Giovanni Cardone Aprile 2023
 
Fino al 25 Giugno si potrà ammirare presso la Fondazione Ragghianti Lucca la mostra dedicata a Fausto Melotti. La Ceramica uno dei protagonisti della trasformazione dell’arte italiana del Novecento a cura di Ilaria Bernardi. Differenti tipologie di opere in ceramica di Melotti, a confronto con lavori in ceramica di artisti coevi, ci restituiscono un ritratto dell’artista inserito nel suo tempo. A più di settant’anni dal primo incontro tra Carlo Ludovico Ragghianti e la ceramica di Fausto Melotti, e a vent’anni dalla pubblicazione del “Catalogo generale della ceramica” dell’artista, una mostra racconta e approfondisce questa produzione, a torto considerata secondaria, L’esposizione  è realizzata in collaborazione con la Fondazione Fausto Melotti e il MIC - Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, e con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e il patrocinio della Regione Toscana e della Provincia e del Comune di Lucca. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Fausto Melotti apro il mio saggio dicendo : Quella del fuoco è un'arte al cui possesso pieno, al dominio assoluto, non si giunge mai. E' un'arte singolare, che necessita di estrema perizia tecnica sposata ad un'alta sensibilità artistica. E' un'arte che fa i conti con la danza imprevedibile delle fiamme, con la tirannia del fuoco; proprio quest'ultimo, tra i quattro elementi, ha il potere di conferire durevole vita ad una fragile materia come l'argilla. Argilla che, come disse Leonardo Da Vinci "arsa e un po' spenta aver più vita possa". Il potere che il fuoco ha di invocare l'eternità della fragile materia, può diventare, tuttavia, violenza pura che sgretola e annienta. Quella della ceramica è un'arte nobilissima che, nonostante le sue svariate espressioni moderne, affonda le sue radici in una terra antica. A chiarire che cosa sia la ceramica nella sua essenza, è lo scrittore, fotografo e giornalista italiano Orio Vergani, che da sempre ha manifestato un innato e profondo interesse per questa prodigiosa materia e antichissima arte, scrivendo sulla rivista Ceramica: “Eppure, anche questa terra di parole, ad un certo istante, gira sulla nostra ruota, conosce le nostre carezze, si imprime sotto ai nostri polpastrelli, acquista mistero, musica, vita. Così, è della grigia terra umida che dalla mano del ceramista raccoglie la modulazione di un'anima, con un trasferimento di emozioni plastiche, che resterà sempre misterioso per gli stessi misteriosi tramiti dello spirito. E tutto questo, è un po' di acqua, è un po' di argilla, un po' di fuoco, secondo una tecnica che è ancora la più rudimentale, antica. Il forno e la ruota, hanno avuto per me, lo stesso fascino, lo stesso incantesimo che dovevano avere i libri quando lentamente li schiudeva il tagliacarte e, di parola in parola, mi rivelavano la magia di un personaggio o di una poesia. Cos'è altro la parola nostra di scrittori, allineata nei vocabolari se non la grigia terra sul quale camminiamo?  A noi è toccato in sorte vedere come l'antica arte, la più antica delle arti del mondo, si rinnovasse. L'Italia non aveva le terre preziose delle porcellane, disponeva solamente della terra dei suoi fiumi e dei suoi campi, della terra povera che rifiuta la fecondazione dei semi e che respinge perfino la grande radice della vite e quella dell'ulivo. Il ceramista italiano non disponeva che di questa terra poverissima  eguale per il pollice del vasaio di paese e per il pollice del grande scultore. Ad una materia tanto povera, la corona leggiadra della sua arte. In ogni tempo, se pur considerata arte minore, quella della ceramica rispecchia i moti e gli spiriti dell'arte maggiore che, di generazione in generazione, andava trasformandosi. La ceramica del nostro tempo doveva respirare l'atmosfera del nostro tempo". Avviene così la conquista da parte della scultura di questo intermediario: l'argilla, la fragile argilla che paradossalmente, più di ogni altro materiale, sembra essere padrona del tempo, senza esserne corrotta, sfiorando la dimensione dell'eternità. Nonostante la sua forza, la sua potenza, la ceramica viene spesso trascurata da storici e critici, come se questa materia fosse meno importante di altre, come se essa abitasse la periferia dell'arte. Niente di più falso. E comunque, nella storia dell'arte moderna italiana, il capitolo in suo onore è molto vasto. L'arte della ceramica, infatti, ha sempre respirato l'aria più pura al di sopra delle polemiche affannose e agitate tra pittura e scultura; scelta da raffinati artisti che, nel tempo, hanno subito il fascino dell'arte del fuoco in tutta la sua grandezza. Il fuoco, elemento che si presenta come nemico o come alleato, ha sempre qualche cosa di magico: un fascino, una sensualità che da sempre ha attratto e inebriato gli artisti di ogni epoca folgorati dal suo mistero; prezioso strumento nelle mani di coloro che si sono dedicati con divorante passione alla trasformazione di una semplice terra povera. Artisti che sentivano quella materia come qualche cosa per loro fondamentalmente necessaria; che intessevano un legame profondo con il materiale ceramico, esplorandone le immense potenzialità creative e espressive. Molti di loro, per gran parte della loro carriera artistica, mai hanno smesso di sperimentare questo mezzo espressivo, apprezzandolo per la sua docilità e la sua morbidezza; amandone i misteri del colore che si rivela dopo gli umori del fuoco. Quest’arte millenaria sembra rinascere ogni volta dalle loro mani, attraverso corsi e ricorsi, ritorni alle origini dell’umanità amalgamati sapientemente a nuovi orizzonti di immaginazioni, a nuove fantasie, per dare nuova forza e nuova energia ad una tradizione ancestrale. Inventori, artigiani e poi artisti: in ogni caso creatori che nel tempo hanno restituito nuova vita alla terra. Ma la ceramica esisteva da molto prima, in quanto, se guardiamo al significato etimologico del termine, questo, non significa altro che modellare impasti di argilla, poi cotti. Anche se il termine greco Kéramos definisce semplicemente la terra usata al fine di realizzare vasi, anfore, oggetti. Sono due definizioni molto semplici, ma racchiudono il significato e le funzioni originarie di questo materiale naturale usato dall’uomo fin dalla preistoria. E’ la terra, che si dà all’uomo fin dai primordi, come chiave atavica, come risorsa inesauribile da cui ricavare utensili elementari, che gradualmente, da Oriente ad Occidente, verranno decorati e abbelliti. Inizierà così una produzione in continua evoluzione, mossa dalle necessità scaturite da civiltà, tradizioni e culture diverse. Questo plasmare la terra, si fa via via sempre più articolato ed evoluto: da mera necessità funzionale e pratica, la creta si fa medium che assolve a necessità espressive sempre più complesse, fino a divenire materia esistenziale, in cui la mano dell’uomo può plasmare sentimenti, angosce, stati emotivi e psichici, pensieri intimistici e concetti universali. Si tratta di un materiale antico come la creazione e molto spesso, è proprio il concetto di “creazione” che gli artisti ceramisti scelgono per descrivere la genesi delle loro opere. Essi paragonano il forno al ventre femminile, che accoglie il meraviglioso processo di formazione della vita. Così: “La trasformazione nella fornace - controllata e insieme incontrollabile - diventa parte integrante del processo creativo” . L’apertura del forno, dunque, diventa un rito colmo di apprensione; questo luogo ermetico dentro al quale i colori si sprigionano secondo alchimie e mutamenti repentini, dove vengono contenute le forme (e le non-forme), questo luogo in cui avviene il risultato finale, ricorda l’avvenimento della genesi, il miracolo della formazione di una creatura nel grembo materno. “Un ventre esterno, dunque, che annulla lo iato tra procreatività e creatività, un contenitore neutro che permette al maschile di parafrasare il femminile”. Il forno è un punto fondamentale e comune a ogni artista-ceramista, ma è anche un luogo di miracolosi accadimenti, è il luogo del divenire: dalla procreazione concreta e materiale dell’opera alla concretizzazione dei pensieri e dell’idea. E’ uno spazio di inizi e di incontri, basti pensare alla fornace della famiglia Mazzotti, che dagli anni Trenta del Novecento diventa un importante punto di riferimento per gli artisti dell’epoca; successivamente, negli anni Cinquanta, diventa la culla, il punto di partenza della ceramica informale europea. Sono gli anni in cui la passione per la ceramica è ammaliante e contagiosa; straripante di entusiasmo divora gli artisti italiani e non: se pensiamo a Picasso e alla sua esuberante produzione, ci rendiamo conto che il fenomeno coinvolge anche artisti che non hanno sempre scelto solamente la terra come medium artistico; ma è in Italia, soprattutto, che si sono sviluppati e affermati tanti centri importanti e determinanti per la produzione artistica della ceramica. Riprendendo le parole di Vergani, l’ Italia dispone solamente della terra povera; il ceramista italiano non dispone che di questa terra poverissima, eguale per il pollice del vasaio di paese e per il pollice del grande scultore. Così, ad Albissola, Faenza, Bassano del Grappa, Nove, i polpastrelli volavano e plasmavano la terra all’interno delle fornaci, animati da una forza segreta, delicata e strabiliante. Penso che l’arte di Melotti la cui opera scaturisce da un intelletto acuto, fervido e fantasioso, da uno spirito profondo e ricco, da uno sguardo visionario e ironico: Fausto Melotti.
