurivocità fantastica che lo affascinano fin dal fortunato e fortunoso periodo delle ‘montagne’ (1957-58)”. Non sorprende allora che nello stesso numero le opere di Colucci siano lette alla stregua di “larve e immagini di larve; larve future di prefigurazioni presenti, simboli di fatti senza data – la sua bicicletta di smalti pedala dentro liquidi soli verso violenze cromatiche dalle cifre inaudite”, in cui dunque dato pittorico e contenutistico si innervano l’un l’altro. Non diversamente, i lavori di Cena sono frutto di una profonda riflessione interiore “i suoi segni sono dettati da un impulso interno, per un discorso intimo con una realtà dello spirito”, che attraverso un “lungo processo formativo” si concretizza in un “mondo fatto di un messaggio di segni e forme” che “materializza sensazioni e percezioni nuove per un’epoca nuova”. È un sovrapporsi di stati emotivi e di materia pittorica che arriva a concretizzarsi visivamente in alcune opere presentate sul periodico, a partire dai quadri di Enrico Baj. È lo stesso artista a presentare una delle sue opere nate dalla sovrapposizione di oggetti incongruenti su pitture precedenti , facendo “apparire l’arrivo di alcuni sputnik o di personaggi di altri mondi su fondi assolutamente convenzionali”. L’effetto di spaesamento era accresciuto appunto dallo stratagemma di ricorrere a “fondi dipinti da altri pittori artigianali”, quanto di più “convenzionale e antiemozionale esista nel campo della visione” un effetto simile, aggiunge Baj, a quello provato quotidianamente da ciascuno di noi allorché, uscendo di casa, si immette in un sistema preesistente, prendendovi parte del riferimento eclatante alle “passeggiate” surrealiste. Dall’ambito surrealista il Gruppo 58 eredita anche le allusioni e un linguaggio critico afferente alla sfera sessuale, come dimostra, tra l’altro, l’articolo. “L’Eden e la satrapia del sesso” che Riccardo Barletta dedica a un dipinto di Sergio Fergola (Elegia). Tutto il commento, rispettando del resto l’iconografia del quadro, si sviluppa sui poli centrali della composizione (l’elemento fallico accanto a Eva, “esaltato da un alone luminoso”, e invece “l’esplosione vitalistica di una macchia di rosso acceso”, accanto ad Adamo), che arrivano a enucleare “il mito della caduta, il valore del sacro, il destino del mondo, l’antitesi tra sesso ed amore”. A livello pittorico, Fergola sviluppa invece un denso “simbolismo realistico” in cui riesce a conciliare il rispetto della forma e della figurazione con un uso espressivo del colore, rendendo “esperibili esistenzialmente le realtà rappresentate”. Una pagina propriamente surrealista è poi quella in cui a Il tagliatore di teste (collage del 1960) di Mario Persico viene affiancato uno scritto di Marcello Andriani , che svolge il tema della decapitazione dando vita a diversi micro racconti di poche righe: dalla richiesta di un marito che cerca “Tagliatore di Teste Anche Non Autorizzato Disposto Sopprimere Mia Moglie” alla narrazione postuma di un condannato a morte “Sentii la lama fredda dividere in un istante più rapido degli istanti normali la mia testa dal mio busto. La mia nuca batté con forza contro il fondo del paniere di vimini”, dall’elenco di decapitati “celebri” (Luigi XVI, Golia, Maria Antonietta, Tommaso Moro, Oloferne) alla redazione di un verbale poliziesco con finale satirico “La perizia necroscopica ha potuto stabilire che la decapitazione è stata eseguita in maniera pressoché perfetta, si ha ragione dunque di sospettare che l’assassino sia un macellaio o un chirurgo”. In un simile contesto non poteva poi mancare un esplicito riferimento al librocollage surrealista forse più famoso: La Femme 100 Têtes di Max Ernst. Ragnar van Holten nel suo pezzo affianca un’incisione di François Boucher tratta da Faunillane ou l’Infante Jaune, di Carl Gustaf Tessin, in cui il principe Perce-Bourse ritrova, passeggiando nel parco, la testa di una statua femminile, che poi ricomporrà per intero, a una delle incisioni di tema analogo di Max Ernst, ricavandone, a suo dire, un documento storico sui diversi atteggiamenti e comportamenti. Mario Persico, in cui il primo racconta al secondo il suo incontro nella metropolitana parigina con la “Giovane Masturbatrice presso il finestrino, sonnolenta, con l’ultimo piacere spento come una cicca sotto gli occhi fumosi. Aveva le unghie tutte lunghe, eccezion fatta per il medio della destra dove l’aveva cortissima”. Ricordi surrealisti, ambizioni poetiche, avanguardie artistiche dialogano dunque sulle pagine di Documento Sud che tra 1959 e 1961, come visto, prova ad attirare l’attenzione del mondo culturale sul Meridione d’Italia, collegandolo alle grandi imprese artistiche italiane ed europee, in particolare milanesi, francesi e belghe. Il tentativo sicuramente in parte riesce, anche grazie alla preziosa collaborazione con artisti e critici del calibro dei vari Jaguer e Lacomblez citati in apertura, ma non avrà forza a sufficienza per andare oltre i sei numeri del periodico. Tuttavia, il seme della rinascita era stato piantato e crescerà negli anni seguenti attraverso gli esperimenti editoriali di Quaderno tre fascicoli concentrati nel 1962, promossi da Stelio Martini e maggiormente virati sull’ambito della Poesia Visiva e Linea Sud sei numeri tra 1963 e 1967 promossi di nuovo da Castellano riviste diverse tra loro e anche rispetto a Documento Sud, che perfino nel suo aspetto tipografico aveva cercato di funzionare da ponte con altre esperienze d’avanguardia. Nel presente contributo si è cercato di offrire una prima panoramica d’insieme della rivista, evidenziandone gli apporti surrealisti e la parabola creativa, ma naturalmente molte altre piste d’indagine sarebbero ancora percorribili, analizzando ad esempio in profondità l’impatto della rivista sugli artisti napoletani intorno al 1960, considerando anche che molti degli aderenti al Gruppo 58 lasciarono poi la città. Un filo che però in qualche modo non si interruppe, grazie ancora una volta a Luigi Castellano e alla sua Linea Sud. Nel 1966 illustra la traduzione italiana di Luciano Caruso dell'opera patafisica "Ubu Cocu" di Alfred Jarry. In Persico l'interesse per le teorie patafisiche una sorta di ironico ritorno a quanto di esoterico rimane nel pensiero occidentale, secondo l'insegnamento di Alfred Jarry, demone dell'assurdo e della derisione è una costante della sua opera. Fin dagli anni cinquanta Mario Persico frequenta e collabora con Edoardo Sanguineti.Tra i momenti più interessanti di questa collaborazione si possono annoverare le scenografie e i costumi per l'opera Laborintus II di Sanguineti su musiche di Luciano Berio, andata in scena alla Scala nel 1973. Più recentemente ha firmato con Sanguineti, Dorfles e Pirella il "Manifesto dell'Antilibro" ed ha realizzato nel 2001, alla Biennale di Venezia, due "Bandiere della Pace" impagina nei modi della "poesia visiva" un testo di Sanguineti. Ancora nel 2003 ha illustrato un "Omaggio a Goethe" e nel 2004, un "Omaggio a Shakespeare, nove sonetti", con traduzioni di Sanguineti. Dal 2001 divenne il Rettore Magnifico dell'Istituto patafisico partenopeo e stampa "Patapart" , una delle più belle, colorate e difficili da sfogliare riviste d'arte contemporanea ma i avute a Napoli. Intanto si consolidavano i contatti con i Nouveaux réalistes francesi e con gli italiani di Parigi a essi collegati, tra tutti Mimmo Rotella. Il quarto e ultimo fascicolo de
Il gesto, pubblicato nel settembre di quell’anno, fu dedicato all’
Arte interplanetaria, con scritti e opere, tra gli altri, di Jaguer, Farfa, Antonio Recalcati e Giovanni Anceschi. Nacquero allora i primi
Specchi, rotti o tagliati e poi ricomposti; Baj dette avvio alle prime
Modificazioni, riconducibili alle prospettive dell’arte interplanetaria; incominciò la serie dei
Generali, il «tema dominante nel 1959», destinato a influenzare tutta la sua prima produzione, al quale approdò attraverso un processo di personificazione delle
Montagne realizzò le prime
Dame, serie che riprese tra il 1974 e il 1975. Tutte opere nelle quali, sotto il comune segno dell’ironia dissacratoria, prevalsero la visione ludica, il desiderio di lavorare con ogni tipo di materiale, l’attenzione privilegiata per l’infanzia e l’«adesione-rottura alla storia della pittura». Nel biennio 1960-61, mentre gli Specchi, con le loro trame di prefigurazioni, venivano presentati alla galleria del Naviglio di Milano (gennaio 1960), Baj continuò il lavoro sui
Generali, cimentandosi pure nei primi
Cartoni (ripresi nel 1964-66 e nel 1970) e nei
Mobili, poi sviluppati nei
Personaggi in legno dal 1962, dove l’oggetto stesso si faceva protagonista. Intanto, per l’intensità del suo humour e per l’oggettualità del suo lavoro, la critica lo indicò tra i maggiori esponenti del neodadaismo. Il 1962 fu un anno decisivo, segnato dal significativo incontro a Parigi con Breton: Baj si accostò ancor di più al mondo della poesia, che da tempo frequentava per i legami con personalità quali Jaguer, Jouffroy, Dal Fabbro, Sanguineti, Sanesi, Balestrini, a cui si aggiunsero, tra gli altri, André Pieyre de Mandiargues, Octavio Paz, Raymond Queneau, Jean-Clarence Lambert e, più tardi, Dino Buzzati. Rapporti che nel tempo lo condussero anche a collaborare per rare edizioni di poemi accompagnati da incisioni, collage e libri-oggetto. Sempre nel 1962 Baj raggiunse gli Stati Uniti, dove un suo
Specchio venne presentato nella grande mostra «The art of assemblage», organizzata in autunno da William C. Seitz al Moma di New York. In quell’occasione conobbe Marcel Duchamp: nacque un’amicizia destinata a durare negli anni. Ancora nel 1962 Schwarz dette alle stampe una monografia sull’
Arte nucleare, nella quale veniva indagata l’intera opera di Baj. Di lì a poco, nel luglio 1963, Breton gli dedicò un ampio saggio su
L’Oeil. I contatti con il mondo artistico parigino erano allora quanto mai intensi; mentre allestiva a Milano un nuovo studio in via Bonnet, dal 1963 al 1966 Baj lavorò per lunghi periodi a Parigi, presso lo studio, già di Max Ernst, in Rue Mathurin Régnier. In accordo con il Collège pataphysique di Francia, il 7 novembre 1963, fondò l’Istituto patafisico milanese, con l’intervento di Queneau e sotto la presidenza di Farfa. Intanto, sue personali venivano organizzate a New York, San Paolo e Torino. In occasione della mostra «Visione e colore», tenuta a Venezia a Palazzo Grassi nell’estate del 1963, Baj presentò alcuni quadri-oggetto con personaggi realizzati con i mattoncini Lego. Contestualmente si dedicò alle prime sculture in Meccano «totem-robots privi delle connotazioni macabre e metafisiche della fantascienza», presentate l’anno successivo in una sala personale alla XXXII Biennale di Venezia e alla XIII Triennale di Milano. In questa sede, dove allestì un ambiente a
Specchi, Baj era stato invitato da Umberto Eco e Vittorio Gregotti; a Venezia, presentato in catalogo da Queneau, nel generale clima di critica negativa nei confronti della nuova figurazione, alcune sue opere furono oggetto di censura . Baj ritirò i
Nudi, ma espose parate militari e comizi politici, che manifestavano l’impegno civile contro ogni tipo di aggressività. Nel 1964 giunsero altre importanti occasioni espositive. Tra tutte, gli fu dedicata una sala nell’esposizione «Pittura a Milano dal 1945 al 1964» al Palazzo Reale di Milano; Baj fu inoltre invitato alla mostra sul «Nieuwe Realism» al Gemeentemuseum dell’Aja. L’anno si chiuse con un incontro fondamentale: Baj conobbe Roberta Cerini, che nel 1966 sposò in seconde nozze e con la quale ebbe sempre un intenso scambio intellettuale. Dalla loro unione nacquero quattro figli: Angelo nel 1967, Andrea nel 1968, Pietro nel 1969 e Marianna nel 1978. Nell’estate del 1965 gli fu dedicata la prima retrospettiva, «Omaggio a Baj», nell’ambito della rassegna Alternative attuali 2, presso il Castello Spagnolo dell’Aquila. Nella mostra, curata da Crispolti, furono presentate circa ottanta opere, tra dipinti e sculture, e si approntò una prima sistemazione storiografica del suo lavoro. Tra un susseguirsi di personali e collettive, nello stesso anno Baj fu invitato alla mostra «Pop art, Nouveau realisme» al Palais des beaux-arts di Bruxelles. All’immaginario pop, tra l’altro, si stava confrontando in Italia il lavoro di Baj, già al tempo della Biennale, e più chiaramente negli scritti di Crispolti, prima in occasione della retrospettiva aquilana, poi nel volume
