Giovanni Cardone Giugno 2025
Fino al 21 Settembre 2025 si potrà ammirare al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea Torino la prima retrospettiva dedicata all’artista in un museo italiano e la prima grande esposizione dopo la sua recente scomparsa- ‘Rebecca Horn – Cutting Through the Past’ a cura di Marcella Beccaria. Il progetto espositivo nasce dalla cooperazione tra il Castello di Rivoli e Haus der Kunst, Monaco di Baviera, a seguito della personale dell’artista organizzata dalla stessa istituzione nel 2024. La mostra vuole riconosce il ruolo fondamentale di Rebecca Horn nello sviluppo della pratica artistica contemporanea, attraverso opere che negli anni hanno dato vita ad un inquietante teatro performativo, nel quale sono protagoniste tematiche fondamentali quali tempo, memoria, desiderio e relazioni di potere. Il lavoro di Rebecca Horn propone un inscindibile intreccio tra l’umano e il meccanico e anticipa problematiche al centro dell’attuale dibattito culturale, in un contesto definito da tecnologie e macchine che tendono a diventare nostre estensioni. In esposizione oltre 35 opere dell’artista tra installazioni, sculture, video, film e disegni che si estendono dagli esordi negli anni sessanta a opere recenti, con importanti prestiti di opere raramente esposte provenienti dalla Fondazione Moontower, originariamente istituita in Germania dalla stessa artista. In una mia ricerca storiografia e scientifica sulla figura di Rebecca Horn apro il mio saggio dicendo:  Tantissime volte ho recensito Rebecca Horn posso affermare che l’arte nasce dall’individualità per poi offrirsi al mondo esterno: essa porta in una superficie visibile idee, capacità, messaggi dell’interiorità. È una sorta di specchio dell’intera società, intesa a livello generale come una collettività di soggetti regolata da dei principi comuni e da dei rapporti interpersonali di varia natura, e come tale essa riflette sempre il contesto in cui si trova. Tuttavia è soltanto da un certo momento della storia che ha iniziato a riflettere come un individuo percepisce il contesto attorno a lui, ovvero a manifestare la visione originale del mondo propria dell’artista. Il termine Performance Art si riferisce quindi a una forma d’arte che ha avuto origine con le avanguardie storiche europee ma che successivamente si è sviluppata negli Stati Uniti dove ha assunto, tra gli anni cinquanta e sessanta, un carattere più definito attraverso il lavoro di artisti come Allan Kaprow che conia il termine Happening. Rebecca Horn nacque a Mischelstadt, nel comune dell’Assia in Germania, il 24 marzo Rebecca Horn nasce a Mischelstadt, nel comune dell’Assia in Germania, il 24 marzo 1944 ed è una scultrice, regista e performance artist. La Horn aperta verso diversi linguaggi artistici che vanno dalla performance alle istallazioni, è conosciuta soprattutto per le sue estensioni corporali, prolungamenti di parti del corpo grazie a determinati oggetti. Le sue opere più famose sono Einhorn (Unicorno), un vestito dotato di un lungo corno che si proietta in alto partendo dalla testa, e Pencil Mask (Maschera di matite), una maschera con diverse matite che ne fuoriescono. I temi che affronta sono di carattere universale: l’amore, la difficoltà di mantenere la salute fisica e psicologica, il senso della caducità delle cose. Spende l’infanzia libera e felice in un villaggio non lontano dalla foresta nera, a contatto con la natura, con gli animali, senza eccessive attenzioni da parte dei genitori ma in compagnia di una governante rumena che le insegna a disegnare. Il disegno diventa così per lei un linguaggio d’espressione per esprimere se stessa, il quale considera molto più libero di quello orale e soprattutto un mezzo per riempire uno spazio abitabile, difatti ancora oggi una delle sue forme artistiche predilette. La bellezza vicino alla natura, una speciale sensibilità che avrebbe sviluppato parametri radicali una volta scomparso il padre, isolamento e malattia avrebbero significato un importante strumento culturale per l’educazione di un’artista tanto particolare qual è oggi Rebecca Horn. La sua arte dall’infanzia in poi viene inestricabilmente legata non solo alla bellezza, ma ad uno speciale modello di libertà, con stili di vita non certo insoliti al quale lei avrebbe dovuto lavorare duramente per fare in modo che quella vita fosse sua. Un risultato che non sempre le ha dato soddisfazione. La letteratura infantile di testi particolari quali “Il matrimonio