Giovanni Cardone Novembre 2022
Fino al 26 Marzo si potrà ammirare a Palazzo Bonaparte Roma la mostra di Vincent Van Gogh a cura di Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti. L’esposizione è prodotta da Arthemisia, realizzata in collaborazione con il Kröller-Müller Museum e con il patrocinio del Ministero della Cultura, della Regione Lazio, del Comune di Roma – Assessorato alla Cultura e dell’Ambasciata del Regno dei Paesi Bassi. Alla vigilia dei 170 anni dalla sua nascita Roma ospita la grande e più attesa mostra dell’anno dedicata al genio di Van Gogh. Attraverso le sue opere più celebri tra le quali il suo famosissimo Autoritratto del 1887 sarà raccontata la storia dell’artista più conosciuto al mondo. La mostra di Roma, attraverso ben 50 opere provenienti dal prestigioso Museo Kröller-Müller di Otterlo - che custodisce uno dei più grandi patrimoni delle opere di Van Gogh e tante testimonianze biografiche, ne ricostruisce la vicenda umana e artistica, per celebrarne la grandezza universale. Un percorso espositivo dal filo conduttore cronologico e che fa riferimento ai periodi e ai luoghi dove il pittore visse: da quello olandese, al soggiorno parigino, a quello ad Arles, fino a St. Remy e Auvers-Sur Oise, dove mise fine alla sua tormentata vita. Dall’appassionato rapporto con gli scuri paesaggi della giovinezza allo studio sacrale del lavoro della terra scaturiscono figure che agiscono in una severa quotidianità come il seminatore, i raccoglitori di patate, i tessitori, i boscaioli, le donne intente a mansioni domestiche o affaticate a trasportare sacchi di carbone o a scavare il terreno; atteggiamenti di goffa dolcezza, espressività dei volti, la fatica intesa come ineluttabile destino. Tutte queste sono espressione della grandezza e dell’intenso rapporto con la verità del mondo di Van Gogh. Particolare enfasi è data al periodo del soggiorno parigino in cui Van Gogh si dedica a un’accurata ricerca del colore sulla scia impressionista e a una nuova libertà nella scelta dei soggetti, con la conquista di un linguaggio più immediato e cromaticamente vibrante. Si rafforza anche il suo interesse per la fisionomia umana, determinante anche nella realizzazione di una numerosa serie di autoritratti, volontà di lasciare una traccia di sé e la convinzione di aver acquisito nell’esperienza tecnica una fecondità ben maggiore rispetto al passato.

È di questo periodo l’Autoritratto a fondo azzurro con tocchi verdi del 1887, presente in mostra, dove l’immagine dell’artista si staglia di tre quarti, lo sguardo penetrante rivolto allo spettatore mostra un’insolita fierezza, non sempre evidente nelle complesse corde dell’arte di Van Gogh. I rapidi colpi di pennello, i tratti di colore steso l’uno accanto all’altro danno notizia della capacità di penetrare attraverso l’immagine un’idea di sé tumultuosa, di una sgomentante complessità. L’immersione nella luce e nel calore del sud, a partire dal 1887, genera aperture ancora maggiori verso eccessi cromatici e il cromatismo e la forza del tratto si riflettono nella resa della natura. Ecco quindi che torna l’immagine de Il Seminatore realizzato ad Arles nel giugno 1888, con la quale Van Gogh avverte che si può giungere a una tale sfera espressiva solo attraverso un uso metafisico del colore. E così Il giardino dell’ospedale a Saint-Rémy (1889) assume l’aspetto di un intricato tumulto, mentre lo scoscendimento di un Burrone (1889) sembra inghiottire ogni speranza e la rappresentazione di un Vecchio disperato (1890) diviene immagine di una disperazione fatale. In una mia ricerca storiografia e scientifica sulla figura di Van Gogh che è divenuta modulo monografico universitario e convegno interdisciplinare apro il saggio dicendo : Il secondo Ottocento vede la nascita degli Stati nazionali, l’affermazione della borghesia e una nuova fiducia nel progresso tecnologico: è il periodo della Seconda Rivoluzione Industriale. Dopo la caduta nel 1870 di Napoleone III e la nascita, in Francia, della Terza Repubblica, Parigi consolida il proprio ruolo di capitale europea diventando sempre più una città borghese, con infrastrutture all’avanguardia, una estesa ed efficientissima metropolitana sotterranea, grandi stazioni ferroviarie con ardite strutture in acciaio e vetro, grandi magazzini dotati dei primi ascensori elettrici, imponenti boulevards ed un grandioso impianto di illuminazione pubblica, realizzato mediante lampioni a gas. Si afferma così quella fama di “ville lumière” (città della luce) che ne diventa descrittiva anche in ambito culturale ed artistico, facendone la meta di tutti i più grandi artisti ed il grembo di tutte le avanguardie. Verso la fine dell’Ottocento, il mondo culturale fu percorso da un profondo cambiamento che portò una pausa di riflessione durante la quale, l’attenzione di gran parte degli intellettuali, si spostò dal mondo della realtà a quello dell’interiorità umana. In questo contesto nasce e si sviluppa in Francia tra il 1880 e il 1890, il Post-impressionismo, non un movimento artistico, ma un clima culturale, nel quale si svilupparono nuove tendenze pittoriche ‘Puntinismo’ e in cui operarono singole personalità artistiche che svilupparono ricerche originali nel tentativo di superare le sperimentazioni impressioniste. Il termine “Post-impressionismo” fu coniato nel 1910, in occasione di una mostra dal titolo “Manet e i post-impressionisti”, dal critico inglese Roger Fry per identificare la generazione di artisti immediatamente successiva all’Impressionismo. Artisti che partendo dalle basi essenziali poste dall'impressionismo proseguono la loro ricerca su strade nuove fino a raggiungere esperienze diverse o addirittura opposte. Questi artisti tra cui Seurat, Signac, Van Gogh, Cezanne, Gauguin concepirono la pittura come ricerca dell’espressione soggettiva, per rappresentare l’interiorità dell’individuo e gli effetti della realtà sull’animo umano. Il Post-Impressionismo, dal canto suo, arriva a superare definitivamente i principi alla base del realismo demolendo il concetto stesso di arte quale “imitazione fedele della natura, cioè di ciò che si vede”. Questo passaggio determinerà non solo tutta la produzione artistica del nuovo secolo, ma la definizione stessa di Arte; è da allora e grazie a loro che si può affermare che l’arte non è espressione o immagine di qualcosa ma è una “realtà autonoma” con regole, mezzi e caratteristiche, propri. Come è avvenuto per altri movimenti rivoluzionari si pensi al movimento fiorentino che portò alla rivolta rinascimentale, l’impressionismo è sin dall’inizio bersaglio di critiche, ma anche di approfondimenti da parte di artisti, letterati, opinionisti, nonché da parte degli stessi protagonisti. Ciò spiega perché a dodici anni dalla prima mostra il movimento si è già disperso. Le principali critiche che gli vengono mosse battono tutte sugli stessi punti quali la presunta superficialità, la fugacità dell’immagine, la passività del soggetto, la sua assenza di partecipazione. Attacchi e commenti, comunque, non impediscono di guardare agli impressionisti come a degli autentici innovatori. Infatti, dopo di loro, la maggior parte dei movimenti d’avanguardia non possono fare a meno di partire dalle premesse del gruppo di Batignolles. Fra questi si distinguono innanzi tutto i neo-impressionisti e i post-impressionisti. Il neo-impressionismo sorge nel 1884 in seguito alle intenzioni di alcuni giovani pittori di voler fondare la strutturalità dell’immagine impressionistica su principi scientifici: la cosa circola nell’aria da tempo. L’impressione visiva era già stata oggetto di ricerca scientifica da parte di Chevreul era stata portata avanti da Helmholtz a Rood . Nel 1880 Sutter sentenzia che l’arte deve trovare un piano d’intesa con la scienza. Lo prende sul serio un giovane pittore, Georges Seurat che inizia ad elaborare una sua teoria e a sperimentarla di persona. Il nodo centrale è costituito dalla divisione del tono. La luce è fatta di onde elettromagnetiche; ad ogni lunghezza d’onda corrisponde un colore; la sommatoria di tutte le lunghezze d’onda dà la luce bianca. Se si mischiano tutti i colori quello che s’ottiene non è il bianco ma un grigio fango: segno evidente che il colore è solo un simulacro della luce. Tuttavia rimane valido il principio per cui un colore non dipende dal miscuglio di tutti gli altri ma dal loro accostamento. Si potrebbe obiettare che così facendo si perde l’unità del tono. Si risponde che l’unità è ricomposta tenendosi ad una certa distanza d’osservazione. Non solo: la divisione del tono crea anche una certa vibrazione, che è poi l’essenza stessa dell’impressionismo. La prima opera di Seurat eseguita con la tecnica puntinista sperimentata dai neo-impressionisti sulla base del principio teorico della divisione del tono è il Bagno ad Asnières, ma la più famosa è Una domenica d’estate alla Grande Jatte. Una domenica d’estate alla Grande Jatte è un’opera manifesto.

