Giovanni Cardone Gennaio 2025
Fino al 28 Luglio 2025 si potrà ammirare Magazzino Italian Art di New York una retrospettiva  dedicata a Maria Lai – ‘Maria Lai. Un Viaggio in America’ a cura di  Paola Mura. La mostra presenta un corpus significativo di opere provenienti dalla collezione di Magazzino e da collezioni private americane e istituzioni italiane, tra cui Fondazione Maria Lai, Fondazione di Sardegna, MAN - Museo d'Arte della Provincia di Nuoro, Museo di Aggius, Musei Civici di Cagliari, MUSMA – Museo della Scultura Contemporanea Matera, Consiglio Regionale della Sardegna, Regione Autonoma della Sardegna e il contributo di Ilisso Edizioni.  L’esposizione presenterà circa 100 opere  tra cui numerose opere che saranno presentate al pubblico per la prima volta. La maggior parte delle opere in mostra non è mai stata esposta negli Stati Uniti. Questa mostra offre una panoramica completa del lavoro di Maria Lai, dai suoi esordi negli anni '50 agli anni 2000, con un focus sui suoi approcci innovativi all'arte collettiva e relazionale. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Maria Lai apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che vedendo il documentario su Maria Lai appresi che ella nel 1919 ad Ulassai, un paese di appena mille abitanti nel cuore dell’Ogliastra, nel sud-est della Sardegna; dista più di 90 km da Nuoro, capoluogo di provincia . Maria Sofia Pisu, nipote di Maria Lai, nel documentario Sulle tracce di Maria Lai definisce questa regione come «un’isola nell’isola» , una zona con le proprie singolarità, lontana sia dal nuorese sia dal cagliaritano. Dal punto di vista fisico, il territorio presenta una grandissima varietà di paesaggi, ma ciò che colpisce immediatamente è la presenza del monte Tisiddu, un’imponente formazione calcarea con pareti rocciose che incombe su Ulassai. Informazioni di questo tipo possono sembrare superflue in questa sede, ma la conformazione del territorio ha giocato un ruolo non indifferente sul lavoro di Lai. Nelle sue opere, infatti, la terra natia pulsa, respira, è cosa viva. È una presenza costante ma anche luogo di conflitto. Basti pensare a Legarsi alla montagna, l’opera del 1981 che ha imposto Lai nel panorama delle arti contemporanee internazionali e in cui la montagna è protagonista, insieme agli spazi del paese e all’intera popolazione di Ulassai. I territori ogliastrini hanno ospitato nel tempo numerosi interventi di arte ambientale e proprio a Ulassai è nato, nel 2006, il museo Stazione dell’arte in seguito alla donazione da parte dell’artista di un imponente corpus di opere . Lai ha continuato ad arricchire con le sue istallazioni gli spazi esterni al museo fino a pochi anni prima della sua morte, confermando l’importanza che quel luogo ha rivestito per lei. Come racconta Maria Sofia Pisu e nipote dell’artista e attuale presidente dell’Archivio Maria Lai  nel documentario Sulle tracce di Maria Lai , il padre di Maria era l’unico veterinario nella zona dell’Ogliastra. Le favorevoli condizioni economiche, quindi, permisero a Lai di lasciare la Sardegna e di seguire le proprie inclinazioni artistiche, studiando nella capitale dove ebbe modo di conoscere un più ampio spaccato del panorama culturale italiano. Rientrò a Ulassai nel 1945 per lasciare l’isola nuovamente a metà degli anni Cinquanta. Nel 1955, infatti, un evento drammatico scosse la vita dell’artista: uno dei fratelli di Maria, Lorenzo, venne assassinato a Ulassai da dei malviventi in un agguato che aveva come bersaglio Gianni, un altro fratello. In moltissime occasioni Lai ha parlato del rapporto con le sue origini. Ad esempio, nella conversazione con Tonino Casula del 1977 riportata nel documentario Sulle tracce di Maria Lai, diceva: «i miei rapporti con la Sardegna sono sempre dei rapporti vitali, è una radice da cui continuamente prendo nutrimento, anche se poi ho bisogno di respirare altrove» . Nelle parole dell’artista possiamo leggere una sorta di tensione tra la forza delle radici e la necessità di esplorare e a formarsi che la porterà a vivere lontano dalla terra natia per gran parte della sua vita. La famiglia Lai era di larghe vedute, come racconta Pisu e, pur non credendo fino in fondo nella possibilità di una vera carriera nel mondo dell’arte, sostenne economicamente e affettivamente Maria nella sua formazione . Uno degli incontri che ha rappresentato certamente una svolta nella vita di Maria Lai fu durante l’adolescenza. Si tratta di Salvatore Cambosu, insegnante di italiano e latino alla scuola secondaria di Cagliari, nonché giornalista e scrittore. Il loro rapporto verrà approfondito successivamente, ma è importante sottolineare come la familiarità di Lai con la poesia e le arti figurative, esisteva da ben prima che l’artista si trasferisse nella penisola. A Cagliari, infatti, Lai prese lezioni di scultura da Gerardo Dottori , pittore futurista. Per tentare di fare della propria passione un mestiere vero e proprio, Maria Lai lasciò la Sardegna nel 1939. Si trasferì a Roma per studiare al Liceo artistico di via Ripetta. Lì prese lezioni da Renato Marino Mazzacurati, un importante scultore romano. Rimase a Roma fino al 1942, quando fu costretta a spostarsi da alcuni parenti a Verona a causa della guerra. Fortunatamente, le avverse condizioni esterne non impedirono a Lai di proseguire il suo percorso di formazione: nel 1943 si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Venezia, aprendo un capitolo fondamentale. Un’altra delle personalità centrali nella formazione e nella vita di Lai fu proprio uno suo insegnante in Accademia, Arturo Martini. Agli inizi del 1940 per Martini era stato un momento di profonda riflessione e di conseguente svolta professionale. Aveva, infatti, tentato di virare verso la pittura, mostrando stanchezza e insofferenza nei confronti dell’arte scultorea. Nel 1945, Martini pubblicò a Venezia La scultura lingua morta, una celebre raccolta di breve scritti dell’autore, considerato uno dei più importanti scultori italiani contemporanei, che contengono sprezzanti critiche alla scultura. Le forme rotonde che Martini modellava erano cariche di una potenza drammatica che lo avvicinava agli antichi e, allo stesso tempo, di «una sensibilità lirica e stupefatta». Nonostante i riconoscimenti dei contemporanei, però, si manifestò la crisi dell’artista già dalla fine degli anni Trenta. In una lettera spedita alla moglie nel 1939, scriveva: «per me la pittura è una spina nel cuore e bisogna che la levi.  tu aiutami in questo nuovo sogno come puoi e con la tua solita fede come quando nasceva la scultura». Martini, quindi, desiderava dipingere. L’insofferenza verso la scultura raggiunse il culmine, come si è detto, in La scultura lingua morta, la cui genesi risale al 1944. Proprio in quegli anni, Lai si trovava a Venezia a prendere lezioni dallo scultore all’Accademia di Belle Arti. È curioso osservare, quindi, come la crisi di Martini non portò a un’effettiva chiusura con l’arte scultorea. Martini, come osserva Pontiggia nell’edizione da lei curata e che raccoglie La scultura lingua morta e altri scritti dell’autore, ricercava una sorta di organicismo che descriveva in questi termini: un’universalità della forma che non derivasse, però, dall’uso della geometria, piuttosto da un avvicinamento alla natura. In una lettera spedita nel 1943, Martini diceva di essere «alle prese con le fisiologiche forme che in fondo è una ripresa con più coscienza dei nostri primieri sassi lì sta ancora la verità suprema» . La sua ricerca della “forma universale” passava attraverso l’avvicinamento alle forme naturali. Maria Lai, allieva, ha certamente fatto tesoro della lezione del maestro. Oppure, Maria Lai ricorda come per Martini le pietre fossero la più autentica rappresentazione del mondo e lo scultore doveva «farle respirare come pane che lievita». Un interessante saggio di Rita Ladogana intitolato Riflessioni sulla ricerca scultorea di Maria Lai approfondisce un tema poco trattato dalla critica: una serie di terrecotte realizzate da Maria Lai dal 1994 al 1996. Ladogana legge questa serie di sculture come una riflessione di Lai sugli anni della formazione accademica e, in particolare, sugli insegnamenti di Martini. Si tratta di una quarantina di piccole sculture che l’artista scelse di conservare gelosamente all’interno del proprio studio, quasi come fossero esercizi, modelli a cui rifarsi durante la creazione di nuove opere. Queste piccole terrecotte erano una sorta di resoconto, maturato con gli anni, degli insegnamenti del maestro all’Accademia di Venezia e dunque «quasi come un taccuino di appunti impressi nella creta, che traducono riflessioni e ricordi». Nella serie di sculture degli anni Novanta si scorgono echi e suggestioni delle riflessioni martiniane, leggibili a chiare lettere nei Colloqui sulla scultura, testo che Lai interrogava costantemente. Il materiale scelto dall’artista è la creta, lo stesso su cui si sofferma Martini nel quarto dei colloqui con Gino Scarpa. Per lo scultore trevigiano, il disegno preparatorio in scultura dev’essere sostituito dalla creta, così da poter esercitare il preziosissimo senso tattile. Citando Martini: «noi pensiamo con la creta, con la prensilità; colle rotondità, non con un piano. Con la creta si pensa. È un fatto amoroso di tutto il nostro mondo». Insieme all’affinità rintracciabile nella scelta dei materiali, si può cogliere nella serie di terrecotte anche un implicito, e probabilmente involontario, rimando all’insofferenza di Martini nei confronti della scultura monumentale. La grandezza di Maria Lai scultrice, alla luce di queste riflessioni, appare ancora più lampante: pur nella loro scala ridotta, le terrecotte di Lai restituiscono un senso di solidità quasi monumentale. Ciò è sicuramente dovuto anche alla natura rigogliosa e potente della Sardegna rocciosa con cui Lai si è confrontata fin dalla tenera età. Le rocce franate dal monte Tisiddu, calamità naturali con cui la popolazione di Ulassai ha sempre dovuto convivere, si specchiano nelle piccole sculture, su cui Lai imprimeva fili dorati. Tra i fili tracciati sulla terracotta a volte si scorgono delle janas, piccole fate protagoniste di leggende sarde, che, come riporta Ladogana, simboleggiano «la manualità artigiana femminile, intrisa di poesia. Si narra, infatti, che dall’operosità di queste creature le donne abbiano imparato a filare e a tessere». Sulle sculture di Lai, le janas sono forme geometriche, quasi astratte, con i soli occhi a restituire un senso antropomorfo alla figura. Risulta di più facile comprensione, a questo punto, il titolo con cui la serie di terrecotte è conosciuta: I Telai di Maria Pietra e che cita uno dei racconti presenti nella raccolta di scritti sardi Miele amaro di Salvatore Cambosu. Come esplicita Ladogana, pur interpretando le terrecotte in questione come una sorta di revisione e omaggio dell’artista ai suoi anni di studio con Arturo Martini, non si possono sottovalutare i significati narrativi e metaforici che emergono dalla loro osservazione. È certamente la Sardegna, la terra nativa di Lai, l’immaginario privilegiato all’interno del quale si originano i fili della narrazione. Si giunge, a questo punto, ad approfondire un altro dei rapporti che più profondamente hanno segnato la formazione di Lai fin dall’adolescenza, quello cioè con Salvatore Cambosu, autore della già citata raccolta Miele amaro. Maria Lai si trasferì a Roma nel 1939 per frequentare il noto Istituto d’Arte di via Ripetta e studiare da maestri del calibro di Mazzacurati, noto pittore e scultore romano. L’artista sarda, però, venne notata ben prima degli anni romani: nel 1935 espose ai Littoriali della cultura e dell’arte a Roma competizioni annuali istituite dal regime fascista vincendo il primo premio per la scultura. Nel ricco elenco di mostre stilato dall’Archivio Maria Lai, ne compare una del 1944 alla celebre