Giovanni Cardone Gennaio 2025
Fino al 31 Agosto 2025 si potrà ammirare al Museo dell’Ara Pacis di Roma la mostra dedicata a Franco Fontana – Retrospective a cura di Jean-Luc Monterosso. L’esposizione è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali con l’organizzazione di Civita Mostre e Musei, Zètema Progetto Cultura e Franco Fontana Studio. La mostra guida il visitatore alla scoperta dell'universo creativo del fotografo modenese, svelandone aspetti inediti, ripercorrendone l'evoluzione artistica e la sua capacità di trasformare la realtà in pura poesia visiva. Attraverso una selezione di oltre 200 fotografie e muovendosi in spazi immersivi, tra particolari installazioni e video, il visitatore scoprirà infinite possibilità ottiche: in un’alternanza di inquadrature ardite, profondità di campo ridotta e inquadrature dall’alto potrà ammirare immagini astratte e minimaliste caratterizzate da una giustapposizione di colori brillanti e da forti contrasti, elementi che hanno reso Fontana un precursore in un mondo fotografico bianco e nero.  E seppure temi come gli skyline, i paesaggi e l'architettura urbana, continuino a ricorrere rendendo vano qualsiasi tentativo di cronologia, Franco Fontana rinnova costantemente il suo lavoro. Dalla diapositiva alla polaroid al digitale, seguirà gli sviluppi tecnici della fotografia continuando sempre a sperimentare. Una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Franco Fontana apro il saggio dicendo : Posso affermare che è direttamente connessa alla luce è la questione del colore che in fotografia è arrivata relativamente tardi: se pure sin dai primi decenni dalla scoperta del sistema fotografico non sono mai mancati esperimenti, con risultati anche apprezzabili, per cercare di impressionare e fissare immagini a colori, è soltanto con la tecnologia degli ultimi decenni che si è arrivati all’uso del colore in fotografia come fenomeno diffuso. Si può affermare che fino agli anni Cinquanta, e in Italia anche fino agli anni Sessanta, la storia della fotografia è stata una storia in bianco e nero. La luce, e quindi i colori così come li percepisce la nostra retina, viene tradotta, attraverso il procedimento fisico-chimico della fotografia tradizionale in bianco e nero, in una vasta gamma di grigi, in una serie di tonalità dunque monocromatiche. Se volessimo mantenere i paragoni con le solite altre forme espressive saremmo tentati di dire che la fotografia in bianconero assomiglia di più al disegno o all’incisione e la fotografia a colori alla pittura. Ma le cose non stanno propriamente così: la critica della storia dell’arte ha dimostrato che i concetti di linearità, chiaroscuro e colore non sono facilmente identificabili in base a parametri grossolani – rappresentazione disegnata o colorata – ma rispondono ad altre più complesse esigenze e modi espressivi. Può accadere perciò che anche un disegno, dunque una rappresentazione bidimensionale priva di colori, sia ricca di colore, trasformi cioè il linearismo in chiaroscuro, in sfumato, in ombreggiatura che suggeriscono il colore molto più di quanto non facciano a volte certi dipinti in cui il colore è solo una patina colorata che riempie campi ben delineati . Così anche in fotografia l’uso del bianconero o del colore deve rispondere a precise esigenze espressive e non essere mai gratuito: precisato che il primo secolo di vita della fotografia è stato scritto sostanzialmente in bianconero e quindi con questa, per adesso, più lunga parte di storia ci si deve confrontare, oggi che abbiamo la possibilità di utilizzare indifferentemente e a parità qualitativa l’uno o l’altro mezzo, si deve anche sgombrare il campo da alcuni banali pregiudizi. Il primo di questi vuole che la fotografia a colori sia più realistica di quella in bianconero in quanto quest’ultima tende a trasfigurare, ad astrarre, mentre la prima riproduce più fedelmente la realtà così come la percepiscono i nostri occhi. Invece, anche la riproduzione fotografica a colori fornisce sempre un’immagine i cui colori sono alterati da una serie di variabili – la luce e la sua temperatura cromatica, la pellicola o il sensore, l’esposizione – e inoltre c’è da aggiungere che una fotografia a colori, anche se eseguita il più correttamente possibile da un punto di vista tecnico (ma esiste una modalità che si possa considerare corretta?) risponde sempre alle esigenze, alla sensibilità e alla cultura del fotografo in merito al colore. Si tratta dunque di una questione complessa alla quale si può rispondere solo in modo complesso: parafrasando una celebre frase di Man Ray «Dipingo ciò che non posso fotografare e fotografo ciò che non posso dipingere» potremmo azzardare che si dovrebbe fotografare in bianconero ciò che non si può fotografare a colori e si dovrebbe fotografare a colori ciò che non si può fotografare in bianconero. Stabilire i termini di questa scelta è compito del fotografo, che dovrebbe escludere i luoghi comuni sul maggiore o minore realismo dell’una o dell’altra forma d’espressione. A sostegno di questa tesi, citiamo i reportage in bianconero di stampo neorealistico degli anni Cinquanta che appaiono molto più aderenti alla realtà visibile di altri successivi reportage a colori in cui la realtà viene piegata o a mere esigenze editoriali, con colori quindi accentuatamente vistosi, o alle esigenze iperrealiste o di una lettura ironica del mondo. Nell’introduzione al suo famoso libro Images à la sauvette del 1952, Henri CartierBresson scriveva: «È difficile sapere quali saranno gli sviluppi della fotografia a colori nel reportage, ma sicuramente richiederà una maniera diversa di pensare, un approccio con la realtà diverso da quello in bianconero» . Allo stesso modo un altro grande fotografo – impegnato più sul fronte del paesaggio che non del reportage sociale − come Edward Weston qualche anno prima, nel 1947, scriveva: «Tante fotografie – come anche tanti dipinti – non sono altro che bianchi-eneri colorati. Il pregiudizio che tanti fotografi nutrono contro la fotografia a colori deriva dal fatto che non pensano al colore come forma»  . La scelta tra le due possibilità si pone dunque come una scelta concettuale che deve coniugare le esigenze del contenuto con quelle formali: oggi la fotografia a colori, spinta anche dalla feroce concorrenza televisiva, ha preso il sopravvento sul tradizionale bianconero che pare relegato ai reportage impegnati o alla ricerca più raffinata. Tuttavia, la manifesta attuale marginalità del bianconero in fotografia non soccombe completamente al predominio del colore, come è accaduto in altre forme espressive, nel cinema, per esempio, dove da decenni ormai i film si fanno solo a colori con rare eccezioni per qualche film d’autore. La stessa immagine televisiva degli ultimi dieci, venti anni ci ha abituati a questa rappresentazione rutilante, eccessiva, del mondo, che fa apparire quasi come reperti archeologici le immagini in bianconero. La storia della fotografia ha insegnato che il suo cammino per emanciparsi dalla pittura ed elaborare un linguaggio autonomo è stato lungo e faticoso: intanto la diffusione del colore ha prodotto uno spostamento verso la fotografia oggettiva come reazione alle tentazioni verso più superficiali suggestioni cromatiche. A distanza ormai di svariati decenni dall’introduzione del colore a livello di massa si può affermare che la fotografia a colori è sufficientemente matura, tanto da aver dato luogo a diverse tendenze, le più importanti delle quali non risultano pretestuose ma effettivamente bisognose del colore, per dare un ulteriore contributo alla descrizione fotografica del mondo. Per molto tempo fino a non molti anni fa e per certi aspetti ancora oggi la storiografia fotografica, a proposito dei linguaggi della fatale invenzione, si è adagiata su un sistema di classificazione indubbiamente comodo basato sui cosiddetti generi fotografici: ritratto, paesaggio, reportage, moda e pubblicità, nudo, ricerca formale e via dicendo. Sicuramente queste definizioni relative agli ambiti in cui i fotografi si muovono non sono campate in aria ma inevitabilmente tendono anche a semplificare, a incasellare i fotografi all’interno appunto di un ambito ben definito che contribuisce a identificare immediatamente il lavoro di ogni autore. C’è da aggiungere anche che in effetti molti fotografi concentrano la maggior parte del loro lavoro su un solo ambito molto ben definito: tuttavia occorre anche precisare che il discorso è molto più complesso di quanto possa apparire a una prima ricognizione. Basti pensare ad alcuni ambiti apparentemente