. Tra il 1966 e il 1969, mentre cresceva il suo impegno come scrittore d’arte per cataloghi, giornali e riviste, Baj iniziò a interessarsi di multipli e si dedicò con assiduità alla grafica e all’incisione per edizioni numerate. Tra le tante:
L’intérieur di Sanguineti e
Limbo di Lambert nel 1966
Meccano ou l’analyse matricielle du langage di Queneau e
Les incongruités monumentales di de Mandiargues nel 1967;
I ricatti di Guido Ballo e il suo
Baj chez Picasso, con testi di Jean Cassou, Queneau, de Mandiargues, Sanguineti, Buzzati e Pierre Seghers, nel 1969. Sempre in quegli anni Baj si recò in Australia e viaggiò a lungo tra gli Stati Uniti e l’Europa per personali e retrospettive, tenute, in particolare, a Chicago (1966), L’Aia e Gand (1967), Praga, San Francisco e Parigi (1969). Sul finire degli anni Sessanta, nella produzione di Baj presero forma le prime riprese ironiche e parodistiche delle opere di Picasso; tra i
d’après, presentati alla galleria Creuzevault di Parigi (1969), si segnalavano i monumentali
Les demoiselles d’Avignon e
Guernica . Allo stesso tempo si datano i primi lavori per i quali si servì dei materiali plastici, già impiegati in passato e da quel momento adoperati, ad esempio, nelle
Cravatte, simbolo della cultura occidentale, esposte al 15° premio Lissone (1967) e allo Studio Marconi di Milano (1969). Nelle
Plastiche la «mitologia del “nuovo materiale”veniva intaccata proprio con i “nuovi materiali”». Mentre gli anni Settanta si aprirono con la pubblicazione del primo catalogo ragionato dedicato alle opere grafiche e ai multipli di Baj, a cura di Jean Petit (1970), e con tre importanti retrospettive, tenute tra la primavera e l’estate del 1971. A Ginevra, al Musée de l’Athénée, a cura di Petit si presentò la produzione grafica; a Venezia, a Palazzo Grassi, a cura di Sanesi si esposero oltre cento opere; a Chicago, al Museum of contemporary art, a cura di Jan van der Marck furono raccolti i lavori nel tempo confluiti nelle collezioni statunitensi. Nelle mostre di Venezia e Chicago comparvero anche i celebri
Chez Seurat, presentati già a Lugano nella primavera dello stesso anno in occasione della collettiva «D’après. Omaggi e dissacrazioni nell’arte contemporanea». Tra questi,
La grande jatte assurgeva a simbolo dell’immobilismo della borghesia. Tra una «continuità di fondo ideologica e quella che potremmo chiamare una continuità confirmatoria», sin dai primi anni Settanta Baj pervenne a nuovi traguardi e a «grandi impennate immaginative», che lo condussero soprattutto all’installazione e alla «disseminazione ambientale» . Al 1972 si data il primo lavoro di Baj di denuncia civile legato alla cronaca, fino a quel momento, tra l’altro, il più grande collage realizzato dall'artista (circa 12 metri di lunghezza per 4 di altezza),
I funerali dell’anarchico Pinelli , dedicato al ferroviere morto precipitando da una finestra della questura di Milano, dove era trattenuto per accertamenti in seguito alla eplosione di una bomba in piazza Fontana. L’opera venne realizzata con «oggetti vari, consistenti in nastri, cordoni, passamanerie, fiocchi tutto un materiale cadente e decadente , che sta a simboleggiare una caduta culturale, il degrado di un sistema, vuoi di sviluppo, vuoi politico», più che dei suoi funerali, si trattava di lui stesso, dell’anarchico che precipitava al suolo su un ipotetico selciato, antistante una non tanto ipotetica questura. Il titolo definitivo restò “I Funerali dell’Anarchico Pinelli”, sia perché il corteo degli anarchici ricordava, per mestizia mista a bandiere, un corteo funebre, sia per il richiamo a quel precedente quadro “I Funerali dell’Anarchico Galli che è una delle migliori opere del Carrà futurista e dell’arte moderna italiana. La grande installazione doveva essere presentata a Milano nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale il 17 maggio, lo stesso giorno in cui fu ucciso il commissario Luigi Calabresi, che a quell'epoca alcuni indicavano come responsabile della morte di Pinelli. Annullato subito l’evento per ragioni di ordine pubblico, il
Pinelli, nel 1973 presentato a Rotterdam, a Stoccolma e a Düsseldorf, si poté vedere a Milano nel 2000, presso la Galleria Giò Marconi, e solo nel 2012 a Palazzo Reale. Nello stesso tempo, mentre Baj continuava a scrivere testi di critica d’arte e a lavorare per edizioni numerate, tra fiocchi, cordoni e passamanerie, presero vita nuove
Dame «degne compagne» dei
Generali a cui dette titoli solenni, che rintracciò soprattutto nelle pagine del
Grand Larousse Illustré , e che presentò qualche tempo dopo: nel 1975 allo Studio Marconi di Milano, nel 1976 alla Arras gallery di New York. Nel 1974 Baj si traferì definitivamente a Vergiate, dove aveva già risieduto lungamente sin dalla fine degli anni Sessanta, rendendo la sua villa di campagna luogo di «convivio» per intellettuali italiani e stranieri . Fu allora che donò collezioni complete delle sue stampe alla Bibliothèque Nationale di Parigi, al Boijmans di Rotterdam e al Cabinet des Estampes di Ginevra. Sempre nel 1974 giunse un ulteriore grande impegno, simile al
Pinelli per dimensioni e per la presenza di sagome. Il collezionista di Chicago, Milton Ratner, che da tempo apprezzava il suo lavoro, gli commissionò (senza però poterla poi acquistare) un’opera che raccontasse un episodio della storia statunitense: «si convenne» per «Nixon e Kissinger alla parata del Columbus Day», titolo che per abbreviazione divenne
Nixon Parade (Parma, CSAC). Nella composizione, tra le più sarcasticamente Dada, «il mostruoso del politico e la pornografia del potere giungevano per Baj al loro apice». I fiori di plastica, a copertura dell’intera superficie in basso, simboleggiavano il kitsch, l’aspetto per Baj più caratteristico dell’attualità. Diversamente dal
Pinelli, l’opera venne presentata subito nelle sale del Palazzo Reale di Milano, dove nel maggio di quell’anno ebbe luogo una grande retrospettiva con lavori dal 1960 al 1974, poi allestita al Palais des beaux-arts di Bruxelles in ottobre e alla Kunsthalle di Düsseldorf nella primavera del 1975. L’anno successivo Baj donò l’intero
corpus di opere grafiche al Comune di Milano (donazione perfezionata nel 1987), presentato a dicembre al Castello Sforzesco in una grande esposizione accompagnata dalla pubblicazione di due cataloghi: il primo dedicato alle stampe originali con testi di Antonello Negri, Zeno Birolli, Baj e Queneau; il secondo dedicato ai multipli con testi di Negri, Birolli, Baj e Breton. Negli ultimi anni Settanta Baj viaggiò molto; si recò in Messico e in Egitto e si dedicò intensamente alla lettura, producendo pochissimo; fu profondamente suggestionato da
L'èsprit du temps del 1962 L’industria culturale 1974 di Edgar Morin, da
La società dei consumi (1976) di Jean Baudrillard . Fu proprio dal saggio di Lorenz che prese spunto per l’ultimo grande impegno del decennio: un vastissimo collage rappresentante l’
Apocalisse (Vergiate, Archivio Baj), incominciato sul finire del settembre 1978 e concluso nel marzo dell’anno successivo (con uno sviluppo finale di oltre 60 metri lineari per 4 di altezza), a cui Eco dedicò un volume . Allestita per la prima volta nei tre piani dello Studio Marconi di Milano nel marzo 1979 e composta da tele dipinte con tecnica informale e sagome dipinte o intagliate in legno, l’
Apocalisse metteva in scena il degrado della contemporaneità, l’asservimento alla tecnoscienza e al modernismo in una commistione di elementi tragici e grotteschi che annunciavano e palesavano il dominio del mostruoso attraverso un percorso ascensionale che richiamava i gironi danteschi. Nel 1983 Baj aggiunse all’
Apocalisse, considerata un
work in progress, alcune sagome e tele; più tardi inserì altre tele, in particolare dedicate alle storie di Gilgamesh, realizzate tra il 1999 e il 2003. Gli anni Ottanta, che si aprivano con la monografia
Enrico Baj del 1980, introdotta dal sociologo francese Baudrillard, con il quale Baj ebbe vari incontri e collaborazioni, furono contrassegnati da nuovi progetti, pur sempre coerenti, che lo condussero a sperimentare nuove tecniche e tipologie compositive, anche nel «recupero del mezzo pittura, in ruolo del tutto protagonistico, e insomma in un vero e proprio “a solo” mediale». Intanto, nella necessaria «conquista del presente nel suo presenzialismo», sia nelle opere, sia nella scrittura, la critica alla contemporaneità, alla robotizzazione dell’uomo e al consumismo si fece sempre più presente. Una grande mostra personale, in cui si presentarono i lavori di vaste dimensioni del decennio precedente, venne inaugurata il 1° maggio 1982 al palazzo della Ragione di Mantova. Per l’occasione Edoardo Sanguineti lesse il suo
Alfabeto apocalittico contestualmente Baj partecipò al convegno
Il mostro quotidiano, con interventi, tra gli altri, di Morin e Baudrillard. Nello stesso anno pubblicò
Patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie, un ampio studio sulla scienza inventata da Alfred Jarry, sua passione da sempre, a cui seguì, l’anno successivo, una vasta esposizione al Palazzo Reale di Milano, «Jarry e la Patafisica», che curò con Vincenzo Accame e Brunella Eruli. Dal 1983, anno in cui dette alle stampe per Rizzoli la sua Automitobiografia. Dai giorni nostri alla nascita, raccontando se stesso, tra invenzioni e no, Baj si allontanò dal collage e dall’uso gestuale del colore, che adoperò, invece, in modo più disteso, a favore di ampie campiture. Di questo periodo sono i cicli
Futurismo statico ed
Epater le robot, dove emergono gli omaggi a Campanella (
La città del sole) e a Voltaire (
Studio per Micromégas), presentati allo Studio Marconi di Milano in ottobre. L’abuso della tecnologia e l’alienazione dell’uomo denunciati in queste opere furono alla base del coevo
Manifesto per un futurismo statico (1983). Nel 1985, tra l’inverno e l’estate, si tennero due importanti mostre, la prima al Center for fine arts di Miami dove si presentarono
Parate e grandi opere come
Guernica,
Pinelli e l’
Apocalisse, e la seconda al Forte di Bard in Valle d’Aosta, in cui vennero esposte
Generali e
Dame accanto a
Meccani e alle tele dedicate a
Ubu Roi. In quello stesso anno, sempre per l’editore Rizzoli, Baj dette alle stampe
Impariamo la pittura: un manuale semiserio per artisti, falsari e pittori d’ogni tipo. Per lo stesso editore, due anni dopo, uscì
Fantasia e realtà: un dialogo tra Baj e Renato Guttuso sull’arte, la cultura e la società. Altro impegno editoriale fu il volume
Cose, fatti, persone (1988), in cui raccolse numerosi scritti, anche inediti, pubblicati in giornali e riviste a partire dal 1981. Le serie di quegli anni, la prima dedicata ai
Manichini, la seconda intitolata
Metamorfosi metafore (che nasceva da una collaborazione con il poeta Giovanni Giudici), evidenziano ancora il momentaneo abbandono del collage. Se nella prima emergono chiari riferimenti al manierismo e alla metafisica, nella seconda lo sviluppo della figurazione, dell’immaginario e del fantastico anticipa le successive 'opere kitsch', alle quali Baj approdò nel 1989 per rappresentare la volgarità del kitsch attraverso grandi composizioni dette combinatorie, ottenute dall’assemblaggio di piccoli pannelli a indicare la futura esplosione demografica. Tutti gli anni Ottanta, intensamente animati da incontri e collaborazioni con artisti, poeti, letterati e filosofi di ogni nazionalità, si contraddistinsero, infine, per importanti lavori rivolti al teatro. Tra questi, il più significativo impegno giunse nel 1984, quando Massimo Schuster chiamò Baj a lavorare alla messa in scena dell’
Ubu Roi di Jarry, rappresentato la prima volta all’Espace Kiron di Parigi il 15 novembre dello stesso anno con 230 repliche in tutto il mondo. Baj realizzò il boccascena e circa cinquanta marionette in Meccano. Tra il 1986 e il 1987 si dedicò a una rivisitazione in chiave satirica dell’
Amleto 'il lunatico' di Shakespeare, scritto da Guido Almansi con la regia di Massimo Monaco, prodotto dal Teatro regionale toscano. Successivamente, con il figlio Andrea, creò settanta personaggi in legno per un’
Iliade di Schuster, in scena al San Matteo di Piacenza nel gennaio 1988. Il decennio si chiuse con la realizzazione di un ulteriore spettacolo di marionette al quale lavorò ancora con Andrea,