chimico di Christien Rosenkreutz” di Johan V. Andreae e “Locus Solus” di Raymond Roussel la avvicinano al mondo dell’alchimia, dell’assurdo, e alle macchine surrealiste. Ciò si sarebbe rivelato importante per la sua vita d'artista dopo la fine della seconda guerra mondiale: la Horn racconta che, dopo il conflitto, dovunque andasse non poteva parlare tedesco, in quanto si sentiva odiata perché tedesca. Si appassionò al disegno perché non doveva "disegnare in tedesco, francese o inglese", ma solamente disegnare. Durante il periodo trascorso in malattia tutti i suoi disegni prodotti riguardano il suo corpo malato, trasformato in una specie di lettera agli amici, un messaggio al mondo esterno. In questo limbo di tempo e di spazio, in cui rimane separata da tutto e da tutti, si trova a sperimentare una nuova relazione con ciò che la circonda. Il ritorno a Barcellona significa anche la sua prima personale in Spagna, e assume nuovi significati. Affermata protagonista della scena d’arte di questi ultimi trent’anni, Rebecca Horn è stata di quelle artiste poco conosciute dal pubblico italiano. La sua teoria della estensione è una riscoperta del nostro corpo e di ciò che ci circonda, un modo di analizzare e ripristinare l’equilibrio tra spazio e corpo attraverso materiali morbidi e non nocivi come stoffe e piume, conferendo al corpo dell’artista delle nuove forme inaspettate e nuovi significati. Il tema principale che domina tra le sue opere è la riflessione sul corpo in tutti i suoi aspetti. La scelta di utilizzare materiali delicati come stoffe e piume, non dannosi, è motivata anche dalla sua esperienza biografica. La sua crescita personale e professionale ruota intorno alla creazione di un mondo interno che deve combattere con le pressioni esterne. Forse è per questo che in tutti i suoi lavori è presente il corpo, i suoi simboli e le sue metafore, ma anche la memoria di esso attraverso i sensi, e gli organi. Non è sempre il corpo ad essere visibile, ma la possibilità di vedere come un corpo, di sentire come un corpo. Nelle grandi installazioni di Rebecca Horn interagiscono vari oggetti: vasi trasparenti riempiti di liquido (colore, latte) ma anche lame, martelletti, piume, oggetti delicati e pericolosi frequentemente animati da motori meccanici. Il movimento sembra letteralmente dare vita alla struttura, avvertiamo passaggi nervosi, tranquilli, pause che sembrano tradurre in una danza lieve le relazioni umane. Le sue installazioni   raccontano   difatti   avvicinamenti,   interruzioni,   minacce,   seduzioni   e metaforicamente   introducono   temi   di   attualità   con   cui   l’artista   si   confronta   senza concedere all’illustrazione o alla cronaca. L' opera più famosa tra tutte è senza dubbio " Einhorn" (il titolo è anche un gioco di parole sul nome dell'artista), il quale lega la sua esperienza di malattia a quella di Frida Kahlo, attraverso imbracature e fasciature; strutture che costringono e allo stesso tempo liberano. Limitano il corpo e nel contempo gli concedono nuove possibilità: su queste basi si sviluppano tutti i primi lavori della Horn, la cui ricerca artistica proseguirà con la realizzazione di sculture cinetiche, che lentamente prescindono da e rimpiazzano il corpo. In questa estensione si tratta un cappello costituito da una sorta di antenna, elemento ispirato alla protuberanza di uno dei più affascinanti animali fantastici, l’unicorno. Non è una semplice estensione corporea, attraverso l’unicorno si intende “sentire di più”.  Se si pensa che questo animale fantastico era nel Medioevo il simbolo per eccellenza di castità, innocenza e purezza, è naturale capire la scelta dell’artista: per “sentire di più” si intende riuscire a capire in un modo più intenso, con una concentrazione maggiore. Questa sensibilità è tipica, secondo i racconti leggendari medievali, degli unicorni, i quali possono essere calmati soltanto da una vergine, ovvero quel tipo di donna non sopraffatta da urgenze domestiche per via dell’assenza di un uomo, una mancanza che si traduce in concentrazione, dunque in un contatto maggiore fra essere umano e mondo circostante. Il percorso di Rebecca Horn mostra una profonda coerenza logica, per la quale ogni cosa, appena modificata nel suo uso guanti con le dita lunghissime, penne d’uccello su glabre guance umane, ventagli di carta usati come ali) assume una sfumatura inattesa, diventando metafora concreta di qualcos’altro poco visibile come un equilibrio o una ricerca. Uno