L’artista nasce l’8 giugno del 1901 a Rovereto, in provincia di Trento; la sua formazione è a dir poco eclettica, decisamente ampia e inevitabilmente nutrirà tutta la sua arte, attraverso la varietà delle tecniche utilizzate e le molteplici variazioni della sua creazione artistica. Infatti, la molteplicità quasi leonardesca degli interessi dell’artista in questione, corrisponde perfettamente alle numerose sfaccettature della sua preparazione culturale: dopo gli studi classici, intrisi di contenuti storici, letterari e filosofici, Melotti perfeziona la propria preparazione in ambito musicale, diventando un ottimo pianista, lasciando che il linguaggio armonico e contrappuntato dello spartito elevi la sua produzione artistica (e letteraria). Inoltre, nel 1924, egli si laurea al politecnico di Milano in ingegneria elettronica, formandosi, dunque, anche in ambito scientifico; ma non è questa la sua strada, pertanto, nella seconda metà degli anni Venti, intraprende studi artistici all’Accademia di Brera, dove si specializza in scultura nel 1928. Nonostante la ricchezza di questo percorso formativo propedeutico, ad essere determinate in tutto il percorso creativo e produttivo dell’artista è “l’attitudine psicologica e mentale per cui ogni irrigidimento settoriale è inconcepibile e la circolarità delle espressioni artistiche è situazione non solo tollerata, ma postulata come necessità vitale”, in quanto, come sostiene lo stesso Melotti “nello sposalizio delle arti è la loro vita. La poesia è tale se sposa il sentimento della musica, la pittura sposa i sentimenti della poesia e della musica, la musica lirica la poesia, la musica contrappuntistica è sposata a un’idea plastica. L’arte pura non è zitella. Così, gran parte dell’arte astratta, non sposata al contrappunto, rimane zitella” . Questa sua molteplicità formativa riconduce ad una produzione creativa armonica e interattiva, che va oltre una linearità cronologica rifiutando ogni tipo di omologazione catalogica. Il processo ideativo di Fausto Melotti , infatti, sfugge al limitante tentativo di imitare la natura, in quanto egli considera la creazione artistica come qualche cosa di pertinente all’intelletto, come l’estrinsecazione di uno stato d’animo. La sua creazione artistica è “una metafora che, decodificata attraverso l’illuminazione complessiva del pensiero e delle opere, va intesa come una disponibilità potenziale a recepire e a dare forma a una specie di incanto tra emotivo e conoscitivo, che tende a identificarsi facilmente con il sogno” . Si tratta di una concezione visionaria dell’arte e non è facile definirla “ teoreticamente” nei suoi fondamenti, anche se lo stesso artista, con le sue annotazioni e i suoi aforismi, invita ad esplorare senza schemi precostituiti l’universo complesso e fantasmagorico che sta alla base della sua opera. Un’opera in cui le forme sono sempre coinvolte in sottili rimandi di pensieri, sentimenti e emozioni; germinano, prolificano e mutano restituendo “una specie di poetica della vita e dei suoi valori a dimensione classica” . Quella melottiana è un’arte che si rivolge all’intelletto e, come sostiene l’artista stesso, “ per questo è priva di importanza la pennellata in pittura, e in scultura la modellazione (impronte digitali della personalità – ‘il tocco espressivo’ inutile all’arte-arte: lo strumento più adatto alla musica contrappuntistica è l’organo, strumento senza tocco). Non la modellazione ha importanza, ma la modulazione. Non è un gioco di parole: modellazione viene da modello = natura = disordine; modulazione da modulo = cànone = ordine” . Nella produzione artistica di Fausto Melotti, vi è dunque una rinuncia alla rappresentazione del mondo naturalistico, secondo dei principi a cui l’artista rimarrà sempre fedele e che sono fondamentali per inquadrare l’opera innovativa a cui egli dà vita fin dagli anni Trenta. La scultura di Melotti, infatti, rifiuta i concetti tradizionali e radicati di materia e naturalismo, in un periodo in cui la scultura italiana è ancora fortemente legata a modelli arcaici. Infatti, mentre Arturo Martini, nel 1945 pubblica il suo appello sofferto su La scultura, lingua morta, sottolineando come l’arte plastica sia ancora legata a canoni ormai superati (come il piedistallo e un modello rispondente alle tre dimensioni), Melotti si sforza di farla rivivere, attingendo ad altri stimoli provenenti da altri campi disciplinari, come la musica, sottoponendo così l’opera plastica alle regole dell’armonia e del contrappunto. La sua arte risponde alla filosofia dell’immateriale e del musicale, implicando un riferimento importante come Lo spirituale dell’arte, caro a Kandinskji e alla cultura cattolica dell’artista; proprio per questo, nelle sculture di Melotti è inevitabile percepire un fondamento di spazio “interiore”, che fa delle sue costruzioni delle dimore o delle abitazioni dove vengono ricavate delle finestre, dei portali e in cui abitano personaggi o eventi naturali. Il riferimento all’abitare permette a Melotti di mantenere una costante fiducia nel linguaggio della terza dimensione, malgrado i molti cambiamenti stilistici che caratterizzano tutto il suo percorso artistico; un linguaggio che genera spazi dati da una geometria caricata di simbologie, che allude a stanze, palazzi, teatri in cui abitano complesse rappresentazioni mentali. Molte volte, questi luoghi sono abitati anche da uno spirito che conferisce alle sculture una certa forza trascendentale, caricata poi dai titoli delle opere stesse. Così, queste dimore, come Imago mundi, riproducono dei macrocosmi che riflettono i sentimenti e i pensieri dell’artista e ad essi si accede attraverso lo sguardo che “entra” nelle scene aperte all’esterno “ e siccome la nozione di accesso e di passaggio significa, nel mondo esoterico, iniziazione, Melotti tende a cercare un’equivalenza tra costruire e creare, tra creare e contemplare, tra contemplare e mutare” . Quindi, attraversare le aperture delle sue costruzioni, come nei teatrini o attraverso le trasparenze delle sculture metalliche, significa partecipare ad un processo iniziatico connesso alla creazione creativa, al momento in cui tutto ha inizio. Questo initium possiede radici profonde che risiedono nell’humus rosminiano presente nella terra d’origine dell’artista, ovvero Rovereto e tutta la produzione melottiana, dal 1925, quindi dal principio, fino alle ultime sculture del 1986, veicola l’immagine della porta, che rappresenta due concetti fondamentali: quello del tempo, parallelamente al concetto di inizio e quello dello spazio, che sottende al principio creativo e alla sua trasformazione. Entrambi, questi, rappresentano un momento di transito tra “una condizione che ‘non è’ e una ‘che è’”, sono il passaggio tra il negativo e il positivo, tra la figurazione e l’astrazione, tra il fuori e il dentro. “Essi formano un piccolo diario della sapienza esoterica con cui Melotti ha sempre cercato di assommare i due momenti tra il carnale e lo spirituale, tra il tenebroso e il solare, tra il rappresentato e il concettuale” . Il simbolismo melottiano è quello che appartiene alla cultura del cattolicesimo, cultura che emerge nelle prime sculture dell’artista risalenti al 1930-33, rappresentanti figurazioni sacre; ciò nonostante, Melotti giunge all’arte attraverso le esperienze del futurismo più aggressivo di Fortunato Depero, anch’egli di Rovereto. Successivamente, dopo il 1928, conosce Fontana, Wildt, collabora con Gio Ponti e ha modo di entrare in contatto con altre figure molto distanti dalla simbologia cristiana e molto più vicine al contesto dell’astrattismo, ma il motivo dell’iconografia sacra mette in luce un itinerario caratterizzato dalla spiritualità, da una ritualità magica e mitologica che forgiano la coscienza scultorea di Fausto Melotti; così, egli riconsidera forme e figure primarie, simboliche, come il cerchio e il quadrato, la luna e il sole, ma anche la casa, il labirinto e infine ninfe e dei. Questo suo itinerario libero da ogni ortodossia scultorea è caratterizzato da una grande varietà di instabili formulazioni compositive che oscillano tra il decorativismo, la progettazione concettuale e la pura rappresentazione dell’irreale. Si tratta di un fare arte vitale, aperto e libero, in cui le opere rispondono ad un astrattismo spiritualista e metafisico e vengono caricate di giocosa