Le bleu-blanc-rouge et le noir, opera con libretto di Anthony Burgess e musica di Lorenzo Ferrero, sempre per la regia di Schuster, presentata a Parigi al Centre Pompidou nel dicembre 1989 nell’ambito del Festival d’Automne. Gli anni Novanta si aprirono con alcune significative pubblicazioni: tra tutte, nel gennaio 1990 Baj dette alle stampe per Rizzoli
Ecologia dell’arte, un ironico dizionario in 200 voci sull’arte moderna; nel maggio pubblicò per Elèuthera
Cose dell’altro mondo, una raccolta di scritti sull’arte americana degli anni Ottanta. Intanto, a cura di Massimo Mussini, per Electa, uscì
I libri di Baj, catalogo ragionato delle edizioni numerate. Le più importanti mostre di quel periodo furono «Enrico Baj. Die Mythologie des Kitsches», tenuta nella primavera del 1990 ai Musei civici di villa Mirabello a Varese, ed
«Enrico Baj, transparence du kitsch», curata da Baudrillard e allestita nel dicembre dello stesso anno presso la Galerie Beaubourg di Parigi. In entrambe le esposizioni Baj presentò quattro grandi composizioni combinatorie. Gli stessi pannelli furono esposti, l’anno successivo, a Milano, Roma e New York alla personale «Il giardino delle delizie», il cui catalogo curato da Giò Marconi, con testi di Eco, Baudrillard e Donald Kuspit, divenne una monografia sul suo percorso ideologico e stilistico. Altre opere di quel tempo, sullo stesso tema, si rifacevano a figure emblematiche, come
Amore e Psiche,
Adamo ed Eva o le
Tre Grazie (Vergiate, Archivio Baj): tutti soggetti che realizzò anche in maiolica, in un momento in cui ritornò a lavorare la ceramica. Nel 1993 ebbe luogo una grande retrospettiva a Locarno, inaugurata a dicembre in tre diverse sedi, nelle quali si presentarono, rispettivamente, i lavori dal nucleare al kitsch, le opere grafiche e
I funerali dell’anarchico Pinelli. Dal 1994 Baj incentrò il suo lavoro sulla serie delle
Maschere tribali, immagini di un primitivismo moderno, selvaggio e istintuale, che aprirono un filone nuovo nell’ambito del suo lavoro, sulla cui linea si collocano i
Feltri, iniziati nello stesso tempo e realizzati sino al 1998, e i successivi
Totem del 1997. Mentre nei primi adoperò nuovamente l’ovatta, ma come base per la pittura, nei secondi sviluppò il tema della maschera in senso verticale e ritornò a citare nei titoli personaggi della storia, talvolta anche in coppia, come ad esempio
Lancillotto e Re Artù,
Luigi XV e Madama Pompadura (Vergiate, Archivio Baj). Tra le opere più significative di quegli anni vi è il satirico
Berluskaiser (Vergiate, Archivio Baj), lavoro dal forte impegno civile nato a seguito delle elezioni del 1994, che mette in scena la conquista del potere di Silvio Berlusconi attraverso una composizione di sagome che richiamano l’
Apocalisse. Come ulteriore meditazione sul tema, Sanguineti compose
Malebolge 1994-1995, o del malgoverno da Berluskaiser a Berluscaos (pubblicato nel 1995 in collaborazione con Baj)
. Sempre nel 1995, il
Berluskaiser, insieme al
Pinelli e all’
Apocalisse, furono presentati all’Institut Mathildenhöhe di Darmstadt in una grande retrospettiva con catalogo curato da Gabriele Huber e Klaus Wolbert. Durante la mostra ebbero luogo alcune rappresentazioni teatrali; in particolare Dario Fo, utilizzando come palcoscenico il
Pinelli, rappresentò il suo
Morte accidentale di un anarchico. Del 1996 sono il progetto per un
Monumento a Bakunin, un singolare e inedito
assemblage in omaggio all’anarchia, che venne presentato nella primavera in una grande collettiva berlinese dedicata al tema, e l’imponente acrilico su feltro
Impressioni d’Africa (Vergiate, Archivio Baj), ispirato all’omonimo libro di Raymond Roussel (1910), che pone alla ribalta il tema del grottesco e del kitsch. Tutta la produzione di Baj, sino a quel momento, fu raccolta nel 1997 nella seconda impresa del
Catalogo generale delle opere dal 1972 al 1996. Tra il 1998 e il 2000 una serie di mostre mise in rilievo alcuni aspetti significativi del suo lungo percorso artistico, da sempre segnato da «una certa irriverenza, un’ironia e un gusto del paradosso, quasi siano degli anticorpi dell’uomo contemporaneo». In particolare: con la retrospettiva «Enrico Baj», al Musée d’art moderne et d’art contemporain di Nizza dell’inverno 1998-99, si sottolinearono i legami con la cultura francese sin dagli anni Cinquanta; con la mostra «PicadadaBaj 2000», il cui catalogo contiene una prefazione di Dorfles e testi di numerosi critici italiani, allestita nell'estate del 1999 nel Palazzo del turismo di Riccione, venne presentata larga parte della sua produzione. Il decennio si chiuse con la prima serie dei
Guermantes, piccoli ritratti (in totale ne realizzò circa 300) dedicati a Marcel Proust e alla comune
Ricerca del tempo perduto. Mentre gli ultimi anni di vita furono quanto mai intensi: mentre si cimentava in nuove imprese editoriali (tra le varie si ricorda
Discorso sull’orrore dell’arte, 2002), in libri per edizioni numerate e nuovi progetti per il teatro, nel 2000 Baj ritornò a lavorare con l’amico di sempre Corneille, con il quale aveva già realizzato alcune
Montagne. Nello stesso anno, con l’esposizione «Enrico Baj. Masterpieces», organizzata nel febbraio alla galleria Giò Marconi di Milano, venne presentata una serie di opere particolarmente significative insieme al
Pinelli e ai
Guermantes. L’anno successivo Baj si dedicò all’organizzazione di un’ampia retrospettiva a Roma, tenuta in autunno al palazzo delle Esposizioni, con circa duecento opere che raccontavano il suo lavoro dal 1951 (alcune di grandi dimensioni come
Guernica,
I funerali dell’anarchico Pinelli e
L’Apocalisse); nel 2002 ritornò sul tema delle
Dame, presentate l’anno successivo da Dorfles alla galleria Giò Marconi di Milano, per la cui realizzazione adoperò materiali idraulici, quali sifoni, rubinetti, tubi e valvole; nel 2003 due importanti rassegne, la prima al Castello di Masnago di Varese, la seconda a Milano (in quattro sedi: Spazio Oberdan, Accademia di Brera, galleria Giò Marconi, Fondazione Mudima), furono incentrate, rispettivamente, sui rapporti tra Baj e la poesia e sulle grandi installazioni. L’ultima opera cui Baj si dedicò, senza fermarsi e riuscendo a completare il progetto a pochi giorni dalla morte, fu il grande
Muro di Pontedera, realizzato postumo, nel 2005, con il contributo dell’architetto Alberto Bartalini: cento metri di mosaico che corre lungo la linea ferroviaria della cittadina toscana, nel quale, come in un testamento spirituale, raccolse e rivelò ogni aspetto del suo lavoro, dall’impegno civile al gioco, dalla realtà all’immaginazione. Nell’ammirare lungo il percorso le Sculture da viaggio di Bruno Munari, posso dire che la sua formazione artistica muove dalle esperienze pittoriche condotte nell'ambito del Futurismo, dal quale trarrà la sua ricerca visuale e l'interesse per l'oggetto nella sua complessa definizione e identificazione di caratteri, attributi e significati. Nel 1925 conosce Marinetti, simpatizza con Balla e Prampolini, i futuristi che lo influenzarono maggiormente. Dal 1927 partecipa alle collettive futuriste: espone alla milanese Galleria Pesaro, alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale di Roma e a Parigi. Sono del 1933 le sue prime "macchine inutili", concepite secondo i presupposti dell'arte programmata, che lo rendono famoso negli ambienti artistici dell'epoca. Inventa "L'agitatore di coda per cani pigri", studia "il motore per tartarughe stanche". Nel 1939 diventa art director della rivista Tempo. Con Max Huber collabora alla creazione dell'immagine della casa editrice Einaudi. Del 1945 è il suo primo multiplo cinetico "Ora X" del 1948 -49 i suoi "libri illeggibili" del 1951 le "strutture continue" tridimensionali, gli esperimenti sul "negativo-positivo" e quindi successivamente quelli sulla luce polarizzata per proiezioni dalla materia; i numerosi film di ricerca, la progettazione di oggetti di arte cinetica; le sue famose "sculture da viaggio" in cartoncino piegabile oggetti di ornamentazione estetica, progettati allo scopo di creare un punto di riferimento, in qualche modo coincidente col proprio mondo culturale, da collocare nelle anonime camere di albergo o in qualunque altro luogo non caratterizzato. Seguono le "Xerografie originali", i "Polariscop", gli oggetti flessibili "Flexy", i giochi per i bambini e tanti vari oggetti di arte cinetica. A questa intensa ricerca nel campo della sperimentazione visiva e attività nel campo della progettazione, s'accompagna quella non meno costante e feconda nel campo della grafica, in quello degli allestimenti e in quello della saggistica. Tra i suoi numerosi scritti, fondamentali sono "Design e comunicazione visiva" del 1968, "Arte come mestiere" del 1966, "Artista e designer" del 1971, "Codice ovvio" del 1971. Premi e riconoscimenti gli giungono da ogni parte del mondo: il premio della Japan Design Foundation del 1985, quello dei Lincei per la grafica del 1988, il premio Spiel Gut di Ulm del 1971 in seguito verrà premiato nel 1973 e nel 1987mentre nel 1989 gli viene conferita laurea ad honorem in architettura dall'Università di Genova."Il design dà qualità estetica alla tecnica. Non nel senso dell'arte applicata, come si faceva una volta quando l'ingegnere che aveva ideato la macchina per cucire, chiamava un artista che gliela decorasse in oro e madreperla, bensì nel senso che l'oggetto e la sua forma estetica siano una cosa sola ben fusa assieme, senza alcun riferimento a estetiche preesistenti nel campo dell'arte cosiddetta pura. Un oggetto progettato dal designer non risente dello "stile" personale dell'autore dato che il designer non dovrebbe avere, a priori, uno stile col quale dar forma a ciò che progetta, come avviene quando un artista si improvvisa designer ovvero l'oggetto prodotto dal designer dovrebbe avere quella "naturalezza" che hanno le cose in natura: una cavalletta, una pera, una conchiglia, una scarica elettrica; ogni cosa ha la sua forma esatta. Sarebbe sbagliato pensare queste cose in stile: una cavalletta a forma di pera, una scarica elettrica a forma di, quindi un settore diverso dal design, che ha una sua precisa funzione, è lo styling, dove si progetta moda, dove la fantasia e la novità sono dominanti, per un consumo rapido della produzione. Il vero design non ha stile, non ha moda; se l'oggetto è giusto, nel design non si dice bello dura sempre. Oggetti di design ignoto si usano da sempre: il leggio a tre piedi dell'orchestrale, la sedia a sdraio da spiaggia". Bruno Munari è una della grandi figure del design e della cultura del XX secolo. Milanese, ha vissuto tutte le età più significative dell'arte e del progetto, diventandone un assoluto protagonista sin dagli anni Trenta, con la creazione delle "macchine inutili" e con il contemporaneo lavoro di grafica editoriale, del tutto innovativo nel panorama europeo. Ma è nel secondo dopoguerra che Munari si afferma come uno dei "pensatori" di design più fervidi: la collaborazione con tutte le aziende più importanti per la rinascita del Paese dalla Einaudi alla Olivetti, dalla Campari alla Pirelli e una serie di geniali invenzioni progettuali spesso realizzate per la ditta Danese ne fanno un personaggio chiave per la grande stagione del design italiano. Grafica, oggetti, opere d'arte, tutto risponde a un metodo progettuale che si va precisando con gli anni, con i grandi corsi nelle università americane, come l'MIT, e con il progetto più ambizioso di tutti, che è quello dei laboratori per stimolare la creatività infantile, che dal 1977 sono tuttora all'avanguardia nella didattica dell'età prescolare e della prima età scolare. La sua costante ricerca è stata quella dell'approfondimento di forme e colori, variabili secondo un programma prefissato, e della autonomia estetica degli oggetti. Tali premesse hanno trovato conferma nella pratica dell'industrial design. La sua poliedrica capacità comunicativa si è manifestata nei campi più disparati: pubblicità e comunicazione industriale libri per la scuola L'occhio e l'arte. L'educazione artistica per la
