Giovanni Cardone Maggio 2023
Fino al 30 Luglio si potrà ammirare al Museo Luigi Bailo Galleria Civica del Novecento Treviso la retrospettiva dedicata ad Arturo Martini. I Capolavori a cura di Fabrizio Malachin e Nico Stringa. A 30 anni dall’ultima grande mostra trevigiana e a 75 dalla prima il Museo Bailo propone una imperdibile occasione per percorrere tutte le fasi della produzione artistica in esposizione 280 opere e 150 opere già presenti e di proprietà del Museo Bailo mentre le restanti arrivano da musei internazionali e collezioni private, che narrano dello scultore trevigiano dove gli studiosi formulano un nuovo punto sugli studi martiniani, evidenziando il ruolo e la modernità di Martini nella scultura europea del Novecento. Martini è stabilmente protagonista al Bailo, grazie all’ampia collezione di sue opere patrimonio del Museo, che datano dalla produzione giovanile agli anni della maturità dell’artista. Un’opera di Martini, l’Adamo ed Eva dalle dimensioni monumentali, funge da biglietto da visita del Bailo, grazie ad una parete finestrata che la lascia intravvedere, anche ai più distratti passanti sulla pubblica via.

È un capolavoro che Treviso si è conquistata grazie ad una pubblica sottoscrizione indetta nel 1993, giusto trent’anni fa. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Arturo Martini e della scultura del Novecento apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che bisogna partire dall’inizio, che in questo caso è la fine di un piccolo pamphlet scritto da uno scultore che ha gettato le basi teoriche e poetiche da cui provengono tutte le sperimentazioni del secondo dopoguerra. Bisogna partire da lui, Arturo Martini e dalle sue parole celeberrime che , con l’apparente intento di rinnegare la scultura, vogliono invece riportarla in alto, nelle galassie dell’arte pura e nobilissima, distante dalla mediocrità, oltre al soggetto, al di là della figurazione. Così, nel 1947, quando stava per essere pubblicata la seconda edizione del suo volumetto La scultura lingua morta (pubblicato nel 1945), Martini aggiunge un suo pensiero, come un’ultima confessione: “La statuaria è morta, ma la scultura vive” . Da queste sue ultime parole, si evince un’ inevitabile crisi della scultura intesa come statuaria tradizionale e ferma in una brusca battuta d’arresto: pare che la scultura, se vuole vivere, “debba morire nell’astrazione” . Arturo Martini, si chiede se la scultura, per diventare arte debba necessariamente diventare astrazione o se il suo processo si esaurisca nella figurazione, come un ciclo vitale naturale intrinseco a tutte le cose. Nonostante non si senta di aderire alla non-figurazione in maniera serena e disinvolta, Martini, nella sua inquietudine, intuisce anche tale possibilità e “ne tenta episodicamente la pratica” con la speranza di trovare un’estetica nuova: “una linearità architettonica, cioè semplicemente costruttiva”.Dai Colloqui sulla Scultura 1943-45, raccolti da Gino Scarpa, Martini rivela le prime regole di quella che sarebbe stata “la nuova arte”: “Elementi che mi ricordano il nudo, ma spezzettati, che permettano di cambiare argomento, come nelle poesie. Come si esigeva nella vecchia scultura l’unità, nella nuova scultura, questa unità dovrà essere data da una scomposizione che si ricompone, per leggi armoniche. La nuova scultura sarà fatta non da concavi e convessi, fenomeno melodico; ma per trovare la nuova legge sarà fatta per piani, rette e obliqui, che avranno il potere della interruzione per un nuovo argomento. Arte nuova: improvviso dei giuochi apparentemente astratti. Non escludo che le prime sculture nuove abbiano delle forme d’astrazione” , che astrazione non è, “perché, con l’abitudine, prenderà la visione dei fatti umani” . Emerge così l’idea di una scultura libera, moderna, contemporanea come lo è ogni arte nel suo tempo. E’ giunto il momento di svincolare la scultura dal soggetto figurativo, per liberare la materia oltre gli spazi consueti.

