Giovanni Cardone Luglio 2022
Fino al 29 Ottobre 2022 si potrà ammirare al Museo del Novecento di Milano la mostra Aldo Rossi. Design 1960-1997 a cura di Chiara Spangaro, in collaborazione con la Fondazione Aldo Rossi e Silvana Editoriale. Con questa mostra il Museo del Novecento prosegue nel dialogo interdisciplinare tra le arti, caratteristico della contemporaneità, approfondendo la figura dell’architetto, designer, teorico e critico, tra i protagonisti della cultura visiva del XX secolo. Per la prima volta sono esposti, in un percorso spettacolare, oltre 350 tra arredi e oggetti d’uso, prototipi e modelli, dipinti, disegni e studi progettati e realizzati da Aldo Rossi dal 1960 al 1997, una testimonianza visiva della sua attività di designer, progettista e teorico dell’architettura. Rossi in tutta la sua produzione, fin dai primi mobili realizzati nel 1960 con l’architetto Leonardo Ferrari, riflette sul rapporto tra la scala architettonica e urbana e quella monumentale e oggettuale. Dal 1979 si apre al mondo della produzione industriale e di alto artigianato, realizzando arredi e prodotti d’uso prima con Alessi, poi con Artemide, DesignTex, Bruno Longoni Atelier d’arredamento, Molteni&C|UniFor, Richard-Ginori, Rosenthal, Up&Up (oggi UpGroup). In quasi vent’anni di lavoro elabora più di 70 arredi e oggetti, molti dei quali ancora oggi in produzione, sperimentando forme e cromie nel campo dei metalli e del legno, del marmo e della pietra, della ceramica e della porcellana, dei tessuti artigianali e industriali e dei materiali plastici.
Lo straordinario insieme delle opere in mostra è per la prima volta riunito grazie al dialogo e alla collaborazione con: musei e archivi aziendali (Museo Alessi; Molteni Museum; archivi di Bruno Longoni Atelier d’arredamento e di Up Group); collezioni museali italiane e internazionali (Bonnefanten Museum, Maastricht; Centre Georges Pompidou, Parigi; Fondazione Museo Archivio Richard-Ginori della Manifattura di Doccia, Firenze; MAXXI - Museo delle arti del XXI secolo, Roma; Università Iuav di Venezia; Triennale di Milano) e diverse collezioni private. In una mia analisi e riflessione sulla mostra di Aldo Rossi che parte da una mia ricerca storiografica che divenne convegno universitario interdisciplinare per far si che la Storia dell’Architettura e la Storia dell’Arte si potessero confrontare sul pensiero di questo grande figura che ha dato tanto all’arte italiana.
Aldo Rossi, uno dei più grandi e famosi architetti, teorici dell’architettura e accademici italiani. Nato a Milano nel 1931, Rossi ha senza dubbio segnato la storia e la letteratura architettonica moderna. Non a caso, nel
1990 per la prima volta, il Premio Pritzker si assegnò proprio a lui, un architetto italiano. Ogni sua opera è tutt’oggi caratterizzata da un design inconfondibile, desideroso di avvicinare i canoni dell’architettura moderna alla popolazione comune. ‘La caffettiera’ e’
La Cupola’ di Alessi è un perfetto esempio e riassunto del pensiero di questo architetto. L’obiettivo era proprio onorare un’azione così significativa per la cultura italiana come il prendere un caffè. Dalle realizzazioni più piccole a quelle più imponenti, anche una delle sue opere più importanti, L’architettura della città del 1966, risulta tutt’oggi molto attuale. Analizzato ancora dagli studenti di architettura come pietra miliare del panorama moderno, Rossi ha contribuito alla consapevolezza sull’importanza dello
studio della città, non solo negli aspetti economici e politici ma anche in quelli architettonici. Vediamo ora una panoramica sulla vita e sulle peculiarità di questo artista, tra gli architetti famosi più conosciuti d’Italia. Per comprendere davvero il pensiero di questo architetto poliedrico è necessario analizzare le sue parole e i suoi scritti. Per me è importante precisare che quella di Rossi è un’architettura
autobiografica, dunque volta a raccontare il suo autore attraverso forme e strutture.
