Marina Abramovic’ (Belgrado, 30 novembre 1946), naturalizzata statunitense. Attiva sin dagli anni sessanta del secolo scorso è considerata tra gli esponenti più rappresentativi della performance art. Nipote di un patriarca della chiesa ortodossa serba, successivamente proclamato santo. Studia dal 1965 al 1970 presso l’Accademia di Belle Arti di Belgrado. Nel 1974 viene conosciuta anche in Italia. Nel 1976 lascia la Jugoslavia per trasferirsi ad Amsterdam. Nel 1997 vince il Leone d’oro alla Biennale di Venezia.
 
Immaginiamo i due artisti – già affermati e acclamati come performer di spicco – l’una Marina Abramovic’,  l’altro Uwe Laysiepen, in arte Ulay, compagni di eventi memorabili oltreché compagni di vita, che decidono di compiere, praticamente in solitaria, la loro ultima performance (1988). Destinazione: La Grande Muraglia cinese. Obiettivo: partire dagli estremi opposti della Muraglia. Ulay dal Deserto dei Goby, Marina dal Mar Giallo. Dopo una lunga camminata di circa 2500 km, incontrarsi a metà strada. Abbracciarsi. Dirsi addio.
Detto così, parrebbe solo la decisione di due persone, un po’ bizzarre, certamente stravaganti, determinate però a dare un epigono “drammatico” e “spettacolare” alla loro storia, una fine (attenzione) che sarebbe stata “effettivamente” messa in atto.
Invece, l’evento possiede tutti i connotati dell’opera d’arte, più esattamente della “performance art”. L’intento di quest’arte – che più “concettuale” di così non può essere perché obbliga i critici a ragionare più intensamente del solito per carpirne i significati – è quello di vivere, da parte dell’artista, e di far vivere, da parte del pubblico (quando c’è),  un’esperienza unica e irripetibile. Un altro aspetto di quest’arte va sotto le dominanti caratteristiche dell’ “hic et nunc”: l’evento va vissuto e fruito sul momento, cercando di coglierne i significati e  le sensazioni prima della sua conclusione.
Marina Abramovic’, in quanto a performance estreme, ha dimostrato in tutta la sua lunga carriera di essere una vera maestra, tanto da rivaleggiare in “grandezza” (per creatività, ingegno, significanza) con colleghi quali Sebastian Bieniek, Lara Almarcegui, Valie Export, Freak Antoni e lo stesso Ulay. Che cosa fa, allora, di Marina una star di prima grandezza dell’arte performativa? Il suo corpo. Il corpo usato come medium – una sorta di tela e pennello viventi – sottoposto a tours de force nella continua ricerca delle relazioni tra i limiti del corpo, inteso come organismo fisico,  e le possibilità liminali della mente. Un esempio? Nella performance Rhythm 5, 1974, l’Abramovic’ si pone al centro di una stella a cinque punte a cui è stato appiccato il fuoco. Le fiamme giungono a lambirle le vesti quando un medico e alcuni spettatori la estraggono, quasi svenuta, dalla stella. Lo scopo dell’evento: la stella a cinque punte rappresenta il suo passato politico (comunista). Le fiamme riproducono – giusto il riferimento a miti e riti pagani – l’elemento della purificazione. L’artista ha inteso, quindi, sottoporsi, al cospetto del pubblico interdetto, ad una sorta di rito di purificazione fisica e, soprattutto, mentale.
Di più, in Thomas Lips, 1975, la performer sottopone il suo corpo in un’azione, piuttosto violenta, al limite dell’autolesionismo: con un rasoio, si incide sul proprio ventre una stella a cinque punte (ancora). Nelle intenzioni dell’artista, lo spettatore è praticamente “costretto” a porsi in una situazione di dialogo. All’azione dell’esecutrice deve corrispondere, di necessità, una reazione dello spettatore, che, a quel punto si fa oggetto egli stesso della performance.
Come si può capire, ogni evento equivale, per il pubblico,  ad un esercizio di prova concettuale nelle domande e nelle plausibili risposte che egli si dà nella ricerca dei significati sottesi alle forme per lo più drammatiche a cui si sottopone la performer. Il suo scopo, infatti, va al di là dell’intento di intrattenere il pubblico – nel qual caso la rappresentazione rasenterebbe, né più né meno, una mera spettacolarizzazione teatrale.