L’opera deve ora rispondere alle necessità del tempo e alle sue urgenze, cercando così nuove strade per elevarsi a quell’universalità tanto ambita da Arturo Martini. Il suo, è un sogno di dimensioni bibliche, in cui “la scultura vivente e cosmica non sia rupe, ma acqua e cielo” e che trasformi la creta “in mari di tempesta” , che sia “non uno stile ma una sostanza” , che non viva più di “vita parassitaria, aderendo come un rampicante alla superficie di un’immagine e assumendone le forma” , come se quella forma fosse la sua propria essenza. Martini, voleva che la scultura diventasse “un’insondabile architettura per raggiungere l’universale”. Sono dunque queste le conclusioni di un pensiero estetico maturato in poco meno di un trentennio da questo scultore, che già nel 1926, avvertiva i sintomi di un’imminente necessità di rinnovamento o forse di cambiamento. Egli era stanco delle statue, dei loro volumi che altro non erano che la conseguenza di un’immagine, negando così quello che potevano altrimenti comunicare, ovvero, dei valori assoluti. Era stanco della scultura che, biascicando un alfabeto ormai antico e sorpassato, volgeva lo sguardo verso un orizzonte posticcio come il piedistallo su cui credeva di ergersi, non sapendo che da esso era solo trattenuta e così, lentamente moriva, prostrandosi al nudo modello, alfiere delle tre dimensioni. Le tre dimensioni non bastano per la rinascita della scultura, perché essa è come la terra che trova il suo moto solamente nell’atmosfera che le gira attorno: questa è la quarta dimensione. Questo è l’anelito di vita di cui la scultura si deve impossessare, altrimenti il suo destino è di piegarsi ad una parlata che nessuno comprende diventando lingua morta. Il pensiero maturo di Martini sarà fondamentale per comprendere le ragioni della rinascita della scultura e in particolare della scultura ceramica in Italia, negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, in quanto, grazie all’estetica di questo scultore trevigiano,la scultura “da fatto sterile si trasformerà in grembo plastico, perché ogni cosa non sarà più riprodotta come un fatto avulso nello spazio e posato su un piedistallo, ma nel suo orizzonte poetico spostandosi ed esprimendosi nello spazio” . Queste parole quasi profetiche di Arturo Martini, si faranno materia attraverso un affascinante processo evolutivo, fatto di “corsi e ricorsi”, che porterà l’arte ceramica verso nuove linee espressive, verso soluzioni mirabolanti, raffinate e, a volte, sofferte; tutto questo grazie alle mani sapienti e amorevoli di grandi scultori e ceramisti che hanno scelto consapevolmente l’argilla come materiale privilegiato o che, da sempre, l’hanno posseduta come un genere. Alberto Martini nasce a Oderzo, paese agricolo all’estremo limite della provincia di Treviso, il 24 Novembre 1876 da Giorgio Martini e da Maria dei conti Spineda de Cattaneis. Il padre, pittore naturalista e copista di quadri antichi, lavora come insegnante di disegno all’Istituto Riccati di Treviso, dove la famiglia si trasferisce nel 1879. Se si esclude il milieu familiare sostanzialmente aristocratico – la madre proveniva da una antica famiglia nobile trevigiana – la formazione artistica di Martini è quella dell’autodidatta: egli impara i primi rudimenti del mestiere seguendo da vicino il lavoro del padre. A dispetto di quanto si è creduto per molto tempo, gli esordi di Martini non sono da imputare al disegno e alla grafica – arte in cui eccelse fin da giovanissimo – bensì alla pittura, con una serie di opere minori, spesso di piccolo formato, raffiguranti aspetti della campagna trevigiana e scene di genere realizzate con uno stile affine al più comune naturalismo. Per nulla interessato alla copia di capolavori antichi, specialità del padre, Martini mostra attrazione per l’ambiente della campagna trevigiana ritraendo fiumi, paesi, figure di contadini e paesaggi campestri: pittura come esercizio dal vero, in cui forte si sente l’influenza della tradizione tardo ottocentesca italiana ed europea di intonazione umanitaria. Un primo punto di arrivo di questa prima fase del lavoro di Martini è il dipinto Antica gualchiera trevigiana realizzato nel 1895, dove già si intravede l’interesse dell’artista per il superamento del puro dato sensibile. Come osserva Bellini: «solo apparentemente la raffigurazione dell’antica macchina tessile occupa l’interesse principale dell’artista. In realtà l’attento studio della luce che proviene scorciata da una finestra sullo sfondo e l’atmosfera ombrosa della scena, evidenziano come già Martini non cercasse più in queste opere una semplice rappresentazione del dato reale, quanto piuttosto una raffigurazione in chiave di valenza psicologica del significato allegorico della composizione stessa». La medesima tendenza è riscontrabile in numerosi altri lavori dello stesso periodo, in particolare nel lavoro del 1896 Lavandiera di campagna dove l’attenzione pare concentrata soprattutto nella resa di un’atmosfera dell’interno raffigurato, di un significato innanzitutto psicologico. A questi lavori se ne affiancano tutta una serie i cui titoli da soli sono sufficienti per rendere l’idea dei primi interessi e inclinazioni del nostro, diviso tra un generico naturalismo e vaghe suggestioni del lavoro, all’epoca moto diffuso e noto, di Millet: Giornata piovosa, Concimatura, La raccolta dello strame, oppure, Giovane contadina, o ancora Pecore, Il ritorno della falciatrice. Fino a questo momento l’influsso che Martini riceve dal contesto culturale del suo tempo appare per molti versi ristretto e limitato.

