Giovanni Cardone Febbraio 2022
Fino al 26 Giugno 2022 si potrà ammirare la mostra ai Musei Reali di Torino Vivian Maier. Inedita a cura di Anne Morin. Fin dal titolo,
Inedita si prefigge di raccontare aspetti sconosciuti o poco noti della misteriosa vicenda umana e artistica di Vivian Maier, approfondendo nuovi capitoli o proponendo lavori finora inediti, come la serie di scatti realizzati durante il suo viaggio in Italia, in particolare a Torino e Genova, nell’estate del 1959. La mostra è co-organizzata da diChroma e dalla Réunion des Musées Nationaux - Grand Palais, prodotta dalla Società Ares srl con i Musei Reali e il patrocinio del Comune di Torino, e sostenuta da
Women In Motion, un progetto ideato da Kering per valorizzare il talento delle donne in campo artistico e culturale. L’esposizione presenta oltre 250 immagini, molte delle quali inedite o rare, come quelle a colori, scattate lungo tutto il corso della sua vita. A queste si aggiungono dieci filmati in formato Super 8, due audio con la sua voce e vari oggetti che le sono appartenuti come le sue macchine fotografiche Rolleiflex e Leica, e uno dei suoi cappelli.
Come dice Enrica Pagella Direttrice Musei Reali di Torino : 21 luglio 1959. È la data che Vivian Maier riporta a mano sul retro di alcuni scatti che riproducono le mura romane di Torino,il fronte del Duomo con la Cappella della Sindone e il campanile,il mercato di Porta Palazzo. Torino è la città che la fotografa americana privilegia, insieme a Genova, durante il suo viaggio in Italia. Ne scaturisce un repertorio che spazia dall’architettura più severa alla voce della strada, fissando anche l’espressione di un’umanità inconsapevole di far parte del palcoscenico illuminato dagli scatti inediti presentati in questa mostra. La scoperta del nucleo italiano, e in particolare torinese,avvenuta quest’anno, è stata l’occasione per proseguire la collaborazione dei Musei Reali con la Società Ares e per presentare nelle Sale Chiablese una nuova mostra fotografica. Il percorso propone una parte dell’opera ancora sconosciuta di Vivian Maier, universalmente apprezzata dopo il ritrovamento dei suoi archivi nel 2007, e indaga le origini della sua poetica,legata soprattutto alla sua tipica e ormai iconica osservazione
street, un tema chiave oggi frequentato e condiviso anche tramite i social media da fotografi di diversa cultura ed estrazione.

La strada come attualità e contemporaneità, e, accanto, l’itinerario privato di una donna alla ricerca della sua identità. Chiavi di lettura differenziate e documentate nei suoi numerosi autoritratti e nell’attenzione per l’infanzia, i gesti quotidiani,il cinema, le forme e i colori. Ringrazio la curatrice, Anne Morin, per aver scelto le Sale Chiablese dei Musei Reali quale sede italiana della mostra “Vivian Maier. Inedita”, già presentata a Parigi: un’occasione per restituire a Torino lo sguardo di un’artista costantemente impegnata ad esplorare le relazioni tra gli spazi urbani e le persone. Come Afferma Anne Morin : Vivian Maier è una fotografa amatoriale che cercava nella fotografia uno spazio di libertà; benché il suo lavoro sia passato inosservato per tutto il corso della sua vita, si ritrova nella storia della fotografia a fianco dei più grandi maestri quali Robert Doisneau, Robert Frank o Helen Levitt. In una mia ricerca storiografica e scientifica che è divenuta modulo monografico e
seminario universitario sulla figura di Vivian Maier che ha lasciato una tracce indelebile nella storia della fotografia contemporanea. Apro questo saggio dicendo : Che nel ventennio che intercorse tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti d?America furono teatro di forti e importanti cambiamenti nella percezione del ruolo delle donne. Inimmaginabili libertà personali e politiche, che coinvolgevano il comportamento in pubblico, il modo di vestire più libertino e meno costretto, la possibilità di fumare e bere alcolici, l?opportunità di competere con gli uomini in campo professionale