Il soggetto è un classico soggetto da impressionisti: una splendida giornata di sole con i parigini che passeggiano sulle rive della Senna. Tutta diversa è però la tecnica: non una pennellata data in plein-air, nessuna improvvisazione; tutto è studiato; tutto è premeditato nel chiuso di uno studio. È ovvio: se la luce dipende dall’applicazione di una teoria scientifica anche la forma che rivela deve dipendere dall’applicazione di una teoria scientifica. Questa forma è la forma geometrica. Ecco dunque ritrovato il teorema pierfrancescano dell’identità fra spazio geometrico e spazio luminoso. Risultato: il quadro è costruito su un ordito di orizzontali e verticali, i personaggi sembrano manichini disposti sul piano erboso come gli scacchi su una scacchiera durante una partita, le ombre formano un angolo retto con i corpi, la profondità richiama la prospettiva di classica ascendenza. Messa in questo modo sembra che Seurat voglia tornare allo spazio euclideo e al rapporto fra vuoto contenitore e pieno contenuto, ma non è così. Infatti, se si guarda bene, il contesto ambientale è una massa luminosa fatta di pulviscolo colorato che vibra e tende a debordare da tutti e quattro i lati della tela, le figure sono volumi cilindrici e conici fatti dello stesso pulviscolo. Insomma con Seurat le macchie diventano astratti pallini di colore disposti secondo un preciso ordine dettato dalla teoria. Dunque quel che Georges sottopone a regolamentazione geometrica non è lo spazio concettuale dei classici, ma quello empirico dei romantici. Lo spazio neoimpressionista è fatto di dosi di luce, non già di misure metriche, compito dell’arte è stabilire le dosi giuste; e questo lo può fare solo lei in quanto arte, non già la scienza. Per Seurat la dose giusta è quando nel dipinto si raggiunge l’equilibrio cromatico-luminoso, e questo equivale a trovare un tono medio proporzionale fra le note cromatiche più chiare e più scure, più calde e più fredde, più intense e meno intense. Ne risulta che il mondo rivelato dall’immagine scientifica di Seurat è un mondo di automi in uno spazio senza vita, un universo senza slanci, privo di sentimenti. Questo universo così ordinato, così controllato tuttavia qualche incongruenza ce l’ha: la scimmietta al guinzaglio, la pescatrice in gonnella e cappellino, le sottogonne rigonfie. Ma queste difformità sono solo eccezioni che confermano la regola. Il simbolismo è una corrente che si sviluppa in Francia negli stessi anni in cui si va svolgendo la parabola dell’impressionismo. Sorge nel periodo di riflusso controrivoluzionario che fa seguito alla comune di Parigi del 1871. Il fenomeno ha a che fare con le reazioni suscitate nei gruppi impegnati sul fronte del rinnovamento dalla restaurazione dell’ordine prerivoluzionario. Queste sono sostanzialmente di due tipi: impressionisti e neo-impressionisti reagiscono con un più rigoroso impegno metodologico scientifico; i simbolisti con il rifiuto della società e l’alienazione volontaria. Il distacco dell’artista dal resto della società non è una novità assoluta. Già l’ultimo Delacroix aveva manifestato una tendenza del genere con i suoi viaggi in Marocco. Ma è con il simbolismo che questa “necessità poetica” si estende ad un intero movimento. La poetica simbolista sembra porsi in antitesi con la poetica impressionista, in realtà vuole essere il suo superamento. Rispetto al neo-impressionismo, orientato nella stessa direzione, si qualifica come via alternativa impostata sulla spiritualità invece che sullo scientismo. Ma come non si può negare una differenza fra simbolismo e neo-impressionismo così non si può negare la loro tendenza ad accomunarsi come discipline spiritualistiche, dal momento che anche la scienza può essere considerata un’entità spirituale. Seguendo le linee del romanticismo sublime, i simbolisti definiscono, in opposizione alla concezione impressionista di un’arte intesa come ricerca strutturale fondata sulla percezione, la concezione di un’arte intesa come strumento di visualizzazione dei contenuti profondi della spiritualità umana, tra cui, primo fra tutti, l’immaginazione. Il punto di partenza è la critica all’impressionismo giudicato arte brillante ma superficiale. Per loro, contrariamente ai neo-impressionisti, l’arte non è un processo analitico della percezione visiva della realtà fenomenica, ma un processo di fenomenizzazione in forme percettibili di realtà invisibili, quali la fantasia, il pensiero astratto o il mondo onirico. Il suo manifesto è firmato da Moréas , poeta e critico letterario di origini greche, nel documento si sottolinea il fatto che l’indirizzo simbolista nasce dall’esigenza di portare l’arte ad occuparsi anche di quelle immagini che sfuggono alla percezione dei sensi, cioè le immagini psichiche, ritenute, chissà perché poi, più pesanti, meno superficiali, più vicine all’anima di quelle ottiche degli impressionisti. Per i simbolisti l’arte è un qualcosa che appartiene al solo spirito, il che vuol dire che deve trarre i suoi mezzi espressivi guardando esclusivamente al proprio io, senza considerare le sensazioni derivanti dal mondo esterno. Questo non significa però interrompere ogni contatto con la realtà naturale; significa solo che la superficie del dipinto non si limita a raccogliere le immagini provenienti dalla realtà oggetto filtrate dalla mente e dalla tecnica dell’operatore, ma che la superficie della tela si eleva a mezzo di supporto dell’operazione di trascrizione delle immagini che hanno origine nella mente dell’artista stesso. Tuttavia non ci si astrae dalle cose concrete, si ricerca in esse i segni inconfondibili dell’elezione spirituale. All’inizio le immagini che salgono dall’interno incontrano quelle che provengono dall’esterno, ma presto questa “osmosi” lascerà il posto alla sola immaginazione. I segni dell’elezione spirituale sono le linee e i colori attraverso cui la realtà percettiva si trasmuta in sagome fluttuanti nello spazio indefinito, note cromatiche che si fanno eco; non si vuole convertire la sembianza in simbolo, si vuole che la sembianza diventi simbolica. Le immagini psichiche non precludono la strada all’indagine strutturale, anche se la loro natura metafisica può indurle a organizzarsi su elementi di diversa origine rispetto a quelli su cui si basa la sensazione del gruppo di Batignolles. Riguardo al ruolo sociale la proposta simbolista suona perentoria: l’arte non sarà più un modello operativo, né uno strumento di ricerca strutturale sulla percezione, bensì un procedimento finalizzato all’indagine della struttura, dei contenuti e dei modi di operare della psiche umana. Non si cancellano le conquiste impressioniste, si ammette che anche la percezione rientra nel novero degli ordinamenti interiori, ma ne rappresenta solo una piccola parte, quella iniziale: dunque il simbolismo non esclude l’impressionismo, lo ritiene solo limitato. Assai importanti sono le conseguenze del simbolismo. Se l’impressionismo inserisce la pittura in un sistema specialistico di attività il simbolismo fa della pittura un’attività d’élite fatta da e per pochi prescelti. L’impressionismo vede nella disciplina pittorica un modo di stare al mondo; il simbolismo ci vede un mondo in cui stare, cioè vede l’arte come un’attività compensatrice del pragmatismo industriale, capace di creare un mondo alternativo, un’oasi dove rifugiarsi. La cosa ha dei risvolti di classe: il simbolismo contrapponendosi al pragmatismo industriale va costituendosi come cultura della classe dominante e prerogativa indispensabile per la sua pretesa alla direzione culturale della società. Essendo poi lo spirito dell’uomo lo stesso in tutti i luoghi e in tutti i