galleria dell’Opera Bevilacqua La Masa. In quel periodo, Lai stava proseguendo con la propria formazione all’Accademia di Belle Arti veneziana, ma il suo soggiorno nella Serenissima si sarebbe interrotto solo un anno dopo a causa della guerra. Non a caso, quindi, l’attività espositiva di Lai tra gli ultimi anni Quaranta e i primi anni Cinquanta si concentrò in Sardegna. Nel 1949 comparve nuovamente Lai tra i nomi di una collettiva organizzata alla fondazione Bevilacqua La Masa, Mostra d’Arte moderna della Sardegna. La sua partecipazione  con due teste di marmo destò l’interesse di alcuni critici; su dei quotidiani dell’epoca, Lai venne citata tra gli artisti degni di nota . Certamente importante nella carriera di Lai fu il 1953, anno della sua prima personale all’associazione Amici del Libro di Cagliari. I disegni, le sculture e gli acquarelli in mostra vennero riconosciuti da varie personalità come significative dimostrazioni di un rinnovamento dell’arte sarda. Maria Lai, in quell’occasione, venne definita «la più sicura promessa delle arti figurative della Sardegna». Il giornalista Vittorino Fiori, in un articolo sulla mostra del ’53  comparso nel 1956 sul periodico mensile di arte Il Convegno scrisse: ci convincemmo che Maria Lai scolpiva con l’inchiostro di china. I suoi erano appunti per sculture; e quando essa tentava il colore- gran parte dei disegni erano acquerellati lo teneva sempre alla superficie dell’impianto grafico, quasi a rafforzarne i suggerimenti plastici. Una seconda mostra personale fu allestita l’anno successivo a Sassari, nella sede dell’Ente del Turismo, e introdotta da un testo di Salvatore Cambosu. Non mancarono i pareri entusiasti, tra cui quello del celebre storico e giornalista Mario Brigaglia. Tra le mostre degli anni successivi, è sicuramente da segnalare la prima personale romana, allestita nel 1957 alla galleria L’Obelisco: anche in questo caso, i pareri furono lusinghieri. Lai era appena tornata a Roma dopo diversi anni trascorsi in Sardegna e Pontiggia definisce «realismo sintetico»  lo stile pittorico di quel periodo, caratterizzato da un tratto stilizzato ed essenziale. Dal punto di vista delle tematiche, al centro di questi lavori si rintraccia un fervido interesse per il mondo dell’infanzia, per le tradizioni popolari sarde, quelle dei pastori e delle tessitrici, a cui Lai restituiva una grande dignità, senza mai cadere in rappresentazioni folcloristiche o pittoresche . Sul finire degli anni Cinquanta apparvero evidenti i segni di una ricerca in atto che avrebbe poi caratterizzato il decennio successivo e che la condusse a nuovissimi approdi. Lai si stava infatti avvicinando «all’informale e al polimaterismo» , allontanandosi sempre di più dalla figurazione e dal dato realistico. Dopo la mostra del 1963 alla galleria L’Albatro di Roma, Lai smise di esporre per alcuni anni, per potersi dedicare alla sperimentazione in totale isolamento. Tornò sulla scena pubblica nel 1971 con una personale alla galleria Schneider di Roma, dove per la prima volta espose i Telai. Il telaio più famoso e unico nel suo genere, pensato per essere esposto al centro della sala e osservato nella sua tridimensionalità, è Oggetto paesaggio, del 1967. Lai, durante gli anni Sessanta, aveva focalizzato il proprio lavoro sull’impiego del tessuto, lasciando fare al filo quello che era solito esprimere col tratto grafico. Oggetto paesaggio è l’opera che più sintetizza questa ricerca. Tutto ciò sarà approfondito in seguito; si tratta, però, di un passaggio centrale nella carriera di Lai, nonché punto di svolta nel percorso espositivo dell’artista. Gli anni Settanta furono, infatti, segnati da un’intensa attività di Lai. Dopo la mostra romana alla galleria Schneider, Lai espose i telai nel 1972 alla Galleria B2 di Bergamo. Nel corso del decennio i telai e le tele cucite acquisirono sempre maggiore notorietà, mentre Lai continuava con le sperimentazioni materiche. Tra le più celebri e importanti in questo senso sono certamente le sculture di pane, esposte nel 1977 alla galleria Il Brandale di Savona. In quell’occasione avvenne l’incontro con Mirella Bentivoglio, artista, critica d’arte e scrittrice, al centro della scena intellettuale italiana degli anni Settanta per la sua ricerca in campo verbovisuale. Bentivoglio, curatrice del catalogo della mostra del 1977, invitò Lai ad esporre alla mostra Materializzazione del Linguaggio, organizzata a Venezia, ai Magazzini del Sale, nell’ambito dell’Esposizione internazionale d’arte. La partecipazione di Lai all’evento in questione, che sarà oggetto di un approfondimento, suggellò il suo sodalizio con Bentivoglio e diede un impulso fondamentale alla carriera dell’artista sarda. Lai, acclamata dalla critica, venne invitata da Bentivoglio alla Columbia University di New York all’esposizione From space to space. Women in the italian avant-garde between language and image, proseguendo il discorso per immagini e tessuti sul linguaggio femminile iniziato l’anno precedente a Venezia. Gli anni Settanta si chiusero, così, col vero e proprio esordio internazionale dell’artista, apertura che caratterizzò tutto il decennio successivo. Le mostre nazionali e internazionali divennero sempre più frequenti, ma Lai vi affiancò costantemente un’intensa attività nella sua regione d’origine. La sua ricerca negli anni Ottanta si mosse in una direzione inedita, dando vita, nel 1981, alla prima operazione di arte relazionale in Italia: Legarsi alla montagna. Subito si colse la grandezza dell’opera, la cui documentazione visiva venne presentata due anni più tardi a Roma. In quell’occasione, lo storico dell’arte Filiberto Menna disse: forse il grande sogno ad occhi aperti dell’arte moderna di cambiare vita si è realizzato, sia pure una volta soltanto, proprio qui, in questo luogo lontano dove i nomi prestigiosi dell’avanguardia artistica non sono altro che nomi? Credo di sì. Il lavoro di Lai proseguiva anche su altri binari: nel 1980 realizzò i primi Lenzuoli, mentre si fa risalire al 1984 la prima fiaba cucita Tenendo per mano il sole, a cui seguirà nel 1987 Tenendo per mano l’ombra. Proprio nel 1987 partecipò, a Milano, a Sardegna fuori Sardegna, mostra curata da Gillo Dorfles, che di lei scrisse: «una delle più originali artiste che sfruttino l’elemento “scrittura” applicato alla tela, alla carta e persino a più vaste operazioni a carattere di performance teatrali» . Nei primi anni Novanta, Lai si ristabilì definitivamente in Sardegna, precisamente a Cardedu, paese nel nuorese vicino ad Ulassai. Il tessuto rimase per sempre il mezzo espressivo privilegiato da Lai, che non smise di creare opere per e con la popolazione. Lo testimonia Essere è tessere, un’azione collettiva realizzata nel 2008, cinque anni prima della scomparsa dell’artista. Ulassai continua tutt’oggi ad essere un luogo di fervente attività artistica, grazie soprattutto alla presenza di Stazione dell’arte. Il museo è nato nel 2006 grazie alla donazione, da parte di Lai, di un consistente corpus di opere. Sorge dove un tempo si trovava la stazione ferroviaria e non è certo una casualità: un luogo che per sua natura è teatro di incontri e partenze, è l’ideale per ospitare un museo che vuole essere sia un lascito per l’intera comunità di Ulassai, sia un laboratorio di sperimentazione artistica. Il museo è stato pensato come luogo di scambio e di continua elaborazione culturale e ha continuato a crescere grazie alle opere che l’artista ha pensato e prodotto specificatamente per Stazione dell’Arte, come ad esempio il Telaio del vento (2007), posto sulla facciata di uno stabile del museo, e il grande Monumento a Gramsci (2007). Maria Lai morì a Cardedu nel 2013. Molte mostre e retrospettive hanno visto la luce da quel momento, di cui la più grande e importante è stata organizzata al MAXXI di Roma nel 2019 in occasione del centenario della nascita di Maria Lai. Il titolo della mostra, Maria Lai: Tenendo per mano il sole, è un omaggio alla prima fiaba cucita di Lai. La retrospettiva, a cui successivamente verrà dedicato un approfondimento, non ha avuto la pretesa di raccontare in maniera puntuale e didascalica tutte le fasi della carriera di Lai. Ricordo che i curatori furono Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli, hanno piuttosto scelto di concentrarsi sul «secondo periodo» dell’artista sarda, dagli anni Sessanta in poi, gli anni di elaborazione di quel linguaggio per cui tutt’oggi è nota ed è riconosciuta come un’artista contemporanea tra le più rilevanti del Novecento. Il titolo in questione, come spiega Pietromarchi nel testo introduttivo al catalogo della mostra, racchiude in sé vari elementi presenti nella ricerca di Lai nella fase più matura della sua carriera, a cominciare dall’interesse per «la poesia, il linguaggio e la parola, l’aspetto relazionale della sua pratica e la vocazione pedagogica della sua creazione». Nel titolo e nelle opere esposte emerge, poi, l’aspetto del cucire, metaforico come tenere insieme e non, con riferimento a quelle tecniche che le hanno permesso di esplorare ed interpretare tradizioni locali, simboli e strumenti legati inconfondibilmente al mondo femminile e portarle, come un in un gioco serissimo, al qui ed ora. Gli anni Settanta hanno rappresentato per Lai, un periodo di profonda crescita artistica. Grazie alla breve analisi condotta sulla retrospettiva Tenendo per mano il sole, è stata possibile una panoramica sul “secondo periodo” di Maria Lai. Tutto questo, insieme a qualche cenno sulla storia espositiva dell’artista negli ultimi anni Settanta, risulta fondamentale anche per comprendere come Lai giunse, nel 1981, alla creazione dell’opera considerata manifesto della sua arte, oltre che primo esempio di arte relazionale in Italia: Legarsi alla montagna. Dopo la prima esposizione dei Telai, nel 1971, la ricerca di Lai diviene sempre più improntata verso la materia tessile e le composizioni tridimensionali. È un percorso che parte dai Telai e che nel corso degli anni Settanta prosegue attraverso le Tele cucite, i Libri cuciti, le Geografie. Con uno dei Libri cuciti, Volume oggetto, partecipa a Materializzazione del linguaggio nell’ambito della Biennale Arte del 1978. Cresce la notorietà dell’artista, che parallelamente continua a lavorare in Sardegna. Si arriva, così, alla fine degli anni Settanta. Nel 1979 Maria Lai realizza Casa cucita a Selargius, in provincia di Cagliari, prima operazione di arte ambientale dell’artista. È un esperimento andato distrutto, ma rimangono documenti fotografici a testimoniare. Quello che Maria Lai rappresenta sull’intonaco di una casa è il gesto stesso del cucire, riprodotto grazie a linee metalliche chiuse da un grande ago da cui pende un filo. Si colgono, quindi, i risultati degli studi condotti dall’artista nelle fasi della sua vita più prossime all’opera, insieme al bagaglio di pratiche e tradizioni popolari di cui la produzione di Lai è intrisa. È un altro, però, l’elemento che è più importante enucleare: Casa cucita è per Lai anche una riflessione sull’arte. Citando Elena Pontiggia, L’atto rituale del cucire assume infatti un’accezione esistenziale, come accadeva nelle Tele cucite: allude a un tentativo di tenere insieme la casa e le famiglie che vi abitano, ricucendo pazientemente separazioni e strappi.  