ed economico, diventarono d?un tratto appagante realtà. Ma, nonostante queste dirompenti conquiste sociali, il fondamentale contributo che queste stesse donne avevano profuso prima del conflitto mondiale al fine di risvegliare lo spirito femminista messo a tacere in una società prevalentemente patriarcale, continuarono ad essere clamorosamente accantonate, forse eclissate da problemi sociali ed economici ritenuti più urgenti. Fu allora che vennero abbandonati i concetti di femminilità, eleganza e grazia intrinseche comunemente assunti come giustificazione alla quantità sempre maggiore di donne nel campo della fotografia. Le fotografe stesse iniziarono a pretendere di essere giudicate in primo luogo in base alle loro abilità tecniche, anziché in base al sesso, così da poter competere con i colleghi maschi su un piano il più possibile paritario. Le battaglie, però, non diedero i frutti sperati, e lo dimostra il fatto che i salari e le condizioni lavorative sperimentate dalle donne rimanessero iniqui rispetto alla controparte maschile. Le ingiustizie e le barriere in cui le professioniste della fotografia spesso incorsero negli anni successivi alla fine della Prima Guerra Mondiale, non impedirono loro di impegnarsi con ostinazione e abnegazione nell’arte visiva moderna per eccellenza, sia in qualità di professioniste, che di artiste indipendenti. Il ritratto a fini commerciali si confermò il modo più semplice e remunerativo per le aspiranti fotografe di avere accesso al mondo fotografico. Anche donne di colore e Afro-americane riuscirono passo passo ad acquisire l?esperienza necessaria per avere successo in un genere, ed eventualmente aprirsi anche ad altri. I miglioramenti ottenuti nelle tecniche di stampa delle immagini resero molto celebre e popolare il ritratto fotografico delle celebrità, pratica in voga già da inizio secolo , a riconferma della straordinaria lungimiranza tipica della fotografia statunitense. Tra le ritrattiste più celebri di questo periodo, non può essere trascurata Doris Ulmann
la quale si dedicò prevalentemente a visi che
rappresentassero un popolo, una cultura, uno specifico modo di vivere, in modo da poter catturare l’espressione di un gruppo sociale, e consegnarne al tempo le sembianze, che altrimenti rischiavano di andare irrimediabilmente perdute. Le tendenze moderniste si diffusero in questo periodo storico anche nel Nord America, così come in Europa. Molte fotografe per passione, però, esitarono ad abbandonare i dettami pittorialisti, probabilmente perché ben integrate nell’organizzazione chiamata Pictorial Photographers of America (PPA). Il PPA fu fondato nel 1916 da Clarence White, il quale era impegnato nel promuovere principi egualitari nei confronti delle donne, predisponendo così un ambiente favorevole e accogliente nei confronti dei membri di sesso femminile. Questo gruppo, inoltre, era schierato artisticamente con la posizione di chi esalta il ruolo della bellezza come elemento imprescindibile nell’espressione fotografica, e contrastava di conseguenza le idee moderniste e più dirette portate avanti da Alfred Stieglitz e Paul Strand. L?associazione era anche attiva nell?organizzare periodicamente esposizioni di opere realizzate dai propri membri, nonché nel promuovere il proprio linguaggio artistico attraverso la pubblicazione annuale di una rivista. Il ben radicato movimento pittorialista emergeva anche in occasione di mostre messe in piedi da altri gruppi fotografici dislocati in varie parti del Paese. I soggetti più battuti da parte delle fotografe dell?epoca erano abbastanza tradizionali: ritratti, paesaggi, nature morte, semiastrazioni, immagini di bambole. Quando, negli anni ?20 del XX secolo, le barriere precedentemente alzate tra l?arte pura e le immagini prodotte a fini commerciali furono finalmente eliminate, i due ambiti si mescolarono, rendendo lecita la pratica di realizzare immagini di alto livello estetico e artistico destinate poi alla vendita e promozione di beni di consumo.