sensualità, ironia e impegno intellettualistico. L’insieme delle sue sculture (ma anche dei suoi disegni), che siano date dall’intreccio di racemi metallici, da materiali plastici, da gesso o dalla modellazione della terracotta, si presentano come entità sospese, in equilibrio. Raccontano favole, leggende, miti onirici e narrano un universo fantasioso, stravagante dove le figure si manifestano elegantemente, con leggerezza, dando corpo a viaggi e percorsi mentali dentro un mondo simbolico e complesso. Un mondo acceso dalla “gravità caotica e polimorfa degli insiemi, in ceramica e in terracotta, che formano un miscuglio di rigore e di inconsistenza che esalta la dimensione del sogno e del racconto” , dove l’atmosfera è aerea, meravigliante e trascendente. I personaggi che abitano questi spazi, infatti, sembrano muoversi oltre la gravità del reale, oltre la concretezza pietrosa o terrosa della materia; concretezza che diventa ponte ideale tra il reale e l’astratto, tra il terreno e il celeste. La concretezza della terra, del gesso, dell’argilla con cui Melotti materializza i suoi spazi mentali veicola anche la solidificazione di questi, richiamando la fissità dell’architettura. Si tratta di un’architettura razionalista, a cui Fausto Melotti è legato e da cui viene influenzato, in quanto ha dei forti legami di amicizia con architetti come Figini, Pollini, Terragni, con il quale collabora nei primissimi anni Trenta del novecento. Si tratta di una collaborazione importante per la realizzazione di una fontana, creata sull’orchestrazione sapiente di simbologie acquee. L’acqua, infatti, simboleggia prima di tutto la rigenerazione e la fontana diventa simbolo di infinite possibilità e di un continuo mutamento; l’acqua ha il potere di fecondare, di raddoppiare, di dare nuova vita, quanto di purificare e rivelare. Questa simbologia, fa approdare Melotti alle prime terrecotte. Le prime forme ricavate dal materiale argilloso sono figure femminili, a volte distese, altre volte raffigurate con le braccia tese; sono grezze, non levigate e mantengono una certa materialità, nonché la spontaneità espressiva dell’artista. Rimandano alla ruvidità delle terrecotte di Arturo Martini e alla “vivezza” delle sue sculture essenziali e nonostante questi due artisti prendano strade diverse,non si può negare il debito giovanile di Melotti verso il maturo scultore trevigiano, basti pensare a opere come Donna alla finestra del 1930-31 e Solitudine del 1932, che potrebbero essere state da stimolo per una riflessione da parte di Melotti, sulla composizione della scena, anche come preludio a quelli che poi saranno i Teatrini, prima sviluppati nei disegni degli anni Trenta e poi concretizzati attraverso la creta dagli anni Cinquanta. Ma prima di entrare nello specifico dei suoi Teatrini e quindi anche della sua opera in ceramica, è opportuno chiarire altri aspetti importanti della poetica di questo artista che fa dell’arte astratta, non qualcosa di fenomenico, ma qualche cosa di geometrico, che si basa sull’armonia, un po’ come la musica, di cui egli è un grande appassionato fin dall’infanzia. E proprio quest’ultima, sarà determinante per la sua arte, in quanto gli permette di vedere la scultura come un processo per arrivare ad una architettura ricca di armonia. I costanti riferimenti musicali trasformano le opere in “variazioni”, “composizioni”, “repertori”, “contrappunti” e sono l’esempio “dell’arte nata dall’arte”. La musica è dunque inscindibile dalla sua vita e dalla sua arte e il contrappunto , come afferma lo stesso artista, è basilare, conferendo alle opere di Melotti un linguaggio espressivo assolutamente autonomo. Infatti, fin dagli anni Trenta, lo scultore trentino, pur partecipando all’esperienza dell’astrattismo italiano ed europeo, si presenta con caratteristiche proprie e agisce su un piano diverso rispetto ad altri artisti di quegli anni. Melotti sceglie di dare alle sue opere un’impronta di carattere organico, una tensione verso l’antinaturalismo, l’accentuazione dell’elemento non figurativo e i richiami all’antica Grecia, elementi questi, che fusi insieme generano un’arte forgiata su leggi proprie molto legate alla musica, ma anche alla matematica. I principi matematici e le essenze della geometria sono anche le caratteristiche dell’astrattismo italiano e europeo degli anni Trenta, dove “lucidi teoremi stavano riordinando l’organicità e l’irrazionalità del mondo” ma Melotti ha sempre avuto una visione personalissima sull’astrattismo e, quando iniziano a manifestarsi i dibattiti sul problema della forma e l’identità dello spazio, egli filtra tutto alla luce delle sue più ampie vedute e dei suoi più profondi e irrequieti umori. “Una stagione, un clima, non certo subito come semplice ideologia, come rigoroso schema, ma, già da quegli anni, vissuto come un orientamento mobile e aperto, in cui alle assiomatiche citazioni dall’ordine, dalla geometria, dal rigore, hanno sempre fatto eco sinuosi movimenti di germi angelici, ricchi riferimenti ad ombre ambigue e musicali, una dolce ironia tra speranza e negazione, intrecciata ad una ricca narrazione mitologica. Non sarebbe stato sciocco sclerotizzarsi, immobilizzarsi in un’unica idea, un solo principio? Non sarebbe stato fatale, per l’estro dell’invenzione - il cuore dell’arte – ridursi a pochi limitati concetti?” . Con questo suo respiro libero, con questo suo gioco delle forme e delle atmosfere, Melotti ha dimostrato che l’astratto può assumere organicità e che la materia può essere animata da uno spirito. La sua opera sembra dunque concretizzare la profezia espressa da Arturo Martini nel 1944, quando sosteneva che l’arte plastica non avrebbe potuto non riferirsi a qualche cosa della natura, perché anche l’uomo è Natura, ma che comunque la scultura avrebbe dovuto essere “la più sottile, la più astratta delle arti”. Ciò nonostante, Melotti sfugge al naturalismo di Martini, per dare vita ad un universo tutto suo, straripante di leggerezza e intelligenza, dove linee e forme si muovono liberamente oltre il vincolo della raffigurazione oggettiva, rivelando un ricco astrattismo gravido di spiritualità e grazia. Un astrattismo che non rinuncia a quel che, nell’arte, è stato tramandato nei secoli; non rinuncia ai ricordi, ai sentimenti, alle analogie e alla narrazione. E’ difficile, per ogni artista, dimenticare le grandi creazioni dell’arte del passato, quasi impossibile ignorare quell’arte tanto antica che continua ad essere fonte di ispirazione e ragion d’essere per l’arte contemporanea; pertanto, le creazioni fantasiose di Fausto Melotti, possono essere percepite anche come reminescenze di un “fare”artistico trascorso, passato, ma permanente nell’inconscio dell’artista, che nonostante la sua aderenza all’astrattismo, non scivola nell’assolutezza di questo, salvando quindi le risonanze artistiche del passato, nella loro molteplicità, perché, come sostiene lo stesso artista, “le opere d’arte sono spiriti” . Fausto Melotti, sin dal 1933, si indirizza verso uno spazio irreale, dove i dati oggettivi del reale vengono accantonati, nascosti, anche se l’opera ritrae un volto, una figura, questa viene frantumata. Sono gli anni in cui Melotti inizia a sperimentare la terracotta e ricorre alla raffigurazione arcaica, quasi etrusca delle figure, che vengono proposte come rovine di terra in modo da esaltarne la matericità. In queste opere l’artista non ricalca la realtà, non la imita, ma fa della scultura una manifestazione del sentire interiore; la materia viene plasmata dallo spirito del “fare”, illuminato dall’intelletto, dal pensiero e dall’idea. Le figurette degli anni Trenta sono investite dalla materia e ne subiscono la carica; “ sono organismi ansiosi di elevarsi, di scorazzare liberi nell’ambiente” . Sono gli anni dei primi Teatrini: ambienti e spazi teatrali abitati da figure girovaghe e polimorfe, rese con forme sintetiche e dense. Queste opere sono un concentrato di pensiero, sono la frontiera tra la stasi e il movimento, tra la razionalità e il sogno, dove corpi e architetture si fluidificano e emergono dal silenzio. E l’architettura continua ad essere una costante importante nella produzione di Melotti, è a questa che egli continua a guardare, mescolando l’acqua e la terra come per costruire un edificio arcaico. Questa osmosi tra architettura e arte, porta Melotti ad incontrare