molto specializzati come la moda: un fotografo di moda deve essere anche un buon ritrattista, deve saper dialogare con il paesaggio, quando i servizi vengono svolti all’esterno e non in studio, dove invece spesso deve trasformarsi in una sorta di bricoleur multifunzione: e saper essere dunque, oltre che un ottimo tecnico delle luci, scenografo e inventore di situazioni in cui spesso sono presenti richiami alla storia dell’arte o quanto meno alla rappresentazione visiva delle persone. Lo stesso discorso vale per la fotografia di reportage che comprende, nello stesso tempo, i linguaggi del ritratto e del paesaggio, immersi nella immediatezza della cronaca o nella tranquillità di tempi lunghi. Molti aspetti del fare fotografia, in definitiva, si intrecciano contemporaneamente, destabilizzando le comuni credenze attorno alla separatezza e alla quasi impermeabilità dei generi fotografici. Su questo discorso relativo ai generi fotografici si innesta l’uso del colore, che è una questione relativamente recente, tenendo conto che gran parte della produzione fotografica fino agli anni Settanta è stata declinata in bianco e nero, con poche eccezioni relative soprattutto ai servizi di tipo documentario naturalistico o di divulgazione turistica oppure di moda e pubblicità. In particolare, soprattutto nell’ambito del reportage e in genere nella fotografia cosiddetta di ricerca, il bianco e nero era la forma preferita e predominante. A partire dagli anni Settanta questo predominio comincia a incrinarsi e, soprattutto in alcuni ambiti come il paesaggio e la fotografia di ricerca artistica (ma lentamente anche nel reportage sociale in seguito all’uso sempre più diffuso del colore nelle riviste), il colore acquista uno spazio sempre più importante arrivando, nel giro di pochi anni, a capovolgere a suo favore il rapporto con il bianco e nero. Il colore, come è facilmente intuibile, può essere declinato in molti modi diversi: da quello più modulato su una descrizione discreta, orientato a rappresentare il reale visibile in modo quanto più possibile neutro, con colori tesi a non prevaricare l’immagine con la violenza dei cromatismi a quelli invece in cui il colore, per l’importanza che assume nel fotogramma ? sia come valenza cromatica che come importanza del suo segno cromatico ? diventa protagonista della scena. Penso che tutto questo  ha avuto grande influenza nella fotografia contemporanea e in particolare in quella italiana e in particolar modo sul modo di fotografare di Franco Fontana. Tutto obbedisce al colore, e a una geometria che si fa sintesi nel caos dirompente degli elementi, come se attraverso il chroma si intendesse giungere al limite d’una essenza impalpabile e vera. La vocazione geometrica di forme catturate alla luce, l’organizzazione spaziale unita a una severa disciplina della composizione visiva, che elimina per eleggere, di converso, quanto ritenuto essenziale, rende la velatura astrattistica che attraversa ogni fotografia, capace di trasportarci in un realismo possibile dove tutto si fa carnale. La fotografia è un atto di conoscenza e, come è stato detto, è possedere quel che circola nella nostra coscienza. Il mondo, l’esterno altro non è che un medium che definisce ciò che siamo. E in questo paradigma Fontana, scivolando alla radice di questa asserzione, fotografa il mondo che ha dentro di sé come un atto liberatorio della creazione fotografica che, nel suo aspetto più emancipato, rinuncia a ogni riproduzione della realtà: chi significa in fotografia non è la fotografia stessa, è il fotografo. Fontana è un demiurgo. Non documenta, interpreta, egli vede per noi e ci consegna i paesaggi di un mondo ideale, logico, assente di contraddizioni. Il colore è protagonista assoluto in una rivoluzione stilistica e contenutistica che ha sconvolto fin dalla sua comparsa il dogma imperante della fotografia in bianco e nero. I colori di Fontana sono vibranti, corposi e saturi di rimandi a suggestioni che aggiungono al paesaggio una sensualità antropomorfa. Le colline, i clivi come le alture sembrano respirino: che si muovano indicandoci l’esistenza di uno spazio arcadico, affascinante e raggiungibile solo dalla nostalgia per la perfezione e in cui deflagra il lirismo poetico. Di lui un famoso collega ha detto che è un “pittoricista, non