Anche per questo motivo, ad oggi risulta impossibile imitare le opere di questo architetto come quelle di molti altri. Le sue creazioni e i suoi progetti diventano racconti di ricordi, di incontri e di emozioni: secondo Rossi, è sbagliato considerare monumenti e costruzioni come essere inanimati. Ogni cosa è dotata di un’
anima che vuole trasmettere un messaggio a chi osserva. All’interno della sua idea, svolge un ruolo di fondamentale importanza anche l’
elemento soggettivo infatti. Lo stile classico e razionalista viene ripreso all’interno delle sue opere, senza però mai imitarlo. Il contesto cittadino in cui l’opera viene realizzata deve avere un ruolo predominante. Le forme semplici e lineari che possiamo ritrovare come denominatore comune nei suoi progetti, portano a realizzare progetti dallo stile semplice ma originale. Non è possibile razionalizzare ogni aspetto della realtà, importante è anche distaccarsi dai canoni del tempo. Il mondo esterno viene visto attraverso i suoi occhi. Dall’inizio degli anni settanta Aldo Rossi ha dimostrato di essere in grado di influenzare largamente l’evoluzione dell’architettura internazionale in quel suo momento di passaggio che l’ha portata verso un modo di intendere la progettazione che appare chiaramente voler considerare non più «dominante» la cultura di quello che è stato definito “movimento moderno”. Non che Aldo Rossi «negasse» l’importanza del contributo dei maestri delle generazioni del funzionalismo, ma non vi è dubbio che soprattutto per una sua evidente tendenza a valutare la storia intesa essenzialmente come memoria o, forse meglio, come «memoria urbana» quale un possibile punto di riferimento per lo svolgimento dell’attività progettuale l’architetto milanese offrì a molti l’occasione per un ripensamento del ruolo della disciplina. Ha detto, nel corso di un’intervista, a questo proposito, Aldo Rossi: «I miei migliori allievi, nel senso dello sviluppo di alcuni principi da me enunciati, sono in gran parte dei giovani architetti di tutto il mondo, in Europa, in America, in Giappone; la generazione di mezzo ha portato avanti e consolidato un aspetto della mia ricerca, i più giovani sviluppano senza nessun complesso d’imitazione alcuni miei progetti. Intorno alla metà degli anni sessanta, nello stendere la relazione che accompagna il progetto con il quale prende parte al concorso a inviti avente per oggetto la ricostruzione del teatro anini all’interno della piazza della Pilotta di Parma, l’architetto milanese esprime già e con molta chiarezza proprio uno di quei concetti che maggiormente influiranno sulla mentalità di molti giovani progettisti, quello del rapporto tra l’architettura intesa essenzialmente come monumento e la città. Egli scrive: «Con il Teatro di Parma mi sono posto decisamente il problema del monumento. Ho sempre pensato all’architettura come monumento; alla sua Indifferenza per le funzioni secondarie. Solo quando essa si realizza come monumento costituisce un luogo; percorrete un teatro antico, state in ore diverse nel teatro romano di Orange o girate per un teatro del settecento vuoto, voi non pensate che secondariamente allo spettacolo. Il teatro può fornire l’occasione per uno spettacolo, ma possiede una sua realtà architettonica. Il teatro greco era un fatto urbano; esso conteneva una città. Per questo nel progettare un teatro non dobbiamo tenere in eccessiva considerazione la sua funzione; gli artigiani possono sempre adattare un edificio; falegnami, fabbri, decoratori, elettricisti rendono sempre fruibile un edificio. Ma per l’architettura è diverso; essa non può riferirsi a questo o a quello spettacolo; essa riguarda l‘essenza del Teatro. Così la forma non muta, e anche l’idea del Teatro». Tra le opere più famose di Aldo Rossi possiamo limitarci a ricordare la fontana monumentale studiata, nel 1965, per la piazza del municipio di Segrate nella quale si mostra ormai chiarissima la tendenza dell’architetto milanese a comporre per mezzo dell’accostamento di volumi ‘puri’, l’unità residenziale costruita nel quartiere Gallaratese di Milano tra il 1969 e il 1973, l’ampliamento del cimitero di San Cataldo a Modena, .realizzato tra il 1971 e il 1978, il Teatro de/Mondo per Venezia, del 1979. A proposito del progetto che aveva da poco realizzato per questo teatro galleggiante, Aldo Rossi scrisse: »La sua struttura non poteva che essere in legno, e non certo solo per il tempo della costruzione, ché il legno è materiale solidissimo e forte nel tempo. Ma perché è legato all’architettura di questo teatro non in un senso funzionalistico, ma perché esprime quest’architettura: le barche di legno, il legno nero delle gondole, le costruzioni marinare.
Questo teatro veneziano è legato all’acqua e al cielo, e per questo ripete nella sua composizione i colori e i materiali del mare. Aldo Rossi amplia la visione di Boullée, superando anche il pensiero funzionalista. Per Rossi la forma permane, le funzioni invece si modificano nel tempo e l’architettura si trasforma di continuo. L’oggetto è una relazione di cose e l’emergere di queste relazioni pone sempre nuovi significati. I suoi progetti sono pensati per permettere più funzioni, per consentire tutto ciò che nella vita è imprevedibile. “Le sue forme sono poche proprio perché non sono inventate ma ricordate. Derivano dalla sua esperienza delle cose nella vita di tutti i giorni”, osservazione delle cose che diventa memoria delle cose. Le forme dell’architettura di Rossi derivano dalla cultura in cui è cresciuto: dalla tradizione vernacolare, sia contadina che industriale dell’Italia settentrionale, alle influenze andaluse. Sono forme che non dipendono