Vermeer_La stradina_Amsterdam_Rijksmuseum_1657-58(1)News-art reputa centrale il dibattito sulla qualità delle informazioni che i musei e le mostre trasmettono ai visitatori. Considera infatti il tema un laboratorio sperimentale essenziale per la discussione e la valutazione dei sistemi conoscitivi della disciplina storico-artistica, delle loro gerarchie e delle capacità euristiche che dimostrano di possedere. L’argomento, va da sé, è ritenuto decisivo anche per l’esame della funzione delle istituzioni museali.
Pertanto, dopo l’articolo di Roberto Pinto riservato alle didascalie (e non solo) della mostra “The Desire for freedom. Arte in Europa dal 1945” (www.news-art.it/news/controllo-di-qualita--di-roberto-pinto.htm), si è deciso di pubblicare un breve intervento dedicato a questioni analoghe emerse in occasione dell’esposizione “Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese” (Roma, Scuderie del Quirinale, 27 settembre 2012 – 20 gennaio 2013, sulla quale vedi la nostra recensione: www.news-art.it/news/le-grandi-mostre--vermeer-e-gli-specchietti-per-le-allodole.htm). Il contributo era già apparso in forma leggermente diversa su Orwell, l’inserto culturale di “Pubblico Giornale” (sabato 24 novembre 2012, p. VI), quotidiano che ha avuto vita assai breve e travagliata. Il testo è sostanzialmente quello originale, con appena qualche verbo coniugato all’imperfetto.


Gli apparati didattici di una mostra sono (o dovrebbero essere) un elemento portante del suo funzionamento e un parametro per la valutazione della sua riuscita. Costituiscono, infatti, un terreno privilegiato di incontro tra la storia dell’arte come disciplina scientifica e il pubblico anche e soprattutto dei non addetti ai lavori. Essi svolgono almeno tre funzioni interrelate. 1) In base alla qualità delle informazioni selezionate, tendono ad orientare il tipo di esperienza che si vuole proporre al visitatore. Sono dunque, tra l’altro, un indice della posizione dei curatori in campo ontologico (cos’è un’opera d’arte?) e museologico (cosa deve fare un museo?). 2) Sono gli strumenti attraverso i quali il mondo della ricerca rende noti alcuni risultati dei suoi studi e li trasmette al di fuori dell’ambito disciplinare. Rappresentano, quindi, veicoli cardinali per la condivisione del capitale culturale prodotto dalla storia dell’arte. 3) Costituiscono, insomma, dei dispositivi primari per la formazione di quella conoscenza dei “beni culturali” considerata unanimemente il requisito essenziale per diffondere la coscienza della loro tutela.

Vermeer_Allegoria della Fede_New York_Metropolitan Museum_1671-74Lasciando trasparire o dichiarando apertamente cosa si desidera che il visitatore colga, apprezzi e apprenda dai percorsi allestiti, gli apparati didattici permettono di verificare, tra l’altro, se l’esposizione sia coerente con gli intenti dei curatori e, soprattutto, se e quanto renda accessibile una qualche forma di sapere. E ciò, si noti, indipendentemente dal tenore scientifico o divulgativo dell’esposizione stessa, o dalla qualità dei pezzi esposti, proprietà quest’ultima non necessaria né sufficiente per giudicare la buona riuscita dell’operazione.

La comunicazione museale della grande mostra dedicata a Vermeer e a una certa corrente della pittura olandese del Seicento presentava diversi aspetti esemplarmente problematici, costituendo un interessante caso di discussione – qui solo accennabile – sulle pratiche espositive. Su uno dei pannelli introduttivi si poteva leggere, tra l’altro, che Vermeer è «universalmente riconosciuto come uno tra i più grandi pittori del secolo d’oro». Una sentenza del genere, rivolta di certo al pubblico dei non addetti ai lavori, tende inevitabilmente ad orientare l’orizzonte di attese e la percezione del pubblico. La mostra, tuttavia, non chiariva in alcun modo le ragioni di questo “giudizio universale”. Lo spettatore, pertanto, come spesso capita, era chiamato a compiere qualcosa di simile ad un atto di fede nei confronti del dogma.

Sullo stesso pannello, d’altra parte, si affermava che l’artista è «giustamente famoso per il suo personalissimo ‘sguardo’ e soprattutto per l’uso particolare degli effetti di luce». Frasi del genere, evidentemente, dicono forse qualcosa agli storici dell’arte, ma forniscono agli altri visitatori parametri insufficienti per cogliere il valore dei lavori di Vermeer. Tanto più che, percorrendo le sale, proprio non si capiva cosa avesse di meno personale lo ‘sguardo’ di pittori prodigiosi come Gabriel Metsu o di Gerrit Dou.