il percorso di un altro artista che proprio negli stessi anni sperimenta il medium della terracotta, ovvero Lucio Fontana. Come Lucio Fontana, anche l’artista di Rovereto è mosso dal desiderio di fondare una scultura che si erga su nuove regole e soprattutto sulla graduale conquista dello spazio, considerata come estensione dell’opera plastica. Entrambi, sono spinti dalla necessità di liberare la scultura dalle costrizioni della materia, ma in modo diverso, secondo processi mentali differenti, che portano i due artisti su strade diverse: da un lato, Lucio Fontana e la sua libertà assoluta che “ tende a frantumare l’assolutezza plastica- volumetrica”, dall’altro Melotti, che vuole rintracciare “regole matematiche con l’intento di sviluppare una metafisica sospensione temporale” . Inoltre, Melotti muove la sua arte basandosi sul rigore, sull’ordine della classicità greca, Fontana, invece, è più attratto dall’arte barocca. Nonostante queste diversità linguistiche nel comunicare lo stesso messaggio, i due artisti hanno modo di collaborare nel 1930 alla Mostra dell’Abitazione , in cui si presentavano case modello. Sono gli anni in cui Fontana sperimenta la terracotta dipinta di oro e argento, ispirato dai grandi mosaici ravennati; le sculture diventano eteree e tendono all’impalpabile, fino ad arrivare ad una dimensione astratta, assumendo figurazioni irregolari e polimorfe tendenti alla conquista dello spazio circostanti, prime manifestazioni di quelli che poi saranno i concetti spaziali. Melotti, parallelamente, attraverso una prima defisicizzazione della figura, giunge nel 1934, ad una realtà scultorea mentale e intellettualistica. Il magma delle opere diventa manifestazione dell’idea, attraverso il gesto che svela e, se “Fontana lavora sulla fluidità interna, sull’affondamento in un territorio segreto che diventerà taglio e buco”, Melotti “opera sull’emanazione, anch’essa segreta, ma via via identificabile nella figura e nella forma, di un invisibile visibile” . Siamo alla metà degli anni Trenta e Melotti investe la sua produzione artistica di strutture modulate al fine di ricavare l’essenza, l’idea delle sue figurazioni, al contrario di Fontana che invece tende all’essere materico e gestuale. Per questo, la scultura di Melotti, diventa concettuale e sorprendente; non astratta, ma piuttosto ermetica, “perché capace di far riflettere sulle condizioni dell’assoluto umano e divino. Dall’essenzialità scientifica e musicale” . Negli anni Quaranta, dopo che la sua scultura astratta ha già ricevuto, alla fine degli anni Trenta, un’attenzione internazionale; Melotti continua a produrre arte pur sentendo di non essere più affine alla società di quei tempi storici – artistici. I primi anni Quaranta vedono Melotti autore di un linguaggio sofferto, incerto, vittima del clima complesso portato da una guerra crudele che sferra un duro colpo allo spirito di molti artisti, portandoli a lunghe eclissi del loro lavoro. E’ un periodo in cui Melotti si ritrova a percorrere strade non sue, sono quelle dell’espressionismo, che nelle sue manifestazioni non sempre eccelse, costituisce l’ultima parola di tempi duri e feriti dal conflitto. Sono tempi in cui la crisi colpisce anche gli ideali e Melotti si trova costretto ad uscire gradualmente dall’astrattismo puro, in quanto la tragedia della guerra ha lasciato in lui un grande travaglio interno e, come confessa egli stesso “per poter fare dell’arte astratta, non vi si può pensare avendo nell’anima, non dico disperazione, ma le figure della disperazione” .
Proprio queste figure, che vagano nella mente dell’artista, si concretizzano negli anni 1943- 45, quando le figure si manifestano in un intreccio turbolento tra forma e materia; ne sono un esempio le opere Storia di Arlecchino (1944) e Lettera a Fontana (1944). In queste opere Fausto Melotti rende le forme fantastiche e libere da ogni formula astratta, così che possano accogliere tutta la potenza immaginativa del processo creativo. Sono due opere in cui la materia ceramica sembra ribollire, tanto che esterno e interno dell’opera si confondono nell’indefinitezza dei confini magmatici, come del resto è magmatica la totalità della forma. In questi anni intrisi di tragiche difficoltà, Melotti a fatica riesce a riallacciare il discorso artistico iniziato pochi anni prima e a venire in suo soccorso è ancora la musica, che indirettamente, intrinsecamente lo guida verso i suoi ‘Lieder’(una parola tedesca che significa letteralmente ‘canzoni’o ‘romanze’), ovvero i suoi Teatrini, composizioni ricche di carica poetica da cui egli non si discosterà mai. Sono composizioni materiche, ma di evocazione musicale perché, come Melotti stesso afferma: “non vedo perché un artista capace di comporre delle fughe debba rinunciare alle canzoni. Sono i miei Lieder”. Se i Lieder sono l’incontro tra un mondo musicale e uno letterario, allo stesso modo i teatrini rappresentano, in qualche modo, l’incontro tra la materia volumetrica e le relazioni “psicologiche, evocative che legano i piccoli oggetti e le figurine umane” sono racconti particolari quelli dei teatrini, come quelli dei Lieder e così, i due vengono paragonati. Nei canti romantici non vengo narrate gesta eroiche, ma le nostalgie, le malinconie e i rimpianti rivolti verso qualche cosa che irrimediabilmente è stato perduto. Nel Lied “il soggetto si rivolge –dentro se stesso, nel proprio intimo – a un’immagine: quella dell’essere amato. Si tratta si di un dialogo, ma di un dialogo immaginario, che si svolge tutto nell’interiorità di un’anima che si scioglie nel canto” . Allo stesso modo, i teatrini, sono lo sviluppo di racconti immaginari, proiezioni mentali e avvengono in luoghi raccolti, intimi con cui possiamo intessere dei legami di familiarità. La formula del teatrino melottiano, rappresenta anche una forma di soglia tra interno e sterno, tra ciò che risiede custodito all’interno e ciò che viene emanato, portato, manifestato al di fuori e tutto ciò- come per il Lieder – non è altro che “la proiezione sensibile, nel canto, addirittura fisiologica, di un sentimento, di uno stato d’animo” non è altro che la manifestazione di una faccenda tutta interiore. Un riferimento importante a quanto detto, va al Lamento sugli eroi morti del 1961, realizzato in ceramica smaltata e terracotta dipinta. In quest’opera, la struttura è composta da un vano interno smaltato in rosso vivo, mentre le giunture che dividono gli spazi sono lasciate più grezze; le pareti che danno profondità a tutto lo spazio, sono lasciate bianche e sono caratterizzate da profili tinti di un colore scuro che sembra “riaffermare e sottolineare il confine oltre al quale si apre uno spazio altro, di natura diversa da quello dell’esistente quotidiano: lo spazio della memoria, dell’elegia, lo spazio del ricordo divenuto canto” . Questo spazio della memoria è propri anche dei Lieder e, come scrive Massimo Carboni, questa traccia potrebbe essere la fonte di una linea interpretativa che accomuna tutti i teatrini di Melotti, facendoli emergere come spazi figurativi simbolici che rievocano il concetto dell’ urna. Teatrini - urne, dunque, che rievocano la tradizione romana delle urne a capanna atte a “dare al defunto, e più propriamente alle sue ceneri, un’abitazione simile a quella che avevano avuto in vita” . Secondo questa interpretazione, il teatrino assume l’aspetto di una rudimentale dimora , dentro al quale si svolge una storia, una vita, un quotidiano fatto anche di emozioni, stati d’animo, ricordi e rimpianti che vengono proiettati attraverso le figurine che albergano queste composizioni spaziali. Rimanendo nel concetto - seppur simbolico - di dimora, Il Teatrino altro non è che una caratteristica costruzione in terracotta, una sorta di sezione di uno spazio abitabile, di dimensioni e forme diverse “ordinate in proiezione ortogonale contro uno sfondo cieco, entro le quali mima situazioni di incontri, di presenze, di vita straniata e assorta” . Questi misteriosi spazi, che a volte si svelano agli occhi di tutti, ospitano figure le cui forme rimandano spesso alla figura umana, ma molto più spesso accolgono oggetti, carte, tessuti, frammenti, che fanno riemergere un tempo sospeso, favoloso e teatrale. Si tratta di una scultura che racconta, che narra e si definisce tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, per essere poi