dei primi sensi a venire in aiuto alla vista, quando dobbiamo orientarci, è il tatto. Se ci troviamo in una stanza buia, apriamo le braccia per sondare lo spazio che ci circonda, valutare le distanze, evitare come possibile gli inciampi. Con Finger Gloves (1972), Rebecca Horn mette in questione la collaborazione tra vista e tatto nella nostra percezione del mondo: questi guanti sono leggeri, si possono muovere senza sforzo, raggiungono gli oggetti più lontani e permettono di mantenere una certa distanza dalle cose. La relazione con ciò che ci circonda è alterata: è come se le mie dita potessero essere infinitamente più lunghe, dando l’illusione alla mente che io stia veramente toccando ciò che invece solo le estensioni sfiorano. Con   queste   estensioni  quello della   Horn   diventa   un   corpo   sensoriale   all’ennesima potenza  ma completamente limitato. La lunghezza delle dita in questa performance era concepita in modo che il soggetto, stando al centro della stanza, potesse toccare due muri opposti nello stesso momento. Il passo successivo, nella ricerca artistica e intima della Horn, è fatto verso gli altri. Nel tentativo di annullare o almeno domare la sua solitudine, la comunicazione con l’altro ricomincia, attraverso forme che ricordano (e non ancora sostituiscono) un corpo. Per esempio, le sue maschere di penne hanno a che fare con la vicinanza e l’intimità  con quel che ne rimane, ma anche con quella che si vuole ripristinare. Una maschera, infatti, protegge la mia identità; allo stesso tempo, però, e proprio in virtù di questa protezione, blocca la mia conoscenza dell’altro e la mia esperienza del mondo viene fisicamente limitata:   indossando   la   Cockfeather   Mask   (1973)   “la   mia   vista   è   occupata   dalle penne,per vedere il suo viso devo girare la testa di lato, come un uccello”.  Una maschera che si può aprire e può accogliere, in senso conoscitivo ed erotico: la Cockatoo Mask (1973), con le cui “penne accarezzo il viso della persona che mi è vicina lo spazio intimo tra noi è riempito da sensazioni tattili”. Queste prime opere concretizzano il tentativo incessante di Rebecca Horn di mettere al e nel mondo, protraendola verso l’esterno, come se fosse un arto esplorativo, la propria interiorità sofferta, facendo della realtà un processo di cura, in un interscambio per il quale il modo in cui percepiamo il mondo diventa il modo in cui questo esiste per noi e noi esistiamo in esso. Pencil Mask (Maschera di matite) è un'altra delle sue body extension, composta da sei cinghie orizzontali e tre verticali. Dove le cinghie si incontrano sono inserite delle matite. Una protesi da porre sul volto, usata come body extension per interventi creativi. Anche Feather Fingers (Guanti di piume, 1972) è un'opera incentrata sull'illusione del tatto e sulle mani. Una piuma viene attaccata a ciascun dito con un anello di metallo, per far sì, nelle intenzioni dell'artista, che la mano diventi "simmetrica (e sensibile) come un'ala di uccello". La Horn, toccando un braccio con le piume attaccate alla mano opposta, sperimentò la sensazione di sentir toccare il braccio dalle dita della mano opposta (e di provare la sensazione anche nelle dita), pur essendo, in realtà, le piume a toccare   il   braccio.   Secondo   la   Horn,   in   questa   opera   "è   come   se   una   mano, improvvisamente, diventasse disconnessa dall'altra, come se si trattasse di due esseri senza nessun collegamento. Dalla fine degli anni sessanta Rebecca Horn si sposta dal tema del corpo a opere più narrative che sfociano in un esplicito amore verso la narrazione cinematografica. I film come successivamente le installazioni, danno modo a Rebecca Horn di integrare oggetti e movimento, l’azione e le cose fanno parte di una nuova struttura semantica in cui l’artista accosta il proprio immaginario visivo a trame simboliche, emotive, non lineari. Sono mondi abitati da personaggi-simbolo come il musicista, l’attrice, la ballerina, l’infermiera,  di cui  ognuno  è un prototipo psicologico  o fantastico,  trame in  cui i protagonisti vivono in realtà fittizie ed isolate dal mondo. Infine ci fu l’incontro tra l’artista e Napoli dato che Rebecca Horn fece visita ad una coppia ultranovantenne nella loro casa della Sanità, al vico Lammatari. Qui conobbe il   culto delle anime del Purgatorio, anime ignote e abbandonate, i cui  crani  e ossa  sono state ammassate  negli anni al Cimitero delle Fontanelle  e   dove   i   devoti   adottano   un   teschio   (capuzzella)   prendendosene   cura lucidandolo e pregando per lui. L'opera fu nominata Spiriti di Madreperla, è costituita da 333 teschi fusi in ghisa (anche se alla fine dell'esposizione se ne contavano meno, in quanto alcuni di essi furono trafugati) che rappresentano i spiriti del purgatorio, piantati nel selciato della piazza. Sulla piazza sono inoltre sospesi 77 cerchi al neon di colore madreperla, una sorta di aureole che sovrastano il luogo muovendosi in aria tra terra e cielo, in contrasto con i teschi.  