Sono anche questi i presupposti che hanno permesso Legarsi alla montagna. La storia della performance inizia ben prima del 1981. Sul finire degli anni Settanta, Maria Lai viene contattata da Antioco Podda, sindaco di Ulassai. La giunta comunale riunita propone all’artista di realizzare un monumento ai caduti nel paese di Ulassai. La stessa Lai racconta l’evento in un articolo apparso sulla rivista Flash Art. Emergono, da questo racconto, dei dati molto interessanti. Lai parla di una sorta di complesso di inferiorità che le sembrava di avvertire nelle parole del sindaco e della giunta, come se il monumento ai caduti fosse un’idea nata dal desiderio dell’amministrazione di far entrare Ulassai nella Storia. L’intuizione di Maria Lai, che a posteriori si è rivelata assolutamente vincente, fu quella di non assecondare quest’idea, piuttosto di proporre qualcosa di inedito. Citando Lai stessa, «per essere nella Storia bisogna fare la Storia, non fare ciò che hanno fatto tutti gli altri»  . La giunta comunale ragiona sulla proposta per ben un anno e mezzo, affidando definitivamente l’incarico a Lai solo nel 1980. Afferma Lai: io dico che fu quello il momento in cui iniziò l’opera. il primo passo era stato quello di far vivere al paese l’esperienza del dialogo, della decisione collettiva: il vero problema ad Ulassai era l’assenza di comunicazione, l’enorme diffusione di rancori. Quest’occasione diede modo alle persone di riunirsi e parlare. L’artista sceglie quindi di superare l’avversione che nutriva nei confronti del suo paese d’origine che, come detto in precedenza, era stato luogo di dolore e perdita a causa dell’omicidio del fratello Lorenzo, avvenuto nel 1955. Rintraccia nella decisione stessa di affidarle l’opera da parte della giunta comunale l’inizio del lavoro, definendo quindi già alcuni tratti significativi di ciò che sarebbe andata a produrre di lì a poco. Non le era ancora chiaro quale sarebbe stato il risultato finale, ma era certa di non voler fare un monumento ai caduti. Piuttosto, un monumento ai vivi: quello che interessava all’artista era la possibilità di instaurare un dialogo e il focus era sull’esperienza stessa della condivisione. Maria Lai tenta attraverso l’azione artistica, di comprendere la rete dei rapporti che ad Ulassai, paese di poco più di mille abitanti, erano una trama intricata di amicizie e rancori tra famiglie che spesso si tramandavano di generazione in generazione. L’esperienza artistica condivisa, che inizia proprio da una semplice azione di dialogo, «ha un significato prima di tutto morale: di invito al superamento dei rancori, alla pacificazione, all’amicizia, al rapporto degli uomini con gli uomini, la natura, l’arte» . Si vedrà come, a posteriori, Legarsi alla montagna sia stata riconosciuta come la prima opera d’arte relazionale e comunitaria in Italia. Questo primato rende sicuramente ancor più necessaria l’analisi approfondita del lavoro di Lai e del contesto in cui si muoveva, ma poco ha a che fare con gli intenti dell’artista, che non era interessata tanto all’aspetto stilistico dell’opera, quanto alla potenzialità dell’azione collettiva dal punto di vista etico: la performance era un’occasione di ricongiungimento, di dialogo, di collaborazione degli Ulassesi all’interno di un inusuale contesto artistico . Come Lai stessa dichiara in un’intervista riportata nel documentario Sulle tracce di Maria Lai, il suo “monumento ai vivi” doveva essere qualcosa di nuovo, «che non avesse un autore e non chiedesse finanziamenti» . Doveva essere, insomma, un’opera mai vista in Italia, nella quale l’autorialità era spartita tra gli abitanti di un intero paese. Inizia quindi un lavoro accuratissimo di ascolto della comunità di Ulassai. Interrogando la popolazione più anziana su alcune leggende popolari, una in particolare cattura l’attenzione dell’artista: la grotta degli antichi. È una leggenda tramandata oralmente e tra le più celebri in paese, che Maria Lai stessa conosceva fin da bambina. Il video girato dall’artista Tonino Casula, Legare collegare, che rappresenta la prima «proposta di memoria» così la definiva Maria Lai dell’evento, inizia con l’artista che parla a un piccolo registratore, lo stesso utilizzato per raccogliere le vere e proprie interviste cittadini, della caratteristica fisica di Ulassai che più la suggestionava: «Ulassai, Osini e Gairo sorgono su un terreno che smotta e che frana». Nello stesso video sono riportate alcune di queste interviste a donne che narrano la leggenda della grotta degli antichi (sa rutta de is'antigus in dialetto locale) in varie versioni. La più diffusa è quella che riportata sul catalogo di Legarsi alla montagna e racconta di una bambina che sale sulla montagna per portare il cibo a dei pastori. Durante la salita, il cielo si rannuvola e in poco tempo arriva un violentissimo temporale. La bambina, allora, si rifugia in una grotta dove si trovavano anche gli stessi pastori con il gregge in attesa della fine della tempesta. A un certo punto si scorge un nastro azzurro fluttuante fuori dalla grotta. I pastori lo ignorano, ma la bambina, catturata dalla poesia dell’immagine, lo segue. Subito dopo, la grotta crolla e i pastori e il gregge scompaiono sotto le macerie. L’unica a salvarsi è proprio la bambina, che «capace di stupore, non mette freno al suo istinto, corre dietro al nastro, incurante della pioggia». Il progetto inizia ad assumere una forma più definita. Il lavoro si sviluppa con le modalità che Lai aveva voluto, così che le fasi di creazione e ideazione risultano esse stesse parte dell’operazione artistica. Come raccontano Tonino ed Elena Lai, due amici dell’artista, Maria Lai e il gruppo dei suoi sostenitori più entusiasti si sono riuniti per mesi ogni sera, definendo insieme i caratteri che la performance avrebbe assunto e dedicando poi molto tempo alla spiegazione del progetto agli abitanti. Dai frequenti momenti di confronto con la popolazione, Lai matura l’idea di legare insieme la comunità col nastro azzurro della leggenda. La favola, appartenente «all’inconscio collettivo del paese» , è la cornice narrativa in cui si sviluppa l’universo metaforico di Legarsi alla montagna. Nella leggenda, la bambina si salva seguendo un nastro azzurro che fluttua nel cielo. «I nastri sono il simbolo dell’arte. Sono leggeri, effimeri, sono appena un colore, non servono a nulla». Così, il nastro diventa «metafora dell’arte in un momento in cui il mondo è minacciato da frane» . Lai è mossa dall’intenzione di creare legami e il nastro azzurro le permette di intessere reticoli di relazioni da ben prima del suo dispiegamento. La popolazione di Ulassai racconta delle proprie tradizioni, si confronta sul da farsi, diventa la vera autrice della performance. Il nastro di Lai, insomma, “lega e collega” fisicamente e metaforicamente. Questo non vuol dire che l’operazione ha avuto fin da subito un appoggio incondizionato e unanime. Molte resistenze, come Lai racconta, venivano dai maschi: «la difficoltà stava nella loro dignità: avevano paura di essere ridicoli agli occhi degli altri. Poi dicevano: io posso legarmi al vicino di destra ma non a quello di sinistra, perché mi ha fatto il malocchio. In ogni famiglia c’era un rancore». Generalmente, poi, la popolazione di Ulassai era impiegata nell’allevamento e nelle industrie e molte persone  soprattutto le più anziane - erano tendenzialmente estranee a tutto ciò che non riguardasse gli aspetti più pratici dell’esistenza. Ovviamente Lai era conscia dello scetticismo di molti e che quest’azione non sarebbe stata sufficiente a spingere gli abitanti di Ulassai verso una carriera artistica, ma, citando Elena Pontiggia, «coinvolgere le persone in un’azione artistica può avvicinare all’arte: niente di più, ma niente di meno». I partecipanti avrebbero interagito tra loro in un modo totalmente inedito: è proprio questo il risultato nel quale Maria Lai riponeva le proprie aspettative e speranze. Al netto di questi preamboli, la partecipazione fu comunque straordinaria. Lai sosteneva che molto probabilmente in una città più grande non avrebbe avuto questo riscontro. Interrogata, poi, sul perché avesse scelto proprio Ulassai come scenario per un esperimento così avanguardistico, Maria Lai rispose: «perché Ulassai è il mondo. Ha vissuto chiuso e non sapeva aprirsi al mondo, è pieno di rancori, di ansie, di problemi materiali che non sa risolvere, è pieno di minacce e di frane». È curioso un passaggio che Lai segnala nello documentario Il nastro di Ulassai, quello cioè che ha portato alcuni degli abitanti più scettici nei riguardi dell’opera a tirare fuori un’inaspettata energia creativa. Un aspetto del lavoro di Lai su cui soffermarsi riguarda infatti l’attenzione verso le dinamiche già esistenti in paese. Se è vero che la condivisione dell’esperienza artistica aveva intenti in qualche modo catartici e pacificatori, è anche vero che un’opera collettiva genuinamente radicata nel territorio e realizzata per il territorio era tenuta a dare valore alle relazioni che quello stesso territorio lo abitavano da tempo. Viene accolta con entusiasmo da Lai, allora, l’idea di contrassegnare in maniera diversa i legami che il nastro azzurro avrebbe delineato tra le abitazioni: a un certo punto son diventati creativi e hanno deciso che se il nastro passava per dritto c’era rancore, se c’era una possibilità di pace c’era un nodo, se c’era amicizia c’era un fiocco, se c’era amore c’era un pane delle feste appeso al nastro.Dopo un lungo e accurato lavoro di ricerca e condivisione, la performance è pronta per vedere la luce.  L’8 e il 9 settembre 1981, ad Ulassai, ha luogo la performance collettiva Legarsi alla montagna. La fase di ideazione dell’opera, durata molti mesi, aveva posto le basi per un’orchestrazione corale che coinvolgesse la popolazione intera. Il segnale d’inizio è un razzo sparato in cielo con appeso un nastro celeste, a simboleggiare quello seguito dalla bambina nella leggenda. Prima di spargersi per le strade, al via, i cittadini si erano riuniti nella spianata di Ulassai - una distesa verde dove un tempo si svolgeva il mercato cittadino per creare fisicamente il lunghissimo nastro da usare per intessere la rete tra le case. Un commerciante di stoffe del luogo aveva infatti messo a disposizione gratuitamente un enorme rotolo di stoffa di jeans. Il gesto del separare la stoffa per creare il nastro della favola è compiuto contemporaneamente e congiuntamente da tutta la comunità, in assoluta coerenza con gli intenti più spiccatamente sociali delle giornate di performance: la condivisione dell’esperienza artistica e la creazione di legami attraverso questa. La comunità di Ulassai unita aveva creato materialmente il nastro. Alla stessa maniera, si sparpaglia per la città a fissarlo alle abitazioni. In circa un’ora, la città appare come un reticolo intricato. La rete di fili tesi è, però, organizzata con un proprio codice: la proposta di contrassegnare i legami di diversa natura attraverso alcuni simboli si era concretizzata. Così, si potevano ammirare pani appesi ai nastri che connettevano case di amici e parenti, case di famiglie divise da rancori non legate da alcun nodo, e così via. Come si legge nel catalogo di Legarsi alla montagna, «alla fine tutta Ulassai è un lavoro di telaio: case, stalle, architetture di ogni genere sono legate tra loro come in un arazzo» . Nelle fotografie di Piero Berengo Gardin, che ebbe un ruolo decisivo nella documentazione della performance, si coglie sia l’aspetto più ludico dell’operazione, che appare quasi come un grande gioco che unisce persone di qualsiasi età, sia la sua suggestiva aura sacrale. Questa dicotomia caratterizzerà la performance in toto, ma non solo: come si può evincere dalle pagine precedenti, è un binario su cui Lai si muove durante tutta la sua carriera, sintesi originale (in quanto personalissima) di tendenze ancestrali e ricerca costantemente ancorata al contemporaneo e alla realtà fattuale. Le anziane del paese sono senza dubbio i personaggi più evocativi di tempi remoti, vestite di nero e col fazzoletto al collo. Confluiscono, in Legarsi alla montagna, sia elementi della tradizione ogliastrina, sia pratiche associate comunemente alla sfera del lavoro femminile come il cucire. Tutto ciò, viene riletto dall’artista alla luce della propria intenzione di creare un’opera nuova, un’azione collettiva, che al centro avesse le relazioni tra i partecipanti. Il nastro stringe un intero paese e, contemporaneamente, costringe