Gli
apparati didattici di una mostra sono (o dovrebbero essere) un elemento portante del suo funzionamento e un parametro per la valutazione della sua riuscita. Costituiscono, infatti, un terreno privilegiato di incontro tra la
storia dell’arte come disciplina scientifica e il
pubblico anche e soprattutto dei non addetti ai lavori. Essi svolgono almeno tre funzioni interrelate. 1) In base alla qualità delle informazioni selezionate, tendono ad orientare il
tipo di esperienza che si vuole proporre al visitatore. Sono dunque, tra l’altro, un
indice della posizione dei curatori in campo ontologico (cos’è un’opera d’arte?) e
museologico (cosa deve fare un museo?). 2) Sono gli strumenti attraverso i quali il mondo della ricerca rende noti alcuni risultati dei suoi studi e li trasmette al di fuori dell’ambito disciplinare. Rappresentano, quindi, veicoli cardinali per la condivisione del
capitale culturale prodotto dalla storia dell’arte. 3) Costituiscono, insomma, dei dispositivi primari per la formazione di quella
conoscenza dei “beni culturali” considerata unanimemente il requisito essenziale per diffondere la
coscienza della loro tutela.

Lasciando trasparire o dichiarando apertamente cosa si desidera che il visitatore colga, apprezzi e apprenda dai percorsi allestiti, gli apparati didattici permettono di verificare, tra l’altro,
se l’esposizione sia coerente con gli intenti dei curatori e, soprattutto,
se e quanto renda accessibile una qualche forma di sapere. E ciò, si noti, indipendentemente dal tenore scientifico o divulgativo dell’esposizione stessa, o dalla qualità dei pezzi esposti, proprietà quest’ultima non necessaria né sufficiente per giudicare la buona riuscita dell’operazione.
La comunicazione museale della grande mostra dedicata a Vermeer e a una certa corrente della pittura olandese del Seicento presentava diversi aspetti esemplarmente problematici, costituendo un interessante caso di discussione – qui solo accennabile – sulle pratiche espositive. Su uno dei
pannelli introduttivi si poteva leggere, tra l’altro, che Vermeer è «
universalmente riconosciuto come uno tra i più grandi pittori del secolo d’oro». Una sentenza del genere, rivolta di certo al pubblico dei non addetti ai lavori, tende inevitabilmente ad
orientare l’orizzonte di attese e la
percezione del pubblico. La mostra, tuttavia, non chiariva in alcun modo le ragioni di questo “giudizio universale”. Lo spettatore, pertanto, come spesso capita, era chiamato a compiere qualcosa di simile ad un
atto di fede nei confronti del dogma.
Sullo stesso pannello, d’altra parte, si affermava che l’artista è «
giustamente famoso per il suo personalissimo ‘sguardo’ e soprattutto per l’uso particolare degli effetti di luce». Frasi del genere, evidentemente, dicono forse qualcosa agli storici dell’arte, ma forniscono agli altri visitatori parametri insufficienti per cogliere il valore dei lavori di Vermeer. Tanto più che, percorrendo le sale, proprio non si capiva cosa avesse di meno personale lo ‘sguardo’ di pittori prodigiosi come
Gabriel Metsu o di
Gerrit Dou.

I criteri di valutazione, per tacere del resto, rimanevano piuttosto torbidi anche nella
guida cartacea concepita per accompagnare la visita, la cui autorevolezza risultava minata da una
serie nutrita quanto imperdonabile di errori di battitura, di descrizione e persino di grammatica. Gli elementi critici presenti nell’opuscolo – che avrebbero dovuto aiutare a comprendere il senso di certe sofisticate
soluzioni spaziali e ad afferrare le
sottigliezze metapittoriche tipiche degli Olandesi – erano, come di norma, tutti estratti dal tipico
formulario buono per ogni occasione e della cui capacità di promuovere una fruizione cognitivamente ricca da parte del visitatore è lecito dubitare.
La qualità dei dipinti di Vermeer, ad esempio, era descritta rilevando soltanto, e senza ulteriori precisazioni, la «
manipolazione del colore e [il] controllo sugli effetti di luce» a proposito della
Ragazza con il cappello rosso, e le «
semplificazioni ardite [!?]» nella resa delle luci e delle forme e la «
chiarezza e perfetta armonia della composizione» per quanto riguarda la
Giovane donna in piedi al virginale. A leggere queste righe si direbbe quasi che l’intento fosse preservare il
mistero di Vermeer, concetto che, non a caso, ricorre ancora con grande frequenza nei discorsi sul suo talento, ritenuto in fin dei conti ineffabile.
La mostra, insomma, ricorreva generosamente e con disinvoltura al
repertorio di espressioni formulari che, al di fuori del recinto specialistico (e, per fortuna, qualche volta anche al suo interno), appaiono spesso, e giustamente, piuttosto vaghe e talora prossime alle “
imposture intellettuali” stigmatizzate a suo tempo da
Alan Sokal e
Jean Bricmont (la lettura del loro
Imposture intellettuali. Quale deve essere il rapporto tra la filosofia e la scienza?, Milano, Garzanti, 1999, gioverebbe, tutto sommato, anche agli storici dell'arte).
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Se, dunque, l’attrezzatura analitica e valutativa dispensata al visitatore è del genere descritto, qual è il
modello di fruizione implicitamente suggerito dai curatori? E
che tipo di sapere si è pensato di trasmettere? In linea di massima, il progetto sembra sposare la tesi abbastanza diffusa che i musei debbano evitare, come si dice, di
accudire didatticamente il pubblico, al fine di disinnescare il rischio di esperienze “delegate” degli oggetti. Tesi che, sia detto per inciso, si coniuga con la credenza, altrettanto diffusa, in un certo
potere direttamente comunicativo dell’arte e con l’idea dell’esistenza di una qualche forma particolare di sensibilità nei confronti dell’arte stessa, che renderebbe tutto sommato superflui i filtri didattici. Allo spettatore si chiede in sostanza di fare (il più possibile) da sé, contemplando le opere, senza troppe mediazioni, e confidando nell’eventualità che esse gli
rivelino da sole il segreto del loro ingegno e che le gerarchie qualitative si impongano naturalmente.
L’impalcatura teorica tratteggiata è discutibile per molti versi ma è pur sempre un’opzione. Resta, però, che le “
istruzioni per l’uso”, alle quali la mostra vermeeriana non rinunciava, sia pure in forma abbreviata, appaiono nella migliore delle ipotesi opache e di difficile applicabilità. Il problema generale, quindi, non riguarda tanto la salvaguardia delle libertà del visitatore, ma la qualità delle informazioni e degli strumenti di conoscenza che si intende rendere disponibili. Ed è un problema che riguarda
il metodo e la prassi della storia dell’arte, ben prima della sfera della
comunicazione museale.
Francesco Sorce, 13/6/2013
Didascalie immagini
1. Johannes Vermeer, La stradina, Amsterdam, Rijksmuseum, 1657-58
2. Johannes Vermeer, Allegoria della Fede, New York, Metropolitan Museum, 1671-74
3. Gerrit Dou, Donna al clavicordo, Londra, Dulwich Picture Gallery, 1665ca
4. Johannes Vermeer (attr.), Ragazza con il cappello rosso, Washington, National Gallery, 1668ca
5. Johannes Vermeer, Donna al virginale, Londra, National Gallery, 1670ca (part.)