Giovanni Cardone Maggio 2023
Fino al 18 Settembre 2023 si potrà ammirare al Museo Peggy Guggenheim di Venezia la mostra di Edmondo Bacci. L'energia della luce, a cura di Chiara Bertola . Con un’ottantina di opere, molte delle quali mai esposte prima, tra dipinti e disegni inediti, provenienti dall’Archivio Edmondo Bacci, collezioni private e musei internazionali, tra cui il Museum of Modern Art di New York e l’Art Museum di Palm Springs, si tratta della prima e più esaustiva personale dedicata all’artista veneziano Edmondo Bacci . L’ esposizione intende approfondire la parte più lirica dell’opera di Bacci, nel momento più internazionale della sua carriera, gli anni Cinquanta, quando, già affermato negli ambienti espositivi legati allo Spazialismo e tra gli artisti contemporanei più innovativi a livello nazionale, viene notato da Peggy Guggenheim ed emerge evidente agli occhi della critica tutta la novità del suo dipingere, la forza generativa del colore, la rottura dei piani spaziali e il ritmo circolare della pennellata. Bacci si colloca entro la ristretta cerchia di eccellenze artistiche venete, tra cui figurano anche Tancredi ed Emilio Vedova, che negli stessi anni ottengono successi e riconoscimenti internazionali, ed è senza dubbio uno dei pochi artisti nel panorama italiano a metabolizzare velocemente le possibilità di una nuova astrazione, legando le contemporanee tendenze provenienti da Europa e Stati Uniti con uno stile unico e una visione personale. Seguendo questo percorso critico, l’esposizione propone una serie di opere fondamentali per comprendere l’evoluzione di quel linguaggio del colore-luce che tanto colpì la mecenate americana, nonché Alfred H. Barr Jr, allora direttore del Museum of Modern Art di New York, che acquistò dall’artista Avvenimento #13 R, del 1953. La tela, oggi parte della collezione del museo newyorkese, ritorna eccezionalmente in Italia, per essere esposta per la prima volta al pubblico. In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Edmondo Bacci apro il mio saggio dicendo : Posso affermare che  mi sono accorto di  parlare non soltanto di memoria storica ma di quel vuoto provocato dalle rovine di una società civile che non riconosce più i valori sui quali era stata costruita. Un vuoto assoluto, moltiplicato da una miriade di specchi che lo proiettano all’infinito, e quegli specchi, quelle superfici atone, vuote, impenetrabili, che riflettono senza scelta né esclusione tutte le immagini, esercitano su di me un fascino di cui non riesco a rendermi conto. Oggi siamo al capolinea di una realtà in disfacimento, più o meno consapevoli che non potrà più esserci un’Oltre, ma solo la lungimiranza di un recupero, di un ritorno all’ordine per certi versi ancora possibile. Stiamo attraversando le macerie di un dopoguerra sociale, cercando il luogo dal quale iniziare un’ipotesi di ricostruzione. La figura dell’artista è sicuramente al centro di quest’azione speculare, la sua ambiguità è complementare alla ricerca di un’identità perduta che si ritrova nell’utopia di una rinascita, e quindi il suo ruolo diventa emblematico per la ricostituzione di uno status che oscilla tra certezza e incertezza. Mentre tutto intorno a noi diventa artificio e menzogna, l’arte rimane la condizione ingenua per un divenire, la voce inascoltata per l’indicazione di una svolta. Tabula rasa quindi, per poi ricostruire un diverso procedere, ma con la rinnovata energia e il desiderio di non finire mai e con il ritmo inesauribile della narrazione. I segnali di questa nuova tensione provengono ancora dalle macerie di quel Novecento che tanto ha contribuito al cambiamento del nostro immaginario: per negare l’alienazione e per confermarla nello stesso tempo. L’indirizzo più riconoscibile di questa condizione si trova negli Archeologi di Giorgio de Chirico in quelle im - magini dove le figure senza volto restano le presenze inquietanti e malinconiche dell’enigma e contengono al loro interno architetture e rovine provenienti da quel passato remoto che narra il nostro esordio umano e culturale. Nei dipinti di de Chirico, lo spaesamento mitico e mitologico è tutto in quello scambio tra esterno e interno, piccolo e grande, terreno e divino, che trasforma la riflessione filosofica e letteraria in figurazione visiva. Quelle figure restano un documento dell’eterno ritorno, il senso lirico e lo sviluppo plastico dei manichini di de Chirico sono gli apostoli di una fede impenetrabile: la malinconica nostalgia del passato e la poetica di una metafisica sospesa tra sogno e realtà. La ripercussione delle architetture che abitano l’inconscio e riproducono i sensi ricettivi del nostro appartenere alla storia, ci riportano al generoso abbraccio della Natura nella sua pienezza e – come dichiara il monito di Eraclito – “a riconoscere la ragione che governa il tutto penetrando nel tutto”. Le immagini ci vengono incontro dunque quali emblemi di una svolta possibile: i buchi e i crateri di Lucio Fontana testimoniano una Fine di Dio intesa quale incontestato limite della nostra conoscenza. Inutile chiedere, interrogare, costruire nuove filosofie metafisiche, bisogna ricominciare dallo spazio possibile di una rinascita, uno spazio estetico che riconduca ai luoghi d’origine e alla proiezione verso una dimensione nuova del pensiero. La ricerca di un altro spazio per la ricostruzione diventa quindi la priorità da perseguire, oltre le macerie è necessario indagare una via di fuga per dare un’alternativa al vuoto che si è creato intorno a noi; uno spazio per l’utopia per un’ipotesi di rinascita. Niente di nuovo sotto il sole quindi, ci aveva già pensato Lucio Fontana nel 1946 proclamando a Buenos Aires la stesura di quel Manifesto Blanco che sarebbe diventato poi in Italia nel 1947 il fulcro di un’evoluzione linguistica che trova nell’arte la dimensione di un mondo nuovo. Due erano le caratteristiche fondamentali di quell’esperienza: l’indagine per la ricerca di una terza dimensione e la filosofia del pensiero come traccia per la definizione di uno spazio visto come Urphänomen e