Metsu_Donna che legge una lettera_Dublino_National Gallery_1662-65I criteri di valutazione, per tacere del resto, rimanevano piuttosto torbidi anche nella guida cartacea concepita per accompagnare la visita, la cui autorevolezza risultava minata da una serie nutrita quanto imperdonabile di errori di battitura, di descrizione e persino di grammatica. Gli elementi critici presenti nell’opuscolo – che avrebbero dovuto aiutare a comprendere il senso di certe sofisticate soluzioni spaziali e ad afferrare le sottigliezze metapittoriche tipiche degli Olandesi – erano, come di norma, tutti estratti dal tipico formulario buono per ogni occasione e della cui capacità di promuovere una fruizione cognitivamente ricca da parte del visitatore è lecito dubitare.

La qualità dei dipinti di Vermeer, ad esempio, era descritta rilevando soltanto, e senza ulteriori precisazioni, la «manipolazione del colore e [il] controllo sugli effetti di luce» a proposito della Ragazza con il cappello rosso, e le «semplificazioni ardite [!?]» nella resa delle luci e delle forme e la «chiarezza e perfetta armonia della composizione» per quanto riguarda la Giovane donna in piedi al virginale. A leggere queste righe si direbbe quasi che l’intento fosse preservare il mistero di Vermeer, concetto che, non a caso, ricorre ancora con grande frequenza nei discorsi sul suo talento, ritenuto in fin dei conti ineffabile.

La mostra, insomma, ricorreva generosamente e con disinvoltura al repertorio di espressioni formulari che, al di fuori del recinto specialistico (e, per fortuna, qualche volta anche al suo interno), appaiono spesso, e giustamente, piuttosto vaghe e talora prossime alle “imposture intellettuali” stigmatizzate a suo tempo da Alan Sokal e Jean Bricmont (la lettura del loro Imposture intellettuali. Quale deve essere il rapporto tra la filosofia e la scienza?, Milano, Garzanti, 1999, gioverebbe, tutto sommato, anche agli storici dell'arte).

Vermeer (attr_)_Ragazza con il cappello rosso_Washington_National Gallery_1668caSe, dunque, l’attrezzatura analitica e valutativa dispensata al visitatore è del genere descritto, qual è il modello di fruizione implicitamente suggerito dai curatori? E che tipo di sapere si è pensato di trasmettere? In linea di massima, il progetto sembra sposare la tesi abbastanza diffusa che i musei debbano evitare, come si dice, di accudire didatticamente il pubblico, al fine di disinnescare il rischio di esperienze “delegate” degli oggetti. Tesi che, sia detto per inciso, si coniuga con la credenza, altrettanto diffusa, in un certo potere direttamente comunicativo dell’arte e con l’idea dell’esistenza di una qualche forma particolare di sensibilità nei confronti dell’arte stessa, che renderebbe tutto sommato superflui i filtri didattici. Allo spettatore si chiede in sostanza di fare (il più possibile) da sé, contemplando le opere, senza troppe mediazioni, e confidando nell’eventualità che esse gli rivelino da sole il segreto del loro ingegno e che le gerarchie qualitative si impongano naturalmente.

L’impalcatura teorica tratteggiata è discutibile per molti versi ma è pur sempre un’opzione. Resta, però, che le “istruzioni per l’uso”, alle quali la mostra vermeeriana non rinunciava, sia pure in forma abbreviata, appaiono nella migliore delle ipotesi opache e di difficile applicabilità. Il problema generale, quindi, non riguarda tanto la salvaguardia delle libertà del visitatore, ma la qualità delle informazioni e degli strumenti di conoscenza che si intende rendere disponibili. Ed è un problema che riguarda il metodo e la prassi della storia dell’arte, ben prima della sfera della comunicazione museale.
Francesco Sorce, 13/6/2013


Vermeer_Donna al virginale_Londra_National Gallery_1670ca(part_)Didascalie immagini
1. Johannes Vermeer, La stradina, Amsterdam, Rijksmuseum, 1657-58
2.
Johannes Vermeer, Allegoria della Fede, New York, Metropolitan Museum, 1671-74
3.
Gerrit Dou, Donna al clavicordo, Londra, Dulwich Picture Gallery, 1665ca
4.
Johannes Vermeer (attr.), Ragazza con il cappello rosso, Washington, National Gallery, 1668ca
5. Johannes Vermeer, Donna al virginale, Londra, National Gallery, 1670ca (part.)