la popolazione alla condivisione di un’esperienza. Come sostiene Alessandra Pioselli, «Legarsi alla montagna fu un invito a credere in una visione e a pensare nuovi modi di stare assieme» . Legarsi alla montagna condensa, quindi, le attitudini che Lai aveva espresso in tutto il proprio percorso da artista. Può essere curioso aprire una piccola parentesi per trovare un nesso, ancora una volta, tra il lavoro dell’artista e la letteratura. Antonella Anedda, nel saggio contenuto nel catalogo della retrospettiva Tenendo per mano il sole, fa notare come l’intricata rete azzurra di legami fisici e metaforici intrecciata ad Ulassai sia un’idea anticipata da Calvino, autore molto caro a Lai, in una delle sue Città invisibili. Le somiglianze sono lampanti, ma lo sono anche le divergenze. Il reticolo creato ad Ersilia la rende inabitabile, inospitale, tanto da costringere la popolazione ad emigrare. Così la città si svuota, rimane una rete bianca e nera i cui nodi sono edifici vuoti. Le case non reggono al trascorrere del tempo, le mura si sgretolano, il reticolo si trasforma in una matassa disordinata. È quasi come se Calvino volesse suggerire che gli atavici rancori e le relazioni che ci appaiono così complesse e immobili - soprattutto in quei luoghi come Ersilia e, magari, anche Ulassai, cristallizzati in un tempo remoto - respingono la vita, la allontanano, soffocano il nuovo; non resta che andarsene. La prospettiva che ci restituisce la performance di Maria Lai, invece, è opposta: i legami complessi che già esistono all’interno di un paese vanno rispettati e assunti come punti di partenza in un percorso che deve tendere alla coesione di quella stessa comunità. Il reticolo è intricato, ma non per questo labirintico o inconciliabile con la crescita di nuove istanze e relazioni. Risuonano, allora, le parole di Filiberto Menna, l’unico storico dell’arte ad aver compreso fin da subito la portata rivoluzionaria dell’evento orchestrato da Maria Lai. In occasione della presentazione del materiale documentario della performance, avvenuta a Roma presso Spaziodocumento, egli dichiarò: forse che il grande sogno ad occhi aperti dell’arte moderna di cambiare la vita si è realizzato, sia pure una volta soltanto, proprio qui, in questo luogo lontano dove i nomi prestigiosi dell’avanguardia artistica non sono altro che nomi? Credo di sì: qui, l’arte è riuscita là dove la religione e la politica non erano riuscite a fare altrettanto. Ma c’è voluta la capacità d’ascolto di un’artista che ha saputo restituire la parola ad un intero paese e rendersi partecipe della memoria e dei fantasmi della gente comune, aiutandola a liberarsi della parte distruttiva di sé e ad aprirsi alla disponibilità nuova al colloquio e alla solidarietà. A proposito della documentazione della performance, è importante soffermarsi brevemente sul lavoro svolto da Piero Berengo Gardin e Tonino Casula. Il primo è stato un fotografo e documentarista veneziano, parente del più famoso Gianni. Il suo lavoro si concentrava principalmente sulla relazione tra fotografia e ambiente urbano, ambito su cui ha tenuto anche corsi universitari alla facoltà di architettura de La Sapienza. Le sue fotografie della performance riescono a restituire il clima giocoso e di festa, insieme alla ritualità ieratica di alcuni momenti, che avvicinano l’evento a una sorta di cerimonia laica. Su alcune delle fotografie in bianco e nero, Lai stessa ha interagito a posteriori, colorando il nastro di azzurro o cucendoci sopra con fili dello stesso colore . Tonino Casula, invece, era un’artista sardo che nel 1977 aveva intervistato Maria Lai per Radio Ventiquattrore, un’emittente locale. L’intervista in questione è tra le testimonianze più preziose sull’artista, tanto che la critica vi si riferisce costantemente tutt’oggi. Il video registrato durante i due giorni di performance collettiva, Legare collegare, è disponibile online ed è la testimonianza che permette di ricostruire al meglio la cronologia delle due giornate. Uno dei momenti immortalati da entrambi gli artisti è quello della processione. L’8 settembre, infatti, non è un giorno qualunque per la città di Ulassai. Ogni anno viene celebrata in quella data la festa della Vergine Santa Maria. Alcuni intellettuali criticarono la scelta di far coincidere Legarsi alla montagna con una festa di natura religiosa, tacciando Lai di bigottismo. Se si riflette sull’intento dell’artista, però, appare chiaro che il momento era in realtà ideale. La festa della Vergine era infatti un giorno di spontanea aggregazione della popolazione; molti dei tanti emigrati in terraferma rientravano ad Ulassai per l’occasione. Una performance collettiva pensata e realizzata per e con l’intera popolazione non poteva che arricchirsi di significati andandosi ad innestare in una giornata importante in partenza per la comunità stessa. Così, nel video e nelle fotografie riconosciamo il nastro azzurro della leggenda teso sopra le teste dei cittadini in processione e legato al baldacchino trasportato da quelle stesse persone che, poche ore prima, avevano issato la fascia azzurra agli edifici del paese. A tutti gli effetti, la performance risulta essere espressione di una sorta di «religiosità laica», per citare Pontiggia, che da sempre animava Maria Lai. Maria Sofia Pisu paragona alcuni passaggi della performance ai rituali dei matrimoni tradizionali sardi. È, in particolare, il ritmo scandito da azioni con un forte valore rituale a ricordare la sacralità delle cerimonie religiose. Questo paragone è avvalorato dalle fasi conclusive della performance collettiva. L’evento, infatti, non trovò una conclusione durante la prima giornata, ma si protrasse fino al giorno dopo. Giunsero in città artisti e musicisti richiamati da Lai, tra cui Angelo Persichilli, flautista all’Orchestra Nazionale dell’Accademia di Santa Cecilia a Roma la musica dal vivo animava le strade, mentre ci si preparava per l’ultimo grande avvenimento. Arrivarono ad Ulassai anche sei esperti scalatori da Cagliari. L’atto finale della performance doveva essere compiuto da loro: bisognava issare il nastro sulla parete rocciosa del monte Tisiddu. Lai lo racconta così: noi dovevamo chiedere pace alla montagna. Allora il giorno dopo c’è stata questa scalata lunghissima, perché sul paese cade una rocca a picco di 80 metri, e lì si sono arrampicati. È stato uno spettacolo bellissimo. E poi finalmente il nastro dalla montagna sul paese: sembrava un getto d’acqua.I sei scalatori aprirono delle nuove vie sulla roccia. Maurizio Oviglia, uno di loro, nel documentario Sulle tracce di Maria Lai racconta di come sia abitudine dare nomi propri alle vie; nel farlo, volevano ispirarsi all’artista e le chiesero il permesso. Non solo Maria Lai rispose con entusiasmo, ma propose alcuni nomi: «lo spigolo l’ha chiamato Lo scialle della Luna, la via nella fenditura l’ha chiamata Tenendo per mano l’ombra». Il percorso dell’artista trova quindi una sintesi nell’atto finale della sua opera-manifesto, quella che l’ha resa celebre e per la quale è considerata  come verrà approfondito un’anticipatrice. Una volta issato il nastro alla montagna di Ulassai, l’evento poteva dirsi concluso. La popolazione tornò alle proprie occupazioni quotidiane, ma la portata di quell’azione comunitaria ha trovato giusta considerazione negli anni a venire. Sono molte le considerazioni da poter fare. Come già esplicitato, Legarsi alla montagna è senza dubbio l’opera che condensa tutte le propensioni e le ricerche condotte negli anni da Maria Lai. Studiando arte in vari centri d’eccellenza, sperimentando vari materiali, eleggendo come mezzo materico espressivo privilegiato il tessuto e non trascurando mai la storia e la pratica millenaria che questo porta con sé, Lai arriva a sentire la necessità di giungere a una «forma d’arte, o di filosofia, che era sempre stata compresa da tutti, al di là di lauree e diplomi, istruzione e cultura» . Rimanendo lontana da poco costruttivi tentativi di pedagogismo, Lai era consapevole che il significato metaforico dell’opera poteva rimanere oscuro a una parte dei partecipanti, ma rimaneva convinta che «attraverso meccanismi di coinvolgimento e di comunicazione elementare come il gioco e la fiaba si possono ottenere esiti inaspettati». Così, il più ambizioso e quasi impensabile risultato effettivamente raggiunto è che «ad Ulassai l’autore è stato il paese, la sua gente» . Ci si trova davanti a un’azione corale, in cui però non c’è né impersonalità, né anonimato, «perché gli abitanti del paese sono avvicinati uno a uno, e ognuno sceglie autonomamente la forma di legame con cui allaccia la propria casa alle altre» . La sua opera, certamente, è poetica più che politica, ma ha una dimensione sociale implicita molto forte. Dopo Legarsi alla montagna, Lai continuerà a sperimentare in questo senso, trovando nella performance collettiva un efficace mezzo espressivo e, allo stesso tempo, rendendo l’arte un potente motore di rinnovamento e coesione sociale. Un’altra considerazione riguarda il nastro come elemento salvifico e unificatore. È curioso, infatti, che Maria Lai dichiarasse che il nastro non sostiene. Se è vero, infatti, che è leggero e delicato, è vero anche che nell’opera di Lai è l’oggetto materialmente posto a rinsaldare il paese alla terra su cui si poggia, alla montagna che incombe sulle case. Torna in mente Materializzazione del linguaggio, mostra alla quale Lai partecipò, e l’interesse posto sul cucire come pratica tradizionalmente femminile. I fili, i tessuti, i nastri, appunto, tornano con insistenza in tutta la produzione di Lai, che deve molto alla dimensione tradizionale locale. Nell’introduzione del catalogo di Materializzazione del linguaggio, come si è visto, Bentivoglio accenna alla tendenza delle artiste coinvolte nella mostra a trasformare il linguaggio in produzione tessile. Poche pagine dopo, tra gli esempi di questa pratica nell’antica produzione popolare, si rintraccia un suggestivo riferimento alle civiltà nuragiche, che permette di creare un ponte tra il lavoro dell’artista, la sua storia familiare e le pratiche tradizionali della sua terra natia, facendo apparire il tessere quasi come una tendenza ancestrale e, per lei, inevitabile. In Legarsi alla montagna, il mezzo associato più tipicamente alla sfera del privato della donna, della sua «dolorosa domesticità» , si fa linguaggio universale, strumento di connessione e di salvezza, che compatta la comunità e la salda al contesto, al suolo, alla montagna. Questo rapporto strettissimo di Lai con la cultura popolare e il territorio di Ulassai fanno sì che Legarsi alla montagna sia un perfetto e in anticipo sui tempi esempio di un efficace lavoro sulle «micro-utopie quotidiane». Come afferma Pioselli, alcuni elementi rintracciabili in Legarsi alla montagna, tra cui spiccano l’attenzione al contesto sociale assunto come ambito di intervento, il coinvolgimento degli abitanti di Ulassai, lo spazio dedicato all’identità collettiva e al recupero della memoria del territorio, sono temi che saranno fondamentali nell’elaborazione artistica degli anni Novanta . Prima di addentrarsi più nel dettaglio nei caratteri di questo nuovo modo di fare arte e nella sua relazione con il lavoro di Lai, è necessario analizzare come Lai continuò ad approcciarsi alle opere d’arte ambientale e, soprattutto, alle performance collettive, negli ultimi anni della sua carriera, dopo aver realizzato la prima ma non ultima - micro-utopia quotidiana. Uno degli artisti che ha avuto un ruolo cardine nella storia della Performance Art è Allan Kaprow. La prima attestazione del termine happening risale, infatti, al titolo di una sua opera, 18 Happenings in 6 Parts, presentata alla Reuben Gallery di New York nel 1959. L’artista, quindi, esercitava un controllo su quanto accadeva, ovvero l’happening nel suo svolgimento, ma proprio in quanto azione dal