All’interno  del   contrasto   si   nasconde   il   vero   significato   che   la   Horn   ha   attribuito all'opera.  Alcuni teschi  dell'opera oggi  fanno  parte   di  un'altra  installazione, intitolata Spiriti, presente al Museo Madre di Napoli. Infine posso affermare che Rebecca Horn era un artista  che sperimentò questa sensazione di delusione e di perdita quando disse di voler continuare ad andare a scuola a meno che la madre non le facesse una coperta fatta con le ali di farfalla, alla fine scoprì che le ali non erano vere, solamente ricamate. L’inizio della ribellione, del rifiuto del valore di facciata, era un tentativo di cambiare le cose, di filtrarle attraverso la nostra  esperienza,  il  nostro  corpo.  Un certa passione è presente nel suo lavoro, nonostante l’aspetto freddo, calcolato che si affida al funzionamento  di  macchinari frapposti tra l’opera, l’artista e il pubblico. Il lavoro sembra sempre complesso, high-tech, ma il risultato finale è facile da assimilare. Il percorso espositivo include iconiche macchine cinetiche come Pfauenmaschine (Macchina pavone), originariamente ideata dall’artista per la sua partecipazione a documenta, Kassel nel 1982, sino alla recente Hauchkörper (Corpo che respira), 2017, oltre alle installazioni monumentali Inferno, 1993-2024, Turm der Namenlosen (Torre dei senza nome), 1994, e Concert for Anarchy (Concerto per l’anarchia), 2006. Nella sezione centrale della mostra, i visitatori potranno osservare le performance di esordio di Horn attraverso i video Performance I, 1970-1972, Performance II, 1972 e Berlin (10.11.1974 – 28.1.1975), 1974 1975. Recentemente digitalizzati, saranno proiettati in grande scala come in un paesaggio continuo. Valorizzando il nucleo di importanti lavori di Horn presenti nella collezione del Castello, la mostra presenta inoltre il film Der Eintänzer (Lo gigolò), 1978, e le coinvolgenti installazioni Cutting Through the Past (Tagliando attraverso il passato), 1992-1993, l’opera che dà il titolo alla mostra, e Miroir du Lac (Specchio del lago), 2004. Dopo la mostra presso Haus der Kunst e la scomparsa dell’artista, la mostra al Castello pone inoltre particolare attenzione ai suoi disegni, pratica che la accompagna dagli esordi. Sono presenti rari disegni realizzati dal 1964 e soprattutto un importante gruppo di Bodylandscapes. Tra gli ultimi lavori di Horn, questi disegni pittorici di grande formato nascono da un processo performativo. La selezione evidenzia la ricorrente presenza di forme arrotondate e cerchi, interpretabili quali simboli del tempo concepito come entità ciclica e non lineare e allusioni ad una rigenerazione senza fine. Insieme all’installazione Das Rad der Zeit (La ruota del tempo), 2016, anch’essa presentata per la prima volta in un museo pubblico, queste opere manifestano la dimensione spirituale di Horn, in linea con una ricerca che comprende Piccoli Spiriti Blu, la grande opera pubblica che dal 2000 connota il paesaggio di Torino dall’alto della Chiesa di Santa Maria al Monte dei Cappuccini. In concomitanza con la mostra, in accordo con la Fondazione Moontower, un disegno a muro di Rebecca Horn sarà nuovamente visibile al pubblico dopo essere stato nascosto per molti anni. Si tratta di una notazione quasi segreta eseguita dall’artista durante la metà degli anni novanta mentre si trovava al Castello.
Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea Torino
Rebecca Horn – Cutting Through the Past
dal 23 Maggio 2025 al 21 Settembre 2025
dal Mercoledì al Venerdì dalle ore 11.00 alle ore 17.00
Sabato e Domenica dalle ore 11.00 alle ore 18.00
Lunedì e Martedì Chiuso 
Foto di Rebecca Horn Castello di Rivoli
Rebecca Horn – Cutting Through the Past
Veduta dell’allestimento al / Installation viewat Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino
CourtesyCastello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino
Foto / PhotoElaBialkowska OKNO Studio
© REBECCA HORN, by SIAE 2025