dalla funzione ma che sono evocate e selezionate nella memoria. I suoi progetti nascono dalla composizione di forme prime dell’architettura: cubo, cilindro, cono, parallelepipedo, forme archetipe che, di volta in volta, assumono carattere contemporaneo. La progettazione ai nostri giorni non può prescindere da processi di tipo polisensoriale. “La formalizzazione dello spazio collettivo non può non passare per una progettazione che tenga conto di processi polisensoriali nella fruizione del luogo, oltre al piacere visivo-estetico, le relazioni umane negli spazi privati e collettivi saranno improntate sull’influenza tra cose e persone. Plasmare un mondo attraverso la globalità della percezione oltre alla sola astrazione visiva sarà un passo verso uno spazio umano sostenibile, che si trasforma e si modella in sintonia con il nostro sentire”. L’aspetto percettivo di tipo puramente visivo non esaurisce più il campo delle relazioni tra ambiente antropizzato e fruitore: il rapporto di mutuo scambio tra oggetto e soggetto non può più essere considerato di predominio della visione a discapito degli altri sensi e delle interazioni tra essi. Solo un’architettura che preveda un’esperienza multisensoriale oggi può considerarsi significativa: uno spazio che si può misurare con gli occhi, il movimento, il tatto, gli odori, che realizzi quindi una compresenza di sensazioni in grado di mettere in rapporto il nostro corpo con l’ambiente costruito. Si afferma oggi la necessità di una percezione sinestetica. Il primato della percezione visiva sulle altre sensazioni, e il riconoscimento quindi dell’architettura come arte visiva, si può far risalire già all’antichità, come sottolinea Juhani Pallasmaa, ma è sicuramente a partire dagli anni Sessanta che il concetto di percezione, in special modo urbana, viene portato all’attenzione del pubblico, grazie agli scritti di Kevin Lynch. Lynch parte dal presupposto che i cittadini posseggano un’immagine mentale del luogo in cui vivono, che permette loro di leggere e quindi riconoscere il paesaggio urbano. La città dunque inizia ad essere considerata non come semplice oggetto bensì come risultato della percezione dei suoi abitanti; obiettivo dell’autore è proprio l’analisi dei caratteri che concorrono alla definizione della sua immagine. Scrive Lynch: “L’immagine ambientale è il risultato di un processo reciproco tra l’osservatore e il suo ambiente. L’ambiente suggerisce distinzioni e relazioni, l’osservatore – con grande adattabilità e per specifici propositi – seleziona, organizza, e attribuisce significati a ciò che vede. L’immagine così sviluppata ancora, limita e accentua ciò che è visto, mentre essa stessa viene messa alla prova rispetto alla percezione, filtrata in un processo di costante interazione”. L’immagine che ciascuno possiede del paesaggio urbano nasce quindi da un rapporto reciproco tra spazio fisico e osservatore; ogni individuo crea in sé un’immagine propria capace di evocare un ricordo chiaro e nitido, ne consegue quindi che esisteranno tante immagini individuali quanti sono i singoli fruitori. Inizia quindi a farsi strada il pensiero secondo cui la forma dell’oggetto, e quindi della città, abbia un’influenza, positiva o negativa, sulle persone che ne fruiscono. Di conseguenza, gli abitanti tenderanno a conformare lo spazio in cui vivono oltre che alle loro esigenze anche alle proprie sensazioni. Quando un gruppo si insedia in un luogo lo trasforma a sua immagine. La forza delle tradizioni è così potente che anche quando intervengono modificazioni spaziali il gruppo cerca di ritrovare il suo equilibrio nella nuova condizione. “I gruppi disegnano sul terreno la propria forma e ritrovano i propri ricordi collettivi nel quadro spaziale così definito”.
Le teorie sulla percezione degli spazi architettonici, e in particolare sulla percezione visiva legata alla memoria collettiva, si fanno strada a partire dagli anni Sessanta in poi. Ma da quando in realtà possiamo iniziare a parlare di un rapporto tra architettura e percezione, tra spazio e sensi, e soprattutto quando viene sancita in maniera netta la supremazia della visione sulle altre qualità sensoriali? Il rapporto tra memoria e modernità è stato, negli anni Trenta, oggetto di studio da parte di Walter Benjamin, in una serie di scritti che avevano come tema il concetto di esperienza e la sua sparizione. Punto di partenza delle sue riflessioni è il fatto che l’esperienza debba essere considerata nella sua accezione di esperienza vissuta o accumulata (Erfahrung), in cui i contenuti hanno bisogno di tempo per sedimentare nella memoria. Secondo Benjamin, la nostra epoca è caratterizzata da un’atrofia dell’esperienza, in quanto la modernità è investita da continui e repentini cambiamenti, il moderno si mette in discussione di continuo, ciò che era nuovo invecchia nel giro di pochissimo tempo; questa rapidità nel cambiamento impedisce la sedimentazione del sapere. Gli eventi vissuti non vengono assimilati ma assumono la caratteristica di chocs, collisioni, ferite, senza possibilità di rielaborazione. “Lo choc non è incorporabile nell’esperienza: richiedendo una risposta automatica, esso non ha il tempo di sedimentare”. L’uomo moderno si muove come un automa, il suo comportamento è dettato dalla necessità di reagire velocemente, di muoversi in fretta, di controllare e parare gli chocs a cui è fatto oggetto. Questi vengono assorbiti dalla coscienza senza raggiungere le zone più profonde del sistema psichico. È quella che Jedlowsky definisce “ipertrofia della coscienza” cui corrisponde una “atrofia dell’esperienza”. L’uomo moderno ha a disposizione una quantità illimitata di dati