ripresa e perseguita con continuità anche negli ultimi anni della sua attività artistica. All’uscita della guerra, nel 1945, Melotti si rifugia nell’intimità di queste piccoli spazi, fatti di ceramica e sposta la sua attenzione da un mondo classico permeato dai grandi ideali, per concentrarsi su di un mondo più soggettivo e individuale, caratterizzato dal legame naturalistico e favolistico tra l’essere umano e l’universo. Durante questo percorso creativo, l’artista si rivolge, così, “al pathos psicologico e alle credenze primordiali” , come nelle opere Il sogno, L’eco, Il diavolo che tenta gli intellettuali, tutte del 1945. Queste composizioni , realizzate in ceramica smaltata, danno vita ad un piccolo mondo, un macrocosmo brulicante di azioni sospese, pensieri, sogni, gesta; tutto sembra accadere come a sipario aperto, tra il silenzio e i rumori immaginati. All’interno di queste scene in equilibrio tra l’immobilità e la dinamica , le figurette in ceramica, sembrano arrivare dalle oniriche fantasticherie di Hieronymus Bosch o di Joan Mirò. “Dalla dissacrazione e nel collasso delle astrazioni scaturisce una concezione di vita che tiene conto della totalità individuale, personale ed intima. La scultura si fa dimora e focolare, definisce un centro del mondo, delimitato e perimetrato, un microcosmo autosufficiente. Qui le raffigurazioni, più che al patrimonio dei segni generali, appartengono alla simbologia del singolo, sono espressione di un’emotività soggettiva. Descrivono avventure di un protagonista in un regno di sogno, incarnano un enigmatico equilibrio”. Tutti i teatrini si mostrano frontalmente e svelano uno spazio intimo, spesso alogico; sono spazi di un inconscio figurato, che Melotti rappresenta attraverso immagini di ordine onirico, dove i personaggi filiformi appaiono senza volto. Il teatrino, diventa così, un luogo in cui l’inconscio invisibile e impalpabile, si manifesta. Nel tempo, quasi a sottolineare la natura metafisica e concettuale di questi luoghi sospesi, il termine generico di “teatrino”, viene sostituito con titolazioni dalle note allusive e letterariamente ricercate; aspetto, questo, che contrasta con la struttura di queste scenografie fantastiche, le cui pareti vengono dipinte per zone settoriali, a volte a colori molto vivaci e squillanti, tanto da suggerire contesti popolareschi in cui vige la semplificazione visiva caratteristica di un immaginario folcloristico o infantile. Questa “sostituzione” intellettualistica al termine generico “teatrino”, anticipa un processo di riconsiderazione della formula dei “teatrini”, suggerita dal Melotti stesso agli inizi degli anni Settanta; un processo come “ traghetto rispetto ad una stagione di tormentata sperimentazione” , in cui l’artista “ coglieva esattamente un complesso travaglio dalle certezze metafisiche alla disponibilità del dubbio e dell’ironia”. Tale metamorfosi non è il risultato di un meccanismo naturale e fisiologico, ma avviene attraverso “ tramiti speculativi e operativi che preliminarmente tendono a mettere in ombra i postulati rigorosi della scienza, della razionalità, della geometria” . Forse, proprio in questo ultimo aspetto, potrebbe esserci la motivazione della diffidenza che Melotti ha sempre nutrito nei confronti del fuoco, proprio perché simbolo della dismissione di ogni controllo dell’invenzione, “ il rovesciamento dalla proposizione progettuale diretta, quale era stata tipica dell’esperienza neocostruttivista, verso una più sfumata disponibilità all’evenienza misterica, in qualche modo irrazionale” . Il “teatrino”, nella sua forma architettonica, giunge gradualmente alla struttura sezionata dell’alveare, che si affermerà come aspetto caratterizzante nella produzione artistica dell’ultima stagione melottiana. In questa struttura architettonica entrano in gioco elementi di diversa natura: alcuni di ordine strettamente formale, altri più emotivi e suggestivi, altri ancora di matrice letteraria. Questo processo di metamorfosi, che trova la sua origine tra la fine della guerra e i mesi immediatamente successivi, si verifica come un travaglio faticoso e sofferente, nel percorso
dell’artista trentino, la cui arte viene veicolata, talvolta, da recuperi, rivisitazioni e divagazioni tortuose. A partire da questo periodo, nella produzione artistica dell’artista, vi si intersecano due filoni diversi, ma complementari; da un lato, l’elaborazione di soggetti figurativi secondo tipologie tendenzialmente esoteriche, che traspongono una realtà trasognata di ordine mitologico e extranaturalistico, dall’altro emerge la trascrizione di uno spazio incantato, mentale, che ospita eventi fuori dal comune. I primi esegeti dell’opera melottiana, notano lo stretto rapporto tra i disegni dei primi anni Venti e le strutture dei teatrini in terracotta stabilizzate in epoca matura e, esattamente come avviene alle origini della sua esperienza poetica, il fulcro della visione dell’artista ruota attorno ad una definizione veristica della figura, ma non naturalistica, in quanto la figura è la trasposizione di una idea o di una emozione vere, reali, ma di una realtà soggettiva e individuale, che assume forme altre dalla natura. Questa traslazione, che avviene attraverso una materia elementare e primigenia quale la creta, non ha nessuna pretesa imitatrice, riproduttiva o simulatrice, ma percorre la via più distante dai limiti della figurazione canonica del reale, per incontrare uno spazio decontestualizzato e fantastico; lo stesso spazio onirico e fuori dal tempo che Melotti aveva inseguito nella sua giovinezza. Ne è un esempio l’opera ceramica realizzata nel 1944 Lettera a Fontana, che omaggia l’amico e contemporaneamente rivela una vitalità che appartiene ad un mondo lontano, altro, non naturalistico; ciò dimostra come, già in questi anni, la poetica antinaturalistica che nutre tutta l’opera di Fausto Melotti, sia già definita e dimostrativa del fatto che ci sia “ un confine preciso fra la figurazione e la trasfigurazione. La figurazione è della natura fisica, la trasfigurazione è del démon” .  Queste strutture ceramiche, apparentemente modulari e fisse, sono in realtà dinamiche in quanto scatenano una articolazione narrativa, dove il racconto può interrompersi e ripartire in qualsiasi momento, ne sono un esempio le opere Angoscia (1961) o Epilogo (1954), dove dal racconto emerge la solitudine, la precarietà di un esistenza confinata nel vuoto. I teatrini sono sogni affascinanti, animati da figure e corpi di forte carica poetica e fantasiosa, ma sono anche dimore, spazi, luoghi “in cui la vita personale e sociale oscilla e trova una forma, incantata e tragica, capricciosa e angosciata. La dimora si tramuta nel luogo della farsa e del dramma, comuni a tutti” 210. Ma dato che non esistono né luoghi identici, né esperienze uguali, i teatrini sono anche “insediamenti visivi in continuo peregrinare”  e rispecchiano il nomadismo temporale e spaziale dell’artista, nonché la sua percezione del mondo, a volte ironica , a volte fantasiosa e umoristica, altre volte triste, amare e malinconica. Alcune di queste composizioni ceramiche riflettono un approccio alla vita, particolarmente desolato, disperato, gravato dal peso di un’esistenza di solitudini e incomprensioni, come in La vita a pezzi (1961), ma i teatrini, “ assunti nella loro totalità, si possono invece accettare come ‘centrali energetiche’, in cui e attraverso le quali l’artista custodisce la sua forza creativa e si ricarica, un rito costante che riplasma la vita”  . Questi spazi sacri, abitati dalle immagini del sogno e da accadimenti fluidi, prendono forma negli anni tra il 1943 e il 1945; avviene un passaggio importante, dall’inconsistenza del gesso alla consistenza cristallizzata della terracotta e della ceramica, che permette di comunicare le increspature, le fratture e le mutazioni incessanti di un’anima rabdomantica,così, le immagini e le visioni si inspessiscono e prendono corpo, fino ad essere tangibili. Dalla pietrificazione dei suoi teatrini, l’interesse da parte di Fausto Melotti per la ceramica, si amplifica e si consolida come fulcro creativo per tutto il decennio successivo. La ceramica, per l’artista, rappresenta uno strumento per condensare le immagini, i pensieri e i concetti che gravitano vorticosamente nella sua mente; è un processo di densificazione attraverso una materia fragile