tempi, non ha senso per un’arte che si pone come fine quello di renderlo manifesto contemplare fra i suoi problemi quello del progresso delle tecniche espressive. È per questo che il simbolismo non si ferma all’Ottocento, seguita ad esercitare la sua influenza per tutto il Novecento, fino ad approdare nel nuovo millennio. Così lo ritroviamo nel modernismo della Belle Époque, nell’espressionismo del Blaue Reiter, soprattutto nell’opera di Kandinskij e Klee e nelle varie avanguardie europee. Trionfa ovunque col surrealismo, quindi dopo la seconda guerra mondiale alimenta varie correnti informali. E oggi, laddove le avanguardie vedono esaurita la loro missione storica, sembra rimanere l’unica ancora di salvezza per la sopravvivenza dell’arte del periodo romantico. A dispetto del termine con il quale viene indicato, il post-impressionismo non arriva talmente dopo l’impressionismo da giustificare in pieno l’applicazione del prefisso “post” in ambito storico. Infatti il periodo post-impressionista è contemporaneo in ordine di tempo a quello impressionista; la parabola professionale dei suoi principali artefici si svolge contemporaneamente a quella degli impressionisti. Perché le loro opere si pongono oltre l’impressionismo. Di qui la coniazione del termine che non va dunque interpretato in senso cronologico ma in senso strettamente critico. I principali artefici che danno vita al post-impressionismo sono Paul Cezanne , Vincent Van Gogh e Paul Gauguin . Sono tre fra i più importanti artisti della storia dell’arte moderna; sono tre artisti che, pur rimanendo a tutti gli effetti degli impressionisti, sviluppano poetiche i cui contenuti superano l’impressionismo stesso. Queste semplici considerazioni ci impongono dunque di fare la loro conoscenza. Courbet aveva sancito un principio fondamentale: stare a quello che si vede. L’osservatore non è una lastra ovvero una pellicola che i raggi luminosi impressionano e basta, ma è un soggetto che con questi interagisce; non è una tabula rasa, non è solo un interprete, un traduttore di sensazioni luminose in colori; ma non è neanche soltanto un contenitore di strutture, di contenuti memorizzati, un cervello e basta; non è solo un contenitore di sensibilità che reagisce a degli stimoli esterni. Il soggetto è un insieme di cose molto più complesso delle mere facoltà percettive; è un essere pensante, culturalmente e storicamente determinato, che interagisce con il mondo che lo circonda, cerca di rapportarsi ad esso, cerca di conoscerlo, lo giudica, cerca di difendersi dalla sua aggressività, di non lasciarsi sopraffare; è un essere dotato di anima. Gli studi scientifici sulla percezione visiva confermano quello che è ormai una certezza per tutti gli artisti e cioè che il vedere è condizionato non solo da vere e proprie leggi psicologiche, ma dall’essere in quanto totalità indissolubile di natura e cultura. Insomma noi vediamo come siamo; più che con gli occhi, con la coscienza; vediamo quello che vogliamo vedere. Questo significa che non diamo la stessa importanza a tutto, ma mettiamo a fuoco solo quello che ci colpisce è la nostra natura prevalente questa è stata la grande intuizione di Toulouse Lautrec .

Subito dopo la comparsa dell’impressionismo ma in un certo senso anche con l’impressionismo stesso, il problema principale che si pone dinnanzi agli artisti più avanzati diventa quello di stabilire quanta parte del soggetto deve proiettarsi nell’opera d’arte: ormai risulta chiarissimo che la visione non è niente di automatico, ma è ciò che la coscienza investe nella sensazione per avere il controllo sulla realtà, o, se si preferisce, è ciò che la coscienza investe per rendere la realtà anche qualcosa di apprezzabile. Dopo la prima fase romantica il problema dell’arte impressionista si concentra proprio su questo punto, e cioè portare alla luce non tanto quello che è davanti agli occhi di tutti, ma le strutture e i contenuti della coscienza che influenzano la visione umana. Questo significa che il soggetto guadagna sempre più importanza nella consapevolezza che ormai se l’arte deve avere un senso questo sta proprio nella sua qualità di strumento insostituibile per la visualizzazione di sé, una visualizzazione che si fa sempre più diretta, cioè si serve sempre meno dell’oggetto come medium linguistico. Di fronte alla problematica principale dibattuta in questo periodo, cioè il peso da dare al soggetto nella elaborazione finale del processo artistico, Cezanne, Van Gogh e Gauguin intervengono schierandosi dalla parte di chi intende dargli maggiore importanza, però non intendono distruggere altresì le premesse della sperimentazione visiva. Il problema lo aveva già posto alla riflessione degli impressionisti, sin dai loro primi incontri con Degas e riguardava lo stabilire quale parte dell’apparato strutturale del soggetto deve intervenire nella restituzione dell’immagine percepita. Cezanne, Van Gogh e Gauguin approfondiscono questo argomento, cosicché il problema prioritario, con loro, diventa in definitiva quello di stabilire in che cosa si identifica il soggetto: che poi sarebbe la stessa cosa che porsi la questione dell’origine della reattività comportamentale dell’artista di fronte alla realtà. Le risposte costituiscono gli stili dei tre artisti. Con questi tre grandi personaggi il soggetto va ad acquisire sempre più importanza, fino al punto di arrivare alla deformazione della realtà in funzione della visualizzazione delle forze interiori agenti sulla visione del mondo oggettivo. Queste forze sono le strutture attraverso cui il soggetto ordina e esperimenta il mondo reale: il raziocinio, la memoria, l’immaginazione, l’inconscio e i sentimenti. Per Cezanne il soggetto si identifica con la propria struttura mentale, quell’insieme di meccanismi attraverso cui l’uomo comprende il mondo che lo circonda e vi si relaziona in modo razionale; per Van Gogh il soggetto si identifica con le proprie pulsioni viscerali che lo spingono a partecipare della realtà oggetto in modo convulso e appassionato; per Gauguin si identifica invece con la propria immaginazione, unico vero segno d’elezione dell’attività artistica. Cezanne, Van Gogh e Gauguin sono oltre l’impressionismo perché in loro il dipinto rappresenta la realtà trasformata dalla proiezione trasfigurante del soggetto. La loro identità si spiega, è proprio il caso di dirlo, più che mai con la differenza della loro personalità: razionale quella di Cezanne, mistica e visionaria quella di Gauguin, emotiva quella di Van Gogh. Negli impressionisti il soggetto è parte passiva dell’operazione artistica; si limita a raccogliere, interpretare, definire e collocare le sensazioni su un supporto artificiale quale la tela. Con Cezanne, Van Gogh e Gauguin il quadro ma ormai l’uso di questo termine è improprio diventa una superficie dove si costruisce l’immagine percettiva, non ci si limita a registrarla. Vale a dire che con questi tre artisti il soggetto, con tutte le sue strutture mentali e viscerali, diventa parte attiva del processo formativo dell’opera d’arte; e questo passaggio demarca il confine fra i cosiddetti impressionisti veri e propri e i post-impressionisti. Dunque il termine postimpressionista non indica una differenza generazionale, ma un diverso modo di concepire il peso del soggetto nell’operazione artistica. Cezanne, Van Gogh e Gauguin rappresentano anche tre modi di concepire l’arte come processo creativo. Tutti e tre si trovano d’accordo nel ritenere l’arte operazione finalizzata alla messa in evidenza del processo creativo stesso, quindi convengono sul fatto che l’espletamento di questa operatività creativa si compia mediante tecniche manualistiche