scuola media, 1992; Suoni e idee per improvvisare. Costruire percorsi creativi nell'educazione musicale e nell'insegnamento strumentale, 1995, entrambi in collaborazioni inventò giochi, laboratori grafici e libri di ricerca. Munari amava raccontarsi e diceva : “All’improvviso senza che nessuno mi avesse avvertito prima, mi trovai completamente nudo in piena città di Milano, il 24 ottobre 1907. Mio padre aveva rapporti con le più alte personalità della città essendo stato cameriere al Gambrinus, il grande Caffè Concerto di piazza della Scala, dove si riunivano tutte le persone importanti a bere un tamarindo dopo lo spettacolo. Mia madre, in conseguenza di ciò, si dava delle arie ricamando ventagli. A sei anni fui deportato a Badia Polesine, bellissimo paese agricolo dove si coltivavano i bachi da seta e le barbabietole da zucchero. Il caffè veniva dal Brasile, a piedi nudi. Sulla piazza del paese, tutta di marmo rosa, si passeggiava a piedi nudi nelle sere d’estate. Nel caffè niente zucchero. Le vacche erano nel Foro Boario dove improvvisavano ogni mercoledì (mercato) dei cori, non come alla Scala, ma con molto impegno. Dopo le vacche ho avuto rapporti carnali con l’arte e sono tornato a Milano nel 1929 e un giorno di nebbia ho conosciuto un poeta futurista Escodamè che mi fece il favore di presentarmi a Filippo Tommaso Marinetti e fu così che inventai le macchine inutili. E adesso sono ancora qui a Milano dove qualcuno mi chiede se faccio ancora le macchine inutili oppure se sono parente col corridore (che poi era mio nonno, mentre lo zio Vittorio faceva il liutaio e il cuoco. Scusatemi se lascio la parentesi aperta.” Dopo aver trascorso l’infanzia in un piccolo paesino del Veneto, nel 1926 Bruno Munari torna a Milano, città che diventerà il centro della sua attività artistica. Qui uno zio ingegnere lo assume nel suo studio e lo aiuta ad integrarsi nella metropoli. Il primo incontro con i futuristi milanesi risale al 1926, ma è bene ricordare che l’artista sente parlare del futurismo per la prima volta ancora adolescente, nell’albergo dei genitori. Lo stesso Munari racconta infatti: Prima della guerra passavano dei viaggiatori di commercio che si fermavano una o due notti, e fu uno di loro che mi parlò del futurismo. Ricordo che aveva al collo un fazzoletto, cosa strana perché allora si portava solo la camicia con la cravatta, e io mi entusiasmai per i suoi discorsi, avevo più o meno diciotto anni, e allora cominciai a fare dei disegni, ma senza sapere niente, inventando. L’incontro che sancirà l’ingresso di Munari nell’avanguardia, avviene invece girando per le librerie antiquarie, dove egli conosce il poeta futurista Escodamé. Questo incontro permetterà al giovane artista di conoscere Marinetti ed entrare nel gruppo di intellettuali che fonderanno il secondo futurismo milanese. Munari vede nel movimento futurista «l’espressione più coerente con l’idea del nuovo» nata durante i primi mesi passati in città: egli, che si avvicina al mondo dell’arte da un percorso non accademico, individua l’innovazione futuristica nel coinvolgimento di diverse discipline caratteristica essenziale nella successiva attività di Munari in particolare l’attenzione ai problemi della grafica, della pubblicità e dell’arte applicata al quotidiano, in contrasto alle tendenze artistiche novecentiste e al recupero dell’arte classica e aulica. Nonostante Munari sia tra i fondatori del secondo futurismo milanese, le sue origini artistiche sono da ricercare nella prima esperienza futurista, quella di Balla, Boccioni, Carrà e Depero. Sarà significativo il rapporto con Enrico Prampolini, uno degli esponenti più importanti del primo futurismo, in particolare per la sua attenzione verso l’Europa e le esperienze d’arte internazionali tra le due guerre, egli viaggia tra Ginevra, Praga, Berlino e Parigi, mantenendo stretti rapporti con gli ambienti delle avanguardie europee. Prampolini verrà citato da Munari come suo unico referente culturale e interlocutore di tutte le esperienze internazionali diffuse nel Vecchio Continente a partire dagli anni ’20. Gli elementi di contatto più evidenti tra Munari e l’avanguardia italiana si possono individuare all’interno del manifesto programmatico pubblicato nel 1915 da Giacomo Balla e Fortunato Depero. Il documento Ricostruzione futurista dell’universo cita anzitutto l’uso di materiali poveri per la costruzione del «nuovo Oggetto (complesso plastico)». Anche nel Manifesto tecnico della scultura futurista firmato da Boccioni viene sottolineato il rinnovamento nell’uso dei materiali, in particolare attraverso la concezione del polimaterismo: 3. Negare alla scultura qualsiasi scopo di ricostruzione episodica veristica. Percependo i corpi e le loro parti come zone plastiche, avremo in una composizione scultoria futurista, piani di legno o di metallo, immobili o meccanicamente mobili, per un oggetto, forme sferiche pelose per i capelli, semicerchi di vetro per un vaso, filo di ferro e reticolati per un piano atmosferico, ecc. ecc. 4. Distruggere la nobiltà, tutta letteraria e tradizionale, del marmo e del bronzo. Affermare che anche venti materie diversi possono concorrere in una sola opera allo scopo dell’emozione plastica. Il manifesto mette in luce due importanti innovazioni: il rinnovamento dei materiali, ovvero la necessità di abbandonare le materie tradizionali per lasciare spazio a quelle nuove e la «compenetrazione tra gli oggetti e lo spazio circostante». Queste caratteristiche innovative della scultura futurista sono visibili nella progettazione (e realizzazione) delle prime Macchine inutili: per queste opere Bruno Munari seleziona con particolare attenzione le materie da usare, ponendo l’accento non solo sull’accostamento dei colori soprattutto tinte piatte e quindi sulla sensazione visiva che l’oggetto artistico provoca, ma anche sull’effetto tattile, nel desiderio di risvegliare tutti i sensi del fruitore nell’atto di contemplazione dell’opera. Nelle Macchine inutili è evidente anche la fusione tra le componenti fisiche e lo spazio vuoto circostante: l’utilizzo di materiali leggeri come cartoncini colorati, bastoncini di legno e fili di seta permette alla costruzione di essere molto leggera e di potersi muovere con un soffio d’aria. A tale proposito, Munari spiega: «pensavo che sarebbe stato forse interessante liberare le forme astratte dalla staticità del dipinto e sospenderle nell’aria, collegate tra loro in modo che vivessero con noi nel nostro ambiente, sensibili alla atmosfera vera della realtà». I materiali di cui le Macchine inutili sono composte sottolineano la profonda differenza che intercorre tra queste opere e i mobiles di Alexander Calder, con i quali, negli stessi anni, l’artista statunitense conquista la fama nell’ambiente. Anzitutto le sculture di Munari sono composte, come abbiamo visto, da materiali leggeri come cordini di seta, cartoncini con tinte pastello e bastoncini di legno. I mobiles di Calder invece sono di ferro, verniciati di nero o colori violenti. L’elemento comune alle opere risiede nel fatto che entrambe si appendono e girano, ma i modi e i materiali sono agli antipodi. Inoltre gli elementi che compongono le Macchine inutili sono in rapporto armonico tra loro, mentre le forme predilette da Calder sono di ispirazione vegetale.

L’attenzione all’uso dei materiali diverrà poi essenziale nella progettazione di oggetti di design e, in particolare, nei giochi e libri per bambini: in ogni progetto di Munari, è il materiale (oltre che la funzione) a suggerire la forma, come nel caso della progettazione della scimmietta Zizì giocattolo in gommapiuma armata che nel 1954 vince il primo “Compasso d’oro” del design italiano dimostrazione di come sia possibile utilizzare in modo innovativo un materiale fino ad allora sfruttato solo per la costruzione di poltrone e divani. Munari viene colpito dalla morbidezza ed elasticità del composto, «che sembra vivo» e che ricorda la sensazione di tenere in braccio un cucciolo. Tornando al manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, Balla e Depero danno indicazioni anche sugli oggetti da realizzare, mettendo in luce l’intrinseca volontà del movimento futurista di «raggiungere il cinetismo». In questo passaggio del testo è evidente l’assonanza tra i «complessi plastici», ovvero le «rotazioni» proposti dai due artisti futuristi e le Macchine inutili di Munari. Lo stesso autore, parlando delle sue opere, spiega: «Gli elementi che compongono una macchina inutile ruotano tutti su se stessi e tra loro senza toccarsi». Le Macchine inutili hanno la capacità di muoversi, spostarsi nello spazio attraverso il vento, che fa muovere le «sagome di cartoncino dipinto e qualche volta una palla di vetro soffiato». In terzo luogo, i due artisti futuristi sottolineano l’interesse per i giocattoli, che non dovranno più «istupidire e avvilire il bambino», ma, anzi, abituarlo. Munari si dedica alla progettazione di giochi per bambini a partire dagli anni Cinquanta e pone particolare attenzione non solo al materiale con cui il gioco è realizzato, ma anche all’interazione del bambino con il giocattolo. A tale proposito Marco Meneguzzo, nel descrivere la cura che Munari riserva alla progettazione per l’infanzia, spiega che in un gioco per bambini «Non ci deve essere nulla di tanto caratterizzato da rischiare d’essere più “forte” della personalità in formazione del bambino, nulla che possa plagiarne lo sviluppo» . I giochi progettati da Munari negli anni successivi, con la collaborazione del pedagogista Giovanni Belgrano, rispondono tutti allo stesso principio. Tornando al futurismo, a partire dalla fine degli anni ’20, Munari partecipa a collettive importanti, tra le quali la Biennale di Venezia (1930, 1932, 1934), la Quadriennale di Roma, ma anche eventi a Milano e Parigi. Per quanto riguarda i temi scelti dal giovane artista, negli anni del secondo futurismo la tendenza è quella dell’aeropittura, «che vuol rendere plasticamente gli stati d’animo, le immagini, i sogni e, in un senso soggettivo ed astratto, gli spettacoli naturali offerti dal volo». A questa ultima declinazione della pittura futurista, che risente di influenze surrealiste e metafisiche, Munari aggiunge alcune “stranezze”: fin dai primi anni di attività è evidente la tendenza dell’artista ad allontanarsi da ogni definizione di stile o corrente. Un anonimo recensore, a proposito della Mostra futurista in omaggio a Umberto Boccioni commissionata dai futuristi alla Galleria Pesaro di Milano nel 1933, scrive: Un artista che si serve di tutti gli espedienti possibili per accrescere di valori tattili i valori pittorici, associandoli in modi curiosi, è Munari, il quale con una sua figurazione intitolata, se ben ricordo, Il mormorio della foresta, applica dei piccoli rami d’albero risegati sulla superficie dipinta, e altrove, sconfinando interamente dalla pittura, intenta una sua “Macchina per contemplare”, composta di fiale e tubetti, e liquidi misteriosi. Stranezze, ma spesso divertenti, come la Radioscopia dell’uomo moderno: scheletro umano formato di legno e metallo, con un globo sospeso fra le costole. L’uomo che porta il mondo dentro di sé. Dalla descrizione sopra citata, è chiaro l’interesse di Munari verso una “contaminazione” di media diversi, nonché la devozione alla natura, che spicca particolarmente in una situazione artistica come quella futurista, che tende al meccanico o allo sconfinamento negli spazi cosmici. Per quanto riguarda gli elementi di sviluppo dei modi di fare arte tipici del futurismo, Munari commenta così l’avanguardia che ha contribuito a fondare: Futurismo. Il pittore futurista vuol dipingere il movimento dell’oggetto e non l’oggetto stesso. Da ciò deriva la simultaneità dell’oggetto con l’ambiente, la scomposizione e la compenetrazione dei piani e tante altre cose mentre il visitatore ignaro si sforza inutilmente di ricostruire l’oggetto che ha fornito l’ispirazione. Da questo momento l’oggetto, approfittando del movimento che gli ha imposto il futurismo, parte e non lo vedrete mai più, sotto forma verista, nei quadri moderni . Munari, nel descrivere con parole sue il futurismo, parla indirettamente della “scomparsa dell’oggetto”, ovvero della «eliminazione della funzione narrativa del quadro», che ha inizio con la partecipazione al secondo futurismo e che si concretizzerà negli anni successivi, in particolare dal dopoguerra, periodo in cui gli interessi dell’artista si muoveranno soprattutto verso il design. Il momento storico entro cui il giovane Munari muove i primi passi in ambito artistico, quello cioè delle avanguardie europee e degli scambi tra movimenti, gli permette la sperimentazione di media e supporti, forme e temi sempre diversi, rendendo difficile tracciare i confini stilistici dell’artista fin dal principio del suo percorso. Bruno Munari si avvicina al mondo dell’arte grazie al secondo futurismo, ma la sua curiosità lo spinge oltre questa avanguardia, alla ricerca di nuove contaminazioni, nuovi