e informazioni. Nel mondo moderno dunque l’esperienza cede il passo all’informazione, si gioca tutta nel presente. I due concetti sono esattamente agli antipodi, l’informazione è semplice somma di dati, l’esperienza prevede invece sedimentazione ed elaborazione dei vissuti in vista del ristabilirsi di una continuità che è intesa come capacità di dare significato al presente. Il tema della memoria, ben diverso da quello della mnemotecnica, “ affonda le sue radici nel primordiale timore di essere dimenticati”, timore che, da sempre, accompagna la nostra specie. Per questo gli uomini hanno sempre cercato di fissare immagini in grado di richiamare alla memoria eventi e persone, con la realizzazione di monumenti, cimiteri, sacrari. Questa paura di cadere nell’oblio è quindi un fattore che non ha solo a che vedere con il passato ma anche con il futuro. È un voler fare in modo che ciò che noi siamo stati non vada perso. Sulla scorta del pensiero di Halbwatchs e delle sue teorizzazioni sulla memoria collettiva, è nato un filone di pensiero che ha incentrato le sue indagini sul rapporto tra la memoria e il tempo, passato, presente e futuro. Il passato può essere letto secondo due punti di vista differenti, come qualcosa che non c’è più o come qualcosa che può tornare. È questa seconda interpretazione che si vuole qui sottolineare. Passato come essente-stato, participio passato del verbo essere, vuol dire intendere il passato in accezione positiva, come qualcosa che può essere evocato e tornare anche ai nostri giorni. Paul Ricoeur, prendendo come punto di partenza il pensiero di Halbwachs, ne amplia i contenuti sottolineando l’aspetto dialettico del tempo nel suo rapporto con il passato. Il passato viene relazionato sia al presente che al futuro, e alla memoria viene affidato il compito di inserirsi proprio in questa dialettica temporale, “ movimento di scambio con l’attesa del futuro e la presenza del presente, chiedersi come ci serviamo della nostra memoria rispetto all’oggi e al domani” . Possiamo dire che Aldo Rossi indaga il tema della forma che un edificio deve possedere. L’edificio nel tempo può subire diverse mutazioni di destinazione d’uso in base alle funzioni che va ad ospitare, ma nonostante questi cambiamenti la sua forma rimane immutata e anzi è quella che rimane impressa nella nostra mente. Il suo rimanere impressa dipende dal fatto che nulla può esser reinventato, ma ogni forma deriva da un antecedente, ciò da un elemento primitivo, germe preesistente. Il tipo non si identifica con la forma, ma è un elemento che interagisce in maniera dialettica con il progetto. Aldo Rossi critica quindi il funzionalismo, ma nega anche le teorie dell’organicismo che assimilano la città ad un organismo vivente e del razionalismo che spesso tende ad essere confuso con schemi geometrici semplici. L’elemento di comprensione dei fatti urbani è per Rossi, da ricercare nel carattere collettivo dei fatti urbani stessi, in quelle permanenze che agiscono da elemento propulsore e catalizzatore e non patologico, e che nella città sono i monumenti, i tracciati, le strade, vale a dire la forma della città, che “è sempre la forma di un tempo della città” e non è mai dovuta al caso. La forma è nei valori collettivi che si tramandano nel tempo e dunque nella memoria, che “ diventa il filo conduttore dell’intera e complessa struttura” . Aldo Rossi amplia la tesi di Halbwachs: la città stessa è la memoria collettiva dei popoli; la città è il locus della memoria collettiva. Lo spazio si trasforma per opera della collettività e la memoria diventa il filo conduttore dell’intera e complessa struttura. Così il carattere di intere nazioni, civiltà, epoche, parla attraverso l’insieme di architetture che esse possiedono. La memoria è la coscienza della città. “È probabile che questo valore della storia, come memoria collettiva, intesa quindi come rapporto della collettività con il luogo e con l’idea di esso, ci dia o ci aiuti a capire il significato della struttura urbana, della sua individualità, della architettura della città che è la forma di questa individualità. La quale individualità risulta così legata al fatto originario, al principio nel senso del Cattaneo; che è un evento ed è una forma”. La mostra, il cui progetto di allestimento è firmato da Morris Adjmi - MA Architects, collaboratore e poi associato di Rossi a New York, racconta l’universo di Aldo Rossi in nove sale: ciascuna rappresenta un mondo nel quale emerge la relazione tra opere grafiche e prodotti artigianali e industriali, con riferimenti alle architetture e allo spazio privato di Rossi. La prima sala ci introduce al rapporto tra immagine dipinta e realtà oggettuale, la seconda è dedicata a prototipi e varianti di un immaginario panorama domestico e porta alla ricostruzione di un ambiente poetico nella terza sala, dove opere quali la serie Parigi (UniFor, 1994) e il servizio Tea & Co"ee Piazza (Alessi, 1983) sono il centro visivo e metafisico, corredato alle pareti dai disegni inediti degli interni della casa di Rossi in via Rugabella. La quarta sala presenta la varietà della produzione oggettuale, in rapporto con la forma del cubo che rievoca il Cimitero di San Cataldo a Modena e introduce le figure geometriche apollinee utilizzate dall’architetto sia nel design sia nell’architettura, tema della quinta sala: dai prototipi per RichardGinori e Rosenthal, alle piante architettoniche del Monumento ai Partigiani di Segrate e della scuola di Fagnano Olona, ai tappeti realizzati con ARP Studio in Sardegna (1986) o le tarsie lignee di Bruno Longoni Atelier d’arredamento (1997). Nella sesta sala sono allestiti sedie, poltrone, grandi