tradizionali motivo: l’indissolubilità fra pensiero o immaginazione e azione. In particolare sia per Cezanne che per Van Gogh l’arte è un mezzo di conoscenza operativa, ovvero quel che si conosce con l’arte è l’io come essere identificabile con il proprio processo cognitivo. La differenza fra i due consiste nel fatto che mentre Cezanne concepisce la conoscenza come un’appropriazione mentale delle cose percepite, Van Gogh la concepisce come un impossessamento materiale; cioè mentre il primo intende l’io come un’entità fatta di forme il secondo lo intende come un’entità fatta di forze. Per quanto riguarda Gauguin si tratta del primo artista ad usare l’impressionismo come mezzo di visualizzazione della propria immaginazione, o meglio come processo di formazione dell’immaginazione. Ricapitolando, il problema principale che ci si pone nel post-impressionismo è, in sostanza, quello di definire con che cosa fermare l’attimo transitorio del percepire per renderlo eterno. Cezanne, Van Gogh, Gauguin rappresentano tre proposte di soluzione. Per Cezanne l’attimo diventa eternità nel momento in cui le sensazioni si organizzano in forme, le macchie informi in forme geometriche; per Van Gogh l’attimo diventa eternità quando l’impressione si trasforma in segno; in Gauguin invece quando la percezione diventa simbolo. Per tutti e tre l’attimo diventa eternità quando alla percezione si aggiunge il soggetto, si fa sentire la sua presenza, la presenza della coscienza operante, nel momento in cui la sensazione si umanizza. All’inizio del nuovo secolo il cubismo non modifica di una virgola il quadro ideologico cezanniano, così come gli espressionisti non modificano quello vangoghiano; spetterà a queste poetiche però recidere gli ultimi fili che legano la figurazione artistica all’immagine percettiva della realtà. Mondrian sul fronte del cubismo e Kandinskij su quello dell’espressionismo approfondiranno il discorso, fino ad arrivare alle radici dell’io, ma ciò che non cambieranno saranno le premesse ideologiche da cui sono partiti i tre artisti post-impressionisti. Van Gogh non rappresenta il soggetto, lo vive; non rifà la realtà, esprime come la sente. Di fronte ad un suo dipinto non ci si deve chiedere cosa rappresenta, ma cosa ci fa sentire, come lo ha vissuto, quale è stato il percorso che lo ha portato a trasformare un’esperienza estetica in immagine artistica. A differenza del pensiero realista Van Gogh non concepisce l’arte come rappresentazione, bensì come lotta intrapresa per il possesso dell’essere, battaglia nella quale l’artista investe tutto sé stesso, il proprio sapere, la propria sensibilità, le proprie intuizioni. Per il pensiero vangoghiano l’arte non va colta nell’adesione istantanea e istintiva all’essere trascendente, né in quella lenta e mediata all’essere immanente, ma nel contatto diretto e spontaneo all’istante in cui il veduto si trasforma in immaginato. L’arte non è catarsi, è dramma; la sfera ontologica non è l’essere né l’apparire, né il trascendere, ma il divenire. La conoscenza a cui porta non ha utilità pratica, almeno nell’immediato; allarga semplicemente gli orizzonti della propria esperienza, impegnandola al livello della sensibilità. L’arte deve avere come scopo strumentale la conoscenza di forme e colori. Ma forme e colori non sono l’essere universale, bensì il risultato del rapporto fra due soggetti, l’uomo, da una parte, e la natura, dall’altra, i quali tentano di possedersi l’un l’altra. L’uomo, attraverso l’immaginazione, tenta di inquadrare la natura; la natura, a sua volta, reagisce cercando di non lasciarsi inquadrare. E l’arte si trova proprio lì, nel prodursi del conflitto fra ciò che si vede ed è direttamente controllabile dalla percezione e ciò che si cela ed è svelabile solo con il ricorso all’immaginazione. L’arte come mistero dei misteri va cercata nelle strutture sospese fra l’apparire e l’essere momentaneo, sintetico, opinabile, e come tale si può cogliere solo ricorrendo alla totalità del proprio io, in qualità di complesso organico di senso e intuito, sensibilità e pensiero. In quanto reazione immediata, l’arte per Van Gogh è l’unico vero aggancio dell’uomo con l’essere, dunque la prova inconfutabile del suo esistere e dell’esistere del mondo. Se l’arte è un’esperienza che si fa lavorando e il lavoro comporta sempre una tecnica, l’arte moderna è la risposta tecnica dell’artista dell’epoca tecnologica. Nel Paleolitico fra arte e artigianato non esisteva ancora una distinzione, e il rifare la realtà era un modo per sopravvivere, non per fornire un saggio di perfezione artigiana agli altri membri del gruppo. Allora l’arte non esprimeva nessun modello, ma un modo di affrontare il mondo attraverso gli strumenti propri della condizione umana primitiva. In quell’epoca l’arte era espressione di versatilità manuale, la stessa manualità che permetteva all’uomo preistorico di crearsi frecce, archi per andare a caccia e procurarsi tutto ciò che si rendeva necessario per sopravvivere; era quella stessa disciplina che gli permetteva anche di dipingere pareti e decorare impugnature di propulsori. Oggi, benché il mondo sia assai cambiato, sembra più che mai valido il bisogno che nell’arte venga espressa la capacità di rapportarsi con l’altro da sé. Ma questa capacità non si esprime più nella versatilità del singolo individuo, come è avvenuto per l’uomo del Paleolitico, bensì nell’unico modo che l’artista conosce per sopravvivere, e cioè quello di affrontare la realtà con le sole armi del suo mestiere. L’arte per Van Gogh è il rituale attraverso cui l’uomo si confronta con la realtà quotidiana per non essere da questa sopraffatto. Essendo reazione emotiva, il gesto di Van Gogh non è il gesto organizzato del tecnico, né prevede l’intercessione dell’intelletto: con ciò si esclude la possibilità di adottare strumenti tecnici che abbisognano dell’intervento della mente razionale. Ma la mano dell’uomo primitivo era guidata dalla duttilità che gli permetteva di uccidere una preda come gli permetteva di imprimere una pressione variabile sui tamponi imbevuti di tinta colorata, cioè, in sostanza, dalla cultura dell’uomo cacciatore. Chi guida la mano di Van Gogh è la cultura impressionista. Come Gauguin, Van Gogh dipinge per necessità interiore; come Gauguin è un dilettante autodidatta; come Gauguin distorce l’immagine reale per esprimere quello che sente agitarsi dentro. Ma al contrario di Gauguin non associa alla sensazione della luce i materiali riposti nella memoria, bensì aderisce all’operazione creativa con tutto il suo essere, cioè reagisce alla vita con la sua vita. Van Gogh, alla stessa stregua di Cezanne, dei neo-impressionisti e di Gauguin, non considera più il quadro come un piano di proiezione, ma il piano dove si consuma lo scontro fra l’artista che vuole costruire l’immagine del mondo e il mondo che vuole distruggere la creatività dell’artista, la costruzione della realtà percettiva. Van Gogh in vita è non ha avuto molta fortuna; l’ha avuta dopo morto. Forse perché esprime, meglio di chiunque altro, la crisi esistenziale dell’artista nella società moderna, ma più in generale dell’uomo moderno di fronte alla perdita dei valori tradizionali. Van Gogh pone le basi per lo spostamento della ricerca strutturale artistica dalla percezione degli impressionisti all’azione degli espressionisti, recidendo definitivamente anche l’ultimo, sottile filo che teneva, nonostante tutto, ancora unite la manualità dell’arte con il fare artigiano conservata nell’impressionismo e nel simbolismo. Con lui la manualità dell’arte non esprime più la sapienza tecnica dell’esecutore, ma diventa espressione del bisogno stesso di esistere.