momento costitutivo dell’accadere dell’essere, secondo le tesi dell’ultimo Heidegger. Nel clima di fervore che si respirava in Italia in quel secondo dopoguerra, il proclama di Lucio Fontana diventa un timone per l’orientamento della rotta e a Venezia, nella città risparmiata dai bombardamenti, prende vita un tessuto culturale che aderisce sì ai canoni del Manifesto, ma con una propria specifica identità. In quel particolare incrociarsi di interessi creativi, artisti quali: Virgilio Guidi; Tancredi Parmeggiani; Edmondo Bacci; Gino Morandis; Vinicio Vianello; Mario Deluigi; Bruna Gasparini e Saverio Rampin catturano l’attenzione di eminenti critici, da Giuseppe Marchiori a Umbro Apollonio, da Toni Toniato a Berto Morucchio, il tutto sotto l’egida e l’impegno di un grande gallerista: Carlo Cardazzo, nelle cui gallerie a Venezia e a Milano, gli spazialisti trovano attenzione e ospitalità. Nel suo esaustivo saggio sullo Spazialismo a Venezia, Dino Marangon mette in luce proprio la peculiarità di questo fervore e la dinamica di una ricerca che andava a sviluppare la lezione del passato per ricongiungerla dentro alle esperienze contemporanee di allora: Il fervore non riguardava tuttavia solo la “riappropriazione” e la rimeditazione del passato. In quegli stessi anni sorgevano infatti in città nuove gallerie (Sandri, Leone, Nonveiller), si formavano nuove associazioni, si organizzavano nuovi premi e manifestazioni, mentre, sempre nell’estate 1945, alla Galleria Cavallino, Carlo Cardazzo organizzava una significativa mostra dei “Maestri del Novecento”, presentata da Giuseppe Marchiori, per mezzo della quale sembrava si volesse quasi riassumere e “fare un bilancio preciso di quanto era avvenuto, per individuare e definire le poche personalità degne di durare, dopo il logorante ventennio” per poter poi affrontare con maggior sicurezza lo sviluppo delle nuove indagini e delle nuove scoperte.  In questo clima e con queste prerogative, gli spazialisti veneziani aprono la strada a una ricerca estetica che mira anche a sostenere un concetto ideologico di appartenenza ad un gruppo che intendeva sviluppare  anche nella sperimentazione la riaffermazione di un nuovo linguaggio poetico. Stiamo parlando di un’evoluzione dunque: del pensiero e del gesto, dove il segno diventa traccia di un percorso nuovo e dove la ricerca è orientata soprattutto a di-mostrare, che è sempre la mente a condurre il gioco e che la ‘rivelazione’ dell’opera, altro non è che la manifestazione esteriore di un concetto ideologico. Gli spazialisti veneziani intraprendono una ricerca che indaga le matrici di un’iconografia filosofica della pittura, per la determinazione di uno spazio più ampio che persegue i canoni di un’estetica mirata alla riflessione e all’approfondimento dei temi. L’occhio fissa la mente e l’anima, e la pittura in quegli anni comincia a descrivere: “l’essenziale” e “l’inessenziale” in una sorta di magma continuo che finalmente fluisce dopo anni di buio e silenzio. Forse il concetto di evoluzione nell’arte non trova oggi la stessa rispondenza che esso ebbe nelle teorizzazioni dello spazialismo, anzi tale concetto pare risultare ormai del tutto rovesciato a favore di una impostazione meno linearmente genetica. Ma, negli intenti, allora, di Lucio Fontana che fu l’ideatore e il fondatore del movimento il concetto di evoluzione riassumeva una duplice inequivocabile valenza, nel senso di definire e significare, per l’appunto, sia l’acquisizione parallelamente progressiva tutt’altro, dunque, che mimeticamente deterministica, come poi si è creduto, invece, di sostenere delle conoscenze e delle tecniche prodotte dalle conquiste scientifiche, sia la condizione, ugualmente inderogabile, di un processo di necessità e di autonomia dell’opera, il quale nella sconfinata libertà dell’artista, fondativamente “inventiva”, consentisse di approfondire e allargare i territori della sensibilità creatrice, dei suoi “spazi” reali e immaginari. Già quest’ultima indicazione veniva, implicitamente, a contemplare comportamenti e modalità di ricerca sui campi più diversi della investigazione linguistica, anche se, in Fontana, essa non venne mai disgiunta da quella di una effettiva esigenza di sperimentare nuovi mezzi e nuovi orizzonti operativi, culminanti con la realizzazione dei suoi celebri “ambienti”, come Arabesco fluorescente, alla. Triennale di Milano, del ‘51; Soffitto spaziale, alla milanese Fiera campionaria, del ‘53, e, prima ancora, Ambiente spaziale con forme spaziali e luce nera, allestito nel ‘49 alla Galleria del Naviglio, dove peraltro il movimento spaziale ebbe origine, con il sostegno decisivo di Carlo Cardazzo. Si dimostrerà così che per lo spazialismo, allora, non sussistevano riserve nei confronti di forme e generi, abitualmente esercitati, bensì si imponeva piuttosto l’istanza, questa sì centrale, di un decisivo mutamento, soprattutto ideativo e formale, radicato sulla base di nuovi assunti concettuali e operativi, per superare quei limiti affatto categoriali che ancora imperavano, in quel tempo, tra le varie tendenze artistiche. Saranno i primi manifesti che accompagnano lo sviluppo teorico dello spazialismo, scandendo inoltre le corrispondenti adesioni dei vari protagonisti, avvenute in fasi perciò cronologicamente successive, a delineare taluni principi essenziali, i quali verranno, di volta in volta, ribaditi nelle relative elaborazioni, e cioè: l’idea basilare dell’unità di spazio e di tempo interna alla sostanza stessa delle cose e dei fenomeni; una estetica determinata dalle conquiste del dinamismo reale, quindi più avanzata rispetto alle analoghe possibilità, soltanto però vagheggiate, delle avanguardie storiche, dal cubismo al futurismo; il concetto dell’identità ormai indissolubile di esistenza-natura-materia e, infine, il significato dell’atto artistico, di per sé eterno e totale, aperto dalle pulsioni dell’inconscio alle verità infinite del pensiero. Al di là di questi enunciati, formulati attraverso i manifesti del movimento, sarebbe pertanto meno giustificato il fatto di andare, in