pittorialista, che è ben altra cosa”. Il razionalismo nelle fotografie di Franco Fontana dialoga con la poesia, operando una sintesi minimale che supera l’incastro su cui è chiusa un’arte fotografica che tende a rappresentare la realtà (la stessa tensione concettuale che attraversa il lavoro del bravissimo Alberto Selvestrel, che di Fontana e Luigi Ghirri ha assorbito la lezione e partorito un linguaggio autonomo). Fontana lavora, come già espresso, “sull’estrazione contenutistica dello spazio”; e infatti le sue inquadrature, siano esse puntate su un paesaggio o nella spazialità costruita, sono così strette da liberare il contesto nel quale i soggetti sono innestati perché perdano definitivamente ogni riferimento con il reale. La realtà dunque non è un’invenzione, ma il suo riassunto, cioè quel che sedimenta negli occhi e nella mente di un fotografo: è la sua estrazione. Ma l’astrattismo è appena accennato e ha una nota funzionale: ciò che vediamo è esattamente quello che è: una terra coltivata, “vestita” dal lavoro dell’uomo, così come una nuvola sospesa nell’orizzonte nel lontano ottico sono sì elementi riconoscibili ma irrobustiti fa una forte connotazione soggettivistica. Noi li vediamo, ne intercettiamo la forma, risuonano in noi come parole appena pronunciate, ci stordiscono come un idioma sconosciuto o ci seducono come occhi che visti una volta non si dimenticano più. Infine si può dire che Franco Fontana è un demiurgo, non documenta ma interpreta egli vede per noi e ci consegna i paesaggi di un mondo ideale, logico e assente di contraddizioni Il percorso espositivo si apre con una veduta grandangolare di Praga, usata come copertina della rivista Time Life e del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeinee con un ritratto di Franco Fontana realizzato da Giovanni Gastel.  Dopo una serie di scatti di paesaggi naturali ed urbani caratterizzati da una forte geometria e dall’essenzialità degli elementi,introdotti da immagini che esaltano il colore bianco comeUrbano 1960, il visitatore giunge progressivamente alle opere rappresentative della fotografia a colori negli anni 1960-1970. A segnare la carriera del fotografo e la sua produzione artistica è la pubblicazione nel 1978 del volume Skyline. Claude Nori relativamente al libro afferma “con il suo radicalismo e il suo approccio puramente fotografico, ha contribuito ad aprire la strada alla nuova fotografia italiana”. In Skyline contrasti cromatici e colori vividi definiscono un nuovo approccio al paesaggio come il visitatore ha modo di scoprire nel corso della visita. Nella stessa sezione uno spazio è dedicato ad accogliere alcuni vintage ritraenti soggetti vari come paesaggi urbani, frammenti, asfalti, automobili, e un nudo, NUDO 1969. La mostra prosegue con una serie di scatti di paesaggi naturali catturati nelle varie sfumature delle quattro stagioni: mare, neve e pianure verdeggianti che culminano nella celebre immagine Puglia 1978 precisamente divisa in due blocchi di colori vividi, azzurro intenso del cielo e giallo brillante del grano. Fontana, relativamente ai paesaggi afferma: Quando fotografo un paesaggio è il paesaggio che entra dentro di me, si fa l’autoritratto, così anch’io diventi un ‘paesaggio’, per esprimermi al meglio.” Il percorso di visita continua con fotografie che rappresentano il sapiente studio sull’ombra del maestro. La sezione si apre con un vintage dalla serie Contact (pubblicazione di Ralph Gibson): nel 1979 Ralph Gibson invita i più influenti fotografi dell’epoca a contribuire al libro Contact Theory con un intero rullino in bianco e nero. Fontana accetta la sfida e sceglie come soggetto il Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR creando opere memorabili caratterizzate da un’atmosfera metafisica. Queste opere introducono una serie di rari scatti realizzati in Francia e in Asiache catturano persone in contesti urbani come Parigi 1994 e Tokio 1983. Nella stessa area il visitatore si immerge letteralmente in piscina, scoprendo l’arte della fotografia negli spazi acquatici. Per Franco la piscina è soprattutto un’occasione per esaltare la bellezza delle forme femminili, in un vibrante elogio delle curve. Questa sensualità discreta troverà nelle Polaroid la sua massima espressione. In mostra anche un’incursione