Come scrive su Artribune Sonia D’Alto, «La sociologa Nathalie Heinich propone una nuova classificazione dell’arte, per generi: l’arte classica si basa sulla tradizione e l’accademismo, il concetto di bello e di gusto; l’arte moderna deriva dalla filiazione dell’accademismo classico, creando una rottura con essa, prediligendo soggettività e singolarità; l’arte contemporanea apre ancora un nuovo capitolo, segnato dalla produzione, dall’oggetto e dalla partecipazione per iniziazione e contesto. Ora la performance si caratterizza per un residuo di soggettività (come nel caso dei performer e non solo), tipico dell’arte moderna, e in questo senso può essere considerata un suo ultimo sussulto, trasformata attraverso l’ironia, il ludico, il cinismo e meccanismi di scambio reciproco tra l’artista e il pubblico come autentica espressione contemporanea».  Però, nel caso della performance art, non esiste produzione, essendo stata codesta sostituita dall’azione; e l’oggetto per il più delle volte è rappresentato dall’apporto degli spettatori chiamati “a gran voce” a intervenire in dialogo con l’artisart ovvero, attivamente, da protagonisti o, ancora, ponendosi reciprocamente domande e risposte secondo le intuizioni più o meno estemporanee indotte dall’evento.
Ora, in quanto a intento di “coinvolgere” il pubblico, resta difficile pensare che qualcuno possa tener testa ad un Pollock o ad un Manzoni o ad un Fontana; ma qui questa particolare arte racconta un’altra storia. Essa si esibisce e nessun prodotto “artistico”, né le sgocciolature, né il famoso barattolo, nè tagli di sorta osano prendere al laccio, con più o meno dovizia di curiosità, l’attenzione del pubblico. Tutto, come nella scena di un teatro effimero, al di là del tempo e dello spazio, avviene non nell’illusione, non nella finzione; ma, come si è detto con speciale riferimento all’Abramovic’, mettendo a rischio, o (almeno) in discussione, sé stessi, nella ricerca di una verità, capace magari di esplorare i confini del campo d’azione del corpo e della mente.
L’ esibizione, è d’obbligo, comporta che l’artistart sia in presenza, e in presenza di un pubblico di spettatori, attenti, interessati oltreché motivati e guidati dalla stessa performer. E tra gli eventi al top di Marina Abramovic’ non si può non citare la sua performance The artisti is present, 2010.
Sede: sala al primo piano del museo MoMA di New York. Al centro della sala: un tavolo e due sedie contrapposte. Su di una: siede l’Abramovic’, vestita con una tunica, rossa, lunga fin oltre i piedi. Sull’altra siede, a turno, uno degli spettatori, considerato come cocreatore dell’azione, al quale è proibito di tentare qualsiasi contatto con l’artista, di fare movimenti bruschi e di parlare. All’inizio di ogni confronto, l’artista tiene gli occhi abbassati, poi, piano, solleva lo sguardo verso lo spettatore. In questo momento, all’incontro degli sguardi, s’innesta il clou della seduta: artista e compagno sono presi, il più delle volte, da una fortissima emozione, che scaturisce spontaneamente dal vivere in quell’istante una solidale, profonda e vicendevole intimità. È il baleno in cui si pone e si manifesta il nucleo dell’originalità e del valore della performance art: mai nessun genere artistico nella storia dell’arte aveva esplorato questo universo in cui, al pari d’un pianeta rotante su orbite impazzite, l’umanità, dimentica della propria essenza, pare escludere la sincerità dei rapporti interpersonali e il perseguimento di valori duraturi, in vista di fini nient’affatto chiari e nient’affatto condivisi.
Vi sono due aspetti, tuttavia, che non si possono tacere sul conto dell’appena descritta e intensa performance e che la rendono oltremodo importante e  forse anche suggestiva: l’esibizione performativa The artist is present al MoMA si svolse per sei ore al giorno, per la durata di tre mesi, dal 14 marzo al 31 maggio 2010, per un totale di 736 ore. Gli spettatori, numerosissimi – raccontano le cronache – arrivarono a pernottare fuori dal museo per non perdete l’esibizione. E poi – l’”evento” nell’evento – Ulay, il suo collega e amante, dopo l’addio, clamoroso e spettacolare, sull’altura della Muraglia cinese, si presenta, improvviso e inatteso, al posto di uno spettatore qualsiasi. Marina solleva gli occhi, percepisce l’immagine cara, l’emozione in ambedue si fa tacitamente struggente e incontenibile e viene quasi a mancare il vincolo del non potersi neppure sfiorare, tanto sono vicini i loro volti.
 
Luigi Musacchio
 
 
Aprile 2023