Giovanni Cardone Marzo 2025
Fino al 29 Giugno si potrà ammirare a Palazzo Roverella Rovigo una retrospettiva dedicata Hammershøi e i pittori del Silenzio tra il Nord Europa e l’Italia a cura di Paolo Bolpagni. L’esposizione prodotta da Dario Cimorelli Editore e promossa da Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, in collaborazione con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, con il sostegno di Intesa Sanpaolo e con il patrocinio dell’Ambasciata di Danimarca in Italia. Da anni è ormai in atto la sua riscoperta a livello internazionale: grandi e importanti mostre a lui dedicate sono state realizzate a Parigi al Musée Jacquemart-André, a Tokyo al National Museum of Western Art, a New York alla Scandinavia House, a Londra alla Royal Academy, a Monaco di Baviera alla Kunsthalle der Hypo-Kulturstifung, a Toronto alla Art Gallery of Ontario, a Barcellona al Centre de Cultura Contemporània, a Cracovia al Muzeum Narodowe ecc. A oggi mancava ancora una retrospettiva italiana, che ponesse nel giusto risalto la figura di Hammershøi, protagonista appartato ma fondamentale dell’arte di fine Ottocento e del primo quindicennio del XX secolo. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Hammershøi e la sua pittura del Silenzio apro questo mio saggio dicendo : Posso affermare che nel campo della arti figurative è in atto un fenomeno di assestamento. È cambiata la prospettiva che regolava la percezione del secolo, scandito finora da una serie di
landmarks, di pietre miliari, tutte rigorosamente francesi, dal
Giuramento degli Orazi di Jacques-Louis David che cade ancora nel Settecento (1784) ma inaugura il nuovo corso della pittura, alla
Zattera di Jean-Louis-Théodore Géricault, al
Déjeuner sur l’herbe di Edouard Manet fino alle
Demoiselles d’Avignon (1907) di Picasso, che chiudono trionfalmente questo tracciato francocentrico. Certo esistevano anche Turner e Goya, Blake, Schinkel e Friedrich, la Scuola architettonica di Chicago, Pugin, Böcklin, van Gogh, ma l’autorità di Parigi ha impedito a lungo una reale internazionalizzazione dell’arte dell’Ottocento. Che è stata letta in funzione del suo contributo alle avanguardie storiche del XX secolo, in scena – come si sa – nel gran teatro di Francia. Contro questo Ottocento portato alle stelle in quanto “profetico” di modernità, e contro una scala di valori fissata in base al tasso di audacia nell’anticipare ciò che sarebbe più tardi accaduto (non a caso in area francese) si sono levati alcuni libri recenti. Nel solco di molti studi parziali
Modern Painting and the Northern Romantic Tradition: Fredrich to Rothko (1975) di Robert Rosenblum rappresenta il tentativo affascinante di spostare il baricentro della nostra cultura, recuperando la storia carsica di quei pittori del Nord che, nel secolo ormai laicizzato, cercarono di reintrodurre il trascendente e il divino attraverso il vettore dell’arte romantica. Questo rovesciamento di prospettiva nasce dall’esigenza di riscattare esperienze cruciali a lungo confinate nella marginalità. Come era prevedibile, la nuova strada non fa scalo a Parigi. La sfida infatti è rileggere l’Ottocento da postazioni diverse, abbandonando l’osservatorio privilegiato francese. C’è in tutto questo una dose notevole di provocazione, alimentata dalla ribellione alla superpotenza mercantile francese che, con una efficientissima rete di gallerie, ha imposto il prodotto nazionale nel mondo.

Ma c’è anche, nella reazione di una critica ancora recente, il riconoscimento del valore fondante che alcuni studi hanno avuto per generazioni, da
Les peintres modernes di Lionello Venturi ai volumi di John Rewald sul secondo Ottocento a Parigi. Studi che hanno portato mattoni essenziali alla costruzione del primato francese. Il processo di revisione, che stiamo vivendo in questi anni, mette in discussione non tanto una politica imperialista attribuita alla Francia, quanto un sistema di valori fondato su icone e individui che non sembrano interagire con gli eventi della storia. Accanto alle “glorie” saldamente installate nel Pantheon dell’arte, l’Ottocento infatti ci ha consegnato acquisizioni importanti. Esse sono alla base di una mutazione così radicale nell’estetica e nel pensiero da lasciare un’impronta nel secolo nuovo. Il quale, nonostante la linea di confine segnata dall’Esposizione universale del 1900, risulta essere per molti aspetti una filiazione del XIX secolo, se pure imprevedibile e avventurosa. Nel passare a indicazioni concrete, cioè a una lista minimale e aperta delle “conquiste” del secolo, dobbiamo ricordare che, nella società entro cui tutto accade, la classe media svolge un ruolo sempre più rilevante. Anche nel settore dell’arte, dove il peso tangibile della borghesia attribuisce ai fenomeni artistici una risonanza prima di allora sconosciuta. L’invenzione di uno spazio non più definito dalla scatola prospettica brunelleschiana, la raffigurazione di uno spazio ambiguo e illimite, nell’Inghilterra di Turner e nella Germania di Friedrich, segnano una cesura definitiva nei confronti della civiltà umanistica che esprimeva invece la padronanza della coscienza dell’universo. In termini figurativi, la prospettiva fiorentina, che costituiva lo strumento per governare otticamente (e intellettualmente) il mondo, ne era il simbolo più pregnante. Tutto questo viene messo in discussione dall’Ottocento romantico prima che dalle avanguardie francesi e dal manifesto cubista.