Al più, come si diceva, si può affermare che queste opere risentono in modo vago e indefinito di una certa tradizione pittorica italiana del tardo ottocento, come del resto era naturale, ma non molto altro. Eppure quegli anni a cavallo dell’ultimo decennio del XIX erano molto importanti per la cultura figurativa italiana: nel 1895 usciva il primo numero di una rivista molto importante e che sarà fondamentale per la formazione intellettuale Martini, «Emporium», diretta da Vittorio Pica, e nello stesso anno aveva luogo la prima edizione della Esposizione Internazionale della Biennale di Venezia, alla quale Martini esporrà con assiduità solo a partire dalla seconda edizione. Come spiegare allora questo apparente ritardo rispetto agli avvenimenti più rilevanti del periodo? Che tipo di vita doveva condurre Alberto Martini a Treviso? A queste domande ha offerto un’interessante risposta Arturo Benvenuti che nel suo profilo dell’artista presenta un Martini di temperamento aristocratico, legato all’elite locale, frequentatore di buoni salotti e poco propenso a lasciarsi coinvolgere dai circoli o dalle conventicole di artisti. «Non ha, o non vuole avere, non sente alcuna necessità, di stabilire rapporti di alcun genere con chi appartiene ad un mondo socialmente inferiore, anche se si tratta di artisti» scrive Benvenuti «non è documentata infatti nessuna comunione di vita e tanto meno di idee con gli altri artisti trevigiani, Gino Rossi, Arturo Malossi, Arturo Martini, ecc., i quali formavano la vera bohéme del tempo. Stando alle fonti documentarie e soprattutto alle immagini che Alberto Martini offre della sua giovinezza a Treviso nella sua autobiografia , il periodo giovanile deve essersi svolto comodamente, con tutti gli agi e senza particolari premure o difficoltà da parte della famiglia. Emerge semmai il profilo di un giovane introverso, per certi versi isolato e molto legato all’ambiente familiare. Benvenuti si avventura a domandarsi quali potevano essere gli interessi che Martini andava maturando in quell’ambiente borghese e salottiero, considerando anche e soprattutto la provincialità di quei circoli, la lentezza con cui potevano arrivare le novità letterarie ed artistiche dalla già a suo modo provinciale Venezia. Non è semplice rispondere ma, in ogni caso, da questo primo atteggiamento dell’artista si evince già il suo personalissimo vivere nel mondo dell’arte, che lo avrebbe comunque reso un isolato, un fiero e dignitoso solitario, schivo e poco propenso a prendere parte a manifesti e alle correnti ufficiali che tanta parte avrebbero avuto negli anni a venire in campo artistico. Riprendendo il filo della produzione martiniana, varrà la pena riportare un breve estratto dell’autobiografia Vita d’Artista particolarmente interessante perché annuncia il momento della svolta nella direzione del più congeniale stile del disegno e della grafica. Il brano, caricato evidentemente di toni nostalgici, ideali e rivelatori, vuole essere una sorta di piccola pietra miliare, sottolineando il momento del passaggio da uno stile naturalistico ad uno votato alla rappresentazione dell’invisibile e che dia libero sfogo all’indole più autentica del giovane artista.