mobili e le loro varianti per materiale e colore, dalla scrivania Papyro (Molteni&C, 1989) al tavolino Tabularium (Up&Up, 1985). La ricostruzione dell’interno domestico della sala sette riunisce mobili e oggetti di Rossi con altri da lui collezionati e presenti nelle sue case, tra i quali le ca"ettiere americane, una stampa di Giovanni Battista Piranesi, una credenza ottocentesca che è servita da ispirazione per il suo design, così da entrare idealmente nel suo spazio personale. Il rapporto con l’architettura, puntuale in tutta la mostra, è evidente nel nucleo dedicato agli arredi ideati da Rossi per alcuni suoi edifici presentato nell’ottava sala: la seduta per il Teatro Carlo Felice di Genova (Molteni&C|UniFor, 1990) o la sedia Museo costruita per il Bonnefanten Museum di Maastricht (UniFor, 1994). La presenza magica e misteriosa del Teatro del Mondo, che chiude la mostra, rievoca le costruzioni temporanee in legno – dal faro alla cabina, al teatro galleggiante e circolarmente riporta al nucleo di opere iniziali. Aldo Rossi. Design 1960-1997 conduce lo spettatore in un racconto inaspettato, immaginifico e spettacolare che si muove tra forma e uso, classicità, ironia e metafisica, nel quale la libreria ha la foggia di un Piroscafo (con Luca Meda per Molteni&C, 1991), La conica o La cupola sono ora macchine per il ca"è (Alessi, 1984 e 1988) ora elementi allestitivi del Teatro Domestico (XVII Triennale di Milano, 1986), il Faro, già teatro a Toronto e museo nell’isola di Vassivière, è una teiera in vetro e ceramica per Rosenthal (1994) o il Monumento di Segrate si a"accia da una tarsia lignea per Bruno Longoni o da un tappeto tessuto in Sardegna. In occasione della mostra sarà pubblicato il catalogo ragionato Aldo Rossi. Design 1960-1997, edito da Silvana Editoriale, a cura di Chiara Spangaro e con un saggio critico di Domitilla Dardi.
La prima pubblicazione che raccoglie tutti i progetti di Rossi designer: i prototipi, gli oggetti realizzati, gli inediti e i fuori catalogo disegnati dall’architetto-designer milanese insignito del Pritzker Prize nel 1990.
Il Percorso della mostra è diviso in nove sezioni :
Poetica, oggetti e architetture
Il primo nucleo di opere presenta gli elementi fondanti del lavoro di Rossi nel campo del design: il disegno, tecnico e poetico, il legame con l’architettura, tra variazioni di scala e ricerca cromatica, e il dialogo con i produttori di mobili e oggetti. Dai disegni della quadreria, si materializzano molteplici elementi dell’universo di Rossi, a iniziare da due opere iconiche: il Teatro del Mondo costruito nel 1979 per la Biennale di Venezia e la Cabina dell’Elba per Bruno Longoni Atelier d’arredamento, di pochi anni successiva, che del teatro riprende il legno e una certa magia, tipica dell’infanzia. Sempre dal materiale sono accomunate le sedie AR2, disegnata per Longoni, e Milano, per Molteni&C. La prima, familiarmente chiamata anche “sedia Duecento” per via del bottone in rame aggiunto allo schienale della dimensione di una moneta da 200 lire, e la seconda nella sua prima edizione con il monogramma giapponese scavato nel legno. Ancora in legno, i due pezzi della serie Fiorentino sono caratterizzati dall’uso di intarsi a scacchiera ripresi dalla tradizione fiorentina rinascimentale, unito alla sapienza costruttiva orientale delle porte scorrevoli e dell’incavo delle maniglie. Al Giappone riporta anche il modello dello Yatai di Pinocchio – architetture collegate e trasportabili, in bilico giocoso tra l’abitare e l’essere nomadi – presentato all’Expo di Nagoya del 1989. Al centro della sala, insieme ai modelli delle due versioni delle Cabine dell’Elba, i prototipi della caffettiera Percolator per Alessi, che simbolicamente danno inizio al viaggio di Rossi nell’industria italiana del design.
Il laboratorio dell’industria
Nella sala sono esposti, come in un laboratorio, prototipi e disegni che raccontano le riflessioni intorno alle forme e agli oggetti. L’architetto-designer si avvicina al mondo dell’industria alla fine degli anni settanta, quando entra in contatto con Alessi e l’ufficio tecnico dell’azienda, che lavorano per rendere realizzabili le sue architetture da tavola. Capisce che in questo settore puo?sperimentare, e il caffè diventa un campo di ricerca espressiva: “si lancio?in lunghi studi sugli oggetti per il caffe?, diventati nel tempo una specie di ossessione: note, schizzi, fotografie, disegni, progetti di diverso tipo come il Percolator...”, ricorda Alberto Alessi. Lavora assemblando volumi puri – il cono, il cilindro, la sfera, il cubo – che ripropongono su piccola scala il suo linguaggio architettonico, con rimandi e citazioni di oggetti d’affezione e degli elementi compositivi degli edifici: nascono così le “cupole” delle caffettiere e delle pentole – pensate come coronamenti di chiese, tendoni da circo o che evocano il Teatro del Mondo (La cupola, La conica, Ottagono) –, il bollitore Il Conico, dalla forma futuristica, e le cornici coronate da un timpano classico, realizzate in marmo da Up Group. La caffettiera rappresenta per Rossi il passaggio dall’architettura all’oggetto di design: trattata come un monumento in miniatura, talvolta abitato, è impiegata in formato smisurato nell’allestimento per la mostra Il progetto domestico alla XVII Triennale di Milano (1986). La dialettica si esplicita in alcuni disegni dell’autore, dove le caffettiere sono ritratte in composizioni che rimandano alla poetica di Morandi, o diventano parte integrante del contesto architettonico urbano. Rossi coglie anche le qualità riflettenti del materiale, in opere come Riflessi della luce elettrica sull’acciaio (1985).