Il monaco in riva al mare di Caspar David Friedrich, allo sguardo contemporaneo del grande drammaturgo Heinrich Kleist, appare come “il solitario punto centrale di un cerchio solitario quando lo si guarda è come se ai propri occhi fossero state asportate le palpebre”. Quel dipinto non era più dunque, nella divisione convenzionale dei generi, una marina di tradizione olandese, scandita dalla prospettiva. Inizialmente, per un attimo, forse lo era anche stata: i raggi X hanno rivelato barchette e vascelli dipinti sul mare, che Friedrich ha subito cancellato, spalancando l’orizzonte a 360 gradi. Senza più quinte ad arginare lo spazio illusorio del quadro il paesaggio si propaga all’infinito, oltre i limiti segnati dalla cornice. Mentre la sua forte connotazione simbolica esprime quella spiritualità e senso del divino che non coincidono più con la religione di sempre, ma che Friedrich aspira a recuperare attraverso il soprannaturale e l’arcano: “Il Divino è ovunque, anche in un granello di sabbia. Una volta io l’ho raffigurato in un canneto”. Una diversa percezione dello spazio cosmico, a vortice e circolare, è anche alla base del sensazionalismo di Turner: “arcobaleno che ‘sfonda’ la conca dei monti o nembo che insidia la grandezza degli eroi; stella isolata nel cielo o vascello che lotta nella tempesta; locomotiva in velocità o mostro marino all’alba” come afferma Francesco Arcangeli. L’immagine di questi fenomeni è sbalzata a distanze infinite che neutralizzano la certezza, consegnataci dal Rinascimento, di un mondo conoscibile, non magmatico. Il rapporto fra produzione artistica e il suo consumo è in questo secolo molto dinamico, mentre i confini dello specifico artistico si fanno sempre più labili. Scienza e tecnologia interagiscono nel campo dell’arte. Gli effetti sono dirompenti in primo luogo nell’architettura che, con paradosso rivoluzionario, è ormai “l’architettura degli ingegneri”. Un’architettura che, senza rinunciare alla realizzazione di edifici altamente rappresentativi, introduce un sistema di progettazione fondato su procedimenti ingegneristici: materiali nuovissimi e utilitari (ghisa, vetro, ferro, cemento, conglomerati plastici), elementi seriali e prefabbricati che comportano una diversa organizzazione del cantiere, abbattimento dei costi e dei tempi di lavorazione, sviluppo accelerato nell’applicazione di tecniche matematiche (calcolo dei carichi e delle spinte, ottimizzazione nell’impiego dei materiali, calcolo e resistenza delle strutture). E una attitudine sperimentale che sollecita soluzioni formali spericolate e inedite. Dal Palazzo di Cristallo per l’Esposizione universale di Londra del 1851, alla selva di edifici a sviluppo verticale resi possibili dall’invenzione dell’ascensore idraulico (i grattacieli del New England e Chicago), ai 300 metri del traliccio metallico costituito dalla Tour Eiffel (1889), il processo di consacrazione dei tecnici appare inarrestabile. Funzionalità ed esigenze rappresentative risultano a tal punto integrate che la Tour Eiffel può permettersi di rappresentare nient’altro che l’emblema della propria funzionalità, monumento della Parigi moderna a una struttura avveniristica, “a giorno”. La società paleoindustriale italiana – nota il critico Giulio Carlo Argan – si rispecchia invece, nello stesso giro di anni nella mole incombente del
Monumento a Vittorio Emanuele II di Giuseppe Sacconi, ambizioso prodotto di un’architettura a dir poco retrospettiva e glaciale. Nei centri culturalmente avanzati, il pericolo della ripetitività e dell’omologazione implicite nelle unità modulari di base su cui si fonda l’architettura moderna è contrastato dalle folate di creatività che le nuove tecniche sanno attivare. Analogamente, l’invenzione della fotografia (il dagherrotipo nel 1837, poi il collodio su lastra di vetro) diventa un fattore scatenante di mutazioni sul piano della percezione e su quello correlato degli orientamenti pittorici. Da un lato gli artisti, da Courbet a Delacroix a Degas a Toulouse-Lautrec non esitano a servirsi della fotografia quale strumento insuperato di reportage, dall’altro, tallonati dal mezzo meccanico in termini di resa oggettiva, estremizzano l’interpretazione della realtà puntando il cannocchiale verso l’interno e verso una caratterizzazione accentuata dell’io (simbolismo, espressionismo).