seguito, a rintracciare eventuali normative di carattere stilistico o codificazioni più propriamente metodologiche, anche perché lo spazialismo si confermerà, alla fine, come poetica della stessa sperimentalità e, dunque, molto aperta e disponibile alle più diverse enucleazioni estetiche ed espressive. Nel suo ambito del resto non risulteranno né estranee, né incongruenti istanze apparentemente divergenti, sia di natura razionale che fantastica, sia di ordine progettuale che immaginativo. La qual cosa indusse persino differenti posizioni linguistiche a stabilire convergenze non casuali con le originarie aspirazioni del movimento. Aspirazioni che furono infatti condivise, pur nella singolarità di personali postulati e orientamenti, da tutti i partecipanti al gruppo spaziale, per la volontà in sostanza comune di andare oltre gli stilemi formali presenti nelle tendenze neocubiste e neoastratte che circolavano sugli scenari dell’avanguardia di quel tempo. Lo spazialismo, è noto, nacque in un particolare momento storico e precisamente nel ’47, cioè nei primi anni della fase postbellica, improntata ad una generale esigenza insieme di ripresa e di rinnovamento in ogni settore della vita, specialmente nel campo della cultura e dell’arte. In questo clima di grande fervore ideale si inseriscono e si succedono taluni movimenti artistici tra i più significativi della cultura dell’epoca: dalla “Nuova secessione italiana”, del ’46; al “Fronte nuovo delle arti”, del ’46, da “Forma 1” del ’47, a “Origine”, del ’51, al nuclearismo, del ’52, movimenti dai quali prenderanno avvio quasi tutti i futuri protagonisti dell’arte italiana. In questo contesto si verrà a distinguere il movimento dello spazialismo per merito di Lucio Fontana, il quale intendeva riprendere i temi da lui elaborati nel precedente Manifiesto Bianco, lanciato a Buenos Aires nel ’46 e sottoscritto da un gruppo di suoi allievi. L’artista era ritornato in Italia nel ’47 e nello stesso anno, a Milano, pubblicherà il prima manifesto di fondazione del gruppo spaziale, firmato, in tale circostanza, anche dal filosofo Giorgio Kaisserlian e dagli scrittori Beniamino Joppolo e Milena Milani la quale collaborerà poi attivamente a tutte le iniziative del movimento. Fin da allora lo spazialismo si segnalò tra le varie correnti artistiche rivolte ancora a soluzioni interne – per un carattere internazionale, nonché per una direzione di ricerca più avanzata che gli avrebbe permesso di poter storicamente vantare assolute novità nelle proposte ce nei risultati, i quali non sempre furono compresi e registrati dalla critica di allora e anche di recente ci si limita, di solito, a rivalutare il fenomeno di quel movimento tramite le esclusive anticipazioni del suo fondatore, senza tener canto, poi, degli apporti originali, in questo senso, degli altri protagonisti, come Guidi e Capogrossi, De Luigi e Scanavino, Crippa e Dova. Anche per simili ragioni si giustificherebbe, oggi, una indagine storica più articolata sulla complessa composizione del gruppo spaziale, col proposito magari di rimuovere interpretazioni finora parziali, se non improprie, spesso devianti riguardo alla effettiva consistenza delle singole vicende espressive - proseguite o maturate, in quel tempo — dei suoi esponenti. Un’indagine che fosse cioè capace relativamente di individuare la portata originale di un’area, costituita da protagonisti veneziani del movimento, la quale risulterebbe di conseguenza più significativa, sul piano almeno di una maggiore ricchezza di innovative proposte linguistiche, rispetto a quella rappresentata dalla stessa compagine milanese, più vicina peraltro a Fontana. E non si spiega, in ogni caso, il fatto di per sé incredibile che finora non sia stato realizzato un simile impegno, quando fenomeni certamente di gran lunga minori hanno potuto trovare, già da alcuni anni, rinnovati interessi critici, col risultato di avere ormai raggiunta una esauriente, se non definitiva, sistemazione storica. Da tempo, perciò, si imponeva la necessità, dopo lepiù svariate ricognizioni effettuate su ogni, anche marginale, episodio delle avanguardie italiane di quegli anni, di una riconsiderazione sostanziale dello spazialismo, a distanza ormai di circa trent’anni dalla sua nascita, e non tanto per una sua giusta, ancorché tardiva, rivalutazione, bensì per una più approfondita conoscenza delle sue molteplici componenti e delle sue distinte personalità. Ma, prima, sarà necessario svincolare le stesse posizioni teoriche, sostenute dagli spaziali, da un certo schematismo storico, che finora, in modo del tutto riduttivo, aveva relegato questo movimento in una delle tante versioini di quelle “poetiche” influenzate dall’informale, alla cui straordinari, ma anche troppo onnicomprensiva, stagione esso appartiene più per ragioni, in effetti, cronologiche, che per assunti comuni. Nello spazialismo prevale, piuttosto, una volontà di scavalcamento di tutte quelle tendenze sulla sublimazione o sulla regressività vatlistica, variamente declinate mediante le poetiche del segno-gesto e della materia-caos che hanno contraddisstinto l’esistenzialismo organico e fenomenologico dell’informale. E, soprattutto, negli spaziali veneziani non vi sarà traccia di quello stato di inconscia negatività che virava la dimensione esistenziale dell’agire artistico verso strati primordiali e preinconsci, con cui identificare di conseguenza la propria insorgente creatività in una condizione o di angoscioso inabissamento soggettivo o di slancio estremo di aneliti vitalistici, i quali venivano in realtà a prospettare inquietanti derive nel magma aleatorio di una esaltante e misteriosa organicità cosmica. Lo spazialismo, certo più per Fontana, ma anche per gli esponenti veneziani, si indirizzava, viceversa, su altre direzioni, nell’urgenza magari di attingere, come gli in formali, alle nuove dimensioni della materia, a una diversa totalità della coscienza, configurata d’altra parte in una “apertura” sul mondo, in termini, ontologicamente riflessi, di una nuova ricostruzione immaginativa.