Un teatro domestico
Negli anni ottanta, grazie alla conoscenza di famiglie di artigiani e mobilieri, come il gruppo Molteni, la Bruno Longoni Atelier d’arredamento e l’azienda toscana Up Group, specializzata nella lavorazione del marmo, Rossi si confronta con il mondo degli arredi e dei complementi. Attinge dal suo vocabolario formale, coniugato alla memoria di oggetti a lui cari, legati alla tradizione domestica popolare e raccolti nelle sue abitazioni: sono i riferimenti per progettare mobili pratici, di immediatezza d’uso e visiva, caratterizzati dal rigore compositivo e dalla purezza delle forme. La sedia Parigi per UniFor (e il divanetto, realizzato in pochi esemplari), dai braccioli curvi che ne dinamizzano l’essenzialità, è protagonista di alcuni disegni come Interno milanese con persona che osserva il Duomo con nebbia, 1989, dove è rappresentata accanto al duomo di Milano: ancora una volta, per Rossi, design e architettura dialogano in un gioco di connessioni e rimandi. La collaborazione con Artemide porta al disegno della Prometeo, una lampada dall’aspetto totemico che consente di personalizzare il colore della luce, battezzata come il Titano simbolo del progresso, che rubo?il fuoco agli dei per illuminare la vita degli uomini. Sono qui esposti due simbolici oggetti prodotti da Alessi: il Tea & Coffee Piazza, un’architettura da tavola, realizzata in argento. Il vassoio circoscrive una piazza, dove le caffettiere sono disposte come microscopici monumenti; l’orologio, nel timpano, sospende il tempo di questo piccolo teatrino e rimanda alla parete, dove è esposto l’orologio Momento, altro simbolo ricorrente nelle architetture e negli scritti di Rossi. Gli oggetti e i mobili popolano disegni quali La cucina (1991) o gli acquerelli in cui rappresenta la sua casa, frutto di calibrati accostamenti ambientati in spazi domestici privati, qui esposti per la prima volta.
Progetti d’affezione
L’ossario del cimitero di San Cataldo a Modena (1971-1978), emblema dell’architettura di Rossi, è qui citato per esplicitare una costante progettuale: la reiterazione del modulo quadrato e l’impiego del cubo come solido puro, adottato nelle architetture e su scala urbana – nei progetti del Monumento alla Resistenza per Cuneo (1962) e del quartiere di San Rocco a Monza (1966), nel Monumento a Sandro Pertini a Milano (1988-1990) – e applicato anche nella progettazione su piccola scala, come per la pentola Cubica per Alessi, un oggetto che attinge dalla tradizione gastronomica giapponese, che ha modo di conoscere durante i numerosi viaggi. I colonnati in acciaio accolgono le tazze in vetro ARDT e ARMUG e la caffettiera Pressofiltro; il fermacarte Sannazzaro per Up Group, in marmo, è una miniatura del progetto di sistemazione della piazza di Sannazzaro de’ Burgundi (1967), mai realizzato. Continuano le architetture da tavola: la zuccheriera con cucchiaino e le essenziali forme della cremiera e della caraffa AR01. I prototipi in legno realizzati da Giovanni Sacchi, noto modellista di architettura e design, mostrano l’approccio progettuale di Rossi, in felice dialogo con il mondo artigiano nella riflessione sulle forme e la funzionalità. I coronamenti a cupola o a cono compaiono anche nella collezione di penne per Alessi, spingendo l’azienda a confrontarsi con campi sino ad allora inesplorati. I prototipi per l’orologio da polso Momento riportano alla sensibilità di Rossi per il concetto del tempo: “Gli orologi non possono essere fragili poiche?devono segnare cio?che e?inarrestabile e quindi capace di inaudita violenza: il tempo”. Il particolare modello consente di staccare la robusta cassa in acciaio per ottenere un orologio da tasca o un pendente.
Artigianato e design
“Taccas” èun’iniziativa artistica che prende le mosse nella seconda metàdegli anni ottanta, quando lo studio ARP di Oristano incarica le tessitrici di Zeddiani di tradurre, con le tecniche di tessitura sarde, i disegni di ventiquattro architetti e artisti contemporanei, per incoraggiare un rinnovamento culturale e figurativo. Rossi partecipa con dodici bozzetti: in alcuni casi, sono espliciti riferimenti ai suoi progetti, come per Il monumento di Segrate, Segrate con fondo blu, Il cortile rosso, un evidente richiamo alla scuola di Fagnano Olona (1972-1976) o Il portico, dove richiama l’hotel Il Palazzo di Fukuoka (1987-1989) e Frammento, che riporta al Monumento a Pertini (1988-1990). In Souvenir d’Afrique mette in scena immaginari più personali, come le Cabine dell’Elba e la palma – pianta del paesaggio del Lago Maggiore particolarmente cara a Rossi – o in Interno con colonne doriche, con la ripetizione del modulo del quadrato, della corte, delle colonne, dei mattoni, che richiamano Casa Aurora a Torino (1984-1987) e Casa Alessi a Verbania (1989-1994). In Impronte nuragiche 1 e 2 e Tappeto nuragico 1 e 2, il disegno per Fagnano Olona assume una connotazione quasi primitiva, che sembra appartenere alla tradizione sarda più arcaica. Anche i mobili Intarsia AR1 e AR2 per Longoni accolgono i disegni di architetture, in un raffinato dialogo tra espressioni artistiche, che porta alla realizzazione di una collezione numerata firmata da progettista e artigiano. Le proposte per le porcellane per i 250 anni di Richard-Ginori, rimaste prototipi, sono archetipi formali su cui Rossi continua a ragionare, in architettura e nel design – solidi puri, sfere, semi-sfere. Riflessioni messe in atto anche per lo studio delle figure apollinee, esposte nella sezione “Idea” della mostra Idea e conoscenza per la XVI Triennale di Milano (1981).