Le cose in realtà sono ancora più complesse, se davvero l’invenzione della fotografia è stata culturalmente “prevista” e preparata nei tagli, nelle inquadrature, nella messa a fuoco ravvicinata da una tradizione pittorica di nobile origine, che ha radici nel Settecento. Sullo sfondo di uno sviluppo scientifico e industriale che non conosce battute d’arresto, sono tantissime le intersezioni fra l’arte e la scienza: la scoperta dell’inconscio e degli enigmi figurativi di Böcklin o Redon; la formulazione delle leggi dell’ottica e l’esaltazione della luce nelle tele abbacinanti degli impressionisti o nei colori fondamentali del divisionista Seurat, il cui termine di riferimento è il ciclo cromatico di Chevreul; i traguardi raggiunti dai procedimenti della stampa e il trionfo del design, dell’illustrazione, della nascente pubblicità. Cambiano intanto lo status sociale e il mobilissimo identikit dell’artista: in una commistione profonda fra l’arte e la vita, venata di pessimismo, l’artista è esteta,
dandy,
flâneur; o invece propositivo, sperimentale e fortemente
engagé quando l’idea di un’arte d’élite viene erosa alla base dalla dilatazione di campo che comporta l’assunzione di nuove tecniche. Il XIX secolo, caratterizzato in Europa dalle rinascite nazionali, rivendica sul piano dell’arte un orgoglio patriottico che spegne per sempre i sogni universalistici dell’età dei Lumi. A contrastare l’idea di un’arte al di sopra delle nazioni (il cui sacrario vorrebbe essere il Musée Napoléon di Parigi), il Congresso di Vienna sancisce la restituzione dei capolavori razziati dalle armate francesi, ripristina le sedi d’origine delle collezioni e dà libero corso alla celebrazione delle diverse identità nazionali all’insegna di riscoperte e revival (il medioevo, l’esotico, il passato “primitivo” e gaelico) e di una tematica nazionalista per l’Italia, l’apice è rappresentato dall’epopea del Risorgimento nei soggetti militari di Giovanni Fattori. È in questo contesto che la giovane pittura d’oltreoceano si esprime per la prima volta con un linguaggio autoctono, solo in parte influenzato dal paradigma dominante europeo. Sono gli intrepidi esploratori del Paradiso inviolato nord-americano, i pittori di frontiera della Hudson River School. Nasce con loro la mitologia di una natura vergine e maestosa, abitata dalla divinità. Dalla valle dell’Hudson alle terre del Labrador agli scenari dell’Ovest, la sacralità della
wilderness del nuovo continente, teatro dei racconti di Washington Irving, diventa lo specchio dell’identità nazionale, il segno di un destino alto e “inevitabile”, di una missione leggendaria e forse impossibile: salvaguardare civiltà e natura, progresso e incanto dell’Eden a fronte dello sfruttamento capitalistico del territorio, della saturazione accelerata degli spazi, della nascita incontrollata delle metropoli, della perdita del senso del divino nel mondo. Una sfida destinata a segnare molte ricerche portanti del Novecento. In Danimarca molti di questi dipinti in seguito influenzarono la pittura Danese. Eckersberg dipinse i più famosi monumenti di Roma come tanti altri pittori europei avevano fatto prima di lui, ma il pittore danese gli mostrò in una luce diversa, rivolgendo la sua attenzione anche a motivi di minore importanza e che nessuno prima di lui aveva dipinto. Il suo metodo di lavoro consisteva in una composizione pittorica ordinata e precisa. Era un uomo obiettivo e realista e , nei suoi quadri, non c'è alcuna esaltazione romantica. Ogni dettaglio viene riprodotto con molta accuratezza ed i suoi soggetti sono sempre illuminati da una luce forte ed inconsueta. Eckersberg fù il primo pittore danese che ,durante il soggiorno romano, dipinse all'aperto