Comunque gli artisti veneziani che transiteranno per il movimento non saranno neppure condizionati dai postulati fontaniani, ma essi assumeranno i problemi dello spazio nei modi più consoni alle loro propensioni e aspirazioni, in una esplorazione concettuale, talora affine, la quale doveva ugualmente privilegiare una elaborazione alternativa dell’esperienza dello spazio, fondata su criteri di fluidità dinamica delle energie espressive, non limitata soltanto ai nuovi mezzi strumentativi, bensì estesa ai contenuti mentali e percettivi della coscienza immaginativa, disposta perciò ad accogliere e a guidare i mutamenti conoscitivi sulla struttura della natura e del mondo psichico. Probabilmente qualche riserva sullo spazialismo era legittimata dalla stessa intitolazione del movimento, la quale recava con sé una molteplicità di significati, riconducibili del resto a quel principio generale dello spazio che non solo costituiva da sempre una proprietà specifica della medesima natura dell’arte, ma di ogni esperienza dell’uomo. E se si poteva allora concordare con le novità fontaniane che conducevano l’artista ad agire, peraltro, sulla spazialità reale, più difficile sembrava far comprendere le novità di quanti continuavano ad elaborare una nuova idea dello spazio attraverso i mezzi consueti della pittura, traducendo quell’idea sul piano ancora della sola immaginazione. Eppure, le ricerche dei veneziani puntavano decisamente non solo a evocare, con le loro proposte, gli altri spazi infiniti, fuori di ogni regola della gravitazionalità conosciuta, cui era ancorata l’immagine sullo schema di una percezione ancora naturalistica, ma di pensare e configurare adimensionalmente la materia stessa delle loro proposizio pittoriche: la luce, lo spazio, il colore, il movimento erano intuiti e agiti come contermini di un’unica energia generativa, insieme esperenziale e mentale. Lo stesso Giampiero Giani nel suo fondamentale volume sullo Spazialismo, pubblicato nel ’56, aveva avuto modo di rilevare che esso era “cinematica di spazio e di forme non pittoriche che offre figure di suggestiva bellezza, fonte viva di nuovi equilibri che si inseriscono fatalmente nel flusso del pensiero moderno”. E, forse, certamente non soltanto pittoriche erano, poi, quelle forme che i veneziani andavano esprimendo attraverso “figure” di luce e di colore, all’interno di un movimento sviluppato nel tempo e nello spazio. Per questi artisti infatti la stringente compenetrazione natura-materia, forma-spazio si converte da ogni relativismo fenomenologico per assurgere a dimensioni “altre”, pervase anche di risonanze “metafisiche”, ma nel senso proprio di una riflessione che si accordava con i nuovi postulati epistemologici del pensiero moderno. La forte accentuazione di aspetti mentali, se non spiritualistici, che carica l’enunciazione immaginativa di tutto il “versante” veneziano dello spazialismo conferma il singolare indirizzo seguito, attraverso linguaggi diversi, dagli artisti operanti in tale area. Bisogna quindi tener conto per tali coodinate dei precoci orientamenti, in questa direzione, delle ricerche di Virgilio Guidi e di Mario De Luigi, le cui “poetiche” già indiziavano una concezione spaziale nuova rispetto alle elaborazioni avanzate dalle ipotesi formalistiche dei movimenti di allora. Su queste premesse s’innesteranno per svolgimenti del tutto poi personali anche gli altri artisti veneziani che aderiranno allo spazialismo, da Edmondo Bacci a Tancredi, da Gino Morandi a Vinicio Vianello e, più indirettamente, a Bruno De Toffoli. A parte Fontana, che praticava contemporaneamente la pittura e la scultura, anche questo secondo aspetto sarà forse quello che più ne determinerà gli indirizzi formali, focalizzando così il suo preminente interesse per lo spazio, nella relativa concretezza, sia fisica che strutturale, di una fenomenologia esperienziale implicita nello stesso divenire plastico. Bruno De Toffoli sarà poi l’unico scultore accolto a far parte del gruppo spaziale per una sua singolare dizione linguistica, tra Boccioni e Arp, maturata in quegli anni, di nitida e aerea dilatazione plastica della forma-materia nella sua crescente organica trama spaziale. Gli spaziali veneziani rappresenteranno un momento di assoluta novità nell’ambiente in cui operavano, dapprima attraverso gli incredibili precorrimenti di Guidi e De Luigi, fin dalle “Figure nello spazio”, per il primo, esposte poi alla Biennale del ’48, e dalle prove, per il secondo, compiute, fra il ’47 e il ’49, sui temi del suo “spazio fisiologico”, tradotti in sospesi organismi spaziali, strutturati in una dinamica temporale, originata da introverse pulsionalità immaginative. Guidi doveva, due anni dopo, col gruppo di lavori del “Cielo antico”, sostanziare di ulteriori contenuti formali il suo epifanismo luminoso in estese cosmologie spaziali, mentre De Luigi concentrava la sua materia spaziale in un pulsante atomismo luministico. Bacci, contemporaneamente, risolveva il cromatismo spaziale delle sue “Fabbriche”, del ’47, mutuate dalle accensioni gestuali espressionistiche di Vedova, in deflagrazione galattiche di puri “avvenimenti” di materia colore, e Morandi calibrava, in misurate concrezioni generative, le sue orbite di colore, disancorate da ogni gravitazionalità geometrica. A loro volta, Vinicio sperimentava luminescenze, iridescenze, quasi vitree, in composizioni di libere evoluzioni spaziali e Tancredi svolgeva una originalissima enucleazione di monadi spaziali, punti-colore, nel dispiegamento di una scrittura quasi automatica dei cangianti ritmi della natura. Da queste “proposte” non si può né si dovrebbe ricavare, data l’autonomia delle singole declinazioni espressive, una visione unica dello spazio, quanto riconoscere che, comunque, tra gli spaziali veneziani correva un filo che oggi accomuna quelle esperienze in una consonanza problematica dagli