temi, nuovi modi. Verso la fine degli anni ’30, Munari entra in contatto con l’arte astratta, soprattutto attraverso la mediazione culturale di Prampolini e la Galleria Il Milione di Milano, che in quegli anni propone numerose mostre. Lo spazio, fondato nel 1930 da Peppino e Gino Ghiringhelli, dedica esposizioni ai più importanti artisti d’arte contemporanea italiani, come Sironi, Morandi, De Chirico, Melotti, Fontana, Soldati, Rho, ma anche europei, tra i quali Matisse, Kandinsky, Picasso, Chagall. A proposito della galleria, Munari scrive: Intorno agli anni Trenta si aprì, a Milano, davanti all’Accademia di Belle Arti di Brera, una piccola galleria che ha avuto una grande importanza culturale perché faceva conoscere, in quei tempi oscuri, quelli che oggi sono considerati i grandi maestri d’arte moderna. Tornando all’arte astratta, di questa esperienza artistica il milanese scrive: «Astrattismo e qui, finalmente, il soggetto, dopo tante metamorfosi, scompare. Il soggetto di un quadro astratto è la Pittura, soltanto la pittura e cioè forme e colori liberamente inventati». Come per il futurismo, anche della maniera astratta l’artista coglie alcuni importanti aspetti: fin dai tempi delle Macchine inutili Munari pone l’attenzione alle forme utilizzate dai pittori astratti e se ne appropria, liberandole nella tridimensionalità di una scultura, anziché intrappolarle nella bidimensione della tela. A proposito della nascita di queste sculture, l’artista spiega: Nel 1933 si dipingevano in Italia i primi quadri astratti che altro non erano che forme geometriche o spazi colorati senza alcun riferimento con la cosiddetta natura esteriore. Spesso questi quadri astratti erano delle nature morte di forme geometriche dipinte in modo verista. Personalmente pensavo che, invece di dipingere dei quadrati e dei triangoli o altre forme geometriche dentro l’atmosfera, ancora verista (si pensi a Kandinsky) di un quadro, sarebbe stato forse interessante liberare le forme astratte dalla staticità del dipinto e sospenderle in aria, collegate tra loro in modo che vivessero con noi dentro il nostro ambiente, sensibili alla atmosfera vera della realtà. Con le Macchine inutili, Munari rinuncia al supporto e, dunque, allo sfondo. Egli definisce la pittura di Kandinsky, che pur considera suo maestro, «una natura morta di oggetti irriconoscibili naviganti in una atmosfera vaga che fa da sfondo». Riguardo il tema del supporto e dello sfondo, negli anni in cui Lucio Fontana taglia la tela e Moholy Nagy realizza i suoi Dipinti trasparenti, Munari prepara una serie di dipinti intitolata Anche la cornice, che Tanchis definisce una «dichiarazione di poetica», in quanto « l’annessione della cornice al quadro equivale alla distruzione della sua funzione separatrice». Questa soluzione compositiva astratta crea uno spazio «plastico, integrale, concreto» dove tutto è ambiguità percettiva, dall’effetto di profondità, al confine tra opera e suo contorno. Ma il legame tra Bruno Munari e l’astrattismo è rintracciabile soprattutto nel confronto con due grandi artisti, Paul Klee e Piet Mondrian: con il primo, il milanese condivide intenti e riferimenti culturali, mentre dell’olandese Munari è colpito dalla rigorosa strutturazione ortogonale dello spazio, nel quale colore e forma «esprimono solo se stessi». Un confronto critico tra Munari e Klee viene proposto dallo studioso Aldo Tanchis, che individua per i due artisti nonostante oltre quattro decenni separino la loro attività aspetti affini nel loro metodo di lavoro. Il primo elemento in comune tra i due maestri riguarda «il problema del creare» , che per entrambi è più importante di ciò che viene creato. L’attenzione verso il procedimento di realizzazione dell’oggetto artistico, ovvero il metodo di lavoro, è sottolineato da Munari in un brano nel quale, parlando dell’importanza della distruzione dell’opera collettiva realizzata in un laboratorio creativo, afferma: «non è l’oggetto che va conservato ma il modo, il metodo progettuale, l’esperienza modificabile pronta a produrre ancora secondo i problemi che si presentano» . Allo stesso modo, per Klee «Ogni opera non è a bella prima un prodotto, non è opera che è, ma in primo luogo, genesi, opera che diviene». Questo primo elemento comune, richiama subito il secondo, altrettanto importante per i due artisti, ovvero la loro innata vocazione didattica. Se è il metodo di lavoro la cosa più importante del fare arte, è conseguente il fatto che vi debbano essere degli allievi a cui insegnare a sviluppare il proprio processo creativo. Negli scritti di Munari e Klee è evidente il loro desiderio di insegnare e la volontà di condividere con gli altri dei risultati teorici importanti. Entrambi mirano a favorire la propria disposizione creativa attraverso «modelli critici di comportamento». Per i due artisti le idee preconcette e l’eccessivo uso della ragione sono ostacoli alla creazione. Mentre Klee suggerisce ai suoi allievi «che le figurazione proceda dall’interno», ovvero che non ci siano agenti esterni ad influenzare la loro fantasia, Munari spiega ai suoi studenti: Ho detto loro di non pensare prima di fare. Di non cercare di farsi venire un’idea per fare la composizione. Spesso un’idea preconcetta mette in difficoltà l’operatore. Non pensare prima di fare vuol dire lasciare fuori la ragione e usare l’intuizione, cominciare a disporre a caso le forme. In terzo luogo, lo svizzero e l’italiano condividono l’idea di origine orientale che il cambiamento, il movimento e la mutazione rappresentano la vita e sono costanti essenziali della realtà. Per Munari «Il conoscere che una cosa può essere un’altra cosa, è un tipo di conoscenza legata alla mutazione. La mutazione è l’unica costante della realtà», mentre per Klee «Buona è la forma come movimento, come fare: buona è la forma attiva». Munari sottolinea l’importanza della mutazione anche quando parla dello sviluppo della fantasia e della creatività, soprattutto in età infantile. Egli infatti spiega che «Abituare i bambini a considerare la mutazione delle cose vuol dire aiutarli a formarsi una mentalità più elastica e vasta». Dunque, essere pronti al cambiamento, «essere mobili come la grande natura», spinge entrambi gli artisti ad una conclusione condivisa, che ci riporta al punto di partenza: non è l’oggetto che va conservato, ma il modo. In Munari questo aspetto prende forma nella sesta ed ultima regola che riguarda le tecniche di comunicazione visiva da insegnare ai bambini in un laboratorio creativo, ovvero: «Sesto: distruggere tutto e rifare...». Questa regola è utile ad evitare di creare modelli da imitare. Aldo Tanchis riconosce in questa «volontà antimuseificatrice» e distruttrice un’influenza di origine futurista, alleggerita dalla sua personale ironia, ovvero «un invito ad andare oltre, ad ignorare l’ipotesi di un risultato finale». Tra Munari e Klee vi è anche la condivisione dell’interesse per le forme della natura, in particolare le forme in crescita e i loro sistemi costruttivi: entrambi cercano nella natura le forme archetipe, originarie e, per Munari, essenziali. Klee afferma: «Il dialogo con la natura resta, per l’artista, conditio sine qua non. L’artista è uomo, lui stesso è natura, frammento della natura nel dominio della natura». I due artisti partono dunque dalla stessa ricerca, ovvero un’attenta indagine della natura per trovare la forma archetipa, ma arrivano a risultati diversi: per Klee l’obiettivo è il «prelevamento dell’immagine allo stato puro», Munari invece cerca «una forma di naturalezza industriale», visibile nelle sue opere di design. Infine, il milanese e lo svizzero condividono l’idea che le regole del fare artistico si possono trasmettere, ma la «genialità non la si può insegnare in quanto non è regola bensì eccezione» . Per Munari «È proprio la tecnica che si può insegnare] non l’arte. L’arte c’è o non c’è». Le tecniche e le regole per sperimentare l’arte possono dunque essere trasmesse, ma la genialità è innata. Anche la storica dell’arte Gloria Bianchino conferma la grande considerazione di Munari verso il pensiero teorico di Paul Klee, spiegando come «il dialogo con l’artista svizzero sia stato non solo importante, ma determinante per la ricerca del segno di Munari». Cerco di mettere in luce gli elementi di contatto tra il milanese e lo svizzero attraverso la mediazione della scuola del Bauhaus, nella quale, per volontà di Walter Gropius, Klee insegna pittura dal 1920 al 1931. In questi stessi anni, il pittore tedesco-svizzero farà uso dell’ironia «per suggerire il distacco fra l’immagine rappresentata e il suo primo significato, quello espresso nella didascalia» è ipotizzabile, per la Bianchino, che Munari assuma «l’uso di proporre dei titoli con la funzione di suggerire il piano dell’immagine come diverso da quello del suo primo significato» proprio da Klee, per il quale il senso delle rappresentazioni «non è mai stabile, ma muta a seconda della didascalia». Sappiamo inoltre, dalle parole di Tanchis, che Munari legge Klee, conosce i suoi testi, ma li traduce sempre in maniera operativa, ponendo l’attenzione al risvolto pratico del fare artistico. Ma, nonostante una profonda condivisione del metodo e di svariati richiami culturali, esistono alcune differenze che intercorrono tra i due maestri: anzitutto la pratica artistica, che per Klee rimane circoscritta alla tela, mentre per Munari si sviluppa in opere di natura molto diversa dalle Macchine inutili, agli oggetti di design, ai libri per bambini, ai laboratori creativi. Inoltre, è evidente la «diversità di forza e carattere» tra la scuola del Bauhaus, «democratica fondata sul principio della collaborazione, della ricerca comune tra maestri e allievi» e «vivacissimo centro di cultura artistica in contatto con tutte le tendenze avanzate dell’arte europea», di cui fa parte Klee, e il MAC , movimento artistico fondato da Munari, forse l’unico esempio italiano di discussione di teorie e problemi legati al mondo dell’arte, che altrimenti sarebbero stati trascurati, ma che ha dato scarsi risultati per quanto riguarda la produzione di oggetti artistici, al contrario della ricca produzione bauhausiana. Per concludere, la differenza forse più significativa tra Munari e Klee risiede nel rapporto tra arte e vita: lo svizzero vive l’arte come attività consolatoria, in contrasto con la quotidianità, mentre per il milanese questa distinzione è impossibile, poiché non ci devono essere «un mondo falso in cui vivere materialmente e un mondo ideale in cui rifugiarsi moralmente» . Vedremo più avanti che l’intento teorico di Munari sarà infatti riuscire a fondere arte e vita, per giungere ad un’arte democratica e diffusa nel quotidiano. Il giovane Munari deve a Prampolini anche la conoscenza di Piet Mondrian, fondamentale per la formazione del milanese, che con il maestro olandese condivide i motivi di critica al futurismo. A tale proposito, è lo stesso Munari, in un’intervista ad Arturo Carlo Quintavalle, ad affermare: «Prampolini mi mostrò anche delle opere di Mondrian e fui molto colpito dalla essenzialità e dal modo di occupare lo spazio di questo artista». Il milanese si rende presto conto dell’incapacità del futurismo di passare dalla rappresentazione del movimento al movimento puro questione che egli risolve con le Macchine inutili e la tendenza futurista a considerare il quadro l’opera in generale attraverso motivi che vanno oltre l’opera stessa, prescindendo dai valori sensoriali e formali. Munari riconosce in Mondrian l’artista che per primo arriva «al colore e alla forma che esprimono solo se stessi», ed è colpito, in particolare, dalla sua meticolosa strutturazione ortogonale dello spazio e dal tentativo di eliminare dall’opera ogni forma di “stato d’animo”, ovvero elementi che non hanno nulla a che fare con l’oggettività del manufatto. Questi elementi vengono ripresi da Munari soprattutto nella sua attività di designer: tutti gli oggetti da lui progettati si pensi, ad esempio, al Posacenere cubo o all’Abitacolo rappresentano null’altro che loro stessi, la loro essenzialità formale corrisponde ad una essenzialità funzionale. A confermare il legame tra Munari e Mondrian è il pittore Franco Passoni che, nel Bollettino Arte Concreta n. 5, pubblica un breve saggio dal titolo “Teorema di Munari”, nel quale presenta il lavoro del milanese. Passoni scrive: La prima scoperta fondamentale di Munari nacque dalla valutazione sull’arte astratta