ma limpida, che passa attraverso i teatrini per poi investire anche le algide e filiformi figure femminili prodotte nel decennio tra il 1948 e il 1958. La ceramica è un materiale, che pur essendo fragile e leggero, esclude l’ariosità e la trasparenza, per essere fluida e lavica; con queste caratteristiche, l’artista trentino passa dal modulato al modellato, nel tentativo di “ trovare nelle nostre opere  piani che, giocando fra loro, danno vita a piani immaginari. Un gioco che quando riesce è poesia” . E’ un gioco di trasformazioni, che si lega anche alla decorazione, pratica che porta Melotti a lavorare nuovamente con gli architetti; infatti, in questo periodo e più precisamente dal 1948, egli si dedica alla produzioni di vasi, che prendono la forma di donne affusolate, di soli o di animali, attirando l’attenzione di Gio Ponti e della sua rivista Domus, fondata nel 1928 dall’architetto stesso. E’ importante sottolineare, come questa rivista sia stata determinante per la promozione del “nuovo” nel campo del design, dell’architettura, delle arti applicate e per l’interazione tra questi campi artistici, divulgando nuovi umori culturali, pur mantenendo la continuità con quelli passati. L’attenzione alla ceramica diventa una necessità individuale, ma anche storica e diviene fondamentale per la sopravvivenza e la continuazione di un linguaggio materico che pochi anni prima era stato caricato di svariati valori: come energia da parte dei futuristi, come luminosità da parte di Fontana, come carne e pelle da parte di Leoncillo. Attraverso questa materia imprevedibile e incontrollabile, gli artisti ricercano il fenomeno dell’informe, ambiscono a una scultura che non sia chiusa, ma fluida e, nelle sue dilatazioni, aperta allo spazio circostante. Si tratta di uno spazio in cui la materia, “nelle sue aggettazioni ed esplosioni di forme”, viene accolta con la sua ansia di colmare i vuoti. Questo avviene con Fontana e con Leoncillo, in quanto la materia si disfa, si sforma e le sue viscere colano verso l’esterno, disponendosi nello spazio. “Il suo sgorgare è metaforizzato nel processo informale che, rimuovendo le cesure e le chiusure, rifiuta anche i limiti dei corpi e delle materie chiuse” . Il valore di tutto questo, diventa liberatorio per Fausto Melotti, che ha la possibilità, attraverso la ceramica, di esprimere il suo spirito giocoso, ironico, fanciullesco, che darà nutrimento alla scultura dagli anni ’60 fino alla metà degli anni ’80. In questo particolare periodo del secondo dopoguerra, l’elemento costante nelle opere “sperimentali” di Melotti, è la fiducia costante nella pratica artigianale, che lo porta a risultati felici, come le collaborazioni con Gio Ponti e il lavorare accanto a Lucio Fontana; una pratica che spesso si tinge di ironia, di gioia, che qualche volta si volta indietro verso l’incontaminata infanzia, dove le realtà sono sempre positive e accompagnate da sinfonie armoniose. Infatti, le sculture ceramiche di Melotti, soprattutto i teatrini, non dimenticano il suo passato che è stato anche musicale e risvegliano continuamente quel “soffio sonoro” il contrappunto ritorna, anche se accompagnato dal racconto materico che coinvolge i personaggi e le loro storie. Questa ricca ricerca spaziale, permane negli anni, ma assottigliando sempre di più l’incidenza della modellazione, fino a quando alla tavoletta di creta si sostituisce la base in gesso: “ma a quella data l’universo fantastico melottiano era già stato rivisitato dalla musa dei colori e dei sogni, dalla pittura nei termini canonici, e l’indagine squisitamente investigativa dello spazio si intreccerà strettamente alla profusione narrativa di un universo fantastico senza confini”  . Dunque, l’ideazione dei teatrini come mezzo funzionale alla narrazione della poetica di Melotti, trova la sua conformazione finale negli anni più appartati del dopoguerra, creando un itinerario che trova la sua origine nell’altorilievo del Diavolo che tenta gli intellettuali , per poi procedere con l’autoritratto Solo con i cerchi e altre opere, che inevitabilmente subiranno qualche variazione dal punto di vista delle formule formali. Naturalmente, queste formule sono il riflesso di tutto un background culturale e personale che si espande su diversi interessi (già citati precedentemente), ma sono anche il risultato di influenze definitesi altrove; basti pensare al taglio della composizione o all’organizzazione del racconto. Una di queste influenze, proviene indubbiamente dalle composizioni in terracotta di Arturo Martini, che erano state pubblicate proprio negli anni formativi dell’artista trentino: sono vari racconti di tipo novellistico, (come La moglie del pescatore, Il sogno, Il risveglio, Donna alla finestra) in cui “l’inesauribile plasticatore trevigiano trasferisce nel tuttotondo di impianto scenografico il ductus narrativo tipico della formella a bassorilievo, ma evitando di mortificare l’evento in pura cronaca veristica: l’aura complessiva restituisce sempre quel tono di ‘sorpresa’ che Martini aveva sì captato nella teatralità barocca (Bernini in primis)” , ma raffreddando il tutto secondo lo stile “sospeso” tipico di Valori Plastici. Per comprendere l’idea dei teatrini melottiani e la loro maturazione tridimensionale, occorre considerare anche la poetica dell’artista negli anni Trenta: oltre agli antefatti grafici che diventano le radici dei successivi teatrini tridimensionali, vi sono anche degli antefatti figurali, che si collocano negli anni della prima attività milanese di Melotti. Il primo teatrino, infatti, (presente nelle mostre dell’artista, tenutesi a Milano, Roma, Firenze tra il 1979 e il 1983) presenta un gruppo di figure entro una cornice magica, dove “ la bifaccialità o, se si preferisce, la trasparenza, la circolazione dell’aria, aumenta il senso di ambiguità dell’operazione di ritaglio spaziale avvolgente ma irregolare, viene generando”. La categoria dei teatrini risulta essere la concretizzazione di un insieme di tracce (soprattutto grafiche), che narrano un’idea, un racconto, una contemplazione; è una categoria le cui forme sono originate da un fantasia felice, libera e che diventa connotante verso la metà degli anni quaranta, ovvero negli anni del cosiddetto “silenzio” melottiano. Dunque, dalla fine degli anni Cinquanta per tutto il decennio successivo, la poetica di Fausto Melotti va definendosi nel suo inconfondibile lirismo favoloso e il teatrino, “nel complesso suo sistema polifonico  si accaparra con decisa autorevolezza il registro dell’affabulazione, lo snodo delicato della parola illustrativa nella trasfigurazione musicale, i tasti perigliosi della contestualizzazione storica, perfino politica, della narrazione, della registrazione intima e trasognata degli eventi naturali nella patina soffice del tempo transeunte, nella trasposizione incantata di uno stacco contemplativo folgorante, fulgidamente prerazionale: una condizione aurorale di coscienza” . E’ la stagione matura della creatività melottiana, caratterizzata da una fantasia senza condizionamenti sposata ad una certa raffinatezza neoellenica; le forme prendono vita da una cultura visiva fondata su influssi classici, rinascimentali, ma anche primitivi e folcloristici, fino alle esperienze delle avanguardie del ventesimo secolo. Sempre negli anni Cinquanta, l’artista definisce la struttura dei “teatrini”, che rimarrà per essi costante: si tratta di una stanza di una profondità percepibile e suddivisa al suo interno mediante l’incrocio di linee ortogonali, intervallate secondo un ritmo irregolare. Questa struttura spaziale sembra facilitare la lettura della narrazione che vi ha luogo al suo interno, che appare caratterizzata da una certa continuità; in realtà, gli assi ortogonali che si intersecano nello spazio, creano delle interruzioni tali che l’artista, può “mettere in scena” il proprio racconto in maniera tutt’altro che continua e unitaria, dando vita ad eventi fra loro sconnessi in un continuo richiamo tra le vicende. Sono luoghi entro cui gli accadimenti si snodano senza una coerenza prestabilita e senza logica di ragionamento; sono carichi di reminescenze metafisiche, che contribuiscono in un certo senso, alla strutturazione degli spazi che si sottraggono al rigore del buon senso; ma al contempo, sono spazialità che rispondono sempre con “animo commosso e trepido” .