In questo rinnovato contesto culturale, l?industria pubblicitaria iniziò a fare puntuale ricorso alle fotografie e ad uno stile visivo avanguardisticamente modernista per portare all’attenzione delle masse i propri prodotti. Sebbene il settore pubblicitario fosse inizialmente dominato da uomini, anche le donne riuscirono a ricavarsi uno spazio dignitoso grazie all?incremento del potere d?acquisto di consumatrici di prodotti per la casa. Tra le fotografe che ottennero successo in campo pubblicitario ignorando la riduttiva ed obsoleta divisione tra arte e commercio, non possono essere dimenticate Margaret Watkins , Sara Parsons e Wynn Richards . Ciascuna a modo proprio e con uno stile personale, i riconoscimenti ottenuti da queste artiste dimostrarono che anche le donne possedevano la capacità di pensare in modo astratto, di valorizzare le caratteristiche dei prodotti, e di far appello ai desideri delle masse. Contemporaneamente all’impegno in ambito pubblicitario, alcune fotografe investirono energie anche nell?adiacente industria della moda, raggiungendo buoni risultati, ma non riuscendo a porsi ad un livello di equità rispetto ai colleghi uomini. La costa occidentale degli Stati Uniti era meno vivace dal punto di vista culturale, e offriva minori chance di successo per le donne devote alla fotografia. La principale via per raggiungere la popolarità e guadagnarsi da vivere, era offerta dal genere del ritratto. Oltre a ciò, le fotografe decise a non spostarsi verso Est in cerca di fortuna trovavano impiego come ritoccatrici in studi di fotografia, altre si dedicavano a scatti di stampo architettonico, o al settore dell’illustrazione di libri. Sebbene le possibilità di perseguire una brillante carriera fotografica fossero relativamente contenute, uomini e donne di area Pacifica furono attivi nel sostenersi a vicenda nella strada verso il successo.Uno dei più riusciti esempi in tal senso, fu il Group , fondato nel 1932 da Edward Weston, Ansel Adams e Dorothea Lange tra gli altri, allo scopo di facilitare l?interazione tra fotografi e, quindi, aumentare auspicabilmente le possibilità di far conoscere i lavori di ciascuno attraverso esposizioni e mostre in musei e gallerie. Celeberrime fotografe che operarono nell?America occidentale negli anni tra i due conflitti mondiali, sono Imogen Cunningham e Laura Gilpin
. Originaria di Seattle, molto devota allo stile modernista, Cunningham individuò il proprio linguaggio figurativo prevalentemente nelle piante, che era solita inquadrare in modo inusuale e ravvicinato, così da far perdere allo spettatore le rassicuranti coordinate spazio-temporali.

Punto focale della sua ricerca fu anche la figura umana nella sua nudità, spesso affrontata con un modernismo non privo di accenti pittorialisti, che contribuisce a collocare le sue immagini in un territorio di confine tra realtà e sogno. Ciò che risalta nell?opera di Cunningham è il legame tra fotografia artistica e ambienti privati, così da rivalutare, agli occhi dello spettatore, anche l?oggetto più banale e quotidiano. I paesaggi dell’Ovest e del Colorado, costituiscono il materiale primario dell’interesse fotografico di Laura Gilpin, la quale realizzò anche ritratti e nature morte floreali. Indifferente alle critiche della comunità fotografica maschile, Gilpin si orientò verso nuovi soggetti sempre alla ricerca di terreni inesplorati da sondare, e provvide da sola alle proprie pubblicazioni. Gli anni 30 portarono con sé importanti cambiamenti dal punto di vista sociale e soprattutto economico, a causa della Grande Depressione che colpì gli Stati Uniti a seguito del tracollo finanziario del 1929. La crisi e la povertà che conseguirono a quel drammatico periodo storico, si abbatterono sul popolo americano con una tale brutalità che tutti gli aspetti della vita e le manifestazioni culturali del Paese ne furono coinvolti e influenzati. La fotografia non fu da meno. Un nuovo corso rispetto alle tematiche affrontate dagli artisti dietro l’obbiettivo iniziò evidentemente a delinearsi, mantenendo inalterato però il ricorso allo stile modernista, al quale fu affidato il compito di porre l?accento sulle sfumature più intime del dramma vissuto dagli americani in quegli anni. Non a caso la nuova tendenza, spesso sostenuta e incoraggiata dal governo e dalle agenzie federali per rendere evidente la necessità di riforme solide, fu definita realismo documentario. Due sono i nomi delle fotografe più celebri e attive nell’offrire uno sguardo documentario, anche se a tratti struggente, sulla situazione sperimentata dai propri concittadini: Margaret Bourke-White e Dorothea Lange . Bourke-White rappresentava una donna nuova, disincantata rispetto all’iniziale entusiasmo collegato all’industrializzazione, non intimorita da alcuna sfida, ambiziosa nel proprio progetto di carriera lavorativa e battagliera per il riconoscimento dei propri diritti eguali a quelli dei fotografi maschi.