impostata da Mondrian, in quell’occasione e attraverso esperienze personali, egli capì che una superficie piana può diventare interessante dal modo come viene divisa, selezionata e colorata, seguendo un rigorosismo estetico al di fuori della proporzionalità euclidea conosciuta in arte come !sezione aurea”. Munari giunge alla conclusione che «la forma nello spazio ha una sua esclusiva natura, una sua ragione d’essere in sé e per sé senza limiti stabiliti» ma la ricerca attorno alla forma del quadrato e la realizzazione dei primi Positivi-Negativi metteranno definitivamente in luce la discontinuità con il pittore olandese: Quando nel passato ho lavorato ai negativi-positivi il mio problema era uscire da Mondrian: ho ancora le sue ortogonali dentro di me... A furia di semplificare, di arrivare ai colori primari, Mondrian ha occupato lo spazio della tela in modo asimmetrico al fine di trovare un equilibrio. Era difficile uscire da questa gabbia. Attraverso i miei negativi-positivi ho tentato di arrivare ad un altro tipo di equilibrio. E credo di esserci riuscito. Conseguenza di questa indagine oggettiva è una certa avversione nei confronti dell’espressionismo, il «barocco moderno» così ricco di soggettività e sentimento, che viene tradotto da Munari in una «ricerca del massimo di purezza e sobrietà dell’oggetto», il quale diventa «autosufficiente e autosignificante, si rappresenta e non rappresenta». La ricchezza di dettagli e decori è, per Munari, inutile alla comunicazione del messaggio e, dunque, alla fruizione dell’oggetto: l’obiettivo del designer è il raggiungimento del famoso motto di Mies van der Rohe “less is more”: Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. Togliere invece che aggiungere vuol dire riconoscere l’essenza delle cose e comunicarle nella loro essenzialità. Questo processo porta fuori dal tempo e dalle mode. La semplificazione è il segno dell’intelligenza, un antico detto cinese dice: quello che non si può dire in poche parole non si può dirlo neanche in molte. Come per Munari e Klee, il milanese condivide anche con Mondrian lo stretto legame con la natura: per l’olandese, infatti «Nel naturale possiamo percepire che ogni rapporto è dominato da un rapporto primordiale: quello degli estremi opposti attraverso una dualità di posizioni ortogonali tra loro» . Mondrian è anche responsabile della formazione anti-romantica di Munari, in particolare per quanto riguarda la funzione dell’arte: l’operare artistico dipende, per l’olandese, dalla «riconciliazione uomo-ambiente» e deve proseguire verso una progressiva «scomparsa del tragico». In altre parole, Munari recupera l’insegnamento di Mondrian adattandolo alla situazione italiana e coglie dal maestro la volontà di azzerare il linguaggio visivo corrente per crearne uno di nuovo. Questo codice dovrà segnare una totale autonomia rispetto a ciò che lo ha anticipato in particolare il futurismo e il cubismo per giungere ad una diversa figura d’artista, al quale spetterà il compito di legare il problema dell’arte al problema sociale. Dunque, la nuova funzione dell’arte risiede nella capacità dell’arte stessa di interagire e integrarsi con il mondo e con la società e di essere utile all’uomo, nella maniera più naturale possibile. Infine, l’obiettivo di Mondrian di «ricostruire e rettificare il processo della percezione; correggere le storture di una falsa educazione visiva» è condiviso da Munari sia negli scritti teorici, così attenti all’aspetto didattico, ché nell’attività artistica, la quale mira, come abbiamo visto, ad una nuova educazione visiva, purificata da ciò che è superfluo. Influenzato dalle avanguardie e dagli artisti che vi hanno fatto parte, verso la metà degli anni ’30 Munari sperimenta studi di percezione visiva e giunge, dopo la guerra, alla realizzazione di due opere in particolare che segnano un punto di svolta rispetto alle influenze futuriste e astrattiste. Anzitutto le Sculture da viaggio, nate alla fine degli anni ’50, «oggetti a funzione estetica» , vere e proprie sculture in miniatura, leggere e poco ingombranti, che hanno la caratteristica principale di poter essere smontate occupando uno spazio bidimensionale e rimontate ritorno alla tridimensionalità infinite volte e portate con sé anche in viaggio, appunto. Nello stesso periodo Munari realizza anche i primi Positivi-Negativi, a cui abbiamo già accennato, opere che si inseriscono pienamente nell’attività astratta dell’artista. «L’idea base che genera questi dipinti, sta nel fatto che ogni elemento che compone l’opera, ogni forma, ogni parte della superficie, può essere considerata sia in primo piano sia come fondo». La serie Positivi-Negativi è anche un omaggio a Mondrian: la riflessione sul problema dello sfondo viene risolta con l’effetto ottico dove ogni elemento del quadro può essere letto da diversi punti di vista. Questa parte della ricerca munariana è stata collegata da molti studiosi all’esperienza della scuola del Bauhaus, soprattutto attraverso l’attività di tre artisti: Joseph Albers, Moholy-Nagy e Max Bill. A questo riguardo lo scrittore e critico d’arte Guido Ballo scrive: Munari sente la necessità di “sperimentare”, di applicare decisamente l’arte all’industria, di moltiplicare una stessa opera, con punti di vista diversi; né ha il timore di volgersi alla grafica pubblicitaria e all’industrial design. Sa con chiarezza che l’esempio del Bauhaus può essere efficace proprio per il rinnovamento di un’arte nel rapporto con l’industria. Ma è lo storico Aldo Tanchis, a cui «si deve un saggio assai acuto sul designer» come sottolineato da Gloria Bianchino che realizza un quadro completo riguardo le influenze di ambito artistico che hanno interessato l’attività teorica e pratica di Munari. Cominciamo prendendo in esame, seppur in modo sommario, l’attività artistica di Josef Albers, che dal ’25 al ’33 insegna alla scuola di Dessau. L’artista indaga il problema della densità spaziale e della profondità del dipinto, oltre che le proprietà dei materiali, condizionando non poco l’attività del milanese, come conferma lo storico dell’arte Filiberto Menna: Munari si muove soprattutto sulla via aperta da quest’ultimo (Albers), in direzione cioè di un’arte intesa come pura ricerca visiva, come analisi grammaticale del linguaggio pittorico e plastico compiuta con l’ausilio della psicologia della percezione. Due opere di Munari sono da considerarsi il risultato concreto di queste riflessioni: con i Positivi-Negativi il milanese sperimenta l’effetto OP (optical art), attraverso il quale «ogni forma che compone l’opera sembra che si sposti, che avanzi o che vada indietro nello spazio ottico percepito dallo spettatore». Allo stesso modo, il dipinto Anche la cornice del 1935 va interpretato alla luce del nuovo interesse per i problemi di comunicazione visiva, rivolto in particolare ad «una precisa sperimentazione su fenomeni ottici come la irrequietezza percettiva di un pattern e la ambiguità tra figura e sfondo». L’interesse di Munari verso le ricerche di Albers è confermato anche dalla firma alla prefazione del libro del pittore tedesco Interazione del colore, dove il designer mette in luce le infinite variabili che alterano la percezione dei colori e accenna ad alcune delle sperimentazioni cromatiche proposte da Albers all’interno del saggio. Lo stesso Munari sottolinea come tali ricerche «potrebbero essere utili a operatori in campi diversi» e non solo a chi si occupa di arte pura, accennando l’interesse dei designers nei confronti della percezione del colore su materiali utilizzati nell’ambito dell’arte applicata, come ad esempio la reazione di tessuti di materie diverse ad un bagno dello stesso colore. Anche le indagini di Moholy-Nagy appassionano il giovane artista. Dall’esperienza dell’ungherese nell’ambito di ricerca attorno la luce e il movimento, Munari dà vita alle Proiezioni a luce polarizzata. A differenza delle Proiezioni dirette, che si avvalgono di materie plastiche colorate, trasparenti, semitrasparenti o opache inserite in un telaietto per comporre un “quadro statico” proiettato con un comune proiettore per diapositive, le Proiezioni a luce polarizzata hanno i colori della composizione che cambiano per tutto l’arco cromatico fino ai rispettivi complementari, grazie alla rotazione del filtro polarizzante. Nel telaietto vengono inserite materie plastiche trasparenti ma senza colore. Rispetto a questo tema, è ancora Filiberto Menna ad affermare: «l’artista (Munari) si rivolge ad altri strumenti di comunicazione visiva, proseguendo le ricerche sulle possibilità espressive della fotografia condotte da Moholy-Nagy». Per l’artista bauhausiano «L’immagine non è il risultato, ma la materia e l’oggetto della ricerca»: Poiché non c’è visione senza luce, l’analisi dell’immagine (che è sempre luminosa) diventa analisi della luce: la luce essendo movimento, movimento e luce sono le due componenti fondamentali dell’immagine. Essenziale è quindi lo studio delle qualità assorbenti, riflettenti, filtranti e rifrangenti della superficie (texture) delle diverse materie. Sappiamo che Munari conosce bene «le ricerche di Moholy-Nagy sia in fotografia che sul movimento»; a confermarlo è egli stesso poiché, nell’intervista allo storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle, afferma di muovere le proprie sperimentazioni dalla «nuova tecnica fotografica iniziata da Man Ray e da Moholy-Nagy» . Altro punto di contatto con l’ungherese riguarda la ricerca del metodo che risolve il problema dello sfondo: entrambi gli artisti partono dal «rifiuto dell’astrattismo “lirico” di Kandinsky» e arrivano a soluzioni innovative che si avvalgono di strumenti e materiali moderni, dimostrando una profonda attenzione alla contemporaneità. Munari condivide alcuni elementi della sua ricerca anche con Max Bill, allievo dei grandi maestri del Bauhaus e attento indagatore dell’arte concreta, tanto da entrare in contatto, dal dopoguerra, con i fondatori del MAC (Soldati, Dorfles, Monnet, Munari). Nell’intervista a Quintavalle, Munari dichiara di seguire le esperienze di Bill attorno agli alfabeti e ai problemi topologici. La convergenza teorica dei due nei confronti di questioni artistiche oggettive e verificabili, li porta a condividere il rifiuto dello styling, ovvero un tipo di progettazione industriale legato alla moda, che antepone alla progettazione stessa un’idea artistica; l’attenzione ai rapporti forma-funzione, nel modo in cui la forma è il risultato della funzione che l’oggetto deve svolgere; la battaglia per il good design, conseguenza del dissenso allo styling e della ricerca del rapporto forma-funzione. Alla fine degli anni ’40, Munari è ormai proiettato verso la grafica e il design, il suo interesse si è fatto più “pratico” e legato ad un uso quotidiano. La ricerca puramente astratta è limitante per un artista «convinto che l’arte dovesse vivere nel mondo degli uomini, nella realtà fenomenologica, nel flusso delle cose» e anche perché, secondo Munari, «l’arte astratta di allora era in realtà una rappresentazione verista di oggetti. Una natura morta di oggetti inventati: triangolo, quadrati, linee, piani... invece di bottiglie e pere». Le ricerche di Munari, che dagli anni ’40 esplodono in mille direzioni perché è più importante l’operare che l’opera stessa incrociano, lungo il loro percorso di maturazione, anche elementi dadaisti. Filiberto Menna, riferendo la complessità di rintracciare nell’opera di Munari un senso unitario di ricerca e sperimentazione, parla dell’equilibrio della poetica dell’artista tra i temi centrali del futurismo, ovvero la «interpretazione dell’arte come totalità e come strumento di riedificazione dell’ambiente per il tramite della macchina e della tecnica moderna», e i temi ironici e antimacchinistici propri del dadaismo. Munari affronta i problemi teorici legati all’arte con «una componente ludica che sembra derivare dalla astratta ironia metafisica di Duchamp», in particolare attraverso due filoni di indagine collegati al movimento anti-arte: la poetica del casuale e l’uso dell’ironia. La “legge del caso”, che con Duchamp raggiunge la sua massima espressione, viene filtrata e adattata da Munari: il milanese coglie dall’insegnamento duchampiano ciò che gli interessa, come spesso è accaduto anche con altri movimenti artistici, e lo adegua al suo modo di fare arte. Munari fa affidamento alla “legge del caso” nella fruizione delle Macchine