di
Giorgia TERRINONI
‘Il mio lavoro sui
muri è un percorso di ricerca delle infinite opportunità tecniche, concettuali ed estetiche che offre questa superficie. Su di essa si deposita la memoria di una storia, si stratifica il vissuto di un corpo che mostra e rivela’.
Quando, circa un anno fa, una carissima amica mi ha mostrato il lavoro di
Andrea Capanna ne sono rimasta immediatamente coinvolta. E pensare che allora lo avevo visto solo in fotografia! E in fotografia è assai difficile apprezzare la qualità tattile che possiede la materia che sostanzia questi suoi
muri.
Qualche tempo dopo, ho appreso con piacere che l’allestimento di una sua personale alla
Galleria 28 Piazza di Pietra a Roma era quasi ultimato.
Una bella impresa e, ora posso dire, un’impresa ben riuscita, quella di far convivere i
muri di Andrea con le
mura di Adriano, integrate da un raffinato intervento architettonico all’interno dello spazio minimale della galleria di
Francesca Anfosso.
I
muri sono realizzati attraverso la stratificazione, su base lignea, di cemento, calce, sabbia e intonaco, materie che sono state depositate e dipinte per strati, poi lavorate con carta vetrata, spatole e spazzole di acciaio.
Al principio, a me che sono una storica dell’arte, i muri hanno richiamato alla mente memorie di altre opere d’arte, opere antiche e contemporanee. Non lo vedo come un limite. Non ho in mente nessuna rincorsa del nuovo in quanto tale in arte.

Mi hanno ricordato la magnifica
parete palinsesto d
i Santa Maria Antiqua alle pendici del Palatino, sette strati di affresco sovrapposti che raccontano una storia affascinante della tecnica pittorica dal tardo antico in avanti. Mi hanno ricordato tanto
Informale europeo, quell’inno novecentesco alla materia, una materia dolorante e debordante, eppure così bella: l’
art brut e le
Matéreologies di
Jean Dubuffet, i minuscoli universi proliferanti di
Wols, gli urlanti o sommessi
Otages di
Jean Fautrier, i muri di
Antoni Tàpies e l’immensa arte del rattoppare di
Alberto Burri.
E ancora, mi hanno ricordato quel faticoso estrarre da una materia ostile, usando una tecnica obsoleta (la pittura a encausto), l’immagine banalissima della bandiera statunitense. Questo lo faceva quell’intellettuale apparentemente solo freddo che era
Jasper Johns!
In tutti questi casi, il muro, sia esso reale o simulato, il segno, la materia e il suo resistere alla messa in forma, diventano tutti insieme essenza, forma e contenuto dell’arte stessa.
La mostra di
Andrea Capanna, curata da
Gianluca Marziani – autore anche di
Memento Cemento, un intenso testo riportato nel catalogo – s’intitola
Urban Human ed è articolata in due sezioni, una urbana, l’altra umana.
Urban punta lo sguardo su una certa Roma, una Roma a suo modo aulica e, altrettanto a suo modo, popolare o popolana. È la Roma del
Gazometro – scheletrico ma monumentale tempio moderno – delle molteplici vedute della pur sempre riconoscibile
Tangenziale, ma anche la Roma del crocevia di
Porta Maggiore, della
Torre della Stazione Termini e dello spesso dimenticato splendido
Tempio di Minerva Medica.
È una Roma un po’ lercia eppure retorica, bistrattata eppure quasi iconica.
Archeologia romana e
archeologia industriale. Entrambe, per essere veramente
messe a fuoco e
guardate, richiedono un’operazione di
scavo. Che sia lo scavo concettuale che compie lo sguardo dell’artista quando sceglie una veduta piuttosto che un’altra, oppure lo scavo del tirar fuori l’immagine da una materia mineralizzata.
Di contro, non sono i muri di
Urban, ma i ritratti di
Human a dialogare silenziosamente con i frammenti delle
mura di Adriano inglobate nelle pareti della galleria. Ritratti di profilo, siano essi volti, busti o figure intere. Una modalità di rappresentare la figura umana quella di profilo, oggi, assai obsoleta. Ma che ha alimentato la ritrattistica rinascimentale – si pensi solo alla fama del
Doppio Ritratto dei Duchi di Urbino dipinto da
Piero della Francesca tra il 1465 e il 1472 – l’antica arte dei cammei e delle monete.
Anche la scelta di ritrarre la figura di profilo sembra essere un’operazione quasi archeologia, sia essa volontaria o meno.
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Ma in questi ritratti, più ancora che nelle urbane vedute romane, colpisce il definirsi di una forma, quella umana che è anche e soprattutto forma affettiva, che si fa strada attraverso una materia accidentata e resistente. Questa forma che si definisce a fatica, che a tratti emerge rivelandosi e a tratti, invece, resta celata, restituisce quel carattere splendidamente frammentario che è proprio dell’identità umana.
Identità imperscrutabile, indefinita, mutevole, contraddittoria, misteriosa, eppure corporea, muscolare. Vitale – lo è particolarmente nei ritratti di bimbi e in alcuni ritratti di donna – eppure irrimediabilmente soggetta al tempo. Il teschio che troneggia tranquillo tra le imponenti mura romane come un cupo ma rassicurante
memento mori!