vivo, non si poteva escludere un certo grado di imprevedibilità. Nelle parole in cui Kaprow rivela il fulcro del proprio interesse, si rintracciano importanti elementi di contatto con le intenzioni di Maria Lai. L’intento di avere un pubblico partecipante e non solo spettatore accomuna il progetto dei due artisti. Tuttavia, un aspetto costitutivo di Legarsi alla montagna è che il centro dell’azione comunitaria consiste nel porre in relazione simbolica e fisica tutti gli abitanti di Ulassai tra di loro, oltre che gli abitanti con gli edifici del paese e il paese intero con la montagna che lo sovrasta. Nell’opera, nonostante si esplichi attraverso azioni che rientrano in una sfera quasi giocosa, dimensione molto cara a Lai, è riscontrabile una componente quasi sacrale. Questo pone la performance di Lai su un piano molto diverso rispetto alle modalità di lavoro messe in atto da Kaprow. Anche nel movimento Fluxus, costituitosi tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, si possono rintracciare punti di contatto con la ricerca di Maria Lai. Gli artisti di Fluxus erano soliti organizzare improvvisazioni musicali e multimediali caratterizzate dall’inserimento di oggetti di varia natura utilizzati in azioni quotidiane. In questo modo, il quotidiano entrava «in un contesto culturale, dove veniva isolato e organizzato in musica». Per i membri del movimento Fluxus le cose del quotidiano diventavano opere, così da «dare all’arte un rapporto con la vita». La ricerca di un’arte che attinga dal quotidiano è un’intenzione che in qualche modo risuona nella ricerca di Lai, rimanendo però, come nel caso degli happening di Kaprow, elemento insufficiente per poter assimilare gli intenti dell’artista sarda, che al centro pone la relazione, alle esperienze in ambito Fluxus. Maria Lai, fin dagli anni Ottanta iniziò a interessarsi anche all’arte ambientale. Seguendo un precetto di Antonio Gramsci, intellettuale trai più stimati dall’artista, e dedicatario dell’opera d’arte ambientale Monumento a Gramsci. Fiabe intrecciate, l’artista riteneva che le opere più importanti e ricche di significati fossero quelle a contatto con le comunità, fuori dai musei e dagli spazi espositivi. In Legarsi alla montagna, è la montagna stessa la protagonista dell’ultimo grande atto della performance collettiva. Il 9 settembre, a conclusione delle due giornate di performance, lo stesso nastro che ha stretto la comunità è stato issato sulla parete rocciosa di quella montagna da sempre considerata minacciosa dalla popolazione. Il gesto può essere, così, interpretato come un tentativo di riconciliazione con la brulla natura dell’Ogliastra. Proprio l’ambiente naturale era al centro dei lavori degli artisti che in quegli anni erano stati inquadrati nel movimento chiamato Land Art. Questi, tra cui spiccano nomi come Michael Heizer, Walter De Maria, Robert Smithson, Richard Long, dalla seconda metà degli anni Sessanta hanno scelto di uscire non solo dagli spazi espositivi, ma anche dallo spazio urbano. Land Art è il titolo di un documentario del 1969 di Gerry Schum che racconta il lavoro di questi artisti, raccogliendo testimonianze delle grandi opere ambientate in luoghi dove la natura è sovrana: deserti, laghi salati, luoghi incontaminati e, per questa ragione, ritenuti l’altra faccia degli Stati Uniti, opposta rispetto a quella caratterizzata dall’artificialità delle grandi metropoli contemporanee. I land-artist non operavano ponendo istallazioni o sculture in luoghi naturali, ma agendo sul territorio stesso. Questi interventi erano spesso in grande scala e gli attrezzi utilizzati erano più comunemente impiegati nelle grandi opere edilizie come ruspe e bulldozer, si costruivano opere geometriche di terra, rocce, sabbia, ghiaia. Si trattava di opere di natura effimera, in quanto era prevista la loro lenta erosione a causa delle intemperie o del semplice scorrere del tempo. Oggi possiamo conoscere queste opere grazie alla documentazione video o fotografica esposta proprio in quegli stessi musei dai quali i land-artist avevano sentito la necessità di uscire . Una declinazione urbana di questo tipo di ricerca si riscontra nei lavori di Christo. Dal 1968 ha interagito sia con monumenti cittadini, sia con imponenti elementi naturali con le sue celeberrime operazioni di «impacchettamento» . Famosissimo fu il suo intervento del 1974 sugli archi di Porta Pinciana e su un tratto delle Mura Aureliane a Roma, che coprì con teli sintetici legati da corde colorate. Come ricorda anche Elena Pontiggia nel catalogo di Legarsi alla montagna, Maria Lai conosceva le opere dei land-artist e il lavoro di Christo a Roma. Proprio mentre l’opera di Christo era in fase di progettazione e attuazione, Maria Lai iniziava ad esporre i Telai nella capitale. Il materiale usato nella performance di Ulassai è ancora più effimero, ovvero un nastro di jeans che non doveva lasciare traccia del proprio passaggio in paese. Se è vero, quindi, che la montagna nell’azione di Maria Lai ha avuto un ruolo sostanziale, è vero anche che definire Legarsi alla montagna come un’operazione di Land Art sarebbe riduttivo e mistificante. Come sottolinea Pontiggia, «il cuore dell’azione non è la traccia lasciata sul territorio», almeno non quella empiricamente rintracciabile. Restringendo il campo e passando al contesto nazionale, è fondamentale citare l’Arte povera, il movimento artistico nato nella seconda metà degli anni Sessanta e vicino alle ricerche dell’arte concettuale, che ha avuto un impatto dirompente nella scena artistica del periodo. Sul piano del coinvolgimento attivo di una comunità, Maria Lai ha sicuramente fatto tesoro delle ricerche nell’ambito dell’Arte povera, un movimento a cui fu spesso associata, soprattutto nella seconda fase del suo lavoro caratterizzata dall’impiego di materiali tessili. Gli artisti del movimento si ponevano in netto contrasto con l’arte tradizionale, recuperando materiali considerati di scarto, poveri appunto, come stracci, terra, ferro, legno. L’impiego di tali materie grezze permetteva loro di esprimere sul piano formale i propri intenti: «ridurre ai minimi termini», «impoverire i segni» giungendo «ai loro archetipi» . Germano Celant, che coniò la definizione di Arte povera, fu il curatore di Arte povera + azioni povere, evento che ebbe luogo ad Amalfi dal 4 al 6 ottobre 1968. Il luogo deputato ad accogliere la maggior parte delle opere fu l’Arsenale della città, descritto dallo scultore Piero Gilardi come una magnifica struttura con doppia navata e spessi muri di pietra rustica su cui gli artisti istallarono le opere. Sul fondo della grande sala a due navate era stata istallata una pedana con delle sedie: là si svolgevano le riunioni in cui gli artisti e i critici si confrontavano sulla natura e sullo svolgimento della manifestazione. Quest’ultimo dettaglio fa intuire la natura dell’evento di Amalfi: non si trattò di una semplice esposizione, ma di un evento composito, con dibattiti, istallazioni, spettacoli dislocati nelle piazze cittadine e interventi nell’ambiente naturale e urbano. A questo si deve il nome delle giornate, che prevedevano accanto alle opere d’Arte povera un corpus di Azioni a cui il pubblico era invitato a partecipare. Leggendo il testo di Gilardi contenuto nel catalogo dell’evento, si colgono elementi interessanti. In primis, i visitatori vengono descritti come tendenzialmente mossi da vivo interesse e curiosità per la mostra all’Arsenale, ricercando, a volte, anche il dialogo con gli artisti autori delle opere. Fu la performance di Pistoletto, però, a catturare la maggiore attenzione del pubblico. Consisteva nella manipolazione di palle di carta durante un percorso trai cunicoli della città vecchia insieme a molti bambini del posto sinceramente divertiti ed entusiasti. Gilardi, nel colorito racconto dell’evento che offre nel breve testo, aggiunge il dettaglio di una bambina che, distratta e presa dall’euforia, frantumò il vetro di un’opera d’arte esposta. Lo stesso testo offre sia un resoconto ricchissimo di informazioni sulle azioni svolte, sia una lettura piuttosto critica nei confronti di ciò che è stato effettivamente l’evento di Amalfi in relazione alle sue potenzialità. Se si analizza il testo introduttivo al catalogo firmato dal curatore dell’evento Germano Celant presenta i concetti di Arte povera e Azione povera ed esplicita come gli intellettuali che abbracciano il movimento dell’Arte povera debbano lavorare ricercando costanti rapporti con la realtà contemporanea e instaurando con questa un dialogo, una dialettica, nel «rifiuto delle ricette e dei dettagli rassicuranti che rispondono alle aspettative del sistema». Da queste parole emerge la carica antisistema del movimento, in aperta opposizione alle logiche consumistiche: l’evento di Amalfi, gratuito e aperto, permetteva il «consumo immediato dell’evento critico-estetico, direttamente posto fuori consumo, e passaggio diretto dall’arte povera all’azione povera» . Si ricercava l’immersione percettiva, attraverso la quale il pubblico poteva sensibilizzarsi alla fruizione di oggetti estetici. Più che sugli oggetti, anzi, l’attenzione ricadeva sui fatti, sulle azioni e sui processi che le innescano  . Le azioni proposte sollecitavano la partecipazione dell’osservatore, ma le opere presentate erano pensate interamente dal singolo artista, senza la ricerca di un ulteriore coinvolgimento dell’audience nella fase processuale. L’evento fu certamente rilevante, ma, come si legge nello stesso catalogo, avrebbe potuto avere risvolti ancor più interessanti se si fosse effettivamente trasformato in un’operazione comunitaria. La partecipazione comunitaria soltanto abbozzata e la dimensione fortemente politica e antisistema in cui gli artisti dell’Arte povera operavano rendono l’evento di Amalfi lontano dagli approdi di Maria Lai, anche se è importante riconoscerne il valore. Altrettanto rilevanti furono manifestazioni sorte in Italia sul finire degli anni Sessanta e nel corso degli anni Settanta non riconducibili al movimento dell’Arte povera. In questi casi, come accadde a Ulassai, hanno avuto molta voce in capitolo le amministrazioni locali, spesso direttamente promotrici di eventi culturali negli spazi cittadini in un periodo politico – la fine degli anni Sessanta - particolarmente caldo, in cui la riflessione sulla cultura come motore di riqualificazione urbana e coesione sociale era tornata al centro del dibattito istituzionale. Prima di entrare nel merito di queste esperienze, è necessario precisare che si fa riferimento all’aggettivo “urbano” nell’accezione indicata da Alessandra Pioselli nell’introduzione a L'arte nello spazio urbano. L'esperienza italiana dal 1968 a oggi. Pioselli estende, infatti, il significato di spazio urbano, preferendo parlare di spazi, caratterizzati da dimensioni variabili e storie disparate: dai grandi agglomerati urbani, ai piccoli borghi . Il 21 settembre 1969 la città di Como ospitò l’evento Campo Urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana. Si trattò di una giornata di esposizioni, performance, spettacoli, un po’ sulla falsa riga di ciò che era accaduto ad Amalfi l’anno precedente, ma con una grande differenza: in questo caso tutta la città era invasa da oggetti e azioni d’arte. Nel comunicato stampa del comune di Como uscito in occasione dell’evento si palesa l’intenzione dell’amministrazione comunale promotrice, intrisa di significati politici ovvero portare la comunità a stretto contatto col lavoro degli artisti invitati ad agire con interventi di qualsiasi tipologia negli spazi vissuti quotidianamente dagli abitanti. In questo modo gli artisti vengono necessariamente obbligati a porsi delle questioni sul modo più adatto di interagire con una comunità e promuovere un impatto incisivo quanto più in linea con le necessità delle persone che abitano un luogo. Il progetto prevedeva che le