imprevedibili raffronti, dai riscontri comunemente ascrivibili a una certa idea dello spazio, del colore, della luce, attraverso molteplici possibilità di trasformazione immaginativa della realtà pittorica, le cui ascendenze, sia remote che prossime, non possono peraltro venire trascurate. La stessa novità dello spazialismo veneziano verrà, dunque, a risiedere in quella centralità del problema dello spazio-evento, delle sue fenomenologie, nel concrete temporale dell’esperienza, essenza primaria dell’esserci, che superando ogni legame con la rappresentazione naturalistica o simbolica si espande nella diversità di accadimenti di significato, nel mutamento discontinuo di un processo ineludibile di stimoli e di azioni. In questo senso lo spazio per gli stessi artisti veneziani avrà il significato di “episteme”, attorno a cui si originano e si relazionano le altre componenti dell’esperienza artistica, certamente pervase dai principi einsteiniani della relatività, dalle teorie del “campo”, ma anche dagli svolgimenti teorici delle filosofie ontologico-fenomenologiche del pensiero contemporaneo che cosi arrivavano a modificare le medesime coordinate concettuali e percettive del fare arte. Non sarà solo la riproposta della quarta dimensione, intuita del resto già dai cubisti, oppure il dinamismo delle conquiste strumentative della meccanica e dell’elettricità, mutuato già dalle ipotesi futuriste, bensì una diversa coscienza dell’immaginario artistico a spingere gli artisti spaziali verso regioni non solo di una soggettività profonda, più autenticamente vissuta, ma anche verso le forme di quello “spirito del tempo” che permea di se in senso stesso dell’opera. Forse per alcuni esponenti veneziani l’attraversamento dell’esperienza spaziale sarà anche servito per uscire dagli angusti limiti dell’ambiente locale e per partecipare quindi di una diverse, più stimolante attualità, ma nonostante tali pretesti l’incontro per loro con lo spazialismo sarebbe alla fine risultato inevitabile, in quanta già preesistevano, nel versante artistico veneziano, le condizioni per un sue originale contributo alla storia di questo movimento, anche per gli apporti teorici poi di studiosi veneziani come Anton Giulio Ambrosini e Berto Morucchio. Lo stesso Ambrosini verrà infatti a stilare II quinto manifesto del movimento, pubblicato a Venezia nel ‘53, in occasione della famosa mostra spaziale tenuta alla Sala degli Specchi. La storia dello spazialismo si intreccia quindi con I fermenti più innovativi dell’arte veneziana contemporanea, con alcune delle sue personalità che hanno svolto un ruolo di primo piano nelle vicende dell’arte europea di quel periodo. Anche per tali motivi si auspicava una ricognizione storica sui fatti e le figure del movimento spaziale, ricognizione che era entrata da qualche anno nei programmi espositivi della Fondazione Bevilacqua La Masa ma che solo era ha trovato il momento di una significativa realizzazione, potendo fra l’altro contare su molte opere, presenti, a suo tempo, alla mostra veneziana degli spaziali, tenuta nel ‘53, suscitando allora notevoli risonanze tra gli artisti delle nuove generazioni. La Fondazione ha ritenuto di riprendere la proposta non soltanto per soddisfare un impegno, del resto condiviso per le sue motivazioni culturali, ma anche per sottolineare l’importanza che riveste tuttora il versante veneziano dello spazialismo. Pur privilegiando queste posizioni, come il titolo della presente rassegna sottende, si è creduto però di dover offrire un panorama più completo che, senza pretesa di apparire esaustivo, permettesse ugualmente di verificare nessi e confronti fra le diverse istanze coesistenti all’interno della problematica spaziale, mai indagata in precedenza in tutte le sue molteplici sfaccettature; inserendo anche quegli artisti, italiani e stranieri, che a titolo diverso avevano sottoscritto i manifesti o partecipato comunque alle attività del movimento, come Joppolo, Donati, Matta, Burri, Serpan, Jorn. Si è considerato infine opportuno, per delineare una situazione più precisa dello “spazialismo a Venezia”, fra il ‘47 e il ‘58, anno in cui si concludono le esperienze del gruppo spaziale, di presentare nello stesso tempo le posizioni coeve di alcuni artisti che, per tangenze o in parallelo con gli spaziali, operavano in quegli anni nell’ambiente veneziano. Lo spazialismo è stato, in definitiva, un movimento che cercava di rispondere, in modo proprio e originale, alle esigenze dello spirito nuovo del tempo, ma non soltanto come facoltà fondativa di “aprirsi al mondo”, propria di ogni vera necessità dell’arte, bensì come consapevole volontà di formare in sé altri possibili mondi, di vivere l’arte come eventicità ulteriore di un pensiero del futuro. Sarà il Premio Gianni, riservato agli artisti spaziali e nucleari invitati a dare una rappresentazione pittorica dello scoppio della bomba atomica, a catalizzare l’attenzione del pubblico e della critica sull’arte spaziale. Il primo premio viene assegnato a Dova, mentre secondi premi vanno a Deluigi, Crippa e Tancredi. Venivano così ricono- sciuti sia gli spazialisti milanesi che quelli veneziani . Segue, in ordine di tempo, la mostra Pittori Spaziali e Nucleari allestita al Cavallino di Venezia dal 19 maggio al 3 giugno, che si presenta come anteprima “alternativa” alle proposte della XXVI Biennale Internazionale d’Arte che si sarebbe inaugurata il 14 giugno. Pochi giorni prima, il 17 maggio, a Milano presso la Galleria del Naviglio era stato redatto il Manifesto del movimento spaziale per la televisione in occasione dell’azione sperimentale di Lucio Fontana realizzata per una trasmissione di RAI-TV di Milano . L’attenzione sullo spazialismo viene mantenuta viva con le mostre personali di Crippa e Dova al Cavallino, in occasione delle quali Peverelli tiene una vivace conferenza su Realtà e non realtà. Sempre al Cavallino dal 20 al 26 settembre si tiene la mostra Sei artisti Spaziali Capogrossi, Crippa, Dova, Joppolo, Matta, Peverelli, presentata da Berto Morucchio. Il critico veneziano difende la scelta non-figurativa di questi artisti sottolineando che in ognuno di loro è evidente un carattere individuale. “Caratteri che non vengono, perché estratti secondo quella particolare conoscenza non realistica, mortificati né livellati.  