nella vita privata del maestro. In esposizione, infatti, una riproduzione dello studio di Fontana, caratterizzato da un insieme confuso di materiali, in netto contrasto con il minimalismo e l’essenzialità delle sue fotografie ed arricchito da una video-intervista del fotografo. Fontana segue con interesse gli sviluppi tecnici della fotografia, sperimenta e acquisisce gli strumenti forniti dalla tecnologia per creare innovativi collage. Partendo dai paesaggi urbani e dalle strade, aggiunge personaggi e ombre, talvolta modificandone i colori e accentuandone i contrasti come in Houston 1986 dalla serie People. Il pubblico, a questo punto del percorso espositivo, ha la possibilità di scoprire le opere che enfatizzano lo stile iperrealista profondamente personale del maestro, in contrasto con le tendenze della Street Photography, per poi ammirare una serie di scatti dalla serie Luce Americana e Frammenti. Un’area del percorso è interamente dedicata all’esposizione di rare polaroid e polaroid transferutilizzate quali “appunti visivi” durante i vari reportage. In questo caso, l’erotismo raggiunge la massima espressione; le immagini risultano morbide e meno nitide come in Nudo 1977. Il visitatore può, inoltre, ammirare un interessante video dedicato al tema del “colore”, posizionato tra due scatti della serie Frammenti, Havana 2017. A seguiresono presentati alcuni scatti di paesaggi urbani, che comprendono le opere realizzate a Los Angeles dal 1979.  “Il paesaggio urbano completa i miei paesaggi naturali. I muri dipinti delle case somigliano a dei campi arati o a dei campi di grano giallo”, afferma Fontana. Al centro della sezione successiva si alternano diverse opere dedicate all’autostrada, all’asfalto, alle automobili. Durante i suoi viaggi ama fotografare in movimento e, utilizzando un lungo tempo di esposizione, sintetizza e cattura in un unico scatto le linee delle strade come in Autostrada 1975. Dagli anni 70 fino ai giorni nostri, catturato da grafismi e da segni colorati che emergono dalla superficie nera, fotografa l’asfalto e realizza opere esemplari come Asfalto 1990. In quest’area, il pubblico avrà la sensazione di camminare sull’asfalto fotografato grazie a particolari light box con cinque stampe retroilluminate. Inoltre, è possibile ammirare splendidi scatti di automobili che tanto affascinano il maestro per la loro forma e design e una meravigliosa video-installazione di cinque fotografie in sequenza, Modena 1978. Il visitatore avrà l’opportunità di comprendere ulteriormente l’importanza della strada per Fontana attraverso un video-book dedicato alle tre strade per eccellenza: la Route 66, la strada verso Compostela e la Via Appia. Quest’ultima chiude la trilogia; è la strada che non solo permette al fotografo di riscoprire i paesaggi a lui familiari che hanno caratterizzato la sua produzione, ma anche rafforza il legame del maestro con la città di Roma e con il patrimonio della nostra civiltà. A seguire, viene presentato un autoritratto del fotografo arricchito dalla sua biografia e, proseguendo nella visita, è possibile ammirare un interessante selezione di nudi femminili, le cui curve sono accentuate da veli e panneggi, accostati a fotografie delle statue del Cimitero di Staglieno, dalla serie Vita Nova. L’ultima sezione della mostra, che si sviluppa lungo l’esteso corridoio del museo, accoglie fotografie dedicate alla moda, alle numerose pubblicità e realizzate in occasione di commissioni private. Le geometriche immagini dalla serie Artemide introducono un video-book del catalogo dei Dogi della Moda; e ancora, uno scatto, Ceramica 2010, introduce il visitatore ad un ulteriore video-book del volume Terra a Fuoco. Dopo l’intensa esperienza di visita, il pubblico ha anche la possibilità di scoprire aspetti privati della vita del fotografo grazie all’esposizione in vetrine di fotografie personali, vinili, altri oggetti per finire con le coloratissime immagini dalla campagna pubblicitaria più recente di Sportmax del 2020. Accompagnerà la mostra il Catalogo edito da Contrasto.

Museo Ara Pacis di Roma
Franco Fontana . Retrospective
dal 13 Dicembre 2024 al 31 Agosto
dal Lunedì alla  Domenica dalle ore 9.30 alle ore 19.30 
 Foto Allestimento Museo Ara Pacis Roma  Mostra _Franco Fontana_Ph. Monkeys Video Lab