e a questo modo aprì la strada a un diretto e profondo studio diretto della natura. Con i suoi dipinti romani fissò il punto di partenza della pittura danese per i successivi trent'anni. Furono proprio i suoi dipinti a indicare alla generazione successiva di pittori quali soggetti scegliere durante il soggiorno in Italia almeno fino al 1850, il periodo denominato "l'età d'oro". Nel 1818 Eckersberg venne nominato professore all'Accademia d'Arte di Copenaghen: ebbe così la possibilità di trasmettere i suoi principi pittorici alla nuova generazione di artisti. L'affluenza di discepoli alle sue lezioni era enorme. Per la prima volta si poteva parlare di una scuola d'arte in Danimarca o, più precisamente, a Copenaghen, dal momento che tutta la vita culturale dell'epoca era concentrata esclusivamente nella capitale. Come i suoi predecessori, Eckersberg dava molta importanza alla figura umana, ma sotto di lui l'insegnamento si rinnovò e divenne più conforme alle esigenze del tempo. Il nudo uscì dal mondo sublime e distante delle pitture storiche e assunse invece atteggiamenti più reali e ordinari. Come novità, Eckersberg introdusse nei programmi didattici escursioni nei dintorni di Copenaghen per dare ai suoi allievi la possibilità di dipingere e disegnare a diretto contatto con la natura. Lo studio della natura divenne quindi una parte importante dell'insegnamento all'Accademia d'Arte, evento assolutamente inedito per quell'epoca. Naturalmente c'erano sempre stati artisti che amavano dipingere i loro soggetti all'aperto, ma nelle accademie d'arte di tutta Europa l'insegnamento era tuttora legato ai vecchi ideali classici. Non solo in Danimarca quindi, ma anche sul piano europeo, Eckersberg va considerato un grande innovatore. Il fiorire dell'età d'oro in Danimarca coincide con una crisi economica tra le più gravi della storia danese. Alla fine delle guerre napoleoniche, nel 1814, il commercio estero era stagnante e il paese si trovava in una crisi economica che durò fino all'inizio del 1830. A causa delle ristrettezze economiche, i danesi impararono a cercare le gioie e soddisfazioni della vita nelle piccole cose quotidiane. Anche i pittori si dedicarono alla rappresentazione di avvenimenti umili, vicini alla vita di tutti i giorni, scene di vita familiare nelle case della borghesia, strade, piazze, vicoli e dintorni della città. La famiglia divenne uno dei pilastri più importanti nella società danese dell'età d'oro, e i pittori si specializzarono nelle rappresentazioni di una idillica vita familiare: l'intimità con i figli, la tranquillità della lettura del giornale o del lavoro a maglia. Questi erano i motivi preferiti, ma la borghesia di Copenaghen commissionava anche piccoli ritratti dei membri della famiglia. Quasi tutti i pittori dell'epoca dipingevano anche ritratti, e alcuni di loro, come Christian Albrecht Jensen, lavoravano esclusivamente come ritrattisti.

Eckersberg incitava i suoi allievi a esercitarsi su tutto: anche un soggetto di poca importanza poteva servire a sviluppare il loro senso di osservazione e la loro abilità. Gli allievi seguivano il suo consiglio. Non era necessario andare lontano per trovare un soggetto su cui esercitarsi: la vista dalla finestra dell'atelier del maestro, oppure il cortile dietro il palazzo di Charlottenborg, sede dell'Accademia. Videro così la luce un'infinità di ritratti di artisti che danno oggi un'idea del modo di lavorare dei pittori dell'epoca: intenti a studiare le copie delle sculture antiche, a disegnare un modello dal vero, a dipingere al cavalletto o mentre modellano una scultura. I dipinti mostrano chiaramente che per diventare un vero artista ci vuole pazienza, precisione e molta professionalità.