opere e le performance realizzate durante la giornata potessero non ricevere una calorosa accoglienza dalla popolazione ed era contemplata e anzi, quasi cercata, una «relazione dialettica e talvolta anche polemica» con la comunità come si legge nel comunicato, che potesse fungere da motore per mettere in atto un dialogo collettivo e costruttivo sull’uso degli spazi cittadini. Gli artisti scelti erano profondamente diversi per estrazione sociale, provenienza, sesso, età, e operavano nei campi più disparati quali la pittura, la scultura, la musica, l’architettura. Uno tra questi era Attilio Marcolli, architetto milanese. Nel catalogo della manifestazione, curato da Luciano Caramel, Ugo Mulas e Bruno Munari, si trova un testo in cui lo stesso Marcolli presenta l’opera da lui proposta e intitolata Il colore come segnale. Prima di descrivere il suo operato, l’artista introduce le riflessioni che l’hanno guidato, incentrate sulle mutazioni dell’assetto urbano e ambientale nell’epoca contemporanea. Senza dubbio, i grandi agglomerati urbani hanno via via sostituito i piccoli borghi e, parallelamente, la produzione industriale ha soppiantato quella artigianale. La trasformazione sociale si riscontra, quindi, sul piano dell’urbanistica. I risultati sono le grandi città industriali, in cui, però, Come Marcolli sostiene, «ci si è accorti ben presto che l’urbanistica per la società di massa non era ancora l’urbanistica per la società democratica» . Da questa presa di coscienza nasce l’idea di Marcolli: segnalare ogni tipologia di negozio con insegne di un colore diverso. L’artista sceglie di opporsi alla società dei consumi non cancellando indistintamente, ma piuttosto segnalando la diversità. Come un tempo la vita di paese era costellata da botteghe colorate che erano sì luoghi di consumo, ma anche di aggregazione, così l’artista, sul finire degli anni Sessanta, dichiara di voler realizzare «una topografia del colore urbano come fonte di segnalazione, un veicolo di comunicazione». Marcolli si rifà così alla storia dell’Italia dei borghi e delle tradizioni, ritenendo che solo il recupero di un’arte popolare possa essere la chiave per un’arte moderna democratica e ricevendo la generale approvazione dei comaschi. I riferimenti di Maria Lai alla storia di un luogo, alla sua tradizione, alle sue leggende, sono stati costanti nella realizzazione delle sue opere d’arte, che desiderava fossero fruibili per tutti. La tensione di Maria Lai e di Marcolli verso un’arte il più possibile democratica si esplica, così, nell’ideare le opere partendo dalle esperienze e conoscenze condivise proprie della comunità con cui interagiscono. Un’altra artista coinvolta nel progetto Campo urbano, Valentina Berardinone - sperimentatrice sia nel campo delle arti plastiche sia in quello delle arti audiovisive - esplicita nel catalogo la propria tendenza antisistema, ma presenta un’opera molto diversa da Il colore come segnale per i presupposti e per l’esito, testimoniando quanto la manifestazione di Como sia stata variegata. Come si legge nel breve testo, Berardinone sosteneva che il senso dell’intervento di un artista all’interno di un contesto comunitario fosse necessariamente provocatorio, così da suscitare nella collettività dei dubbi sui valori passivamente introiettati. Un curioso parallelo con Legarsi alla montagna sorge quasi spontaneo già soltanto leggendo il titolo dell’opera di Valentina Berardinone: Antimonumento. Se la performance collettiva di Lai fu un vero e proprio monumento ai vivi, quella di Berardinone fu un’opera che si poneva in contrasto con le classiche celebrazioni della Vittoria, una scultura pensata come elemento dissacrante e disturbante in una delle piazze centrali di Como. L’artista intendeva capovolgere, tramite l’oggetto plastico rigato di vernice rossa a rappresentare una colata di sangue, l’iconografia tradizionale della Vittoria e i significati legati ai concetti di dominio e violenza che porta con sé. Nel testo di Berardinone si colgono altri fondamentali elementi che avvicinano la sua pratica a quella di Maria Lai. In primis, l’idea che l’arte contemporanea debba inserirsi in un contesto il più possibile corale, uscendo dagli spazi espositivi e dalla logica che vede l’artista da un lato e gli spettatori dall’altro. L’aprirsi alle comunità è l’unico modo perché si creino quelle che Berardinone definisce «nuove dimensioni psicologiche, spaziali, temporali» . Quello che interessa soprattutto all’artista è la possibilità di trasmettere alla cittadinanza il «sospetto verso un certo ordine di cose»e malgrado il rischio di mettere in atto un «tentativo didascalico» a Berardinone pareva che valesse la pena provarci. Berardinone, quindi, dichiara chiaramente di essere mossa da fini etici e, in un certo qual modo, educativi, nel tentativo di stimolare la riflessione critica all’interno di una comunità. Questo tipo di tensione accomuna Berardinone a tutti gli altri artisti che presero parte alla manifestazione di Como, che si inserisce in un più ampio contesto di operazioni d’arte urbana in tutta la penisola italiana. Tra queste, un’altra esperienza su cui è fondamentale soffermarsi è senza dubbio Volterra ’73, che si svolse dal 15 luglio al 15 settembre. Per inquadrarla al meglio serve un brevissimo preambolo sulle cosiddette mostre di “sculture nella città”. La prima mostra configurata in questo modo fu Sculture nella città a Spoleto nell’estate del 1962 durante il Festival dei Due Mondi. La città, in quel periodo, fu invasa da sculture moderne commissionate ai vari artisti su iniziativa del Comune, che era l’ente promotore. Si aprì, così, la lunga stagione di mostre gratuite proposte dalle Amministrazioni pubbliche tendenzialmente di sinistra, che sentivano l’urgenza di dimostrare il loro impegno nel rendere l’arte accessibile e a stretto contatto con la popolazione. Volterra ’73 doveva inizialmente essere una vera e propria mostra di sculture in città, ma si trasformò in corso d’opera. Il curatore Enrico Crispolti, infatti, sentì la necessità di proporre all’amministrazione comunale e agli altri enti coinvolti un’operazione di natura diversa. L’evento si propose come modello alternativo non solo alle mostre di sculture nella città, ma anche alle manifestazioni caratterizzate da un certo grado di effimerità, come Campo urbano di pochi anni prima. Le opere proposte non erano soltanto plastiche, ma delle più disparate tipologie, dalle azioni collettive, alle proiezioni di film. Il processo di ideazione, poi, è ciò che rese l’evento davvero all’avanguardia: due mesi di discussioni, dibattiti, riunioni volti al coinvolgimento attivo dell’ente politico, degli studenti d’arte, delle associazioni, dell’Ospedale psichiatrico, dell’importante carcere giudiziario e delle attività produttive del territorio, in particolare gli artigiani dell’alabastro e i lavoratori agricoli. Il risultato fu un evento corale, senza un unico curatore, ma fondamentalmente autogestito dagli artisti. Le opere d’arte in città, così, si arricchivano di significati e, lontane dall’essere meri abbellimenti, si inserivano piuttosto in un piano composito di valorizzazione a partire da una profonda conoscenza del territorio, della sua geografia, delle sue dinamiche e del suo tessuto produttivo. Le riunioni in preparazione dell’apertura di Volterra ’73 si sviluppavano partendo da una volontà e presupposto fondamentale: evitare di realizzare un’operazione di colonialismo culturale, ricercando piuttosto la «sollecitazione socioculturale», come spiega Crispolti nel catalogo. Ci si rende conto come questo risultato sia tutt’altro che facile da raggiungere. Problematizzando il loro operato attraverso una modalità di lavoro dialettica, gli artisti di Volterra ’73 si trovarono ad agire seguendo due impostazioni: c’era chi, con un certo grado di cinismo, non si illudeva di poter instaurare un qualche tipo di discussione con il tessuto sociale attraverso la propria opera, e chi, invece, portava avanti un discorso politico, meno disincantato, credendo fermamente nella possibilità di suscitare reazioni e riflessioni con il proprio intervento artistico . L’importanza dell’esperienza di Volterra, quindi, risiede principalmente nella ricerca di un metodo innovativo, improntato sull’autentico dialogo con la popolazione e su un’approfondita conoscenza del territorio, per distaccarsi da quelle manifestazioni considerate da Crispolti e dagli altri artisti coinvolti «celebrazioni sedicenti d’avanguardia (e invece sostanzialmente di mercato), culturalmente impositorie in senso francamente fascista». Quest’ultima citazione dal catalogo di Volterra ’73 lascia poco spazio ad interpretazioni: si trattò di una manifestazione apertamente schierata politicamente, supportata da una giunta di sinistra e in aperto contrasto con l’uso speculativo dell’arte pubblica. La documentazione di questa e altre esperienze nel campo dell’arte urbana confluirono in una mostra organizzata nell’ambito della Biennale Arte del 1976, dal titolo L’ambiente come sociale. Curata dallo stesso Enrico Crispolti, uno dei protagonisti dell’esperienza di Volterra, nonché curatore dei cataloghi sia di Volterra ’73, sia di L’ambiente come sociale, la mostra ripercorreva la storia delle operazioni d’arte collettiva urbana nell’Italia tra fine anni Sessanta e inizio anni Settanta. Era in mostra anche, ovviamente, il materiale raccolto durante Volterra ‘73 e a Como durante Campo urbano del 1969. Le varia manifestazioni passate in rassegna avevano in comune un certo modo di intendere l’arte urbana e l’operato degli artisti, i quali smettevano di essere produttori di oggetti d’arte o esperienze da “rovesciare” su spettatori passivi, e diventavano co-creatori. Tendenze nate in opposizione rispetto al sistema culturale dominante, quindi, si trovarono a essere captate e rappresentate alla Biennale d’Arte di Venezia. L’ambiente come sociale testimonia, quindi, quanto l’attenzione al sociale fosse diventata pervasiva nel discorso artistico del periodo. L’arte negli anni Settanta sembra sentire l’urgenza di cambiare il focus della propria indagine. Come Crispolti sottolinea nel catalogo di L’ambiente come sociale, «la ricerca è oggi più di rapporti che non di puro linguaggio, si orienta cioè verso una strategia di corretta risposta comunicativa ad una domanda di massa». Certamente il Gruppo di Piombino  nelle sue esposizioni ha sempre ideato due momenti espositivi,  cara alla teoria dell'arte di Piombino. Da una parte i progetti site specific in corso d'opera, esperimenti che tendono di interagire con il pubblico che è inconsapevole in una visione estetica dell’arte, dall'altra opere che raccontano di un'interazione già avvenuta che ha definitivamente trasformato l'aspetto apparente o meno di oggetti di uso quotidiano, proiettandoli al di fuori della configurazione seriale e reindividualizzandoli. E proprio questa “non dimenticanza dell'oggetto”, questa sua mancata scomparsa dalla scena, che costituisce una delle principali caratteristiche che sembrano caratterizzare e distinguere Piombino dal movimento dell'Arte Relazionale, discorso più che mai attuale ma che sarebbe fuori luogo affrontare in questa sede. Facendo una mia ricerca storiografica e scientifica sul Gruppo di Piombino mi sono convinto che questo Gruppo sia l’ultima ‘Avanguardia’ e per questo che l’arte deve entrare in rapporto con questo mondo non può che essere un’arte capace di raccogliere e sintetizzare l’inquieta, stratificata, caotica e contraddittoria eredità delle Avanguardie e degli ultimi 150 anni di arte contemporanea. E forse anche oltre, poiché in effetti negli ultimi 150 anni, tra un’Avanguardia e l’altra non sono mancati momenti di “Ritorno all’ordine” in cui si è guardato indietro con occhi nuovi alla tradizione pittorica più antica. E anche questi momenti fanno parte del retaggio della Contemporaneità e hanno