inutili, introducendo «un elemento di distrazione nei confronti della funzionalità pura, in modo da porre l’accento sulla componente di una libera e gioiosa contemplazione-fruizione dell’oggetto». Ecco, dunque, che il movimento della macchina inutile dipende da agenti esterni, come il vento o la spinta da parte del fruitore. Ma è nella performance del 1969 Far vedere l’aria che la poetica del caso è particolarmente esplicita, senza dimenticare che questa giocosa operazione ha un precedente futurista: Aldo Tanchis ricorda infatti che nel 1914 Bruno Corra e Emilio Settimelli proposero di «combinare degli organismi con dei pezzi di legno, tela, carta, piume e inchiostro, i quali lasciati cadere da una torre alta 37 metri e 3 centimetri, descrivono cadendo a terra una certa linea più o meno rara». In questa azione-gioco, che Munari progetta fin nei minimi particolari l’artista fornisce misure e forme precise per i pezzetti di carta, lasciando anche la possibilità al pubblico di pensare a forme nuove ed alternative il ruolo del caso è determinante per il movimento e l’atterraggio delle strisce lasciate cadere dalla torre. La poetica del caso viene dunque adattata alle esigenze progettuali dell’artista divenendo, attraverso una puntuale programmazione, un’esperienza di «dada propositivo». In questo senso, la performance ha a che fare con l’idea di “arte” proposta dall’antropologo Alexander Alland. Egli, infatti, definisce “arte” un «gioco con una forma che produce una qualche trasformazione-rappresentazione esteticamente valida», dove per “forma” si intendono le regole del gioco dell’arte. Tornando al tema del caso, in Munari esso è certamente presente, ma è mitigato dalla costante ricerca della regola, che è utile conoscere per poterla trasgredire, ma che rimane il punto di partenza del suo lavoro. Del resto, la convivenza di caratteristiche contrapposte è un elemento importante nell’opera dell’artista milanese, per il quale l’equilibrio risiede nella coesistenza di energie contrarie, come afferma egli stesso: «La vita è un continuo equilibramento di forze contrapposte: il lavoro viene equilibrato col riposo, il giorno dalla notte, il caldo dal freddo, l’umido dal secco, l’uomo dalla donna, e via dicendo». Nel rapporto dialettico tra serietà e gioco, tra positivo e negativo, tra yin e yang esiste un elemento che permette di raggiungere tale equilibrio, forse la caratteristica più appariscente del lavoro di Munari, l’ironia. La funzione che essa svolge nelle opere del milanese è duplice: l’artista sfrutta l’umorismo per mantenere un senso di inafferrabilità nelle sue opere e nella sua stessa professione. Il senso di inafferrabilità sottolinea la volontà dell’artista «di non restar prigionieri di un’immagine qualsivoglia, intellettuale, fisica, poetica o tecnica che sia». Inoltre, se consideriamo il discorso legato all’ironia in rapporto al dadaismo, individuiamo la sua seconda caratteristica, ovvero la capacità di togliere all’oggetto creato nel caso di opere d’arte e di design il senso di sacralità che per Munari diventa un pericolo, qualcosa da cui è necessario allontanarsi. Nel dadaismo «l’arte è gioco» e l’ironia fa da fertilizzante in ogni azione artistica, che in realtà è essa stessa nulla. L’opera perde importanza, valore e significato, ma acquista dignità intellettuale attraverso il gesto desacralizzante dell’artista. Tale operazione, chiamata ready-made e definita da Argan come il processo che determina un valore ad «una cosa a cui comunemente non se ne attribuisce alcuno», dunque considerata non attraverso il procedimento operativo, ma piuttosto come «un mutamento di giudizio» , è descritta anche da Munari che spiega ironicamente «Più vicino a noi Marcel Duchamp presentò un pisciatoio come fontana. Questo oggetto che aveva sempre ricevuto getti liquidi, adesso li restituisce e diventa una fontana» . Ricorda il ready-made l’operazione artistica-gioco del Museo inventato sul luogo, dove oggetti trovati in natura e non solo, raccolti e catalogati, costituiscono la collezione di un museo personale che ognuno può realizzare in casa propria. Munari, con ogni suo progetto, ribadisce la regola per cui «una cosa può essere anche un’altra cosa». A questa regola rispondono molte altre opere del milanese, come gli Olii su tela del 1980, forse l’opera più concettuale dell’artista, con la quale egli critica e desacralizza l’arte accademica ironizzando attorno alla tecnica tradizionale di “olio su tela”: Restano l’olio e la tela. Olio su tela. La tela con i suoi colori raffinatissimi, dalla tela di canapa a quella di lino, a quella di cotone, a quella sottilissima di batista. Gli oli da quello di lino a quello di papavero, a quello di mandorle, a quello di ricino, colori appena visibili. Molto più raffinati del banale rosso e verde bandiera. Olio su tela, olio puro, tela senza telaio, oli su tele. Anche le Proiezioni dirette, nate come opere originali e diventate uno dei giochi del primo laboratorio per bambini di Brera del 1977, rispondono alla regola sopracitata: queste piccole composizioni, realizzate direttamente nei telaietti per diapositive, trasformano banali materie plastiche in opere d’arte. Piccoli pezzi di plastica e carta colorata di diverse trasparenze, fili e reti metalliche, piume e foglie, assemblati in modo creativo e proiettati al muro in scala maggiore diventano espressioni artistiche, recuperando dignità e valore intellettuale. La funzione dissacratoria dell’ironia è rivolta anche all’arte contemporanea, o meglio, alla «pura arte commerciale»: l’obiettivo critico delle pungenti battute, che ritroviamo negli scritti teorici, rivolte ad artisti e/o movimenti affermati del panorama contemporaneo, «è la mancanza di educazione e informazione estetica» , di cui è responsabile la critica, che dovrebbe fare da tramite con il pubblico, ma che sempre più frequentemente tiene conto del profitto e del mercato e mantiene l’ignoranza nella gente. Se prendiamo in considerazione gli scritti teorici di Munari, vediamo che egli utilizza l’umorismo anche per discutere del suo lavoro: il riso, nato da una battuta spiritosa, muove nel lettore riflessioni che altrimenti non germinerebbero ed «è segno di equilibrio interiore». Dunque la funzione temporale dell’ironia, messa in luce da Argan e Tanchis, permette alle opere di Munari di mutare continuamente, prendendo forme nuove e comunicando sempre sensazioni diverse. L’ironia è funzionale al completamento, alla comprensione, all’equilibrio e alla demitizzazione dell’opera e contribuisce a riportare sul piano della realtà il lavoro di Munari. Infine, accenniamo ad un elemento di continuità tra Munari e i movimenti artistici di cui abbiamo parlato fino ad ora, ovvero il “libro d’artista”. Questo tema che certamente richiederebbe un approfondimento ben più ampio di quello che qui proponiamo ha a che fare con l’esperienza del milanese all’interno, o meglio ai confini, delle avanguardie ed è molto importante nella revisione della sua opera, soprattutto tenendo conto delle direzioni che Munari prenderà con il lavoro di editoria per l’infanzia. Il periodo che va dalla fine degli anni Trenta fino alla conclusione della guerra evidenzia una svolta negli interessi del milanese, che si rivolgono in modo significativo verso la grafica. In questo periodo l’artista, che vive a Milano città molto attiva in ambito editoriale ha la possibilità di conoscere il lavoro di autori a lui contemporanei. Attraverso le riviste dell’epoca il giovane Munari entra in contatto con l’attività di molti artisti che utilizzano il libro d’arte per diffondere il loro lavoro, poiché come dice la storica Maura Picciau: L’appropriazione del libro da parte delle avanguardie artistiche è strettamente connessa alla volontà di allargare il proprio pubblico, di uscire, grazie al medium più comune, dal chiuso delle gallerie d’arte. Il libro come tramite comunicativo rapido, economico e democratico. E la fruizione, consapevolmente dinamica, di un libro d’artista, si avvicina all’idea di performance, di esperienza estetica dell’autore e del lettore/fruitore dilatata nel tempo e nello spazio. Il libro diventa un nuovo codice comunicativo, «luogo di confronto con le altre discipline», e come tale è fonte di profondo interesse da parte di Munari che, muovendo dall’esperienza futurista del “libro d’arte” attraverso il lavoro di Marinetti e d’Albisola, ma anche dal dadaismo e da artisti come Hannah Höch o esponenti della Bauhaus quali Oskar Sclemmer o Moholy-Nagy, giunge alla realizzazione dei libri illeggibili, probabilmente la conclusione più radicale della ricerca sull’astrazione. L’esperto di storia dell’editoria Giorgio Maffei non manca di sottolineare come Munari «nella piena maturità dell’astrattismo concretista, dà l’ultima spallata al ruolo informativo del libro eliminandone la sua peculiare caratteristica, la leggibilità, aprendo così la via ad una sua definitiva deflagrazione» . Il libro, con Munari, diventa nuovo linguaggio espressivo, luogo di «equilibrio compositivo e cromatico, di sequenza formale logica» e, come sottolinea Menna, «si trasforma in oggetto inutile, in un libro illeggibile, ma nello stesso tempo si presenta come un modello per libri in grado di offrire la possibilità di letture sempre nuove e ricche di imprevisti». Come abbiamo visto, Bruno Munari sperimenta ogni avanguardia e movimento artistico con cui entra in contatto, dal futurismo, all’astrattismo, al surrealismo, al dadaismo: il suo animo curioso mette alla prova ogni tecnica possibile, ogni riferimento estetico, percorre tutte le direzioni che incontra, per ridurre le innumerevoli esperienze entro la propria visione del mondo e il proprio fare artistico. Per questo motivo è difficile tracciare un profilo chiaro dell’artista ed è impossibile costringerlo in categorie cronologiche o stilistiche: egli è futurista, astrattista, surrealista, dadaista e, allo stesso tempo, non è nulla di tutto ciò. Il comune denominatore della poetica di Munari, l’elemento che tiene insieme tutte le forme d’espressione del milanese, è, come vedremo, l’amore per il progetto, una costante del suo modo di fare arte, design e didattica. Se noi ripercorriamo la storia intellettuale di Bruno Munari, possiamo notare come, dal secondo dopoguerra, egli diriga gli sforzi artistici, intellettuali e progettuali verso un sano e più diretto rapporto con il pubblico. Nel corso di questo processo l’artista si avvicina al mondo dell’infanzia attraverso i primi libri per bambini, nati, come abbiamo visto, da un esigenza personale, la nascita del figlio Alberto. Nello stesso periodo il milanese entra in contatto con l’editoria e la grafica che in Italia, negli anni che seguono il conflitto mondiale, tiene il passo rispetto alle esperienze europee e americane. A tale proposito, Meneguzzo chiarisce che «l’aggiornamento era già un dovere per chi aveva a che fare con l’industria editoriale e pubblicitaria». Ma il dopoguerra è un periodo importante per Munari anche dal punto di vista teorico poiché, come abbiamo precedentemente accennato, egli fonda, nel 1948, il MAC (Movimento Arte Concreta), assieme agli amici artisti Atanasio Soldati, Gillo Dorfles e Gianni Monnet , accomunati dal rifiuto delle tendenze post-cubiste e realiste. Questa esperienza, «non molto ricca dal punto di vista della mera produzione di oggetti d’arte», è però fondamentale per il lavoro di Munari perché sposta l’attenzione su architettura, arredamento e design promuovendo, soprattutto nella sua seconda fase (dai primi anni Cinquanta), l’idea di integrazione e «sintesi tra le arti». Il Movimento, inizialmente orientato a promuovere un nuovo tipo di astrattismo più vicino al costruttivismo puro, si pone il problema della «vera funzione sociale dell’arte» con l’obiettivo di «migliorare non solo l’animo umano ma anche l’ambiente dove l’uomo vive». Lo stesso Munari mette in luce l’evidente incomprensione che intercorre tra pubblico e artisti, sottolineando come questi ultimi vivano isolati nei loro ateliers, in contrasto con un pubblico che vive in città grigie, viaggia su brutti veicoli ed è circondato da pubblicità volgari. Il desiderio dei concretisti e di Munari in particolare è dunque riavvicinare gli artisti alla vita reale e alle persone, staccandoli dalla loro arte pura e portando la loro sensibilità artistica all’industria. L’esperienza all’interno del MAC e la collaborazione con gli artisti e gli intellettuali