Questi, sembrano cercare una dimensione che gli sia propria e la trovano nella liricità e nella tragedia, che per natura si allontanano dall’astrattezza metafisica. La tipologia della struttura a celle e alveoli permane; con essa va perdendosi l’idea di racconto e emerge una “comunicazione cercata e ostinatamente reiterata, fra sonno e veglia, fra sogno e realtà, fra ricordo e allucinazione, ma senza più alcun vincolo di ragionevolezza”  . Ad abitare questi “luoghi – non luoghi” sono figure, ma anche segni, fino a che questi teatrini saranno animati solamente da elementi non figurativi: Epilogo (1954) ne è un esempio; ci saranno dei ricorsi ad una realtà trasfigurata negli anni ottanta, come dimostra l’opera L’acrobata si avvia (1985) e, nel tempo, questi teatrini accoglieranno anche materiali diversi che si accosteranno alla ceramica contaminandola. In realtà, le prime inserzioni di materiali altri da quello fittile, come il bronzo e l’ottone, sono riscontrabili già negli anni tra il 1949 e il 1950, ma più rilevante è l’individuazione del momento preciso in cui avviene una modificazione della struttura spaziale del “teatrino”, ovvero dal ’59 , data in cui Melotti realizza l’opera in terracotta, ceramica smaltata e ottone intitolata Il museo. In questo teatrino, l’artista apporta un’effrazione alla spazialità chiusa delle sue “stanze”e lo fa attraverso degli elementi che si sviluppano secondo un orientamento verticale. E’ una verticalità che richiama le strutture metalliche e “filamentose”, che l’artista realizza quasi parallelamente alle sue terrecotte, a volte creando anche incontri tra queste sue diverse immagini scultoree. Questo dimostra come, in realtà, non ci siano “sponde preventivamente e concettualmente alzate”  a separare questi due diversi modi di concretizzare le proprie visioni scultoree. Infatti, questi due modi “compiono il loro viaggio avvertendosi compagni autentici di strada e scambiandosi reciprocamente frutti ed esperienze” questo avviene nonostante lo stesso Melotti continui, nel tempo, a riservare a questi diversi modi due distinti atteggiamenti del suo “animo di ‘faber’, l’uno più casto e mentale, l’altro più affabulante, incantato e rischiosamente involto con le irrequietezze della materia e del colore” . Proprio questo “camminare” assieme di fili metallici, terracotta e ceramica, da origine ad un incontro; questo avviene nell’opera Equilibri del 1959-60, dove la spazialità viene mutuata dalla struttura del teatrino e viene anche impreziosita dall’inserzione di elementi in ceramica smaltata. A proposito di incontri, è noto e piuttosto importante, come quello tra fausto Melotti e la ceramica sia stato il frutto di una necessità. Egli non amava particolarmente la ceramica, la riteneva “ un posticcio, una cosa anfibia e sotto sotto c’è sempre un piccolo imbroglio, perché non puoi mai sapere esattamente quello che fai. C’è un super regista che è il fuoco, che ti monta sulle spalle e alla fine dirige lui le operazioni” ma come dichiara in un’intervista del 1984, “ la ceramica ha dato da mangiare a me e alla mia famiglia quando nessuno mi considerava” . Egli non sapeva nulla della ceramica e la ceramica non sapeva nulla di lui, si sono incontrati per un’urgenza della vita e per un amabile scherzo del caso si sono legati: così Melotti, come scrive in una lettera alla moglie Lina, nel settembre del 1943, inizia “se non a proprio a lavorare, a trappolare” . E questo fare per gioco, si trasforma in un lavoro assiduo e sempre più raffinato che ricopre ben trent’anni della sua carriera, riscattandolo anche dalla sua precedente condizione di scultore incompreso (si ricordi quando nel 1935, Carlo Carrà a proposito delle sculture astratte esposte per la prima volta alla Galleria il Milione, afferma: “è intelligente, ma non è scultura”). Il lavoro ceramico di fausto Melotti, anche se non è il frutto di una scelta dettata dalla fiducia e dall’attrazione per il materiale fittile, è comunque il risultato di un credo estetico; “poi fattori sconosciuti e di contrabbando si sovrappongono e alla fine si trova padre felice di una creatura nata da un orgasmo imprevedibile”  . Questa affermazione può essere sintomatica di una apparente contraddizione relativa all’approccio ceramico (e al suo sviluppo) di Melotti, ma in realtà è la manifestazione di una grande sensibilità, disponibilità e intelligenza che stanno alla base dell’accettazione dell’imprevedibile insito ed intrinseco alla materia fittile, che fornisce paradossalmente una straordinaria resa stilistica ed espressiva. L’imprevedibilità e il rischio dei risultati sono aspetti caratterizzanti alla base dell’oggetto ceramico, che risulta essere ed esistere nell’equilibrio di due aspetti apparentemente contrastanti: da un lato l’ideazione, il processo progettuale che intende mantenere la sua integrità fino alla fine,
dall’altro lato, il fuoco indomabile, il caso e tutto ciò che comporta il processo di realizzazione stesso, in balia di questi due ultimi fattori. Alla luce di queste considerazioni, bisogna considerare gli sforzi tecnici, le sperimentazioni e i sapienti risultati dell’opera ceramica di Melotti, artefice e “mago” – come lo definisce Lisa Ponti nelle pagine di Domus del 1948 – “che abilmente accartoccia fogli di argilla sottilissimi e allunga fino all’inverosimile le sue forme” . Sono le sfoglie sottilissime e quasi diafane che l’artista trentino riesce ad ottenere con risultati pressoché perfetti, negli anni in cui, prima dei teatrini, realizzava anche vasi e piccole sculture femminili. Sono opere realizzate attraverso una tecnica ceramica che ricorda quella orientale del raku, in quanto le tracce della lavorazione e le piccole imperfezioni vengono lasciate in evidenza; gli oggetti vengono così caricati di quel fascino sottile e raffinato della non perfezione, quasi a seguire i dettami della filosofia Wabi-Sabi, per cui ogni cosa acquista una bellezza superiore proprio perché imperfetta e quindi autentica nella sua essenza e nella sua imprevedibile ma inevitabile mutevolezza. Un esempio colto di sottili “fogli” di ceramica, è la serie di vasi che Melotti realizza nel decennio che va dal 1949 al 1960 circa. Questi, “al di là di ogni ipoteca formalistica si presentano come vere e proprie sculture” e si vestono di valori simbolici manifestati attraverso una plastica dai richiami figurativi, ma anche ironici e giocosi; rispettivamente, ne sono esempio il Vaso-sole, il Vaso-luna, il Vaso-vescovo, il Vaso-clessidra e ancora, vasi che assumono le sembianze di un gatto, di un gallo o di un pesce. Le forme fantasiose, le restrizioni volute dalla materia e le torsioni plastiche inaspettate rovesciano la percezioni di questi oggetti, facendo loro perdere ogni accezione funzionale, conferendogli elevati e indiscutibili valori estetici. Queste opere sono arricchite da monocromie di grande eleganza, ma anche da bicromie raffinate; altre volte i colori vengono dati attraverso la colatura degli smalti che creano giochi di trasparenze e cangiantismi estremamente virtuosistici, nonostante le tonalità siano sempre tenui. Lo stesso preziosismo tecnico viene riservato alla serie di figure femminili “ammantate, ove la ceramica è condotta come ultima sfida, portata quasi al limite d’una stremata dematerializzazione, d’un suo dissolversi come supporto”  avvolte da veli di fragili trasparenze si illuminano di un colore dalla serafica eleganza. Queste figure femminee e quasi danzanti, vengono realizzate durante tutto il decennio degli anni Cinquanta, secondo una duplice soluzione stilistico - espressiva. Vi è infatti una soluzione più baroccheggiante che investe le fanciulle ceramiche di un “turbinio di sfoglie elicoidali sottilissime, dai colori per lo più tenui, che lascia appena scoperto solo il volto, talora anche le mani, in una espressione ora enigmatica, ora estatica – quasi memore della Santa Teresa berniniana – ora stupefatta, ora impersonalmente modellizzata”  . Si contrappone a questo stile carico di simbolismi oscillanti tra il carnale e lo spiritualistico tipicamente barocchi, una serie di figure che rimandano agli aspetti legati all’arcaicità della pratica ceramica: le Korai. Queste, sono caratterizzate da uno stile formale più sintetico ed essenziale; le parti del corpo sono stilizzate, busto e braccia si ergono su una base di matrice geometrica, che richiama un tronco di cono sulla cui superficie vi sono patterns e decorazioni aniconiche, organiche e vegetaliforme. Un esempio importante di Kore risale al 1955-56, viene realizzata nelle tonalità del blu cobalto, la testa e le spalle sono biancastre; il volto è coronato da una chioma riccia che esalta una fronte spaziosa ed è caratterizzato da una bocca carnosa, un naso schiacciato e un taglio degli occhi piuttosto allungato, quasi a richiamare una fisionomia orientale e appartenente ad una bellezza altra, di un altro tempo e di altri mondi possibili e insondabili. Se nella Grecia del VI e V secolo, kuroi e korai erano figure mute custodi delle parole dei sapienti e di segreti impronunciabili, guardiani e guardiane di dimensioni inaccessibili, così le virginee ed eteree Korai di Melotti, si manifestano come angeli di questi mondi; sorridono