Tra la fine del 1894 e l’inizio del 1895 Martini realizza i suoi primi cicli grafici di ispirazione letteraria, inaugurando la propria carriera di disegnatore ed illustratore simbolista. Il viaggio a Monaco è un momento spartiacque nell’evoluzione artistica di Martini. Se da una parte infatti rappresenta il dovuto omaggio ai maestri che fino a quel momento avevano così fortemente ispirato il suo lavoro, dall’altra rappresenta il primo importante contatto con l’epicentro della cultura simbolista dell’epoca. L’appartenenza e l’aderenza di Martini alla cultura simbolista va tuttavia il più possibile circoscritta entro l’ambito della sua possibile assimilazione da parte dell’artista, poiché, come ha giustamente osservato Marchiori, l’artista «viveva allora in un tempo tutto suo, inventato dalla sua cultura e dalla sua vocazione romantica». Il simbolismo di fine Ottocento teneva assieme motivi ed istanze diverse, talvolta di segno contraddittorio, unificate tuttavia dal comune rifiuto degli angusti limiti della cultura borghese e da una concezione aristocratica e quasi sacrale dell’arte, spazio iniziatico sottratto al contatto con il volgo. Accanto a questa, in opposizione alla tendenza modernizzatrice, si fanno strada esigenze riformatrici dirette a modificare la situazione esistente e a riqualificare le condizioni dell’individuo e della società attraverso un progetto globale di rifondazione estetica. Martini – che come si è visto in relazione al Poema del lavoro non nutre reali interessi sociali – si riconosce nelle posizioni del simbolismo di chiara ascendenza romantica, che esaltano l’individualità ed il genio dell’artista come risposta al problema della modernizzazione e al conflittuale rapporto con la società. Individualità e genio si esprimono per Martini attraverso la solitaria esplorazione dei propri fantasmi, di una realtà soggettiva, onirica e fantastica, cui dare forma per mezzo dell’arte. Non c’è spazio, nell’estetica di Martini, per la realtà, percepita come sterile ed espressione di una cultura borghese, descritta e denunciata per la sua ipocrisia e falsità, grettezza e povertà spirituale. Di appelli alla veggenza, alla genialità dell’artista, all’«invenzione genuina» come ama chiamarla e di accuse e polemiche nei confronti del mercato, degli artisti e della realtà stessa, l’autobiografia di Martini è gremita al punto tale da svelare, secondo Bellini, il sospetto che Martini «abbia assunto solo in chiave di vestizione esterna i connotati del simbolismo, interessato com’era a maturare sempre più in chiave fantastica le istanze di una visione eroico-fantastica del mondo». Non è superfluo notare che la vocazione romantica di Martini evidenziata dai tratti perentori delle sue dichiarazioni, ai limiti dell’eccentricità, come quando scrive «l’impotente a rinnovarsi è un deficiente, un caparbio nemico del genio nascente, un vecchiardo» sembra un epigono tardo di tendenze e rivendicazioni legittime appartenenti al passato, esemplate su istanze eroiche fuori da ogni contesto di vista vissuto, e che appaiono quindi basate su una carica di sentimento che trova la sua giustificazione solo negli spazi illimitati dell’immaginazione. «L’invenzione genuina è incomprensibile a chi non ha sentimento dell’eroico» scrive Martini, ma tale eroicità doveva suonare come artificiale nel contesto storico in cui Martini la espresse; un tono, una posa, slegata sia da reali rivendicazioni nei confronti della cultura borghese, sia dalla vita reale che l’artista doveva condurre al tempo. Appare quindi sempre più verosimile l’ipotesi che la visionarietà di Martini abbia tratto stimolo «da una preziosa lambiccatura della immaginazione e da un sottile gusto letterario», piuttosto che da reali rivendicazioni estetiche. Ritornando all’opera dell’artista, l’adesione più coerente di Martini al gusto liberty con il quale era entrato in contatto a Monaco e che era rappresentato con dovizia di particolari nelle varie Biennali che si susseguono nel primo decennio del Novecento, è rappresentato dalle opere esposte nella Sala del Sogno ideata da Plinio Nomellini, Galileo