I mangiatori di patate
Quando nel 1880 Vincent van Gogh si risolve a fare il pittore, ha già 27 anni e una vita alle spalle segnata da scelte impulsive, dettate da aspirazioni di spiritualità e impegno sociale. Allora ricopre anche la carica di predicatore evangelico nella regione carbonifera del Borinage in Belgio, dove vive sentimenti di solidarietà per i lavoratori miserabili delle miniere. È allora che la sua inclinazione alla pittura, da esercizio privato, diviene vocazione esclusiva. Fin da subito, Vincent nutre completa fiducia nelle possibilità dell’arte di lenire la pena connaturata alla condizione umana, aprendo l’individuo verso uno stato spirituale più elevato, vicino alla penetrazione mistica proposta dal cristianesimo. Vincent, per i primi dieci anni della sua carriera, rincorrerà l’ideale di un’arte consolatoria profondamente partecipe della modernità. La sua personale visione dell’arte si fonda su letture appassionate di fonti molto diverse fra loro, tra cui testi cristiani, romanzi francesi, saggi di pensatori e storici romantici come lo scozzese Thomas Carlyle, Jules Michelet, e più tardi Richard Wagner. Per cinque anni si dedica a un esercizio incessante sulle norme della pittura. Tra Bruxelles, Etten (nel Brabante settentrionale), L’Aja, la regione olandese della Drenthe e infine ancora il Brabante, disegna e dipinge con furia autodidatta. Nell’aprile 1885 esegue il primo dipinto importante: I mangiatori di patate, che presenta una famiglia contadina seduta a un’umile cena. Vincent narra senza idealizzare la prostrazione e la fatica dovuta all’onesto lavoro che solca i volti espressivi, sofferenti e quasi animaleschi dei commensali. Una luce smorzata disegna i volumi nella stanza angusta. Vincent rivela da subito uno degli aspetti fondamentali della sua pittura, il debito con la pittura romantica di impegno sociale di Honoré Daumier e soprattutto di Jean-François Millet, che dipingeva nei toni bruni della terra opere di soggetto contadino, con un fremito di adesione morale. La tavolozza ripropone il luminismo della Scuola dell’Aja, soprattutto di Josef Isra?ls (1824-1911), che due anni prima aveva dipinto un soggetto analogo (Famiglia di operai a tavola, 1883).
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All’inizio del 1886 lascia il Brabante per iscriversi alla Accademia di Belle Arti di Anversa, ma già in marzo abbandona definitivamente il Nord per Parigi dove, da più di un decennio, Edgar Degas, Camille Pissarro e Claude Monet sono le stelle polari dell’arte innovatrice. I colori luminosi dell’impressionismo sono ormai entrati nel gusto, van Gogh percepisce di colpo il ritardo della sua pittura a base di nero. Si mette così al lavoro sui colori. Discute con Émile Bernard, Henri de Toulouse-Lautrec, Pissaro e Paul Gauguin la nuova pittura di Georges Seurat, che aveva dominato la mostra impressionista del 1886. Vincent rigenera così la sua pittura con un bagno nella nuova tecnica che si fonda sulla giustapposizione di colori puri stesi sulla tela (e non sulla tavolozza) e si ritira a dipingere nel sobborgo di Asnières con Paul Signac, paladino di Seurat. Il periodo parigino è una seconda fase di formazione, a contatto con gli artisti più progressisti, per ottenere un nuovo controllo sul colore e sui generi, in una direzione che porterà in pochi mesi a
Il ritratto di Père Tanguy , un mercante
sui generis, dalle idee socialiste (con un passato nella Comune del 1871) con grande attenzione verso gli artisti più audaci, Paul Cézanne, Gauguin, Émile Bernard, dei quali conserva una piccola galleria nel retrobottega. Minute pennellate impressioniste evidenziano sul volto e negli abiti i punti di volume e le luci secondo le intuizioni della pittura di Seurat. Il fondo della composizione è gestito senza illusioni di spazio, il contorno marcato della giacca, il contrasto smagliante delle campiture sul fondo ricalca pattern e tinte brillanti di xilografie giapponesi, di grande attualità a Parigi in quegli anni. Ma il tecnicismo di Seurat e Signac non è un punto di arrivo per Vincent, che cerca una pittura in cui gli aspetti decorativi si leghino a una nuova espressività, in grado di muovere lo spirito dell’osservatore. Pochi mesi dopo, nel febbraio 1888 egli si trasferisce ad Arles, persuaso che al Sud potrà migliorare la padronanza del colore.
“Luce sulla luce”
Già ai primi di giugno del 1888, l’ispirazione di Vincent subisce un’accelerazione. Dopo un soggiorno sulla costa della Camargue, a Saintes-Maries-de-la-Mer (
Barche di pescatori, conservato al Museo Pushkin di Mosca) rivela uno sguardo nuovo e un linguaggio più personale. L’intensità del mediterraneo lo spinge a forzare il colore, che ora stende a pennellate larghe. Abbandona la preparazione a disegno e la prospettiva diventa più libera. Progetta cicli di dipinti sull’alternarsi delle stagioni. La luce della Provenza inonda i campi di grano, che Van Gogh dipinge
en plein air nel sole di giugno. Esegue più di quindici tra disegni e dipinti sul tema della mietitura e ritorna ai soggetti di vita dei campi, per la prima volta dopo aver lasciato il Nord. Dipinge l’estate provenzale, guardando alle sfumature ramate delle
Mietiture di Cézanne, racconta gli spazi a perdita d’occhio della pianura della Crau (fuori Arles): il cielo blu contro l’arancio dorato del grano, nel contrasto delle coppie complementari (blu e arancio, giallo e viola, rosso e verde), eredità della pratica neoimpressionista. Nelle azioni ripetitive dei mietitori condensa una metafora quasi religiosa del ciclico ripetersi della natura e delle stagioni. Già a Parigi aveva studiato la qualità espressiva del colore diversamente sfumato in
Natura morta con frutta dedicata al fratello Theo , combinata sulle variazioni del giallo.
Natura morta con girasoli (agosto-settembre 1888) è l’esito di quella tecnica che van Gogh definisce della “luce sulla luce”. Conquistata una libertà nuova, aggiunge tocchi di verde e d’azzurro, che danno conto della disposizione degli elementi e della loro diversa reazione alla luce. Riassume in un capolavoro le pennellate grosse del suo nuovo stile provenzale e le forme chiuse delle stampe giapponesi. Fin dai tempi di Anversa, Vincent colleziona xilografie giapponesi, amando soprattutto la purezza delle campiture piatte di Ando Hiroshige. Nel marzo 1887 a Parigi, ha addirittura promosso una esposizione al ristorante Le Tambourin di boulevard de Clichy. Le stampe dalle sagome marcate, dalle giustapposizioni ardite sono un tema ricorrente nelle discussioni con Gauguin e gli amici dell’avanguardia. Il lontano Giappone, nell’immaginario degli artisti parigini, è un eden di moralità e di purezza di forme e colori. Vincent sente di aver trovato ad Arles quella stessa genuinità estetica. In
Natura morta con girasoli marca i contorni tendendo a un’astrazione più giapponese. I girasoli, e il colore giallo, diventeranno quasi la firma di van Gogh, che elabora il simbolismo cristiano del fiore, largamente diffuso nell’Ottocento. Entusiasta dell’effetto, escogiterà diverse soluzioni per i vasi di girasoli, “candelabri luminosi”, segno di gratitudine alla natura incandescente della Provenza.
Verde e rosso
Van Gogh continua la ricerca sulla forza espressiva del colore e traduce in potenza cromatica anche i temi angoscianti. In tre sedute notturne nel settembre 1888 esegue
Il caffé di notte. È una metafora vicina ai temi del romanzo francese naturalista, soprattutto di Émile Zola (
L’Assommoir, 1877). Nelle lettere, van Gogh esprime il desiderio di dipingere con la crudezza e il realismo di quei romanzi.
Il caffé di notte è un’arena di alcolismo, azzardo, prostituzione, abitata da larve umane senza speranza. Il rosso delle pareti chiude lo sguardo entro una prospettiva schiacciata da un soffitto incombente. Ancora sul verde e sul rosso è impostato il magnifico
Autoritratto con l’orecchio bendato e la pipa(gennaio 1889), eseguito allo specchio. Vi si legge una sofferenza colma di rassegnazione che registra lo stato d’animo di Vincent dopo il fallimento del progetto dell’
Atelier du Midi (tra il 23 ottobre e il 25 dicembre 1888, infatti, nella casa di Vincent ad Arles, aveva preso forma, grazie all’aiuto di Gauguin, uno dei sogni artistici leggendari dell’arte moderna: un cenacolo di vita e pittura lungo tre mesi di confronto creativo). La benda protegge la ferita che si è inflitto da solo nella grave crisi psichica, culminata con la partenza di Gauguin da Arles. Da quel momento il male di vivere sempre più atroce scandirà i giorni del pittore. Quattro mesi dopo viene ricoverato a Saint-Rémy-de-Provence nell’ospedale di Saint-Paul-de-Mausole.