enigmatiche e ingannevoli, quasi fossero figure totemiche in grado conoscere destini sconosciuti e per questo inquietanti. La matrice geometrica e sintetica sul quale si basa la struttura della Kore melottiana è sintomatica di una produzione più fedele alle armonie della geometria, che caratterizza la produzione degli anni Sessanta. Melotti torna all’affermazione fatta nel 1935, presso la Galleria Il Milione di Milano: “l’arte è stato angelico, geometrico. Essa si rivolge all’intelletto, non ai sensi” e così facendo dà vita ad una produzione artistica concepita da un approccio mentale basato sull’intersezione di piani armonici e geometrici; e in questa concezione costruttiva dell’opera d’arte melottiana, viene usato il modulo come elemento costitutivo (un’altra artista degli anni Sessanta che fa uso del modulo per la propria indagine artistica è Nedda Guidi, che impiega la ceramica “come strumento di verifica scientifica della realtà e che  ripropone l’idea di scultura geometrica impiegando il modulo serializzato per raggiungere la meta di una scultura della mente”). In questi tempi, Melotti sente la necessità di cercare una definizione dell’arte che vada oltre l’imitazione o l’evocazione della natura; ritorna così attuale la dichiarazione fatta nel 1934, quando egli sosteneva che fosse meno difficile rinunciare alla rappresentazione del mondo, piuttosto che rinunciare “all’amore della materia in cui si lavora” . Così, Melotti concretizza le parole espresse negli anni Trenta da Osvaldo Licini e dimostra che “la geometria può diventare sentimento, poesia più interessante di quella espressa dalla faccia dell’uomo” . I primissimi anni Sessanta, sono anche gli anni in cui Melotti viene riscoperto dalla critica e la sua attività da ceramista e decoratore passa in secondo piano. Sono anni caratterizzati da una produzione artistica che vede l’uso di tecniche miste, compaiono stoffe, fili di ottone, carte stropicciate; in questo clima la ceramica e la terracotta non vengono abbandonate e in alcuni casi diventano elementi di contaminazione e di dialogo tra le due poetiche melottiane. Anche i Teatrini, che continuano ad essere realizzati fino agli anni Ottanta, mantengono nella loro struttura costitutiva, l’armonia geometrica e modulare già impiegata nelle opere astratte degli anni Trenta e poi ripresa dagli anni Sessanta. Un esempio emblematico di spazio costruito secondo scansioni geometriche è il Teatrino Vanni Scheiwiller realizzato nel 1962. Lo spazio infatti viene realizzato attraverso un unico elemento geometrico modulare, quale il rettangolo, che in tre varianti scandisce il ritmo della spazialità interna dell’opera; ma l’elemento geometrico diventa funzionale per la costruzione dell’immagine anche nella produzione che non prevede l’uso della ceramica, bensì la linea filamentosa ed essenziale dell’ottone, da cui prendono forma, opere come La Vacca Lunatica (1961) e Infinito (1969). Lo schema base dei teatrini, già definito negli anni Cinquanta, viene arricchito dalle contaminazioni di materiali diversi tra loro e il gesso si mischia all’ottone, al materiale refrattario, alla tela e alla terracotta dipinta, come si può notare in La vita in pezzi (1961), Gli stracci (1963), ma anche Domino (1970), Balzac (1972) e in altre opere magistrali realizzate negli anni Settanta e Ottanta. Nelle opere della seconda parte degli anni Sessanta però, si rileva “una sottile divaricazione fra la formulazione in qualche modo iconica e quella totalmente a-figurale (in senso antinaturalistico)” se all’inizio del decennio, vi era un dialogo di continuità tra i teatrini e le opere più astratte e libere costruite in filo metallico, più avanti e soprattutto nel decennio degli anni Settanta, le due linee di ricerca sembrano acquistare una loro autonomia sempre più marcata. Nonostante questo, i travasi tra le due sponde continuano in un gioco raffinato e sottile di rimandi, compensazioni e complementarietà tra gli elementi. Per definizione i teatrini portano con sé l’aura del racconto che a volte assume la veste splendente della poesia, ma verso la parabola discendente della sua vita, Melotti si lascia andare a costruzioni mentali evocatrici di spiritualistici temi di riflessione, ne è esempio l’opera Gli dei se ne vanno del 1984, in cui emerge una visione profondamente melanconica dell’esistenza propria e universale. Le malinconie continuano nell’opera dello stesso anno, intitolata Bambini, buona notte: emergono malinconiche fantasie che riportano alla dimensione dell’infanzia e della sua forma mentis. Ma per Melotti non vale il luogo comune che spesse volte associa la fanciullezza alla spensieratezza; per l’artista infatti la fanciullezza rimanda ad un tempo originario, all’erompere della forza vitale “che si balocca con i dadi mescolando cieco arbitrio e giocondità, violenza e casualità” . Inoltre, la sfera fanciullesca e giocosa rimanda a quella concezione di gioco legata alla sacralità e alla ritualità; così è per le piccole figure che così spesso appaiono nelle opere di Melotti. Ciò non toglie che in esse vi si possa trovare la stessa meraviglia e lo stesso stupore che travolgono il bambino di fronte allo spettacolo del mondo, ma se così è, si tratta di una riflessione metafisica che trova la sua origine nelle parole di Wittgenstein quando dice “mi sto meravigliando del cielo comunque esso sia” simili parole vengono in qualche modo riprese da Melotti quando afferma che “rispetto a ciò che non è qualunque cosa che è, è un miracolo” . A confermare come la sfera dell’infanzia non sia da connotare a simbologie di spensierata ilarità, ci sono anche gli scritti letterari e poetici di Melotti, che in questo caso vale la pena collegare alla sua opera più tangibile (in questo caso sono i teatrini). Si tratta di un collegamento trasversale - o di un’altra contaminazione, una delle tante, aggiunte al raffinato universo melottiano – che chiarisce come il bambino sia affiancato, in un triste paradosso, alla morte; la leggerezza propria della fanciullezza nell’opera melottiana comporta sempre un’ombra di malinconico disincanto che stempera, seppur in maniera delicata, la meraviglia. Così, quel che sembra un vento leggero e burlesco, ti spruzza in faccia una stagione morta, “la piccola gioia della solitudine e l’infelicità di sentirti solo” . Pacato come il suo disincanto “L’acrobata si avvia” con la levità non concessa, ma conquistata propria di tutta la sua poetica artistica. Si avvia oltre la meraviglia, oltre il tangibile che altro non è che “il residuo di eventi dinamici molto più vasti e sfuggenti” , perché come afferma Renato Barilli, le sculture di Melotti “vivono sempre altrove”.
 
La mostra è suddivisa in quattro sezioni :
 
La prima sezione  contestualizza la produzione ceramica di Melotti all’interno della sua vita e della sua attività, attraverso una cronologia illustrata che dalla nascita nel 1901 giunge alla sua scomparsa nel 1986. La cronologia è accompagnata da teche per accogliere importanti documenti del suo archivio legati specificatamente alla produzione in ceramica, tra cui tre quaderni mai esposti finora.
 
La seconda sezione è dedicata alle più note tipologie di sculture in ceramica concepite dall’artista come tali: dalle ceramiche a carattere sacro ai bassorilievi, dagli animali alle “Korai”, dai cosiddetti “Bambini fino ai Teatrini”. Tra queste opere anche la preziosa Lettera a Fontana” (1944), esposta nel 1950 alla Biennale di Venezia.
 
Nella terza sezione, il video In prima persona. Pittori e scultori. Fausto Melotti” (1984), di Antonia Mulas, include l’unica intervista in cui l’artista, analizzando il proprio percorso e la propria concezione dell’arte, parli della ceramica.
Anticipata da un focus su un’altra tra le più note tipologie di opere in ceramica di Melotti – i vasi, nelle loro innumerevoli forme differenti.
 
La quarta e ultima sezione della mostra raccoglie differenti tipologie di ceramiche – coppe, coppette, lampade, piatti, piastrelle – che, anche se ispirate a oggetti d’uso quotidiano, sono state realizzate dall’artista svincolandole dalla loro funzione e rendendole vere e proprie sculture. Accanto alle opere di Melotti sono esposte quelle di importanti artisti e designers con cui direttamente o indirettamente ebbe contatti, concesse in prestito dal MIC di Faenza, che conserva la raccolta d’arte ceramica più grande al mondo: da Giacomo Balla a Lucio Fontana, da Leoncillo ad Arturo Martini, da Enzo Mari a Bruno Munari, e ancora Gio Ponti, Emilio Scanavino, Ettore Sottsass e molti altri.
 
La mostra è accompagnata da un libro-catalogo in italiano e inglese pubblicato dalle Edizioni Fondazione Ragghianti Studi sull’arte, con le riproduzioni di tutte le opere esposte, documenti e materiali d’epoca, i saggi di Ilaria Bernardi e Claudia Casali, direttrice del MIC - Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, e i testi introduttivi di Paolo Bolpagni, direttore della Fondazione Ragghianti, e di Edoardo Gnemmi, direttore della Fondazione Fausto Melotti.
 
 
Fondazione Ragghianti Lucca
 
Fausto Melotti. La Ceramica
 
dal 25 Marzo 2023 al 25 Giugno 2023
 
dal Martedì alla Domenica dalle ore 11.00 alle ore 19.00
 
Lunedì Chiuso