Chini e Gaetano Previati per la VII Esposizione d’arte Internazionale di Venezia del 1907. Una sezione della mostra che nelle intenzioni dei suoi ideatori doveva raggruppare i migliori rappresentanti dell’«arte ideista italiana ed europea» e che Pica aveva tiepidamente elogiato nel suo «complesso di signorile leggiadria tale da rallegrare le pupille del più raffinato buongustaio d’arte» – a rendere l’idea del risultato complessivamente ottenuto. La Sala del Sogno fu l’esito di un progetto che il pittore toscano Plinio Nomellini meditava dal dicembre 1905, a Biennale da poco chiusa. Nelle intenzioni del suo ideatore la Sala del sogno rispondeva all’idea di «realizzare una piccola sala da preparare con un insieme di pretto italianismo, di sapore neo-italico: evocazione di nostra grandezza, presagio di nostro avvenire»; in essa doveva prendere forma «l’esigenza di superare le divisioni in scuole regionali vigenti in Biennale dal 1901, arginando, in un momento forte crisi della manifestazione, il confronto marcato con le sezioni straniere» tanto temute quanto ammirate. Nella Sala del Sogno erano presenti gli italiani Previati, Nomellini, Chini, De Albertis, Salvino Tofanari, Macchiati, De Maria, Marussig, Alberto Martini (e altri), oltre a una scelta di autori stranieri tra cui, Walter Crane, De Groux, Franz Von Stuck. Non sorprende più di tanto notare come gli artisti con i quali Martini mostra più affinità, non sono gli artisti italiani, bensì quelli stranieri. Questo per evidenziare ancora una volta la marcata vena esterofila dell’arte martiniana, qualità sottolineata anche da Pica, ed anzi, coltivata e incentivata dal critico napoletano, all’epoca mentore di Martini. Nella Sala del Sogno Martini espone un trittico composto dai quadri Notturno, Diavolessa e Nel Sogno, dipinti realizzati su tela con cornice lavorata e decorata a encausto con motivi di chiara derivazione liberty che molto devono all’esperienza monacense. Seppur penalizzata da alcune ingenuità, Diavolessa è l’opera per certi versi più interessante per le evidenti tangenze con la tradizione del simbolismo pittorico di tradizione romantica e in particolare con l’ambiente secessionista monacense. Il dipinto mostra un nudo di donna, nuda e genuflessa nelle tenebre, le morbide braccia incrociate dietro la schiena, la quale appare piacevolmente indifesa offrentesi agli occhi dell’osservatore ben illuminata dalla luce chiara. A tradire l’apparenza, un sinistro scintillio che proviene nella testa reclina, dove campeggiano un diabolico sorriso e uno sguardo di fosforo, da strega. L’iconografia è tipica e si può agevolmente ricondurre alle numerose versioni dell’opera Die Svende di Franz Von Stuck, conosciuta altrimenti con i vari titoli di Eva, Peccato o Vizio .Il dipinto fu ritirato dalla mostra pochi giorni dopo l’apertura, non si sa esattamente se per ragioni di censura: scrive Pica in una lettera del 12 febbraio 1915: «mandatemi a volta di corriere il titolo del quadro a encausto che non figurò con gli altri due vostri a Venezia perché immorale». Lascia un po’ perplessi l’ipotesi di uno scandalo per un dipinto che non doveva assolutamente costituire una novità in quei tempi, a maggior ragione nel contesto specifico di una sala dedicata al Sogno, che nelle sue molteplici declinazioni non poteva non considerare la componente della sensualità femminile in chiave erotica e notturna. Ciò mostra ed evidenzia, se non altro, l’abissale distanza, tra lo “scandalo” salottiero di Martini e quello vero e autentico di cui si sarebbero resi protagonisti di lì a qualche anno i Futuristi (1910) e qualche anno dopo Gino Rossi e Arturo Martini, con la secessione di Ca’ Pesaro (1913). Questo per stabilire definitivamente, se ancora ve ne fosse bisogno, la netta lontananza da quanto andavano svolgendo, in quegli stessi primi anni del secolo, gli altri artisti di Treviso. Riprendendo il corso dell’opera martiniana, varrà a questo punto la pena fare il quadro delle esperienze che Martini va accumulando velocemente e che danno forma definitiva all’indole, al carattere e allo stile dell’artista trevigiano.