Ricordi del Nord
A Saint-Rémy, nei momenti di salute, maturano i frutti migliori del cenacolo di Arles. Nei tre mesi passati insieme a Gauguin, van Gogh esamina la propria pittura alla luce del modo di lavorare dell’amico, fatto di forme più astratte e stilizzate in studio. Nei primi tempi di Saint-Rémy, van Gogh rielabora i metodi di Gauguin e punta verso una pittura di linee e forme più marcate. Tra le opere di massima tangenza con Gauguin,
Notte stellata (conservato al MoMa di New York) è una celebre astrazione antinaturalista della notte, dove riflessi e bagliori luminosi degli astri si fissano in pennellate quasi grafiche, in spirali nel cielo sopra le sagome stilizzate dei tetti e dell’orizzonte. Il dialogo con l’avanguardia parigina prosegue anche sul versante del soggetto oltre che dello stile. Ad Arles viene affrontato il problema della interpretazione moderna di temi biblici. Gauguin dipinge
Cristo nell’orto di Gethsemani e l’8 novembre 1889 manda uno schizzo per lettera a Vincent, che poco dopo vede anche una fotografia della versione eseguita da Émile Bernard. Van Gogh ha affrontato il tema del Gethsemani in due tele che egli stesso distrugge. Negli ultimi mesi studia le opere di Rembrandt,
La pietà di Eugène Delacroix, ,
Cristo nell’orto del 1849 di Jean-Baptiste-Camille Corot. Nello stesso periodo esegue anche una serie di cinque dipinti di ulivi le
Donne che raccolgono le olive di Washington e il
Bosco di ulivi, giugno-luglio 1889 nella osservazione sempre più acuta delle gamme argentate di Corot. Nell’ultimo anno di vita, lascia la casa di cura di Saint-Rémy e il Sud per sempre. Dal maggio 1890 vive a Auvers-sur-Oise (a nord-ovest di Parigi) dove frequenta la casa di un medico amico degli impressionisti, il dottor Paul Gachet. Il ritratto che van Gogh eseguirà di lui conoscerà una immensa fortuna nel XX secolo, diventando una delle metafore più penetranti del sentimento della malinconia. Ma la somma delle energie di Vincent, ancora a Auvers, è tesa a dipingere la natura. Studia i paesaggi dei maestri di Barbizon, di Charles-François Daubigny. Riscopre l’estro romantico e i contrasti luminosi della pittura di Jules Dupré che dieci anni prima nel Brabante gli aveva ispirato il tramonto di
La Chaumière (maggio 1885). Sull’onda di questo ritorno alla natura esegue dipinti di grande fascino, senza figure, come
Campo di grano sotto un cielo nuvoloso (luglio 1890). Nel lungo formato (50 × 100 cm), un cielo cobalto ingombra i due terzi della superficie e incombe sul verde del grano. Quasi astratto, a pennellate larghe, evoca una infinita solitudine spirituale. Il 29 luglio 1890 la vita di Vincent van Gogh si chiude drammaticamente. La sua fortuna cambia di segno già nei primi anni Novanta. Dopo l’articolo del gennaio 1890 del critico Gabriel-Albert Aurier (
Les Isolés: Vincent van Gogh sul “Mercure de France”), il mondo artistico parigino scopre van Gogh. Il favore cresce dopo la mostra personale curata da Theo e Bernard (settembre-dicembre 1890) e ancora di più, dopo le mostre del 1891 a Bruxelles (a febbraio, “Les Vingt”) e al “Salon des Indépendents” parigino. Negli anni seguenti la figura di van Gogh sarà decisiva per l’evoluzione del simbolismo fino alle avanguardie del Novecento. Grazie all’epistolario, letterati di grande livello come Antonin Artaud e Georges Bataille hanno animato il dibattito novecentesco sulle interferenze di arte, società e follia nella vicenda di van Gogh, che si innalza tra le figure di culto dell’arte moderna.
Il Mistero dell’Orecchio
“Il 23 dicembre in cassa c’erano ancora un luigi e tre soldi. Quel giorno ho ricevuto da te il biglietto di 100 franchi. Ecco le spese. Dati a Roulin per pagare il mensile di dicembre alla domestica, 20 franchi. Pagato gli infermieri che mi avevano medicato, 10 […] Pagato per far lavar lenzuola, coperte, biancheria insanguinata ecc. 12,50. Acquisti vari, come una dozzina di pennelli, un cappello ecc. ecc., diciamo per 10”. Questo è il quadro di Vincent al suo ritorno alla Casa Gialla di Arles, e il puntuale resoconto economico al fratello Theo il 17 gennaio 1889. È stato dimesso dieci giorni prima. Dell’episodio dell’orecchio (sera del 23 dicembre) non ricorda niente. La polizia lo trova il mattino del 24, senza sensi nel suo letto pieno di sangue e lo porta all’ospedale di Arles. Com’è noto, la sera prima Vincent si taglia l’orecchio, lo avvolge in un cartoccio e lo porta in dono alla prostituta del bordello del paese: “Custodiscilo con cura”. La ragazza sviene all’istante. La notizia è riportata sul giornale locale. Un testimone è Gauguin, il quale però dichiara che Van Gogh si comportava in modo così strano che lui aveva deciso di dormire in albergo. Quindici anni dopo, nelle sue memorie Avant et Après , Paul Gauguin scrive una versione diversa: dopo un’accesa discussione Vincent lo avrebbe rincorso e minacciato con un rasoio. “[…] ho ripreso il lavoro e ho già tre studi finiti nell’atelier, più il ritratto al signor Rey che gli ho dato come ricordo”. Un giovanissimo dottore, gentile e “instancabile”, come lo descriverà più tardi, è il primo all’ospedale che lo assiste e lo cura. Quando sta meglio lo tiene nel suo studio a far quattro chiacchiere per distrarlo. Il 30 dicembre Félix Réy scrive a Theo “Quando ho cercato di fargli dire cosa lo avesse spinto a tagliarsi l’orecchio, mi ha risposto che era una questione personale”. Nelle sue lettere Van Gogh non ne parlerà mai, “un colpo di testa d’artista”. Si limiterà a segnalare la “grande perdita di sangue” e il fatto che doveva “riprendere le forze”, per poi scherzarci sopra: “dovrei farmi fare un orecchio di cartapesta”. Forse bisognava prenderlo sul serio, perché, a quanto pare, era rimasto solo il lobo: l’esatto contrario di quello che si credeva fino ad oggi. La storia è lunga. Da un lato c’era il giornale locale che scriveva che il pittore olandese aveva donato “il suo orecchio”, e Gauguin che sosteneva la stessa cosa. Dall’altro Jo, la moglie di Theo (“si era tagliato parte dell’orecchio”), il figlio di Gachet (“si notava a malapena”), e Paul Signac (che era andato a trovarlo a Arles) in un modo o nell’altro dissero tutti che si era tagliato solo la parte bassa. Però nel quaderno degli appunti di Gustave Coquiot, critico e scrittore francese (che pubblicò una biografia di Van Gogh nel 1923), questa discrepanza è chiarissima: prima trascrive la lettera ricevuta da Paul Signac “si era tagliato il lobo dell’orecchio (e non tutto l’orecchio)” ma poi sotto scrive in rosso: “Rey mi dice: tutto l’orecchio, lasciando solo il tragus”. Più tardi, nel 1936, gli psichiatri Doiteau e Leroy pubblicano un articolo con un disegno dell’orecchio tagliato a circa metà nella parte bassa. E nel 1969 Marc Edo Tralbaut riprende quel disegno nel suo documentato studio Van Gogh. Le mal aimè. Il gioco è fatto. Da allora la questione sembrava dovesse rimaner chiusa così. Ma dall’archivio della corrispondenza di Irving Stone, conservato in California, arriva oggi la sorpresa. Una storica dell’arte, Bernadette Murphy, ritrova un documento che svela il mistero. È una lettera del dottor Rey, datata 18 agosto 1930, che illustra a Stone come sono andate le cose: “l’orecchio è stato tagliato con un rasoio seguendo la linea tratteggiata”. La linea tratteggiata recide tutto il padiglione auricolare, tranne il lobo, come descritto sotto: “L’aspetto di quello che restava del lobo dell’orecchio”. Un atto radicale. “Il sacrificante è libero, libero di lasciarsi andare lui stesso a un tale sgorgo […]” scrive Georges Bataille nel 1930. Niente sarà più come prima. Ma Van Gogh affronta la sua malattia con stoica pazienza. Ogni pittore rischia di “diventare un po’ tocco”, scrive a un certo punto… La parola
fou, toqué, compare spesso nelle lettere in francese. La romantica associazione tra genio e follia gli è molto chiara, parla spesso di pittori poveri sfortunati o suicidi, e, nell’agosto precedente, poco dopo aver acquistato uno specchio per la Casa Gialla, aveva paragonato il suo sguardo a un dipinto di Emile Wauters, su La piazza di Hugo von der Goes che già a vent’anni lo aveva colpito per la sua intensità. Con una dozzina di pennelli e un cappello nuovo per mascherare la fasciatura ecco che s’interroga per raccontare la sua verità in pittura: è un uomo tranquillo che fuma la pipa, in fondo era quello il suggerimento del “grande Dickens” contro il suicidio. “Per il momento non sono ancora pazzo”. L’autoritratto con l’orecchio bendato e la pipa è parte di una collezione privata, e in mostra vediamo una copia a pastello di Emile Schuffenecker, che a quel tempo possedeva diversi quadri di Van Gogh e amava copiarli minuziosamente. Ma quello che forse non viene sottolineato abbastanza è la
decisione di Van Gogh di dipingere due ritratti di sé con l’orecchio bendato (un secondo, con stampa giapponese sullo sfondo, è conservato a Londra alla Courtauld Gallery) che portano con impressionante semplicità la traccia e la cronaca del suo dramma. Una decisione audace e lucida. Audace perché forse solo Dürer prima di lui aveva indicato con tanta chiarezza un suo dolore; lucida perché costruisce la scena con cura. Il rosso e il verde sono i colori che usa qui, contrasti simultanei, e sono gli stessi che aveva usato per dipingere Il Caffè di notte di Arles, l’estate precedente. Lì con il colore aveva cercato di esprimere “la potenza delle tenebre di un mattatoio”. Non commenterà mai questi due autoritratti.