La donna collaborò con la rivista Life dal 1936 anno della sua fondazione al 1969, realizzando in questo periodo prolifico anche un reportage di guerra. Dorothea Lange iniziò la propria carriera in qualità di ritrattista, ma poi abbandonò questa strada fruttuosa per rivolgere la propria attenzione a tematiche più impellenti per il Paese in cui viveva. Fu allora che decise di lasciare San Francisco per catturare le immagini di persone disperate, rimaste senza terre e possedimenti, che si spostavano verso Ovest in cerca di fortuna. Il desiderio di Lange era evidentemente quello di vivere attraverso la fotografia i problemi della gente comune, della classe operaia, degli agricoltori, delle donne con famiglia. Il suo nome è strettamente collegato al progetto governativo della Farm Security Administration, per il quale fu scelta e che la tenne lontano dai suoi figli per fotografare i volti del proprio tempo e le immagini di un’America in ginocchio. Lo stile modernista la aiutò a cogliere le espressioni facciali più intense e le difficoltà insormontabili affrontate quotidianamente dai suoi soggetti. La sua ricerca è riuscita nella notevole impresa di coniugare il formalismo a volte freddo del modernismo con lo stile documentario del nuovo realismo. Gli straordinari esiti creativi di queste e molte altre artiste che si adoperarono nello stile documentaristico, trovarono un adeguato sbocco, nel corso degli anni ‘30, in giornali di fama internazionale, quali Life e Look.

In particolare, divenne evidente il ruolo di primo piano che il fotogiornalismo in rosa avrebbe rivestito negli anni a seguire, quando la copertina del primo numero della rivista Life, risalente al 1936, diede spazio ad un’immagine realizzata da Margaret Bourke-White, già inserita a pieno titolo nello staff giornalistico. Ma la figura che stravolge la fotografia è stata certamente Vivian Maier che inizia a fotografare grazie alla passione che le ha trasmesso un’amica della madre, fotografa professionista, da cui la ragazzina e la madre stessa sono ospiti in seguito alla separazione dei genitori. La giovane fotografa viaggia e trasloca parecchie volte durante la sua crescita e all’incirca a
25 anni torna in Francia, terra natia della madre e luogo in cui ha vissuto per un periodo della sua infanzia, dove nell’attesa di vendere all’asta un terreno di sua proprietà decide di fotografare i propri parenti di quella regione. A Chicago ci arriva trentenne e lì comincia a lavorare dai Gensburg come bambinaia. Secondo le testimonianze, quella della bambinaia non è la massima aspirazione di Vivian, ma non sapendo fare altro e con l’amore dimostratole dai bambini, continua a farlo per i successivi quarant’anni.
Dai Gensburg ha un bagno privato, che lei ben presto trasforma in camera oscura. Nelle sue foto racconta i bambini, le strade, la vita quotidiana dai benestanti agli emarginati, ma anche gli autoritratti, soprattutto nei riflessi con la macchina fotografica in mano.
Tra il 1959 e il 1960 decide di partire da sola per un viaggio di sei mesi, visitando le Filippine, la Thailandia, l’India, lo Yemen, l’Egitto, l’Italia, per poi concludere il suo viaggio ancora una volta in Francia. Dopo 17 anni di lavoro presso i Gensburg i bambini sono cresciuti e Vivian deve cambiare famiglia. In quel periodo cambia anche approccio alla fotografia: smette di scattare con Rolleiflex e di sviluppare i relativi negativi in bianco e nero per
passare alla fotografia a colori con Kodak, Leica, ma non solo. Quello che di tutto il lavoro della Maier è straordinario, è questo sguardo estremamente moderno ancora oggi, mai scontato, con una consapevolezza inspiegabile da parte dell’autrice. Normalmente un fotografo cresce nel proprio sguardo e nel proprio linguaggio soprattutto perché in grado di analizzare il proprio lavoro con occhio critico e costruttivo, oltre che per una crescita personale. Vivian Maier questo percorso l’ha fatto, ma senza spesso vedere le proprie immagini oltre all’istante prima di premere l’otturatore.