Nei primissimi anni del Novecento, lavorando in parallelo su più fronti come abbiamo visto in Martini avviene il passaggio dalla prima formazione, quella del romanticismo tedesco, a quella più matura che darà esito ai cicli illustrativi più impegnati e significativi della sua carriera. Accade infatti che nell’arco di poco tempo Martini sposti i suoi interessi dall’area tedesca a quella francese, «sovrapponendo alla tradizione letteraria germanica del sogno, dell’incubo, dell’orrendo-magico, l’ermetico uso dei simboli di Mallarmé, di Rimbaud, di Verlaine, di Baudelaire». Questo passaggio, consentito dall’avvicendarsi di nuove letture, è sostenuto e promosso da Vittorio Pica che incoraggia nell’artista «l’attitudine a presentarsi secondo il modello dell’artista decadente, blasé, dai gusti tenebrosi e perversi, creatore d’un simbolismo fra il demoniaco e il salottiero». Dopo il periodo trascorso a Monaco, Martini va per breve tempo a Parigi (1904) dove approfondisce le sue conoscenze sull’opera di Felicien Rops, Odillon Redon, Gustave Moreau, De Groux ed altri, opere di artisti che sembrano più adatti a punzecchiare la sua fantasia, il gusto per il macabro e il sensuale. A questo punto della carriera – l’artista ha tra i 30 e i 35 anni – la tematica di Martini è ormai delineata, precisa, inequivocabile; per quanto legata a schemi del passato, il suo mondo è quello della fantasia suggerita, di ispirazione letteraria.
L’esposizione è suddivisa in cinque sezioni :
l percorso prende il via dalla sezione permanente che il Bailo riserva allo scultore. Qui ad essere ripercorsi sono gli anni dell’apprendistato, segnati dall’influsso di maestri come Giorgio Martini (padre del già celebre Alberto) e Antonio Carlini. Di lì a poco giungono le prime mostre a Treviso e a Venezia e i primi riconoscimenti. Poi la lunga permanenza a Monaco e l’influenza di Parigi. Alle sculture, con opere in gesso e in cemento come Maternità e Allegoria del mare e Allegoria della terra si affianca l’importante esperienza grafica e quella ceramica, per la quale appunto collabora con la fornace Gregorj. Il proseguo della grande mostra è pensato per focus allo scopo di esaltare Martini attraverso i suoi grandi capolavori (seconda sezione). Come nella mostra del 1967, saranno collocate in apertura il Leone di Monterosso – Chimera, e quel Figlio prodigo che fu scelto come manifesto della mostra. La conformazione fisica del museo consente di riservare ciascuna sala ad un preciso focus intorno ad un singolo capolavoro. Valga come esempio, la sala riservata alla Donna che nuota sott’acqua, di cui sarà dedicato un focus speciale. Per la prima volta sarà presentato, accanto al marmo, anche il bronzo ‘preparatorio’ mentre le tecnologie multimediali restituiranno l’illusione di entrare sott’acqua. Una sala coinvolgente e inattesa sarà dedicate al confronto tra La Pisana e Donna al sole. Due nudi di donna che sono una melodia armonica, il giorno e la notte, avvicinate per la prima volta in un allestimento. Due opera che sono una sublime espressione di quel vortice di sensualità e grazia, sfrontatezza e fascino, che tanto avevano conquistato e ammaliato Martini. E ancora Tobiolo, opera che ottenne per la prima volta unanimi consensi a Milano, Venezia, Parigi. Pubblicato sulla prima pagina del “Corriere della Sera” del 17 maggio 1935, segna una sorta di consacrazione nella carriera di Martini. Al Tobiolo che stringe nelle mani un pesce sarà accostato il più tardo Tobiolo “Gianquinto” che presenta una impostazione iconografica innovativa, in linea con gli esiti della Tuffatrice e il Pugile in riposo. E ancora, la monumentale Sposa felice del 1930, presentata per la prima volta alla Quadriennale di Roma e da oltre 30 più esposta: un gesto di spontanea esultanza in un tripudio di forme, ornamenti, rigonfiamenti a sottolineare letizia e gaudio. Altri ambienti saranno riservati ad altri capolavori monumentali, come Il bevitore, Ragazzo seduto (alcune delle grandi terracotta di Martini, di rara potenza espressiva), La veglia eccetera. Non mancheranno le novità, opere mai viste, come il mastodontico Sacro Cuore (3,20 m di altezza), la prima scultura su tema sacro eseguita dallo scultore. Il gesso, modellato nel 1929 quando si trovava a Monza per la chiesa di Vado Ligure, fu rifiutato perché ritenuto incongruo rispetto ai tradizionali canoni