Il Passaggio da un ospedale all’altro
“Rimarrà pazzo?” scrive Theo a Jo al suo ritorno a Parigi, “i dottori per ora sono positivi”. Theo si era precipitato ad Arles il 25 dicembre, ma era ripartito la sera stessa con Gauguin. Presto sarebbe andato una settimana in Olanda, per la festa del suo fidanzamento del 9 gennaio. Si sposerà in aprile. Van Gogh rimane in ospedale due settimane, e al ritorno alla Casa Gialla riprende subito a dipingere. Ma il 7 febbraio ha una ricaduta, è convinto lo vogliano avvelenare. Per la seconda volta viene messo in isolamento. I dottori sono meno positivi, consigliano un ricovero in una casa di cura. Il reverendo Frédéric Salles lo prende sotto la sua ala protettrice, lo va a vedere ogni giorno, gli fa scaldare la cella, tiene i contatti con Theo. La storia è nota, i vicini nel frattempo “si sono montati la testa l’un l’altro” come scrive Salles a Theo, e a fine febbraio sottoscrivono una petizione per farlo internare. Gli rimproverano un comportamento “indecente”, ma in realtà fanno leva sull’episodio dell’orecchio per non vederlo più in giro. La petizione è un misero foglio, carta a quadretti, sottile, ormai consunto, indirizzato al Sindaco di Arles e firmato “i suoi devoti elettori”. Sotto, trenta firme, molte illeggibili. “Ed eccomi di nuovo da lunghi giorni chiuso sottochiave, con chiavistelli & guardiani, in cella, senza che la mia colpevolezza sia provata e neppure provabile. […] se non contenessi la mia indignazione, verrei subito giudicato pazzo e pericoloso, mi restano la pazienza e la speranza.” È il 19 marzo 1889, in seguito alla petizione Vincent è rinchiuso all’ospedale di Arles. Ma lì non poteva rimanere a lungo. A quel punto c’era il rischio di un internamento che sarebbe stato devastante, in un manicomio pubblico, Marsiglia o Aix-en-Provence. L’ordine era già pronto ma non fu mai firmato. Il reverendo Salles tiene la situazione sotto controllo e sollecita una risposta da Theo: preferiva che suo fratello ritornasse a Parigi, o che si cercasse un istituto privato, o voleva lasciare la decisione alla polizia di Arles? “Spero, malgrado il commissario centrale sia convinto e sembri deciso a fare internare vostro fratello, che riusciremo a tenerlo qui e che saremo in grado di evitare quello che temete. Come vi ho scritto ieri, tutti qui in ospedale l’hanno in simpatia e, dopotutto, sono i medici e non il commissario che possono giudicare in materia”. Salles proporrà a Vincent e a Theo l’istituto che tutti conosciamo: Saint-Paul de Mausole a Saint-Rémy. A Saint-Rémy ci rimane un intero, lunghissimo anno. Ha anche uno studio per dipingere. All’inizio non può uscire ma in giardino e in cortile i soggetti non mancano. Nei suoi lavori c’è la farfalla notturna,
tête de mort, l’edera, le panchine vuote, l’albero con il tronco mozzato, “colpito da un fulmine e segato”. È “il gigante tenebroso – come un orgoglioso sconfitto” ributta “un ramo laterale”. A settembre 1889, dopo una lunga crisi, dipinge un ritratto straordinario che da solo merita il viaggio, non viene quasi mai esposto. È quello di un malato. Occhi liquidi non definiti, un fumo sale dal cervello, a destra e a sinistra, come se il cervello stesso dovesse evaporare, stesse già evaporando. Una vestaglia che trema. La mostra e suddivisa in cinque sezioni e il generoso prestito da parte del Kröller-Müller Museum di Otterlo consente di proporre un’importante selezione di opere che documenta l’intero percorso artistico di Van Gogh. A introdurre il visitatore nel viaggio emozionale e intimo tra i capolavori dell’artista, dipinti significativi di altri pittori testimoniano la ricchezza di una collezione costruita con amore da Helene Kröller-Müller che ha dedicato gran parte della sua vita alla realizzazione del Museo. La Kröller-Müller, infatti, tra il 1907 e il 1938 mise insieme una raccolta senza eguali in Europa, che comprendeva dipinti di Picasso, Gris, Mondrian, Signac, Seurat, Redon, Cranach, Gauguin, Renoir, Latour e, naturalmente, Van Gogh. Fu colei che, prima di ogni altro, seppe apprezzare l’opera del pittore olandese, a cui si sentì legata riconoscendo nella sua arte la sua stessa spiritualità personale e non dogmatica. Helene Kröller-Müller espose i quadri di Van Gogh in Europa e negli Stati Uniti incrementando, così, non solo la fama dell’artista ma anche quella della propria collezione, gettando le basi per convincere lo stato olandese a partecipare alla costruzione del museo. Lavori che iniziarono nel 1937 e che videro, un anno dopo, l’apertura al pubblico del Museo con Helene nel ruolo di direttrice. In questa sezione di apertura sono esposti alcuni capolavori della collezione, tra cui Portrait of a young woman (The Madrilenian) di Picasso, In the café di August Renoir e Atiti di Paul Gauguin. Da qui si entra nel vivo dell’esposizione, che segue un ordine cronologico e fa riferimento ai periodi e ai luoghi dove Van Gogh visse: da quello olandese, al soggiorno parigino, a quello ad Arles, fino a St. Remy e Auvers-Sur-Oise, dove ebbe fine la sua tormentata vita.
Prima sezione – Helene Kröller-Müller
Helene Kröller-Müller affida all’arte il compito di traghettare la società verso il futuro, espandendo il mondo delle opere oltre il concetto del bello. Se l’arte ha il compito di condurci verso il domani, l’artista diventa il mediatore fra i due mondi, dando voce a sentimenti non ancora registrati e offrendo al mondo la sua visione del futuro attraverso l’esperienza estetica. Van Gogh, più di ogni altro, riesce a portare Helene oltre la sicurezza del presente, l’epica racchiusa nell’umanità sofferente che ritrae, valica i confini del tempo. Il realismo disperato che emerge dalle tele dell’artista conforta Helene, che riconosce nel pittore olandese lo stesso tormento che la pervade, ma quel tormento Vincent non lo nasconde anzi, lo accentua, lo esaspera, espone la sua sofferenza. Helene comprende il senso di modernità rivoluzionario nella violenta trascrizione della realtà contenuta nelle opere di Vincent. La ricerca di assoluto di Van Gogh la disorienta e affascina, percepisce nei dipinti la stessa inquietudine che sente nella sua anima, che trova consolazione e pace grazie al valore terapeutico della pittura, la porta verso un universo altro. Helene desidera ardentemente appagare l’intima e profonda esigenza di lasciare un segno del proprio passaggio sulla terra e comprende il valore del contributo che può dare, favorendo il cambiamento attraverso la creazione di una grande collezione di opere d’arte moderna. È il 1908 quando acquista il primo dipinto di Van Gogh, poi altri tre nei mesi seguenti e poi altri e altri ancora fino a costituire la collezione di opere del pittore olandese più importante al mondo, seconda solo al Van Gogh Museum di Amsterdam.