contribuito a forgiarne le forme. E questa è la linea che si è seguita in questi ultimi anni dove gli artisti devono essere in grado di recuperare e reinventare il retaggio delle grandi Avanguardie storiche, ma anche e soprattutto di sintetizzare e contaminare stili e linguaggi, trovando punti di contatto inediti e suggestivi. Il tempo delle Avanguardie è finito. Si è aperto con l’Impressionismo e si è chiuso con la Transavanguardia. Per oltre un secolo ogni nuova generazione di artisti ha cercato di smarcarsi dalla generazione precedente proponendo una nuova, differente idea di arte contemporanea. Ora tutto questo sembra non funzionare più. Il meccanismo pare inceppato. A partire dal discorso generazionale. La prova lampante che un certo ‘meccanismo’ sia saltato balena agli occhi di tutti se si sofferma l’attenzione, senza pregiudizi, su di un fatto concreto, tangibile, facilmente riscontrabile: da molti anni ormai si è annullato un qualsiasi significativo ‘scarto generazionale’. In questo nuovo secolo e in questo nuovo millennio l’arte ha un linguaggio diverso e bisogna che l’artista e il fruitore diventino una cosa sola, ed essere nel contempo percettori di una lingua nuova, ma antica allo stesso tempo che deve essere riconoscibile ed autentica. Nel continuare il mio percorso di ricerca storiografico posso dire che a metà degli anni Ottanta, più precisamente nel 1985, tre critici d’arte, che assieme ad Achille Bonito Oliva sono stati tra i lettori più attenti del panorama artistico italiano degli anni Settanta, mi riferisco a Renato Barilli, Francesca Alinovi e Roberto Daolio. Ad una prima veloce analisi, la mostra Anniottanta assume un aspetto eterogeneo, i lavori degli artisti vengono catalogati, in una miriade di piccoli gruppi, categorie, etichette, che dovrebbero, secondo i curatori, fare capo ad un unico grande concetto unificatore, il postmoderno . Proprio quest’ultimo costituisce uno dei termini più ricorrenti nella critica di quegli anni, assieme agli aggettivi nuovo e magico, ai suffissi, post- e trans- ed ai neologismi transavanguardia, citazionismo, anacronismo ecc.. Per ogni termine coniato esiste un critico d’arte, per ogni gruppo esiste una mente unificatrice che si fa portatrice dei messaggi e della causa degli artisti scelti. Forse mai come nel periodo compreso tra la metà degli anni Settanta e il primo lustro degli Ottanta le figure del critico d’arte e dello storico dell’arte si avvicinano a quella del talent-scout. Il desiderio di un nuovo diverso che non sia una mera ricerca formale legata all’arte per l’arte, che non sia fredda, prettamente cerebrale ma divertita, forse impegnata, e che restituisca un ruolo di primaria importanza al pennello, induce gli artisti a far uscire dal cassetto i tubetti di colore e a proporsi nella nuova veste di pictores. Certo la pittura non ha mai smesso di essere frequentata nella seconda metà del secolo, ma la sua presenza è stata comunque legata ad una generazione formatasi negli anni ‘30, ‘40, ‘50, che ha perpetrato il proprio linguaggio fino a tarda età senza mai rinunciarvi, mi riferisco ai vari Guttuso, Sassu, Treccani, Vedova, Guidi, Morlotti ecc., ma il lavoro svolto in occasione della mostra Anni ottanta, tentava di mettere in vetrina una generazione che uscisse dall’atmosfera concettuale degli anni 60’-70’ e che nell’uso della pittura si ponesse nuovi intenti. Nel pieno degli anni Settanta, sembra riaffiorare un desiderio che già aveva caratterizzato le correnti avanguardistiche della prima metà del Novecento. Infatti, anche se associamo al termine postmoderno il periodo degli anni Settanta e Ottanta, da un punto di vista analitico filosofico, esso trova origine e giustificazione solo prendendo in considerazione tutti gli ultimi 50 anni della nostra storia. Si può dire che il pensiero postmoderno è stato introdotto dalla traduzione dei testi dei filosofi che hanno maggiormente  influenzato il postmoderno,  soprattutto lo si evidenzia nei due saggi ‘ Tra presenza e assenza due ipotesi per l’età postmoderna’ di Renato Barilli nel quale vi è una puntuale analisi del pensiero filosofico internazionale in Italia ha rappresentare questo sono stati sicuramente Gianni Vattimo e Aldo Rovatti . Il pensiero debole di Vattimo e Rovatti, si presenta come il desiderio di contrapporre al pensiero cosiddetto forte, che regge gran parte dell’ultimo Nietzsche e che ha influenzato gran parte della cultura occidentale del ‘900, un pensiero diametralmente opposto che fa della debolezza un atto di forza,un pensiero già presente nella filosofia nietzschiana, ma che, calato nell’era postmoderna, assume una valenza guida. Nel cammino difficile verso il nichilismo l’uomo apprende la capacità di rompere le proprie catene con un pensiero che cerca l’autoaffermazione attraverso la negazione del pensiero precedente. Non necessariamente, spiega Vattimo, il contrapporsi alla filosofia del passato porta a soluzioni edificanti. Il pensiero debole si pone come atto conoscitivo attraverso la distruzione dell’atto forte dell’unità, attraverso il superamento dell’uno a cui si modella il conoscere, ecco il punto di forza da indebolire . Il pensiero debole sembra quasi trovare uno dei punti di maggiore ispirazione nella forza della relatività, del dubbio. Postmoderno, pensiero debole, molteplicità contrapposta ad individualità, globalità, implosione, come tutto questo può legarsi all’arte, e come l’arte ha risposto a questi stimoli. Con le teorie di Sergio Lombardo nel 1977 fu  il punto di partenza culturale del Gruppo di Piombino quando Nardone  e Pietroiusti  erano legati al Centro Studi della Psicologia dell’Arte “Jartrakor”, volendo superare la fase stanca e di declino della ricerca pura, in quegli anni, ha inteso restituire centralità alla sperimentazione. Ha puntato a cogliere tra gli spettatori esperienze imprevedibili, quindi eventuali. L’evento è diventato, così, elemento primario nella realizzazione dell’intero processo artistico. L’opera, nella sua fisicità, ha perso qualsiasi valore, senza la sua complementare unità: il fruitore. Il Gruppo di Piombino, pur collocandosi in una posizione di continuità con le teorie del centro “Jartrakor”, è andato oltre. Mentre gli artisti eventuali operavano in un luogo deputato all'arte, ristretto e chiuso, quasi un laboratorio, i piombinesi trasferivano il loro lavoro all'aperto in un vero e proprio spazio pubblico. Mentre nel primo caso lo stimolo era già noto agli spettatori e perdeva pertanto la sua efficacia, nel secondo non doveva essere dichiarato a priori, ma doveva agire senza che il pubblico ne avesse la consapevolezza. Anche l’obiettivo dei piombinesi corrispondeva a quello dell’ Enventualismo che dice : “Che l’arte è un campione rappresentativo, o un modello rappresentativo dei più caratteristici valori di una cultura. L’arte varia al variare di questi valori. Lo scopo dell’arte è proprio quello di esprimere dei valori latenti che tentano di affermarsi caratterizzando una cultura storica. Quello che rende arte un oggetto è dunque il fatto che quell’oggetto è stato scelto a rappresentare certi valori, o sistemi di valori, che non erano mai stati rappresentati prima nella storia e che sono ritenuti una novità, o che comunque sono ritenuti caratterizzanti per una cultura nascente, che si vuole affermare nella storia dell’umanità e che vuole, attraverso la rappresentazione di quei valori nuovi, costruirsi un’identità storica originale. Ciò vale anche se questi valori nuovi che si vogliono affermare sono valori anacronistici. La cultura che si riconosce nei valori anacronistici, infatti, si vuole affermare nella storia come un’idealizzazione di valori del passato. E’ chiaro che questa idealizzazione non può ripetere il passato, ma rappresenta il punto di vista di una cultura attualmente emergente, che idealizza il passato e che perciò rifiuta la direzione verso la quale è orientato il progresso. Ciò che confuta con maggiore evidenza le teorie statiche dell’arte, quelle che ritengono sia l’arte ovvero incommensurabile ed eterna e senza progresso, ma orientata verso eterni e immutabili valori umani, perciò apprezzabile secondo il metodo del tutto o nulla, se è arte, allora è incommensurabile ed eterna, altrimenti non è arte è proprio il fatto che, per quanto si vogliano perseguire valori anacronistici, l’arte è sempre databile storicamente. L’incommensurabilità semmai è dovuta alla diversità e originalità degli scopi delle diverse culture storiche. Se gli scopi culturalmente condivisi sono raggiunti, gli oggetti che rappresentano storicamente questo raggiungimento sono arte, quelli che continuano a raggiungere gli stessi scopi già storicamente rappresentati, magari perfezionandoli tecnicamente, sono oggetti di artigianato. Gli oggetti di artigianato sono utili, ma non sono modelli rappresentativi dei nuovi valori che generano una nuova cultura storica. Cambiare era il centro d’azione e d’uso e ciò che contava, per loro, era sempre il processo innescato da uno stimolo proposto a spettatori inconsapevoli”. Stefano Fontana in ‘Oggetti Smarriti’ del 1987 racconta con la sua opera che:  In una piccola cittadina della Toscana, caratterizzata da un notevole flusso turistico, l'artista ha disseminato “a random” circa 500 rettangolini di legno  di diverso colore. Tutti i rettangolini recavano sulla faccia posteriore una piccola piastra magnetica. Nella piazza principale punto di passaggio obbligato dell'itinerario turistico era stata collocata in bella vista una lavagna metallica. Sui muri della cittadina erano inoltre stati affissi dei manifesti che raffiguravano alcuni rettangolini sormontati dalla scritta “Oggetti Smarriti”. Connettendo tra loro gli elementi descritti, i turisti hanno preso ad attaccare sulla lavagna i rettangolini che casualmente avevano trovato. Ogni ora circa, senza farsi notare, l'artista sostituiva la lavagna con una nuova. Dal momento che questa operazione ha avuto il corso di una intera giornata, ne sono risultate dieci configurazioni successive rese stabili dall'artista. I rettangolini, i manifesti e la lavagna fondano un sistema di possibilità virtuali praticamente infinite entro cui l'opera può essere realizzata. Allo stesso tempo questi elementi definiscono i termini di una situazione-problema che l'artista introduce, in maniera inapparente e non esplicita, nel clichè di una visita turistica. La realizzazione dell'opera scaturisce dal rovesciamento di un comportamento largamente codificato. Essa va infatti a compimento solo se, da una pratica di appropriazione ed eventuale restituzione dietro ricompensa, la situazione creata dall'artista riesce ad ottenere una condotta di restituzione gratuita. Nel dettaglio, è probabilmente il piacere estetico nel comporre delle forme multicolori sulla lavagna a consentire il superamento dell'interesse pratico di appropriazione. Ed è proprio questa emancipazione del comportamento indotto dal principio di utilità che regola la vita quotidiana  che la realizzazione dell'opera assume a suo necessario presupposto a costituire il senso ultimo di questo lavoro di Stefano Fontana. Nel 1991 Stefano Fontana realizzò l'operazione Fatanon. L'idea era quella di simulare la campagna pubblicitaria di lancio di una inesistente linea di prodotti cosmetici, chiamata appunto Fatanon. L'artista mise a punto alcuni dispenser che mettevano a disposizione del pubblico i prodotti cosmetici e invitavano a provarli su delle teste e delle mani di gesso in essi inserite. Questi dispenser, affiancati da un manifesto che riproduceva la testa di manichino sottesa dalla scritta "Fatanon" in caratteri cubitali, furono istallati nei reparti di profumeria di alcuni supermercati. Dopo un certo periodo di tempo, Fontana ritirò i dispenser e li espose in una galleria con le tracce di smalti, rossetti, etc. che le prove del pubblico avevano lasciato sulle teste e le