Queste pitture inoltre rivelano anche come l'artista vedeva se stesso: non un artigiano, né un rivoluzionario romantico, e neppure un visionario scapigliato della generazione successiva. Gli artisti di quel periodo erano invece giovani seri e pensosi, che con la loro arte volevano raggiungere uno scopo ben preciso. Ed erano tutti quanti maschi: l'accesso all'Accademia era loro vietato. Le donne che volevano intraprendere la carriera d'artista dovevano rivolgersi a un professore per lezioni private. C'è un artista che più di ogni altro può considerarsi il prodotto della crisi economica e dell'orizzonte piuttosto limitato dell'epoca: Christen Kobke. Intorno al 1840 in Danimarca cominciò a diffondersi una nuova forma di pittura paesaggistica; fino ad allora solo pochi danesi la praticavano, ma una nuova situazione politica contribuì al cambiamento. Si in viaggio era sempre l'Italia e soprattutto a Roma i giovani cercavano i soggetti che Eckersberg aveva fatto loro conoscere. Non si limitavano, però, a dipingere solo i monumenti antichi: erano attirati senza eguali dalla vita popolare, e molti dei loro dipinti divennero documenti di viaggio. Un solo artista, Martinus Rorbye, scelse una meta diversa. Fu uno dei primi a recarsi in Grecia e in Turchia nel 1835, pochi anni dopo la fine della guerra d'indipendenza greca. Intorno al 1840 in Danimarca cominciò a diffondersi una nuova forma di pittura paesaggistica; fino ad allora solo pochi danesi la praticavano, ma una nuova situazione politica contribuì al cambiamento. Tutto questo avvenne con Hammershøi ovvero con la raffigurazione di una donna sola, spesso di spalle o di profilo, immersa
nel silenzio di interni dai toni grigi. Non a caso, l’artista è stato definito il pittore o il “poeta del silenzio”, poiché le sue opere sono realmente poesie, composizioni in cui domina l’introspezione, la solitudine, la riflessione: elementi lirici spesso presenti nella produzione poetica a cavallo tra Ottocento e Novecento, dove l’io diviene centrale per comprendere i movimenti e le inquietudini dell’animo umano. Suggestioni nordiche che calano lo spettatore in una dimensione intima, nella quiete della vita quotidiana che si svolge in un’abitazione: qui la figura femminile suona il piano, guarda fuori dalla finestra, sistema fiori in un vaso, cuce o semplicemente siede pensierosa. Sono immagini che trasmettono una certa malinconia, poiché non vi è allegria né dialogo, ma solo silenzio. Per questo motivo l’arte di Hammershøi è stata paragonata a quella di un altro pittore del silenzio e della solitudine, ma di origine americana e poco più tardo rispetto al pittore danese: Edward Hopper . Anche nelle opere di quest’ultimo si percepisce l’assenza di voci, non solo quando è raffigurata una sola persona, bensì anche quando ve n’è più di una, come nel caso di
Room in New York o Summer in the City; a differenza delle opere di Hopper che appaiono dai toni più variopinti, anche se l’atmosfera è tutt’altro che allegra, come nel caso di Automat, Morning Sun o Compartment, i dipinti di Hammershøi sono quasi monocromatici, prediligendo le gradazioni del grigio. Ciò nonostante, sono rappresentativi di una particolare resa della luce, denominata appunto “luce nordica”, utilizzata frequentemente nei dipinti scandinavi a cavallo tra Ottocento e Novecento: dalle finestre di casa, dalle tipiche alte vetrate con contorni di legno bianco, entra un chiarore velato che dona agli interni una luminosità fioca. È il sole del Nord Europa che filtra timidamente, creando giochi di sfumature più chiare e più scure. Una “gamma sinfonica di grigi”, com’è stata definita, che dà l’idea della luce crepuscolare nordica che avvolge tutto ciò che incontra, dal paesaggio agli interni delle architetture. Sarebbe caratteristica della Finlandia, ma è estendibile a tutta l’Europa del Nord, l’espressione pitäähämärää, che tradotta in inglese suonerebbe “keeping the twilight”, ovvero sedersi in silenzio dove la luce crepuscolare si diffonde, come momento di contemplazione e di riflessione: ricorre spesso infatti nella pittura nordica il motivo di una figura umana seduta di fronte a una finestra ad osservare ciò che si trova all’esterno, mentre filtra dai vetri questa luce tenue che si riflette sui mobili e sul pavimento. Motivo che ricorda, come già affermato, una delle più celebri opere di Hopper:
Morning Sun, dove una ragazza, appena essersi svegliata, osserva fuori da una grande finestra stando seduta sul suo letto: la vista dà certamente su una città, poiché si può notare la sommità di un edificio, perciò si percepisce che la stanza in cui si trova la ragazza fa parte di un edificio ancora più alto. La luce del sole invade potentemente l’ambiente ed è diretta in particolare verso il letto e la ragazza. Se il confronto con Hopper è calzante come, in un certo senso, anticipatore dell’arte del pittore americano, è stata avanzata tuttavia anche una vicinanza all’arte di Jan Vermeer tra i più noti e amati artisti olandesi del Seicento. Sebbene i due artisti siano distanti cronologicamente più di due secoli, le opere di Vermeer hanno in effetti qualcosa in comune con quelle di Hammershøi: la rappresentazione di figure femminili intente a svolgere attività domestiche, come cucire, leggere, suonare strumenti musicali, si ritrova in entrambi. Si ricordino a tal proposito, tra le opere dell’artista olandese, la Merlettaia, la Lattaia, la Suonatrice di liuto, Donna in piedi alla spinetta, Ragazza interrotta durante la lezione di musica, Donna che scrive una lettera alla presenza della domestica, ma se ne potrebbero menzionare molte altre, poiché nel Seicento fiorì in Olanda la cosiddetta pittura di genere, che poneva l’accento su scene di vita quotidiana, dove il tempo si fermava su quegli attimi di poesia domestica. Frequente è inoltre in Vermeer la presenza di una finestra da cui filtra la luce naturale che si diffonde nell’ambiente in cui le figure svolgono le loro attività. Anche se le stanze appaiono nella maggior parte dei casi più arredate e decorate rispetto agli interni dell’artista danese, nei quali o non è visibile alcun tipo di mobile o ne sono presenti in limitata quantità: perlopiù una sedia, un tavolo o al massimo una credenza o uno scrittoio. Ciò che non manca mai sono inoltre le porte degli interni, sempre bianche, come vuole la tradizione nordica: talvolta la prospettiva con cui è stata raffigurata la stanza permette di vederne più di una, magari aperte su altri ambienti, mentre dalle finestre risulta quasi impercettibile il paesaggio esterno. Hammershøi potrebbe essere definito quindi un prosecutore della pittura di genere di Vermeer e un anticipatore della pittura della solitudine di Hopper, ma risulterebbe troppo riduttivo: l’artista danese è dotato di una sensibilità introspettiva unica nel suo genere, unita a uno spiccato lirismo dai toni malinconici e all’influsso del suo paese d’origine per quanto riguarda la luce e i colori, nonché le architetture degli interni. Ciò nonostante, l’artista è rimasto poco conosciuto fuori dal territorio nordeuropeo; presentato al Petit Palais nel 1987, risale al 1997 la grande retrospettiva dedicatagli dal Musée d’Orsay che fece riscoprire l’arte di Hammershøi al pubblico e alla critica e ora, a distanza di più di vent’anni, è ancora la città di Parigi a omaggiarlo: è infatti in corso fino al 22 luglio 2019 la retrospettiva Hammershøi, le maître de la peinture danoise presso il Musée Jacquemart-André. Nato a Copenaghen il 15 maggio 1864, si è avvicinato al disegno in giovanissima età grazie al disegnatore e litografo danese Niels Christian Kierkegaard .Durante i suoi anni di studio all’Accademia, ha stretto una forte amicizia con Carl Holsøe e Peter Ilsted artisti a cui è rimasto legato fino alla sua morte e noti per aver raffigurato per la maggior parte scene di interni domestici. Dopo aver studiato con Peder Severin Krøyer nel 1885 ha partecipato per la prima volta all’esposizione di primavera dell’Accademia e al concorso per il Premio Neuhaus dell’Accademia presentando il Ritratto di giovane ragazza, che altro non era che Anna, la sorella dell’artista. Ha successivamente la possibilità di viaggiare e di visitare Berlino, Dresda, nonché l’Olanda e il Belgio: è qui che probabilmente rimane folgorato dall’arte olandese, in particolare da Vermeer, la cui arte sarà per lui ispirazione, come detto precedentemente. Trova l’amore in Ida Ilsted, sorella del suo compagno di accademia Peter Ilsted, che diventerà moglie e modella di Vilhelm: spesso la donna ritratta di spalle o di profilo nei suoi caratteristici interni domestici è proprio Ida. Insieme si trasferiscono a Parigi, senza dimenticare di passare per l’Olanda e per il Belgio, paesi che erano rimasti nella sua mente e nel suo cuore; nella capitale francese Hammershøi visita spesso il Louvre, in particolare per copiare bassorilievi greci arcaici, ed è qui che incontra il celebre mercante Paul Durand-Ruel, colui che fu tra i maggiori sostenitori degli impressionisti, e il critico d’arte Théodore Duret, che s’interessa alla sua pittura.