Varianti d’arredo
Dal mondo ideale delle figure apollinee a quello pragmatico dell’abitare, le opere esposte in sala 6 spostano l’attenzione sulla funzionalità degli arredi e sui segreti della loro progettazione e costruzione. Il sistema di libreria componibile Cartesio, disegnato per UniFor, riprende nel disegno le tipiche facciate degli edifici di Rossi con finestre quadrate a croce centrale – come la scuola elementare Contaldo Ferrini di Broni (1969-1971) o il Centro direzionale di Fontivegge a Perugia (1982-1989), progetto multifunzionale sviluppato sull’area industriale ex IBP Perugina. Anche i mobili Papyro e Carteggio sono volumi pieni e monumentali, animati dai cassetti a scomparsa che alterano la superficie lineare con diverse possibilità di varianti, aperture e movimento. Al centro della sala, le numerose sedie disegnate da Rossi sono accomunate dalla ricerca del dettaglio: la proposta cromatica delle Milano e Milano alta, il meccanismo dello schienale basculante della sedia per Alessi, la rottura del rigore formale della serie Teatro, che finisce in una curva sulla spalliera, o ancora la rilettura di una forma tradizionale nella Metrica. In ogni seduta, l’apparente semplicità del disegno è amplificata dall’idea del progettista che rompe lo schema usuale. Il Tabularium, realizzato in marmo da Up Group, riporta allo schema delle facciate e al modulo delle unità abitative che Rossi ha disegnato e progettato, e che si ritrovano nei dipinti e disegni che, in un rimando tra interni ed esterni, completano il nucleo dei disegni progettuali dei mobili e quello dei disegni domestici.
Biografia domestica
L’interno, insieme domestico e professionale, è liberamente ispirato dalle fotografie di Luigi Ghirri e di Stefano Topuntoli, dalle immagini private delle case di Rossi e da quelle più note degli studi di via Maddalena e di via Santa Maria alla Porta a Milano. La collezione degli oggetti d’affezione – dalle papere in legno alle caffettiere americane, dai dipinti ai disegni di architettura che l’architetto amava – si mescola a quelli da lui disegnati che riempivano i suoi spazi di vita: il prototipo della caffettiera La conica con manico dritto, la poltrona Providence, uno dei pochi esemplari realizzati da Molteni&C, il mobile da cucina e la madia ottocentesca che ne fu di ispirazione. Tra questi, il mobile Convento per UniFor – l’armadio di ispirazione Shaker, pezzo unico realizzato da Bruno Longoni –, e la libreria e il tavolino ideati con Leonardo Ferrari nel 1960 sono pezzi di grande rarità – come i suoi disegni e modelli, le stampe e i dipinti che teneva appesi alle pareti dello Studio di Architettura o delle sue abitazioni, qui per la prima volta riuniti. Il tavolo Rilievo in marmo, appositamente ricostruito in occasione della mostra da Up Group, riporta alla domesticità di un ambiente personale in cui convivono l’attenzione di Rossi per gli oggetti – dalle pentole in rame ai vecchi giocattoli in legno che riportano a un immaginario fiabesco e teatrale –, gli arredi e le immagini, l’appassionata consuetudine con il suo lavoro, la casualità dello spazio di tutti i giorni, dove in una magica giustapposizione di piani si ricompongono alcuni tasselli della sua vita personale e professionale.
Il design nell’architettura
Rossi ha disegnato alcuni mobili e oggetti per le sue architetture e, più raramente, progettato e arredato gli interni di alcuni suoi edifici. Il nucleo di opere presentate nella sala riunisce i disegni architettonici e il design a loro collegati. Le sedute Carlo Felice e Museo furono studiate la prima da Molteni&C con Luca Meda per il Teatro Carlo Felice di Genova (1983-1989) e le seconde da UniFor per il Bonnefanten Museum di Maastricht (1990-1994). La lampada da tavolo Arlamtav per Alessi, si relaziona invece al Monumento a Sandro Pertini in piazza Croce Rossa a Milano (1988-1992), i cui lampioni color verde taxi furono prodotti dalla stessa società per l’arredo urbano della piazza. I fari – dai disegni poetici al progetto per il Campus di Miami (1986-1990) fino al Teatro Faro di Toronto (1988-1989) – ritornano nella serie di ceramiche Rosenthal ispirata agli edifici visti da Rossi nel Maine, di cui parla nella sua Autobiografia scientifica e che rielabora in forme diverse nelle architetture temporanee e permanenti. Il raro e inedito modello del bar dell’Hotel Il Palazzo di Fukuoka (1987-1989) mostra invece un esempio di progettazione d’interni – dove è evidente la collaborazione con gli artigiani di Molteni&C che hanno costruito il bar in legno – che dà all’ambiente una dimensione confidenziale, solo apparentemente in contrasto con l’austerità delle sedute Parigi di UniFor.