Il sentimento quindi non è tradito, non è tradito l’umano dell’arte se scorgi le forme modularsi secondo il vario temperamento. Se l’impeto favoloso di Dova ci ripropone una bellezza della natura nel suo aspetto organico, prorompendo con aperto romanticismo, e Crippa riscatta sensazioni meccaniche con lucida tecnica, funzionale al contenuto che la muove, e così Matta penetra fantasticamente nel meandro dei sogni e s’indugia a riscattare il fantastico delle relazioni cosmiche, e il ritmo ossessivo di Capogrossi, fonda una sua poetica al limite della decorazione, ciò è prova che il messaggio individuale non è cancellato. E se queste opere gettano il ponte con noi spettatori, significa che le cose narrate, e la lingua usata per dirle, non sono così arbitrarie e distanti come si vorrebbe far credere. La disciplina cosidetta spaziale, accettata da tutti codesti artisti, è il punto d’incontro. E l’accento particolare che modula queste espressioni sì diverse dall’arte strettamente astratta. La spazialità non è la decantazione degli spazi. È un rapporto intrinseco al farsi dell’espressione, costante nella grande arte plastica. È la struttura dell’intuizione riferita all’espressione visiva”43. A distanza di pochi giorni, nella stessa sede, viene organizzata Artisti Spaziali Veneziani. Bacci, Deluigi, De Toffoli, Guidi, Morandi Gino, Salvatore, Tancredi, Vinicio, presentata da uno scritto di Virgilio Guidi. È un testo molto importante, quest’ultimo, che delinea il particolare indirizzo “spaziale” della compagine veneziana. “Queste mostre di ‘spaziali’ sono le più vive o, se volete, semplicemente le più attuali. Tali non nel senso provvisorio, ma perchè ripropongono una necessità fondamentale alla condizione del nostro tempo. Infatti l’idea spaziale si pone al di qua delle contrastanti estetiche oramai stanche, al di qua degli estremi di esse in cui sono il sensibile empirico naturalismo e il raziocinante compiaciuto astrattismo, segni di una inconcepibile divisione di pensiero quale mai è stata; si pone, l’idea spaziale al di qua, nel tentativo più o meno chiuso ad ognuno, di superare tutte le parzialissime espressioni in novità di spirito e di forme, nella funzione preminente di accogliere le cose ad unità e in tutte le dimensioni possibili. Non bisogna credere che questo ‘spazialismo’ sia un capriccio che tenti di essere alla moda. Ogni tempo ha avuto un sentimento dello spazio secondo le condizioni della sua conoscenza. Qui il discorso sarebbe lungo, dallo spazio naturalistico prospettico del rinascimento, a quello che sa di chiuso ottocentesco, che dura ancora oltre le due dimensioni degli astratti, insufficienti allo spazio e alle necessità sopradette. Ora è innegabile che la scienza attuale sia mutata in modo straordinario, sì da mutare il nostro rapporto con le cose universe e, pertanto, il nostro respiro spaziale. Quel che lega gli spaziali non è una determinazione assoluta di un concetto di spazio, ma una necessità portata ad idea generale, nella quale ognuno può trovare la sua determinazione. Così che noi vediamo chi tende ad una espressione immaginativa e chi ad una espressione conoscitiva. Questi due modi sono dell’arte di ogni tempo e non pregiudicano la libertà unitaria dell’espressione. La mia solidarietà con gli ‘spaziali’ è una solidarietà con il tempo quale esso è realmente, e non a tutti evidente. Del resto è noto oramai quello che io penso per me: che l’idea dello spazio s’identifichi con l’idea della luce, e che la luce sia l’elemento attivo dello spazio”. Queste due ultime mostre, inaugurate a Biennale ancora aperta, volevano attirare l’attenzione del pubblico internazionale interessato all’arte contemporanea. Sarà Trieste a tenere alta l’attenzione della critica e del pubblico sullo spazialismo ospitando la mostra nazionale Artisti spaziali, allestita nelle sale della Galleria Casanuova dal 15 novembre al 2 dicembre. La mostra, la più importante e completa tra quelle organizzate nel 1952, si presenta come riassuntiva di tutte quelle che si erano tenute precedentemente. Vengono presentate opere di Bacci, Burri, Capogrossi, Crippa, Deluigi, De Toffoli, Donati, Dova, Fontana, Giancarozzi, Guidi, Joppolo, La Regina, Matta, Gino Morandi, Peverelli, Tancredi, Vinicio Vianello . Una foto, conservata nel fondo Giornalfoto della Fototeca dei Civici musei di storia ed arte di Trieste, ci mostra il critico Berto Morucchio, che aveva tenuto il discorso inaugurale dal titolo Artisti spaziali, accanto ad una parete dove sono affissi in bella mostra vari documenti tra cui il Manifesto dell’arte spaziale (1951) e il Manifesto del movimento spaziale per la televisione (1952).che sovrastano un Concetto spaziale di Lucio Fontana. Nel piccolo catalogo-depliant sono raccolti brevi passi di testi di Milena Milani, di Carlo Cardazzo, di Joppolo, di Morucchio e di Guidi, questi ultimi scelti dalle precedenti presentazioni delle mostre spaziali. Piuttosto scettico sulla presunta ‘poetica’ del gruppo si dichiara Bruno Maier, che nota, e non a torto, come “la teoria spaziale sia senza una relazione immediata (o per lo meno artisticamente feconda) con le opere esposte alla Casanuova” e ciò “lo prova benissimo il fatto che sotto l’etichetta della ‘spazialità’ si raccolgono in un poco giustificato connubio artisti di tendenze diverse e di assai differente valore”. Viene da domandarsi perchè viene scelta questa galleria di Trieste come vetrina espositiva. Cardazzo aveva avuto modo di conoscere gli