Il percorso di crescita dell’autrice è evidente negli anni, sviluppando quelle foto che lei stessa non ha mai visto. Vivian Maier negli ultimi anni della sua vita ha dei grossi problemi finanziari, di lei si prendono cura i fratelli Gensburg fino alla sua morte nel 2009. Il percorso espositivo tocca i temi più caratteristici della sua cifra stilistica e si apre con la serie dei suoi autoritratti in cui il suo sguardo severo si riflette negli specchi, nelle vetrine e la sua lunga ombra invade l’obiettivo quasi come se volesse finalmente presentarsi al pubblico che non ha mai voluto o potuto incontrare. Una sezione è dedicata agli scatti catturati tra le strade di New York e Chicago. Vivian Maier predilige i quartieri proletari delle città in cui ha vissuto. Instancabile, cammina per tutto il tessuto urbano popolato da persone anonime che davanti al suo obiettivo diventano protagoniste, anche per una sola frazione di secondo, e recitano inconsciamente un ruolo. Le scene che diventano oggetto delle sue narrazioni sono spesso aneddoti, coincidenze, sviste della realtà, momenti della vita sociale a cui nessuno presta attenzione. Ognuna delle sue immagini si trova proprio nel luogo in cui l’ordinario fallisce, dove il reale scivola via e diventa straordinario. Mentre cammina per la città, Vivian Maier a volte si sofferma su un volto.

La maggior parte dei visi che scandiscono le sue passeggiate fotografiche sono quelli di persone che le assomigliano,che vivono ai margini del mondo illuminato dall’euforia del sogno americano. Parlano di povertà, lavori estenuanti, miseria e destini oscuri. Ognuno di questi ritratti, impassibile e austero, è colto frontalmente nel momento dello scatto. A essi fanno da contraltare quelli delle signore dell’alta borghesia, che reagiscono in modo offeso al palesarsi improvviso della fotografa. Oltre ai ritratti, Vivian Maier si concentra sui gesti, redigendo un inventario degli atteggiamenti e delle posture delle persone fotografa teche tradiscono un pensiero, una intenzione, ma che rivela la loro autentica identità. Le mani sono spesso le protagoniste di queste immagini perché raccontano, senza saperlo, la vita di coloro a cui appartengono. Agli inizi degli anni sessanta si nota un cambiamento nel suo modo di fotografare. La sua relazione con il tempo sta cambiando,
e il cinema sta già cominciando a insinuarsi e ad avere la precedenza sulla fotografia. Vivian Maier inizia a giocare con il movimento, creando sequenze cinetiche, come se cercasse di trasportare le specificità del linguaggio cinematografico in quello della fotografia, creando delle vere e proprie sequenze di film. Come naturale conseguenza, Vivian Maier inizia a girare con la sua cinepresa Super 8, documentando tutto quello che passava davanti ai suoi occhi, in modo frontale, senza artifici né montaggi. Un importante capitolo della mostra è dedicato alle fotografie a colori. Se da un lato, i lavori in bianco e nero sono profondamente silenziosi, quelli a colori si presentano come uno spazio pieno di suoni, un luogo dove bisogna prima sentire per vedere. Questo concetto musicale di colore sembra riecheggiare nello spazio urbano, come il blues che scorre per le strade di Chicago e, in particolare, nei quartieri popolari frequentati da Maier. Non poteva mancare una sezione dedicata al tema dell’infanzia che ha accompagnato Vivian Maier per tutto il corso della vita. A causa della sua vicinanza ai bambini per così tanti anni, era in grado di vedere il mondo con una capacità unica. Come governante e bambinaia per quasi quarant'anni, Maier ha preso parte alla vita dei bambini a lei affidati, documentando i volti, le emozioni, le espressioni, le smorfie, gli sguardi, così come i giochi, la fantasia e tutto il resto che abita la vita di un bambino.
Musei Reali di Torino
Vivian Maier – Inedita
dal 9 Febbraio 2022 al 26 Giugno 2022
dal Martedì al Venerdì dalle ore 10.00 alle ore 19.00
Sabato e Domenica dalle ore 10.00 alle ore 21.00