del movimento sarà, per Munari, l’occasione di ragionare su alcune importanti questioni che riguardano l’arte del suo tempo. Tra le innovazioni teoriche del milanese, analizzeremo in particolare il nuovo ruolo dell’artista nella società contemporanea, la democratizzazione dell’arte, che con Munari torna ad essere arte di tutti, la desostantivizzazione dell’oggetto artistico, il quale, per rispondere alle esigenze della società, deve essere riportato alla vita quotidiana e, infine, la regola base della progettazione munariana, ovvero la corrispondenza tra forma, materia e funzione. Una delle prime questioni che Munari affronta muovendo dalle riflessioni nate all’interno del MAC è strettamente legata al suo lavoro d’artista: dopo le esperienze degli anni Trenta e Quaranta con il futurismo, il surrealismo, l’astrattismo e il dadaismo, Munari comprende che l’arte non è utile alla società nella misura in cui lo era un tempo. Arte come mestiere il primo dei testi didattici del milanese dedicati ad un pubblico adulto, pubblicato nel 1966 da Laterza è il risultato di questo primo e fondamentale ragionamento teorico, che porrà le basi per la concettualizzazione di una nuova figura dell’artista di epoca contemporanea. Munari spiega, con un linguaggio tanto semplice da risultare quasi disarmante, che l’artista di oggi deve rimettere in discussione il suo ruolo e il suo modo di intendere l’arte poiché ciò che produce interessa una cerchia ristretta di “addetti ai lavori” e non risponde ai bisogni o alle necessità della società contemporanea. La risposta dell’artista al problema è dunque il design, nuovo linguaggio artistico che risponde ai bisogni reali del pubblico. L’origine di questa intuizione arriva dall’esperienza del Bauhaus filtrata attraverso il MAC e le Gallerie milanesi che promuovevano l’arte delle avanguardie nella quale Walter Gropius voleva «formare un nuovo tipo di artista creatore e capace di intendere qualunque genere di bisogno». Munari, del designer, mette in primo piano il metodo di lavoro che pone al centro la forma dell’oggetto, la quale «ha un valore psicologico determinante al momento della decisione di acquisto da parte del compratore». Tale metodo di progettazione procede attraverso «la stessa naturalezza con la quale in natura si formano le cose», segue un ragionamento logico, quasi scientifico, nella misura in cui «aiuta l’oggetto a formarsi con i suoi propri mezzi» ed è definito da Meneguzzo “astilistico” lo studioso parla di «metodicità “astilistica”» poiché il fine ultimo dell’artista è «disegnare oggetti senza tempo, tanto essenziali da non poter essere modificabili». Dunque, per Munari, con il cambiare dei bisogni della società, è cambiato il modo di intendere e fare arte: un tempo la collettività necessitava di un certo tipo di comunicazione visiva poiché il basso grado di alfabetizzazione rendeva la gente incapace di assorbire informazioni se non attraverso le immagini diffuse per mezzo della pittura. Oggi è il designer «l’artista della nostra epoca» poiché egli «conosce i mezzi di stampa, le tecniche adatte, usa le forme e i colori in funzione psicologica» e «con il suo metodo di lavoro riallaccia i contatti tra arte e pubblico». Bruno Munari inventa e codifica un nuovo mestiere: l’artista, da genio-divo, diventa un operatore visuale, in grado di rispondere ai bisogni veri della società in cui vive attraverso un logico metodo di lavoro. Questa riflessione munariana sottintende un cambio di prospettiva rispetto alla visione filosofica della figura tradizionalmente intesa come genio, elaborata prima da Kant nella Critica del giudizio e ripresa successivamente da Schopenhauer. Per il filosofo tedesco «la conoscenza geniale è quella che non segue il principio di ragione» ed è dunque in assoluta antitesi rispetto all’idea del milanese di intendere il lavoro dell’artista, ovvero l’operatore visuale. Secondo Munari il designer deve procedere seguendo un metodo logico e metodico, quasi scientifico, che giustifichi le scelte formali, le quali non devono essere il risultato di una ispirazione, ma la conseguenza di un ragionamento che tenga conto di tutte le componenti dell’oggetto. Secondo la riflessione munariana il mestiere d’artista è oggi necessario tanto quanto lo era un tempo, la differenza sta soprattutto nel variare dei bisogni della società, la quale, oggi, «chiede un bel manifesto pubblicitario, una copertina di un libro, la decorazione di un negozio, i colori per la sua casa, la forma di un ferro da stiro o di una macchina per cucire». Il milanese, consapevole del fatto che ogni prodotto richiede competenze specifiche, distingue il design in quattro settori: il visual design «si occupa delle immagini che hanno la funzione di dare una comunicazione visiva»; l’industrial design riguarda «la progettazione di oggetti d’uso»; il graphic design «opera nel mondo della stampa, dei libri, dovunque occorra sistemare una parola scritta» infine il design di ricerca, certamente il più sperimentale, che si occupa di strutture plastiche e visive, mettendo alla prova le possibilità dei diversi materiali. Ma Munari non manca di sottolineare anche l’esistenza dello styling, uno degli aspetti più diffusi e facili del design, il tipo di progettazione industriale più effimero e superficiale, poiché «si limita a dare una veste di attualità o di moda a un prodotto qualunque». Naturalmente lo stilista opera in maniera diversa dal designer, limitandosi a recuperare stili e forme dell’arte pura operando per contrasti, ovvero se prima si usavano forme curve, adesso si usano forme quadrate per conferire una nuova immagine agli oggetti: «senza cambiare nulla dell’interno, si cambia il vestito, si lancia come una nuova moda e si dice, attraverso la propaganda, che la forma vecchia non usa più». Il designer, consapevole del fatto «che una scultura e una carrozzeria d’auto sono due problemi diversi» , mira all’oggettività formale nell’atto di progettazione, poiché «l’unica preoccupazione è di arrivare alla soluzione del progetto secondo quegli elementi che l’oggetto stesso, la sua destinazione ecc., suggeriscono». Tale riflessione deve però tenere conto del fatto che la risposta individuale del designer a un bisogno comune sottintende inevitabilmente delle scelte personali, le quali, in un certo qual modo, definiscono uno stile. In questo senso, dunque, è necessario ragionare attorno all’idea che anche il metodo di lavoro proposto da Munari, per quanto miri ad un risultato formale obiettivo e ambisca ad essere esso stesso privo di stile, comporta inevitabilmente una stilizzazione. Munari non si limita a separare il lavoro del designer da quello, certamente meno logico e oggettivo, dello stilista. In un articolo pubblicato su La Stampa, egli pone in evidenza le differenze tra il lavoro del designer e quello dell’artista, sottolineando i due diversi modi di operare. Munari sottolinea il fatto che entrambe le professioni sono utili alla società, ciò che è importante è che il designer non operi pensando da artista, ovvero «anteponendo forme e colori nati nell’arte pura alla progettazione di un oggetto che chiede solo di essere vero secondo la sua epoca», senza cadere nella “trappola” dello styling. Un anno dopo, a partire dal suo percorso professionale in cui è stato sia artista che designer, con la pubblicazione di Artista e designer, recupera e approfondisce la distinzione tra le due professioni e aggiunge personalmente ritengo valide entrambe le posizioni, sia quella dell’artista che quella del designer, purché l’artista sia un operatore vivente nella nostra epoca e non un ripetitore di formule passate sia pure di un recente passato, e il designer sia un vero designer e non un artista che fa dell’arte applicata. In fondo, come abbiamo visto all’inizio di questo capitolo, ciò che interessa a Munari dell’arte è che essa possa ritrovare la sua funzione all’interno della società, che sia utile e necessaria all’uomo per migliorarne la vita, sia dal punto di vista concreto, sia da quello psicologico, così come dichiarato nei bollettini del MAC da diversi intellettuali: «Io credo che quando l’arte tornerà ad essere di nuovo un mestiere, necessaria all’uomo come il pane del fornaio, allora potremo dire di aver ritrovato l’arte». E, in Arte come mestiere, Munari non dimentica di dare una personale opinione rispetto all’arte del suo tempo, la quale, purtroppo, altro non è che «lo specchio della nostra società, dove gli incompetenti sono ai posti di comando, dove l’imbroglio è normale, dove l’ipocrisia è scambiata per rispetto dell’altrui opinione, dove si fanno mille leggi e non se ne rispetta nessuna». Si possono ammirare agli arredi “inutili” di Carla Accardi, la ricerca pittorica di Aldo Mondino per arrivare ad artisti più giovani come Riccardo Baruzzi, Valerio Nicolai, Guendalina Cerruti e Federico Tosi. Il viaggio prosegue analizzando l’ironia come atto di insubordinazione e critica femminista della società patriarcale e dei suoi valori e vede protagoniste Tomaso Binga, della quale è ricostruito Carta da parato, il suo storico “ambiente”, già presentato nel 1978 alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna in occasione della mostra Metafisica del quotidiano, le esperienze di collettivi napoletani come il Gruppo XX e Donne/Immagine/Creatività, con attenzione al contributo di Rosa Panaro nell’iter della loro nascita e affermazione. Le immagini pseudo-pubblicitarie di Ketty La Rocca, la poesia visiva di Mirella Bentivoglio, l’abito da sposa di Cinzia Ruggeri, senza dimenticare le ricerche di Monica Bonvicini e Chiara Fumai, con il loro sguardo sulla società contemporanea, o della più giovane Benni Bosetto. Tra gli artisti che si succedono nella sezione dell’ironia intesa come strumento di mobilitazione politica, laddove l'individuo perde i suoi contorni e la moltitudine rivendica i propri diritti, vi sono, tra le diverse opere, le documentazioni fotografiche delle azioni della compagnia Lo Zoo di Michelangelo Pistoletto, l’animazione in gomma piuma, testimonianza di una lunga militanza, utilizzata da Piero Gilardi durante la manifestazione del 1°maggio del 2015, i lavori fumettistici degli Indiani Metropolitani firmati da Pablo Echaurren e i collage di Nanni Balestrini. A prendere in giro il sistema attraverso una forma ironica di Institutional Critique sono stati, invece, artisti come Giuseppe Chiari, con le sue dichiarazioni lapidarie sull’arte, Emilio Prini e Salvo. Italo Zuffi e Piero Golia hanno proposto una lucida osservazione sui riti e sulle dinamiche di potere presenti nel sistema dell’arte, mentre Eva & Franco Mattes, nella loro più recente ricerca, riflettono in modo giocoso sul tema dell’originalità dell’opera d’arte nel mondo contemporaneo. Chiude la mostra una raccolta di lavori incentrati sull’ironia come nonsense evocata da poete e poeti italiani che hanno avviato una ricerca fonetica basata sul potenziale ludico e liberatorio della parola. Una sperimentazione, condotta da figure come Arrigo Lora Totino, Giulia Niccolai, Adriano Spatola e Patrizia Vicinelli, che insiste sulla perdita di senso del linguaggio e della parola. Il progetto di allestimento, affidato a Filippo Bisagni, legge l’architettura del MAMbo in chiave anch’essa ironica, rievocando il “fantasma rossiano”, una struttura andata persa durante i lavori di ristrutturazione della Sala delle Ciminiere affidati ad Aldo Rossi, mentre dedica a ogni sezione una bicromia che spazialmente ne amplifica le premesse tematiche.
La mostra è accompagnata dall’omonimo catalogo edito da Società Editrice Allemandi, con testi dei curatori Lorenzo Balbi e Caterina Molteni, dell’exhibition designer Filippo Bisagni, e degli ospiti Jacopo Galimberti, Allison Grimaldi Donahue, Loredana Parmesani, Cesare Pietroiusti, Francesco Poli, Valentina Tanni ed Elvira Vannini chiamati ad approfondire le diverse sezioni della mostra.
Museo MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna
Felice ironia . L’ironia nell’arte italiana tra XX e XXI secolo
dal 6 Febbraio 2025 al 7 Settembre 2025
Martedì e Mercoledì dalle ore 14.00 alle ore 19.00
Giovedì alle ore 14.00 alle ore 20.00
dal Venerdì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso
Foto Allestimento mostra Felice ironia . L’ironia nell’arte italiana tra XX e XXI secolo Museo MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna dal 6 Febbraio 2025 al 7 Settembre 2025 credit © Carlo Favero