spazi della Galleria Casanuova, diretta da Piero Florit, in occasione dell’organizzazione della Mostra Nazionale di Pittura Premio Arbiter tenutasi nel gennaio del 1952 . Come è noto il Premio Arbiter era stato voluto da Leopoldo Kostoris, erogatore dei premi, per dare vita ad una singolare collezione d’arte. La partecipazione al premio era per invito e il soggetto delle opere, che dovevano avere rigorosamente le misure di 13 x 18 cm (la tavoletta adeguata veniva offerta direttamente dalla Segreteria del premio), era libero. Risulta interessante sottolineare che la Giuria preposta agli inviti e all’assegnazione dei premi era composta da Carlo Cardazzo (indicato come collezionista d’arte e non come gallerista), dal pittore Virgilio Guidi, dallo scultore Marcello Mascherini e dal critico d’arte Berto Morucchio. Escluso Mascherini, gli altri sono tutti legati all’ambiente culturale e artistico veneziano. I premi, indivisibili, erano stati così stabiliti: primo Premio L. 130.000, secondo Premio L. 100.000; inoltre erano previsti altri 20 premi-acquisto. La Giuria, riunitasi il 10 gennaio del 1952, “considerata la totale partecipazione degli artisti e l’alto livello estetico delle opere” manifestò la difficoltà di aggiudicare i due primi premi a due soli artisti e quindi prese la decisione di dividere la somma messa a disposizione in 8 premiacquisto di L. 30.000 e 20 premi-acquisto da 10.000. I rapporti di Cardazzo con la Galleria Casanuova, continueranno nel tempo e dopo la mostra degli Artisti Spaziali vale la pena ricordare le mostre personali di Giuseppe Capogrossi e di Edmondo Bacci. Nel giugno del 1959 la Galleria Casanuova contatta, proponendo delle mostre di grafica, i due pittori. Il 18 giugno viene inviata la seguente lettera a Capogrossi: “Il Signor Giorgio Trentin della Direzione Belle arti del Comune di Venezia ci ha fornito il Suo indirizzo e noi Le scriviamo per invitarLa a presentare nella ns. galleria una mostra personale (circa 25- 30 opere) in bianco e nero. Abbiamo ammirato la Sua partecipazione alla III° Biennale dell’Incisione Italiana a Venezia e poiché a Trieste una Sua personale dell’incisione non è mai stata presentata, pensiamo si potrebbe organizzarla.  Le possiamo assicurare una larga critica di stampa con la sola preghiera che le stampe inviate risultino almeno nella loro maggioranza inedite; questa condizione è molto importante agli effetti della critica.  All’invito non risponde Capogrossi ma, al suo posto, Carlo Cardazzo che accetta di buon grado la proposta. Dopo varie trattative viene fissata la data del 10 ottobre per l’apertura della mostra che avrebbe inaugurato la nuova stagione espositiva della Galleria Casanuova. Tutte le opere sono inviate dal Cavallino che si occupa anche di stampare l’invito-catalogo . Inizialmente vengono spedite diciassette litografie ma il 3 ottobre Florit chiede di poter “completare detta rassegna con ancora 4 o 5 pezzi, dato che parte di quelle ricevute sono di piccole dimensioni e non vorremmo che si disperdessero sulle pareti.  N.B.: Vi rammentiamo che nella ns. lettera invito abbiamo sempre parlato di 20-25 opere”58. Vengono quindi spedite, in aggiunta, cinque gouaches su cartone. La mostra di Capogrossi ottiene un buon successo di critica ma non di vendite59: “Trieste, 27 ottobre 1959 / La mostra di Capogrossi è stata chiusa. Purtroppo vendite non sono venute. La critica è stata ottima a conferma Vi alleghiamo i due maggiori giornali. Vogliamo augurarci che la mostra di Bacci fissata per il 13 febbraio 1960 abbia migliore successo . La mostra di Bacci inizialmente era stata fissata per dicembre, ma su proposta di Cardazzo verrà inaugurata il 27 febbraio 1960. Dalla corrispondenza con la Galleria Casanuova, conservata nell’Archivio del Cavallino, risulta che Piero Florit aveva espressamente richiesto che le opere di Bacci fossero “nuove, inedite e non vecchie”. Come era già accaduto per la mostra di Capogrossi la Galleria del Cavallino si occupa di spedire tutte le opere e di stampare gli inviti. Per l’occasione vengono inviati da Venezia dieci disegni incorniciati (per i quali viene indicato il prezzo di vendita di lire 40.000 ciascuno), otto litografie (intitolate ognuna Avvenimento) e 350 inviti Il 16 marzo 1960 alla Galleria Casanuova viene inviata la seguente lettera: “Il pittore Bacci ci chiede notizie della mostra grafica allestita nella Vostra Galleria. Saremo molto lieti di ricevere un eventuale estratto conto e le opere di ritorno in quanto alcuni disegni dovranno essere da Bacci mandati a Milano. Rimaniamo in attesa e Vi preghiamo di gradire distinti saluti”. Tra le righe si intuisce che Cardazzo sperava in alcune vendite, ma anche la mostra di Bacci da questo punto di vista si rivelò un totale insuccesso, come si evince dalla lettera del 31 marzo 1960 spedita dalla Galleria del Cavallino alla Galleria Casanuova: “Abbiamo ricevuto regolarmente le litografie e i guazzi del pittore Bacci. Non Vi nascondiamo che siamo rimasti veramente sorpresi che non sia andata venduta neanche una litografia. Vi ringraziamo e Vi preghiamo gradire distinti saluti”. Come risulta evidente sono le gallerie private e i circoli di cultura che, con la loro azione dinamica, hanno cercato di aggiornare il pubblico triestino sulle novità in ambito artistico, a volte con grande successo di pubblico anche se con scarso riscontro sul mercato collezionistico. A tale proposito si rivela importante il ruolo svolto da Carlo Cardazzo. Quelli presi qui in considerazione, sono solo alcuni episodi significativi che testimoniano la continuità di contatti, di relazioni e di scambio artistico-culturale di Cardazzo con la città di Trieste. La mostra dà altresì spazio a un altro aspetto interessante, e meno noto, del linguaggio dell’artista: lo sperimentalismo degli anni Sessanta-Settanta a cui Bacci rivolge la sua ricerca negli ultimi anni di lavoro.