Seconda sezione – Il periodo olandese
L’attività artistica di Van Gogh si svolge nel breve scorrere di anni dal 1881 al 1890. Dominata inizialmente da un disegno animato da tratti di colore, presto si arricchisce nell’uso dell’olio adoperato in toni scuri capaci di creare un clima sorprendentemente ricco al di là di ogni significato letterale. Un realismo spiritualizzato. Dominante è l’amore per la terra e per l’attività di esseri umani impegnati in un duro lavoro sempre illuminato da un atteggiamento spirituale e da una religiosità, che rende sacra l’umiltà di una fatica quotidiana. Vincent guarda con interesse le opere dei barbisonniers francesi, in particolare si ispira a Jean François Millet e a Charles François Dubigny. Ciò che stupisce e conquista è il realismo non privo di crudezza, illuminato dall’amore per i poveri protagonisti di un mondo: contadini, tessitori, boscaioli, donne impiegate faticosamente nel lavoro dei campi e in attività domestiche. Si respira un clima intatto, non corroso da alcun tipo di evoluzione sociale o mondana, legato a un senso del dovere che ha la forza di rendere la fatica epica, nobile, necessaria.
Van Gogh si sente parte di un mondo che vive in capanne di terra, che prega devotamente con la consapevolezza di vivere la totalità di un’esperienza sempre degna di essere vissuta. Lo seguiamo spostarsi da Etten, a L’Aia, al Drenthe, a Nuenen sempre alla ricerca di testimonianze vive di un mondo che ha per lui un valore assoluto incarnato nelle sue figure.
Terza sezione – Parigi
Alla fine di febbraio 1886 Van Gogh decide di trasferirsi a Parigi avvertendo la necessità di confrontarsi con un mondo di cui gli giungono, seppur indirettamente, significative notizie. Si trova di fronte all’ottava ed ultima mostra impressionista dominata dalle giovani figure di Seurat, Signac e Gauguin. Penetra intensamente nel nuovo dibattito che vede l’esperienza impressionista mutarsi in un linguaggio dai presupposti scientifici, basato sull’accostamento dei colori puri e su un disegno sintetico. Un nuovo modo di intendere la natura denota un’adesione a un linguaggio impressionista e liberamente neo-impressionista, la tavolozza accoglie la luminosità del colore. Conquistato, il pittore individua una moltitudine di possibilità espressive, dato rilevabile anche nelle belle nature morte dominate da ricchi accostamenti cromatici, specie se l’artista dipinge fiori che dispiegano un raro sfarzo. Nel breve soggiorno parigino, Vincent assorbe il clima artistico vitale della città, si lega ad artisti come Émile Bernard, Toulouse-Lautrec e Loius Anquetin. Definisce sé stesso e i gli amici come gli artisti del Petit Boulevard, mentre riserva ai grandi protagonisti dell’Impressionismo come Monet, Degas, Renoir, Sisley e Pissarro l’appellativo di artisti del Grand Boulevard. Conosce Gauguin appena tornato dalla Martinica, che per lui incarna un’ideale immagine di vagabondo, di viaggiatore intorno al mondo, alieno da ogni precisa destinazione.
Quarta sezione – Arles (febbraio 1888 - maggio 1889)
In una lettera del 18 agosto 1888 scrive al fratello Theo: “Quanto ho appreso a Parigi svanisce, e io sto tornando alle idee che mi erano venute in campagna, prima di conoscere gli Impressionisti. […] Infatti, invece di cercare di riprodurre fedelmente ciò che ho davanti agli occhi, mi servo del colore in maniera più arbitraria, per esprimermi con maggiore forza”. I colori, nella luce accecante del sud, assumono un’altra dimensione. La lezione di Parigi non è più determinante. Vincent riprende a sognare sinfonie di colori associabili a toni musicali. Ogni spazialità disegnata è eliminata, le forme si collocano in un morbido assemblarsi e fluire senza rigore, con grande dolcezza. Lo spazio è creato dal colore. Si avverte il senso di una nuova libertà. Fin dall’arrivo il pittore sfrutta le suggestioni di quella terra, cerca di rinnovarsi e riversare nei suoi dipinti un clima vitale di giovinezza. Paragona il suo soggiorno in Provenza a quello di Delacroix in nord Africa, anch’egli all’inseguimento della luce e del colore. Ricorda come Monet e Signac abbiano visitato le regioni del Mediterraneo e Cézanne abbia stabilito la sua residenza definitiva ad Aix-en-Provence. La geografia delle associazioni si estende fino al Giappone, luogo immerso nell’età dell’oro e dell’innocenza. Descrivendo la campagna vuole esprimere sensazioni allegre, gioiose. Viva è la speranza di realizzare dipinti sempre luminosi. Van Gogh discende nell’abisso ma è capace di risalire in modo subitaneo e veemente. Lo studio del colore è sempre associato a una sua interiorizzazione, a una trasformazione del dato tecnico in altri significati. Ciò allontana il pittore sempre più dall’Impressionismo, legato al prevalere dell’esperienza ottica, mentre permane la passione per Delacroix, Millet e Corot. Attraverso il colore amplifica i significati della realtà, anche nella rappresentazione della figura umana.
Quinta sezione – Saint-Rémy-de-Provence e Auvers-sur-Oise (maggio 1889 - luglio 1890)
A Saint-Rémy l’artista vuole ritornare a un uso del colore più semplice, paragona l’astenersi dal bere alla rinuncia alla generosità cromatica, mirando ad una maggiore lucidità. La sua fiducia nel potere terapeutico dei colori moderati si dimostra ingiustificata. Il suo primo attacco di follia nel manicomio di Saint-Paul-de-Mausole lo colpisce a metà di luglio, mentre dipinge nei campi in una giornata di vento. Dopo il primo mese nel quale non gli è concesso di uscire dai confini dell’ospedale, finalmente si avventura oltre le mura, torna nei campi. Nei giorni sereni, quando le tempeste della mente si placano, è persino perfettamente in grado di formulare un’autoanalisi. È circondato dalle sue opere, eseguite proprio prima degli attacchi o durante il periodo in cui si ristabilisce. Crede che questi lavori riflettano gli alti e bassi del suo stato e soprattutto che possano essere proprio le sue creazioni artistiche a scatenare la follia. Si chiede se il mutamento del suo linguaggio sia in qualche modo legato all’instabilità delle sue condizioni mentali. Le insidie che precedono la caduta si ritrovano in una natura incapace ormai di concedere dolcezza. Lavorare dal vero non è il suo unico impegno. Dal 23 ottobre 1889, quando riceve dal fratello una nuova serie di riproduzioni da Millet, affianca alla pittura en plein air l’esercizio di copia da lui ritenuto fondamentale come esperienza artistica oltre che attività piacevole e consolatoria. Negli ultimi tre mesi trascorsi a Auvers-sur-Oise si dedica a un gran numero di opere: ritrae persone vicine ma anche modelli occasionali, dipinge paesaggi e nature morte. Quanto al ritratto, afferma di volerlo esplorare in chiave moderna. Il catalogo è edito da Skira con saggi a cura di Maria Teresa Benedetti, Marco Di Capua, Mariella Guzzoni e Francesca Villanti.
Palazzo Bonaparte Roma
Van Gogh
dall’8 Ottobre 2022 al 26 Marzo 2023
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 9.00 alle ore 19.00
Sabato e Domenica dalle ore 9.00 alle ore 21.00