Dopo essere ritornati a Copenaghen, nel 1893 riceve una borsa di studio dall’Accademia per viaggiare e visita alcune città italiane, come Firenze, Siena, Padova, Venezia e Verona e quattro anni dopo soggiornano per qualche mese a Londra. Realizza il suo primo “interno” nel 1888, ma è da dieci anni dopo che ne dipingerà una rilevante quantità, da quando si trasferisce con sua moglie nell’appartamento di Strangade 30, da loro abitato dal 1898 al 1909. Al Kunstforeningen (la Società delle Arti di Copenaghen) viene realizzata la sua prima retrospettiva, occasione in cui il collezionista Alfred Bramsen compila il primo elenco delle sue opere. Inoltre è grazie al pianista inglese Leonard Borwick che Hammershøi viene introdotto nell’ambiente artistico britannico. Successivamente diviene membro dell’assemblea generale dell’Accademia e nel 1911 riceve il primo premio di 10mila lire all’Esposizione Internazionale d’arte di Roma e gli Uffizi gli commissionano persino un autoritratto da esporre nella collezione di autoritratti di artisti. Malato di tumore alla gola, Hammershøi muore a Copenaghen nel 1916. Nel corso della sua esistenza, ha stretto legami forti con poche persone che gli sono rimaste vicine fino alla sua scomparsa; era una persona solitaria e taciturna, aspetto che si ripercuote anche sulle sue opere, in cui rappresenta un mondo a sua immagine, intimo e silenzioso. Nei suoi dipinti ha pertanto ritratto coloro che facevano parte della cerchia ristretta dei suoi affetti, a cominciare da sua moglie Ida, e coinvolgendo perlopiù membri della sua famiglia, come sua mamma, sua sorella, suo fratello, suo cognato, nonché qualche amico quasi fraterno. È suo fratello Svend il ragazzo ritratto in piedi mentre legge composto un libro, appoggiandosi a una lunga tenda gialla, sottintendendo quindi di essere vicino a una finestra. Accanto al ragazzo, sulla parete frontale allo spettatore è collocato una sorta di scrittoio con davanti una sedia di legno di colore bianco; sopra al mobile sono appoggiati due quadri che incorniciano due disegni di corpi maschili: forse per rimandare agli inizi della produzione dell’artista, la cui formazione iniziò dal disegno.
Interno con giovane uomo che legge (Svend Hammershøi) è un olio su tela dipinto nel 1898. La lunga serie di tele in cui raffigura Ida ha inizio nel 1890, quando la ritrae, ancora come sua fidanzata, seduta frontalmente allo spettatore. Su uno sfondo neutro, appare abbigliata con una veste nera, un cappello dello stesso colore sopra i capelli raccolti e una giacca che fa
pendant con la parete. Lo sguardo della ragazza è fisso e assente, come se l’artista rifiutasse di esprimere i sentimenti della sua modella. Ancora seduta, ma questa volta con le spalle allo spettatore, Ida è rappresentata nella famosa tela del 1905 del Musée d’Orsay:
Hvile detto anche
Riposo. Il dipinto, costruito principalmente sui toni del grigio, mostra la giovane donna in primo piano accanto a un mobile su cui è appoggiata una coppa a forma di fiore. Ciò che tuttavia risalta è la sua candida nuca, lasciata libera dai capelli raccolti. Basato su linee verticali e orizzontali è invece
Interno con donna di spalle, del 1898, conservato al Nationalmuseum di Stoccolma. Ida è in piedi, di schiena, dietro a un tavolo coperto da una tovaglia bianca; sulla parete si può notare uno scrittoio e appeso uno specchio ovale che rompe l’ordine delle linee, ma riflette il vuoto. La candida nuca scoperta risalta sull’abito nero. Come già affermato, molti dei suoi interni sono stati realizzati nell’appartamento di Strandgade 30: ne è esempio la tela del 1901
Interno. Strandgade 30 conservato a Francoforte sul Meno. La particolarità di questo dipinto è la presenza di alcune porte, per la precisione tre, tutte aperte, che permettono allo spettatore di intravedere i diversi ambienti a cui si accede tramite queste ultime. In primo piano è l’ambiente che dà la prospettiva della composizione, dove è presente solo una sedia, appoggiata alla
boiserie, e appesi alla stessa parete due quadretti; dalla porta centrale si nota quindi un’altra stanza dove si trova, in penombra e di spalle, la donna, e un ulteriore porta dalla quale si accede a un’altra stanza finestrata. Queste porte aperte danno un senso di tridimensionalità e di spazialità. Una simile composizione è ripetuta in
Interno con donna in piedi: i toni, rispetto al dipinto precedente, si fanno più chiari, grazie alla luce tenue che si diffonde da una finestra. La prospettiva dello spettatore è ancora una volta quella di un ambiente con
boiserie da cui, attraverso una porta aperta, si accede a una seconda stanza, quella dove si percepisce la presenza di una finestra davanti alla quale è in piedi la figura femminile. La porta che s’intravede più in lontananza è però chiusa, lasciando sottintesa l’esistenza di un ulteriore spazio che rimane non visibile. In