dell’arte sacra: gelosamente conservato dall’artista nella sua casa-museo sarà esposto in una mostra per la prima volta. Altro gesso assicurato in mostra dalle grandi proporzioni (2,5 metri di altezza) ed esposta nella lontana mostra del 1967 è La Sposa Felice. Comparve per la prima volta alla I Quadriennale di Roma, quella vinta da Martini, è un tripudio di ornamenti, pizzi, rigonfiamento di tessuti. Celebre perché lo scultore stesso (ecco il genio e la pazzia assieme) scalpellò via il volto. Quasi per celebrare l’ultima grande monografica, quella del 1967, ecco il celebre Tito Livio – il marmo è nell’atrio del Liviano a Padova – sarà in mostra grazie al calco realizzato per quella mostra trevigiana: il gesso recuperato e restaurato sarà affiancato per la prima volta dal suo bozzetto preparatorio. Molti altri capolavori completeranno questa ampia sezione che occuperà tutto il piano terra del museo, un itinerario fisico sviluppato sugli spazi attorno ai due recuperati antichi chiostri rinascimentali. La terza sezione sarà interamente riservata alle maioliche, sculture di piccolo formato che documentano la grandezza e la creatività di Martini. Opere minori solo in apparenza: esse esprimono tutta la tenacia e la curiosità con cui l’artista ha sperimentato ogni materiale possibile e fungono da laboratorio per rielaborazioni successive. Una sezione nella sezione sarà dedicata ai pezzi unici modellati e maiolicati presso l’ILCA di Nervi ed esposti nella personale di Monza. È l’affermazione dello scultore-ceramista che realizza opere a sé, staccandosi dalla ‘dipendenza’ delle logiche industriali. ‘Piccoli’ capolavori dove non manca invenzione, armonia e anche ironia. Tra questi: Donna sdraiata, La fuga degli amanti, L’esploratore, Visita al prigioniero, Briganti, fino alla serie di animali dove spiccano poche pennellate di contrasto. Accanto alle commissioni monumentali Martini si applica, quasi per contrasto, alla creatività in opere di più piccolo formato. La riflessione sull’antico, dopo la visita a Napoli, lo portò a Blevio sul lago di Como a creare in poche settimane una serie di capolavori in gesso dove lo studio sulla costruzione e il movimento della figura portano a soluzioni antitetiche rispetto a quelle monumentali. Ricerche e sperimentazioni, in opere come Centomestrista, Morte di Saffo, Salomone, Laocoonte, Ratto delle Sabine, Susanna, Amazzoni spaventate eccetera, che nella terza sezione consentono di raccontare l’artista in costante ricerca, capace di ispirarsi continuamente e rielaborare in modo del tutto personale. A Martini pittore è dedicata la quarta sezione. Ad evidenziare come disegno, grafica e pittura siano tracce di una ricerca parallela e complementare alla scultura, evidente nelle cheramografie (termine da lui inventato per stampe da matrici di “sfoglia” d’argilla) degli anni di Ca’ Pesaro e nella grafica “neomedievale” di soggetto religioso, a cui è dedicata anche una sezione della permanente, per l’occasione integrata da opere mai prima presentate in una mostra che riveleranno un aspetto inedito di Martini. A concludere il percorso è la sezione quinta “La maturità nei capolavori del Bailo”, con una scelta di capolavori sorprendente ed eccezionale. Le prime sale sono dedicate a I bronzi degli anni ’20, piccola plastica e rilievi degli anni ’20, disegno, grafica e pittura. È alla luce del chiostro del Museo, in uno spazio silenzioso e sospeso, che si compie uno dei più poetici capolavori di Martini, La Venere dei porti, in una dimensione che ha a che fare col senso dell’attesa, della solitudine e della noia racchiusi nel malinconico nudo di una donna che aspetta “l’Amore”. Acquisita dal Comune nel 1933 (90 anni fa), è una delle grandi terrecotte create nel periodo compreso tra la fine degli anni Venti e i primissimi anni Trenta e che costituisce il periodo di più alta ispirazione dell’artista e in cui fonde insieme, in un unicum rivoluzionario, le forme classiche (dall’arte etrusca e greca a quella dei maestri del Duecento e del Trecento) con nuove concezioni plastiche. Il percorso si conclude in quel chiostro che ospita Adamo ed Eva, l’opera simbolo del Museo e della mostra.
Museo Luigi Bailo Galleria Civica del Novecento Treviso
Arturo Martini. I Capolavori
dal 1 Aprile 2023 al 30 Luglio 2023
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Lunedì Chiuso