Nella mostra I Bari a confronto tenutasi lo scorso settembre e collegata alla giornata di studi che la Libera Accademia di Studi Caravaggeschi tiene ogni anno nel Palazzo Del Monte di Santa Maria in Tiberina, è stato presentato un importante ritrovamento [fig. 1]: una notevole quanto discussa versione inedita de I Bari (o meglio Il Baro, come il dipinto era conosciuto ab ovo), ben noto capolavoro che Caravaggio dipinse nei primissimi tempi del suo soggiorno romano.
Si tratta di un originale, di una replica o di una copia?
Sono passati ormai sessant’anni da quando Roberto Longhi, con la mostra milanese del 1951, riavviò in grande stile gli studi sul genio lombardo indirizzando la ricerca verso un percorso del tutto nuovo. E tuttavia sulla questione, arcidibattuta, se l’artista avesse o no replicato le sue opere i pareri restano discordi.
fig. 1
Proprio Longhi, a suo tempo, in un magistrale intervento intitolato Ultimi studi su Caravaggio (Proporzioni, 1943, n.1, p. 9) era stato molto tranchant in proposito: ”Se v’è un autore a non potersi immaginare nell’atto di replicare le proprie opere questo è il Caravaggio, per il quale la ‘realtà’ di un dipinto non poteva verificarsi che una sola volta”. E guarda caso stava riferendosi polemicamente proprio a Il Baro o, per meglio dire, a una tela di collezione tedesca dello stesso soggetto apparsa proprio allora ma da lui ritenuta una semplice copia.

Al contrario di Longhi, sir Denis Mahon, come si sa, fu invece sempre favorevole alla tesi che Caravaggio potesse aver replicato alcuni suoi dipinti. Fu proprio lui, nel 1987, a riconoscere la versione autografa de
Il Baro in quella conservata al Kimbell Art Museum di Fort Worth [fig. 2], soprattutto in ragione del fatto che portava sul retro il sigillo dell’impresa Bourbon-Del Monte, lo stesso che compare sul verso della
Buona Ventura dei Musei Capitolini. E, per un curioso gioco del destino, sarà poi lo stesso prestigioso storico britannico, scomparso di recente, a rivendicare il possesso di un’altra versione de
Il Baro - non ritenuta autografa da tutti gli esperti - acquisita sul mercato antiquario londinese nel 2006 e poi donata all’Ashmolean Museum [fig. 3].
Evidentemente consapevole di quanto sia delicata la questione, non è stato parco di attenzione filologica e vigilanza critica Pierluigi Carofano, lo studioso autore della rivelazione, nel presentare la nuova versione, cautamente “attribuita” a Caravaggio. Va detto che la tela reca al retro un numero di inventario, il 128 B (che possibilmente la individua come
pendant), apposto, a quel che pare, con una grafia ottocentesca; e che faceva parte di un’antica collezione polacca, dove, senza però alcuna testimonianza documentaria ma solo per tradizione orale, si riteneva proveniente proprio dalle collezioni della famiglia Barberini.
fig. 2

Attraverso una meticolosa analisi comparativa, avvalendosi di precise indagini diagnostiche e con il confronto delle rispettive dimensioni, Carofano afferma che la versione ex Mahon (cm 104 x 131,5) è una copia di quella di Fort Worth, pur essendo quest’ultima più piccola (cm 91,5 x 128,2), perché risulta “monca in alto e sui lati”. Ne deriverebbe - secondo lo studioso - che “essa è stata realizzata da un ‘lucido’ che poi è stato sistemato sulla tela mano a mano che si procedeva con l’esecuzione”.
Al contrario, per quella da lui pubblicata Carofano sostiene che “l’esecuzione dell’esemplare qui in esame rientra nel novero delle opere giovanili eseguite da Caravaggio”, pur ammettendo che l’artista “probabilmente si è servito di un collaboratore nel giovane ingannato”. Partendo infatti dal concetto che “Caravaggio eseguì copie, probabilmente coadiuvato da collaboratori, ovverosia repliche pressoché fedeli dei suoi dipinti”, lo studioso conclude che “non si tratta di una mera copia, ma di una versione autografa con varianti, costruita su diverse impostazioni prospettiche attestanti la maestria dell’autore”.
Per finire, va detto che a mostra conclusa l’attuale proprietà ha reso noto un parere scritto rilasciato a suo tempo da Roberto Longhi in cui si ritiene il dipinto presentato a Santa Maria in Tiberina tra le versioni migliori del capolavoro di Caravaggio.
fig. 3 Pietro Di Loreto