Il Teatro del Mondo
Il Teatro del Mondo è stato costruito da Rossi a Venezia in occasione della mostra Venezia e lo spazio scenico del 1979. Utilizzato nel 1980 dal Settore Teatro per la prima edizione del Carnevale di Venezia, è stato poi trasportato via mare nell’estate dello stesso anno al Festival Teatrale di Dubrovnik. Scriveva l’architetto nel 1979: “Non so se e come questo teatro o teatrino Veneziano sarà costruito ma esso crescera? nei miei e negli altri disegni perche? ha come un carattere di necessita?; la sua limitata capienza permette la possibilità di spettacoli diretti, di tipo vario e soprattutto con un luogo centrale della città. La sua struttura non poteva che essere in legno e non certo solo per il tempo della costruzione, che il legno e?materiale solidissimo e forte nel tempo. Ma perche? e?legato alla architettura di questo teatro non in un senso funzionalistico (anche, e certamente) ma perche? esprime questa architettura; le barche di legno, il legno nero delle gondole, le costruzioni marinare”. Il Teatro del Mondo rimane ancora oggi nell’immaginario collettivo come un edificio magico e quasi mitologico, che si relaziona alla tradizione dei teatri cinquecenteschi, ai fari e ai “casoni” lagunari in legno, e ad altre architetture effimere e marine – dai fari della Galizia e del Portogallo, alle piccole case da spiaggia del Maine. Oltre al grande modello del teatro e alla documentazione fotografica dell’epoca realizzata da Antonio Martinelli, il dipinto Senza titolo (1980) qui esposto riproduce i più noti progetti di Rossi: l’edificio Monte Amiata al quartiere Gallaratese di Milano, il cimitero di San Cataldo a Modena e il teatro veneziano. Con loro, una ciminiera e una torre, la dimensione più intima della casa e quella minuta delle cabine, mostrano come questo suo disegnare il mondo per analogie e topoi è il modo che l’architetto ha usato nel progettare architetture e oggetti, dall’isolato, al monumento fino all’oggetto di affezione.
Biografia
Aldo Rossi (1931-1997) compie la sua prima formazione negli anni Cinquanta presso il Politecnico di Milano. Assistente negli studi di Ignazio Gardella e Marco Zanuso, insegna con Ludovico Quaroni presso la Scuola urbanistica di Arezzo e con Carlo Aymonino allo Iuav di Venezia; professore incaricato al Politecnico di Milano nel 1959, vince la cattedra di Caratteri degli edifici nel 1970, quando comincia a collaborare anche con diverse università americane tra cui la Cooper Union University, l’Institute for Architecture and Urban Studies, Harvard e Yale University. L’attività progettuale si divide tra edilizia privata e pubblica. Si ricordano tra i primi progetti realizzati: l’ampliamento della scuola De Amicis di Broni (1970), un’unità residenziale al quartiere Gallaratese di Milano (1973), il Cimitero di San Cataldo di Modena (1978) e la scuola elementare di Fagnano Olona (1976). Successivamente: gli edifici pubblici di Fontivegge-Perugia e Borgoricco (1989), la ristrutturazione del Teatro Carlo Felice di Genova (1989), l’ampliamento dell’aeroporto di Milano-Linate (1993), fino al progetto per la ricostruzione del Teatro “La Fenice” di Venezia. Contemporaneamente la sua notorietà si a"erma oltre i confini nazionali con realizzazioni quali l’isolato tra Kochstrasse e Friedrichstrasse a Berlino (1981), l’Hotel “Il Palazzo” di Fukuoka (1989) e a Maastricht il Bonnefanten Museum (1994). L’attività di storico e teorico dell’architettura comprende, oltre alle collaborazioni con riviste quali “Casabella Continuità”, “Società” e “Il Contemporaneo”, la pubblicazione di L’architettura della città (1966) e di Autobiografia scientifica (1984), oltre al film Ornamento e delitto (con Gianni Braghieri e Franco Raggi) realizzato nell’ambito della direzione della sezione internazionale di architettura alla Triennale di Milano (1973), e della sezione architettura della Biennale di Venezia del 1983. Architetto e studioso, nominato Accademico di San Luca nel 1979, insignito del Pritzker Prize 1990 e della 1991 Thomas Je"erson Medal in Architecture, Aldo Rossi è noto anche per la sua attività di designer e artista, dal Teatro del Mondo presentato alla Biennale di Venezia del 1979, al Monumento a Sandro Pertini (Milano, 1990), passando per l’opera pittorica e grafica, da sempre legata alla sua attività progettuale.
Museo del Novecento Milano
Aldo Rossi. Design 1960-1997
dal 29 Aprile 2022 al 2 Ottobre 2022
dal Martedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.30
Giovedì dalle ore 10.00 alle ore 22.30
Lunedì Chiuso