È qui che si incontrano i suoi “Gessi”, le “Sagome”, i “Teatrini”, tutte opere che riflettono l’incessante ricerca artistica di Bacci che in quegli anni si spinge verso nuove indagini extra pittoriche, rivolte alla materia.  Ad affiancare questi lavori, un’importante sezione è dedicata a un gruppo inedito di disegni e “Carte bruciate”, provenienti da diverse collezioni italiane e soprattutto dall’Archivio Edmondo Bacci, dove l’artista interpreta su carta le potenzialità proprie del segno grafico e del colore, approfondendo la sua ricerca attraverso una serie di opere apparentemente dissimili ma accomunate tutte da una forza evocativa – creativa. Il percorso espositivo si conclude con un tributo alla partecipazione di Bacci alla XXIX Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, nel 1958. Dalla sua prima partecipazione, nel 1948, l’artista viene regolarmente invitato ad esporre alla celebre manifestazione, ma in questa occasione gli viene dedicata un’intera sala, ricreata ora in parte nella mostra a Palazzo Venier dei Leoni con i più celebri Avvenimenti dell’epoca, tra cui spicca Avvenimento #299, del 1958, proveniente dall’Art Museum di Palm Springs. Nella prefazione del catalogo realizzato per la Biennale Peggy Guggenheim scrisse: “c’è una veggenza nel colore, il quale esplode in tutta la sua gioiosa ebbrezza. Potrei suggerire Kandinsky per una uguale potenza poetica” (Catalogo della XXIX Biennale Internazionale d'Arte di Venezia, 1958). A chiudere la sala sarà un sorprendente olio su tela di Giambattista Tiepolo, Il Giudizio finale (1730-35 c.), della Collezione Intesa Sanpaolo, alla Fondazione Querini Stampalia, Venezia, testimonianza di come, fin dalla sua formazione artistica, presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia, Bacci sia stato fortemente influenzato dalle grandi tele del passato, in particolare dal colorismo luministico di Giovanni Bellini, Giorgione, e soprattutto dalla spazialità dei grandi affreschi e cieli di Tiepolo. La mostra è accompagnata da un ricco catalogo illustrato, edito da Marsilio Arte, con saggi della curatrice Chiara Bertola, Martina Manganello, Barry Schwabsky, Toni Toniato, Riccardo Venturi.


Edmondo Bacci Biografia
Nasce nel 1913 a Venezia e qui compie la sua educazione artistica. Il suo primo maestro d’accademia, Virgilio Guidi, ne influenza in modo determinante lo stile e la poetica, introducendolo alla lettura della teoria dei colori di Johann W. Goethe e sviluppandone la sensibilità verso la luce quale “scopritrice delle cose e delle forme”. Bacci accosta a queste lezioni un vivo interesse per le grandi tele del passato, in particolare per il colorismo luministico di Giovanni Bellini, Giorgione e Giambattista Tiepolo, e per le architetture del XVIII secolo in cui luce e spazio sono protagonisti. Nel 1945 tiene la prima personale alla Galleria del Cavallino di Venezia e tramite il gallerista Carlo Cardazzo entra in contatto con la poetica dello Spazialismo, che si sta discutendo a Milano intorno a Lucio Fontana. Sarà attraverso lo Spazialismo che Bacci trova il modo per farsi conoscere e inserirsi tra gli artisti contemporanei più innovativi. Nel 1948 partecipa per la prima volta alla Biennale di Venezia e da allora vi è regolarmente invitato. Inizia quindi a esporre alle mostre dello Spazialismo in Italia e all’estero. Verso la metà degli anni cinquanta Peggy Guggenheim rimane affascinata dall’uso intenso e nuovo del colore che contraddistingue i suoi lavori e ne diventa attiva sostenitrice, tanto che Bacci e Tancredi Parmeggiani saranno gli unici artisti italiani da lei sostenuti. Dopo un’importante personale alla Galleria del Cavallino nel 1955, l’anno seguente Bacci espone negli Stati Uniti, alla Seventy- Five Gallery di New York, con una mostra che apre una stagione di successi presso i collezionisti americani e internazionali. Nel 1958 gli viene dedicata una sala personale alla Biennale di Venezia, nel 1961 espone alla Drian Gallery di Londra e partecipa alla mostra “Neue Italienische Kunst” alla Galerie 59 di Aschaffenburg in Germania, l’anno dopo è alla Frank Perls Gallery di Beverly Hills. Bacci muore a Venezia il 16 ottobre 1978.
 
 
 
Museo Peggy Guggenheim di Venezia
Edmondo Bacci. L'energia della luce
dal 1 Aprile 2023 al 18 Settembre 2023
dal Lunedì alla Domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00
Martedì Chiuso