mani di gesso. L'elemento incongruo, inserito nel contesto di un'apparentemente normale campagna pubblicitaria, era senz'altro rappresentato dalle teste di gesso che sormontavano i dispenser e che richiamavano piuttosto la fisionomia dell'extraterrestre del film di Spielberg. Oltre a ciò. come forse già notato, il nome dell'inesistente marca di cosmetici celava l'anagramma del cognome dell'artista. Questa operazione catturava l'espressività involontaria presente nel modo in cui ognuno aveva provato i prodotti sulle teste, generando una scultura involontaria collettiva, secondo una dinamica paragonabile a quella del cadavre esquis surrealista. Le strategie di contrasto, messe a punto dal movimento subliminale diffuso nei confronti delle affissioni pubblicitarie, assumono spesso la forma dell'attacco diretto. Molte delle etichette adesive prodotte - la già citata ‘Non è vero, tutto il contrario è vero, inutile, vergogna’, etc. - possono tranquillamente essere giustapposte ai messaggi pubblicitari stigmatizzandone il contenuto. Una soluzione più radicale sembra tuttavia quella proposta dalla disordinazione Pubblicità legale. Nell’ opera  ‘Pavimenti 1987’ : “La prima operazione di Salvatore Falci consisteva in una serie di lastre di vetro, uniformemente ricoperte da uno strato di tempera nera, che venivano sovrapposte ad alcuni tavoli all’interno di spazi pubblici (pub, sale d’aspetto, aule di scuola, ecc.). Le lastre raccoglievano i segni che la gente lasciava su di esse a graffito. Falci le esponeva quindi ribaltate, sottolineando così il proprio interesse per l’aspetto grafico, piuttosto che per quello semantico, delle produzioni registrate. L’evoluzione successiva del suo lavoro ha ulteriormente precisato questo orientamento. Egli ha infatti messo a punto delle superfici che gli consentono di raccogliere – cristallizzandoli nella fissità della scrittura- i segni che le nostre azioni consuetamente lasciano nel pavimento” scrive Domenico Nardone che prosegue “Tanto nel caso dei tavoli che in quello dei pavimenti che accentuano il carattere involontario del fenomeno preso in esame l’operazione di Falci porta alla luce, nel contesto delle azioni che maggiormente riteniamo svolgersi sempre uguali a se stesse, differenze, a volte macroscopiche, che possono essere ricondotte a specifici situazionali o ambientali”. Nota inoltre Nardone che l’aspetto che Falci sembra maggiormente condividere con i suoi allora compagni di strada, Stefano Fontana, Pino Modica e Cesare Pietroiusti, è quello del coinvolgimento del pubblico nel processo di produzione dell’opera. Pubblico come  autore. “Le superfici di Falci rilevano le tracce di un fenomeno tra i più involontari e automatici immaginabili, quale quello rappresentato dalle azioni che normalmente si svolgono sul pavimento. Eppure le vistose differenze di grafia e di colorazione che emergono nel raffronto tra il pavimento di un ambiente e quello di un altro, stabilendo un nesso di relazione tra la tipologia delle azioni e le caratteristiche proprie dell’ambiente e delle situazione in cui hanno luogo, ne rivelano la non casualità” (Nardone). La rilevazione è diventata rivelazione. (Laura Cherubini). Mentre Domenico Nardone dice su l’opera di Pino Modica : L’artista come “detective universale”, come lo definisce Renato Barilli, il contesto dell’intervento come “luogo del crimine”: questo l’approdo cui giunge Pino Modica in questa ultima fase dell’esperienza piombinese. Lo dimostra l’opera presentata alla galleria Alice in occasione della mostra Storie le lastre di vetro del bancone di un bar, retroilluminate, evidenziano le sagome degli oggetti che vi sono stati poggiati. La metafora dell’indagine poliziesca è calzante, e supportata dalle parole dell’autore l’oggetto ha bisogno di un alibi per inserirsi nella realtà del quotidiano, per non essere riconosciuto come straniante; l’artista agisce come detective che circoscrive e analizza gli indizi; le sagome degli oggetti e le impronte prese sul ‘luogo del delitto’ sono appunto gli indizi, portatori di un’istanza di relazione, di un rapporto instaurato tra l’individuo, l’oggetto, lo spazio, frammenti di un’esperienza quotidiana, di un vivere il delitto, infine, è quello operato dall’oggetto rispetto alla percezione dell’ignaro avventore, tratto in inganno, autore preterintenzionale, complice suo malgrado dell’artista nella sua delittuosa soppressione trasformazione degli aspetti ripetitivi dell’esperienza quotidiana. La ricerca di Modica scandaglia l’interazione tra individuo e macchina come avviene in LabyrinthBiliardino e Flipper e quella sulle Prove materiali. Infine Cesare Pietroiusti le sue opere : Sono riproduzioni ingigantite di piccoli comportamenti, azioni minuscole ed insignificanti di persone qualunque su oggetti qualunque. Quei lavori avevano alcune caratteristiche tipiche degli anni ottanta, perché grandi, costosi e curati nei particolari (e spesso apprezzati dai collezionisti…). La mia risposta alla ideologia “spontaneista” degli artisti neo-espressionisti era iniziata anche prima, a partire dal 1982 quell’anno pubblicai sulla “Rivista di Psicologia dell’Arte” un testo dal titolo Funzionalità ed estetica dello scarabocchio, dove era già esplicita una critica alla pittura anni ’80 e alla Transavanguardia. Forse si potrebbe dire che la mia era una reinterpretazione della critica che Sergio Lombardo aveva mosso, nei primi anni ’60, nei confronti dell’Action Painting. Le ricerche di Maria Lai impatteranno in maniera più che significativa sull’arte degli anni Novanta. Non è certo casuale, infatti, la mia scelta di inserire il Gruppo di Piombino subito dopo un breve approfondimento su Legarsi alla montagna anche se Maria Lai, pur lavorando su un piano poetico più che politico, è considerata una vera e propria pioniera dell’Arte relazionale, i cui presupposti si rintracciano anche nelle ricerche del Gruppo di Piombino. Infine il percorso artistico di Maria Lai attraversa un secolo di conflitti e contraddizioni, che l'artista ha affrontato con la determinazione di lasciare il segno in un mondo prevalentemente maschile. Nel corso della sua carriera, ha cercato e trovato una propria dimensione indipendente, spesso a costo dell'isolamento e di un senso di alterità. La mostra mette in luce il suo percorso innovativo, iniziato in Sardegna, dove è nata e dove è tornata più avanti nella sua carriera.
Questo viaggio comprende l'America, che Lai visitò nel 1968: un focus centrale della mostra saranno i dipinti che simboleggiano il passaggio di Maria Lai all'arte astratta, opere che l'artista portò con sé durante i viaggi tra Montreal e New York, sperando - anche se non si è mai concretizzato - di presentarle al pubblico americano. Queste opere, attualmente conservate in Canada e negli Stati Uniti e mai esposte prima, sono esposte in stretto dialogo con un'importante collezione di dipinti degli anni '50. Tra queste c'è Gregge di pecore , realizzata nel 1959, un'opera sorprendente di 3 metri per 1,2 metri, conservata dal Consiglio Regionale della Sardegna e mai esposta altrove. Paola Mura, Direttore Artistico di Magazzino e curatrice della mostra, ha affermato: " Maria Lai. Un viaggio in America” esplora il viaggio creativo e personale di Lai, con la Sardegna come punto di ancoraggio e come fonte inesauribile di ispirazione. Da queste radici profonde, Lai ha ampliato la sua esplorazione artistica, intrecciando le tradizioni sarde con i principi dell'Arte Povera. In questo processo, si è impegnata nei dibattiti culturali e sociali del suo tempo, abbracciando le influenze degli artisti e degli scrittori americani che ammirava. Queste combinazioni uniche rendono Lai un'artista straordinariamente rilevante nel mondo di oggi, dove la fusione di tradizioni storiche, filosofie diverse e immagini contrastanti è parte integrante della nostra vita quotidiana. Sono profondamente orgoglioso di presentare la prima retrospettiva statunitense del suo lavoro presso Magazzino Italian Art, dove l'eccezionale collezione di Arte Povera del museo fornirà il contesto ideale per evidenziare il contributo unico di Maria Lai."
In conclusione Maria Lai ha una straordinaria capacità di saper intrecciare tradizione e innovazione in modo irripetibile con straordinaria immediatezza. Le sue opere parlano a un pubblico vasto, usando un linguaggio visivo che, pur profondamente radicato nella cultura tradizionale, si apre a sperimentazioni capaci di dialogare con le sensibilità contemporanee. La sua arte è come un intreccio di memorie, legami, trasformazioni e tensioni verso l’ignoto.  Maria Lai racconta storie universali, comunicando emozioni e riflessioni che toccano chiunque le osservi, indipendentemente dal contesto storico o geografico. Il successo di Maria Lai va oltre la sua maestria tecnica che risiede nella sua abilità di veicolare un potente messaggio, senza intimidire, ma anzi coinvolgendo lo spettatore. La sua arte è unica ed apre spazi di interrogazione, in cui ciascuno può cercare il proprio significato, in dialogo con il mondo e con gli altri, come in un gioco. 
 
Biografia di Maria Lai
Nata Ulassai nel 1939 lascia la Sardegna per frequentare il Liceo Artistico di Roma dove studia con Marino Mazzacurati e Alberto Viani. Si trasferisce in seguito a Venezia dove è allieva di Arturo Martini all’Accademia di Belle Arti. Nel 1945 torna in Sardegna dove rimane sino al 1954: insegna a Cagliari e riprende l’amicizia con lo scrittore Salvatore Cambosu. Tornata a Roma, nel 1957 tiene la prima personale alla Galleria dell’Obelisco, ma l’attenzione ricevuta dalla critica non soddisfa l’artista. Inizia un intenso periodo di riflessione artistica in stretto dialogo e collaborazione con poeti e scrittori come Giuseppe Dessì, grazie al quale riscopre il senso del mito e delle leggende della sua terra, sperimentando anche con strumenti e materiali della tradizione artigianale sarda. Nel 1971 espone i primi “Telai” alla Galleria Schneider di Roma. Negli anni Ottanta si dedica alle “Tele cucite”, ai “Libri cuciti” e alle“Geografie”, mentre, contemporaneamente, attua le prime operazioni sul territorio. Nel 1981 a Ulassai realizza l’azione corale Legarsi alla Montagna anticipando i temi e i metodi dell’arte relazionale. A partire dagli anni Novanta dà vita a una serie di interventi di arte pubblica nel paese natale di Ulassai dove, nel 2006, viene aperto Stazione dell’Arte, museo di arte contemporanea a lei dedicato. Muore a Ulassai nel 2013.  Nel 2017 importanti riconoscimenti sono tributati alla sua opera alla 57a Biennale di Venezia e a documenta14 a Kassel; nel 2019 il Museo MAXXI di Roma, in collaborazione con Archivio Maria Lai e Fondazione Stazione dell’Arte, le dedica una prima grande retrospettiva in occasione del centenario della nascita.
Magazzino Italian Art di New York
Maria Lai. Un Viaggio in America
dal 15 Novembre 2024 al 28 Luglio 2025
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 11.00 alle ore 17,00
Martedì, Mercoledì e Giovedì Chiuso 
 
Maria Lai, foto di Daniela Zedda-2008 Archivio Daniela Zedda. Ph. Riccardo Spignesi
Maria Lai, Ovile, 1959. Mixed media on canvas, 50 x 70 cm. MAN – Museo d’arte della provincia di Nuoro. Photo by Confinivisivi, Pierluigi Dessì. © Archivio Maria Lai, by Siae 2024/Artists Rights Society (ARS)
Maria Lai, Notturno n.2, 1968. Oil or acrylic, mixed media on linen, 15 x 15 cm. Private Collection. Photo by Richard-Max Tremblay. Courtesy ©Archivio Maria Lai, by Siae 2024/Artists Rights Society (ARS)
Maria Lai, Voce di infinite letture, 1992. Cotton thread, ink, canvas, 25 x 16 x 5 cm. Magazzino Italian Art Foundation. Photo by Marco Anelli © Archivio Maria Lai, by Siae 2024/Artists Rights Society (ARS)
Maria Lai, Li trammi, 2006. Mixed media, 80 x 80 x 10 cm. Magazzino Italian Art Foundation. Photo by Marco Anelli. ©Archivio Maria Lai, by Siae 2024/Artists Rights Society (ARS)