Interno con donna che sistema dei fiori, realizzato nel 1900, Ida è invece colta in un momento di lavoro domestico: sta sistemando in un vaso trasparente, a sua volta su un tavolo, dei fiori. Ritratta in un altro momento di quiete domestica è nel dipinto
Interno con donna al piano: in primo piano un tavolo con tovaglia candida su cui appoggiano due piatti (di Ida e dell’artista?), mentre appoggiato alla parete è un piano al quale la donna sta suonando. Diversamente dalle opere citate, il volto della donna è qui visibile e appare pensieroso e un po’ malinconico. Dietro di lei si nota una grande stufa e ai lati due porte chiuse, che non permettono di attraversare altri ambienti. Hammershøi ha portato sulla tela anche interni dove non si manifesta alcuna presenza umana, o meglio, non è visibile nel dipinto, ma dall’arredamento e dal riflesso della finestra aperta sulla parete, è presumibilmente poco lontana. È il caso di
Interno con vaso di fiori, quest’ultimo collocato sul tavolo al centro della scena. Da menzionare è anche
Interno della casa dell’artista, del 1900: qui fulcro della composizione è la finestra bianca posizionata sulla parete frontale allo spettatore da cui entrano visibilmente i raggi del sole, che provocano il completo riflesso della finestra sul pavimento. L’ambiente interno sembra vuoto. Il motivo della sola finestra, da cui entra luce, protagonista di un intero dipinto ricorda la
Vista dallo studio dell’artista di Caspar David Friedrich con la differenza però che il panorama fuori dalla finestra risulta definito in quest’ultimo. Dalla finestra di Hammershøi sembrano intravedersi dei tetti, ma il tutto è quasi impercettibile. L’arte di Hammershøi è stata molto apprezzata dal poeta e scrittore ceco Rainer Maria Rilke e ha definito il pittore danese come colui che ha rappresentato “ciò che è importante ed essenziale nell’arte”: è vero che i suoi interni sono dettati dall’essenzialità e dalla semplicità, ma la pittura di Hammershøi è in realtà molto più profonda. È in grado di toccare le corde dell’animo. Lungo il percorso sono esposte opere di : Émile-René Ménard, Henri Duhem, Lucien Lévy-Dhurmer, Charles-Marie Dulac, Henri-Eugène Le Sidaner, Charles Lacoste e Alphonse Osbert, i belgi Fernand Khnopff, Georges Le Brun, Xavier Mellery, Charles Mertens e William Degouve de Nuncques, gli olandesi Jozef Israëls, Johan Hendrik Weissenbruch, Jan Jacob Schenkel e Bernard Blommers, lo svizzero Eugène Grasset, la svedese Tyra Kleen, i danesi Peter Vilhelm Ilsted, Carl Holsøe e Svend Hammershøi. E, beninteso, gli italiani: Umberto Prencipe, Giuseppe Ar, Oscar Ghiglia, Vittore Grubicy de Dragon, Mario de Maria, Giulio Aristide Sartorio, Vittorio Grassi, Orazio Amato, Umberto Moggioli, Domenico Baccarini, Giuseppe Ugonia, Francesco Vitalini, Mario Reviglione, Pio Bottoni, Enrico Coleman, Napoleone Parisani, Raoul Dal Molin Ferenzona e Onorato Carlandi. Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia, dopo un breve affondo sui precedenti storici del tema degli interni silenti, approfondirà i tre ambiti portanti della ricerca dell’artista: gli interni, spesso privi di presenze umane, i ritratti e le vedute architettoniche. A completare il percorso sarà un’originale comparazione di carattere tematico e stilistico tra la produzione di Hammershøi e i dipinti di artisti scandinavi, francesi, belgi, svizzeri e olandesi, per evidenziare affinità e differenze, nell’enucleazione di alcuni
Leitmotive: gli interni silenziosi, la solitudine, le “città morte”, i “paesaggi dell’anima”. E infine, a mo’ di preziosa appendice, un omaggio a Hammershøi da parte di uno dei più interessanti fotografi contemporanei, lo spagnolo Andrés Gallego. Ad accompagnare la mostra, un ampio catalogo edito da Dario Cimorelli Editore (che gestisce anche la segreteria organizzativa della mostra), con saggi originali del curatore Paolo Bolpagni e di Claudia Cieri Via, Luca Esposito, Francesco Parisi e Annette Rosenvold Hvidt.
Palazzo Roverella Rovigo
Hammershøi e i pittori del Silenzio tra il Nord Europa e l’Italia
dal 21 Febbraio 2025 al 29 Giugno 2025
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 9.00 alle ore 19.00
Sabato e Domenica dalle ore 9.00 alle ore 20.00
Foto Allestimento Mostra Hammershøi e i pittori del Silenzio tra il Nord Europa e l’Italia Palazzo Roverella Rovigo dal 21 Febbraio 2025 al 29 Giugno 2025 credit © AntonioJordan
Vilhelm Hammershøi, Riposo, 1905. Parigi, Musée d’Orsay © RMN-Grand Palais / foto Martine Beck-Coppola / Dist. Foto Scala, Firenze
Vilhelm Hammershøi, Luce del sole nel salotto III. Strandgade 30, 1903. Stoccolma, Nationalmuseum © Nationalmuseum / foto Cecilia Heisser