Giovanni Cardone Luglio 2023
Fino al 28 Luglio 2023 si potrà ammirare presso la Galleria Lineadarte Officina Creativa Napoli la mostra internazionale del piccolo formato Venti per Venti, XXxXX, 20 cm per 20 cm, ideatori e curatori di questo progetto sono Gennaro Ippolito e Giovanna Donnarumma fondatori di Lineadarte Officina Creativa il saggio critico a catalogo di Rosario Pinto. La manifestazione giunta alla sua sedicesima edizione ha visto la partecipazione dal 2007 ad oggi oltre 2000 artisti, che hanno esposto le loro opere ovvero, giovani creativi insieme ad artisti emergenti ed artisti affermati offrano al pubblico l'opportunità di ammirare un'ampia varietà di opere e di stili e spesso rappresentano un'interessante occasione per scoprire nuovi talenti e tendenze artistiche emergenti. Questa edizione vuole omaggiare nel sessantesimo della sua formazione il movimento artistico Fluxus, nato alla fine degli anni '50.

La corrente artistica Fluxus, nata alla fine degli anni '50, rappresenta una forma di espressione artistica multidisciplinare che unisce musica, poesia, teatro, danza e arti visive. Il movimento, caratterizzato dalla sperimentazione e dalla libertà creativa ( così come nello spirito del Ventiperventi), ha cercato di abbattere le barriere tra arte e vita quotidiana, proponendo un'arte che fosse accessibile a tutti. I suoi esponenti, tra cui George Maciunas, Nam June Paik e Yoko Ono, hanno creato opere che invitavano il pubblico a partecipare attivamente e a diventare parte integrante dell'opera stessa. Il Fluxus ha rappresentato una vera e propria rivoluzione culturale, che ha influenzato l'arte contemporanea a livello globale. Come afferma Rosario Pinto nel suo Saggio Critico : Può essere utile interrogarsi se, accostandosi allo studio ed alla disamina delle dinamiche evolutive di Fluxus non occorra individuare una metodologia di accertamento critico-storiografico che sia totalmente innovativa, non sembrandoci sufficienti gli approcci ‘tradizionali’ a poter garantire una opportunità di ‘visione’ di ciò che Fluxus è stato e, per vari aspetti, continua ad 'essere', senza però 'esistere' più come fu nel periodo del suo esordio propositivo. La formulazione di questa prospettiva che accetta la possibilità di qualcosa che continua ad ‘essere’ pur senza più ‘esistere’ dimostra come siamo già entrati, di fatto, in una sfera del pensare che, concretamente, si rivela atipica rispetto alle modalità di accertamento critico che (al di là dei tagli ideologici e delle ‘scuole’ di appartenenza di ciascuno) distinguono e definiscono il processo di indagine valutativa e storiografica che si fonda sulla disamina documentaria, sulla valutazione testimoniale e sulla sintesi di comprovazione finale. Fluxus sfugge, in primis, alla possibilità di averne oggi una documentazione convincentemente valida e consistente, per il semplice motivo che la gran parte dei documenti, che noi abbiamo di quella stagione, sono documenti (o, se si vuole, ‘non-documenti’), tracce friabili che non vanno oltre il risultato di fornire una precaria attestazione di un processo, che, per sua vocazione e natura, non prevedeva di poter consolidarsi in una sedimentazione effettiva di avvenuta conclusione 'oggettuata'. Mentre, ad esempio, un detective può indagare su un omicidio, dal momento che si trova di fronte alla presenza di un cadavere assassinato, che possiamo considerare come la ‘conclusione’ dell’evento-assassinio, in Fluxus - se ci è consentito l’azzardo - l’omicidio avviene senza mai compiersi, nel senso che non ci si trova mai di fronte all’explicit opus del delitto, senza poterlo, quindi, mai dichiarare concluso. Ecco, insomma, che non si danno le ragioni oggettive per poter dire di trovarci di fronte a ciò che effettivamente deve essere un documento - e cioè, un reperto - e ciò avviene perché Fluxus ha sempre rifiutato di voler produrre qualcosa, andando ad affidare piuttosto all’evento, che non al dato oggettivato, la sostanza quintessenziale del suo prodursi. Non esiste, insomma, un ‘oggetto’ Fluxus ed anche quando - soprattutto da parte di Maciunas - si è inteso studiarsi di ‘oggettivare’ qualcosa di Fluxus, producendone una sorta di composizioni di trouvailles (Fluxkits) di fatto, si è finito col produrre un surrogato sterile ed assolutamente privo di senso, qualcosa, insomma, che poteva soddisfare le ragioni del mercato, provvedendo, però, in tal modo, a contraddire le ragioni stesse di Fluxus che è sempre stato non contro il mercato, ma semplicemente indifferente ad esso, nel senso che ne è stato lontano, ne ha saputo fare a meno, considerando che esso potesse non esistere e che qualsiasi propria azione - di Fluxus, intendiamo dire - dovesse essere non ‘contro-mercato’, ma ‘a-mercato’.

Con tali riflessioni ci rendiamo conto che viene a mancare il primo ed irrinunciabile elemento per un accertamento critico-storiografico condotto con le metodologie tradizionali, poiché ci troviamo privi di quell’elemento di base che è il ‘documento’, che, per sua natura ha sempre consistenza oggettuale materialmente esperibile. Di conseguenza, mancando la consistenza oggettuale, non possiamo avere testimonianza di nulla, giacché la testimonianza si produce come analisi valutativa condotta sul dato documentario. Certo, si potrà legittimamente sostenere che la testimonianza, in sé, non ha mai caratura oggettuale, essendo essa un prodotto di carattere meramente intellettuale che si realizza per processo astrattivo dal dato documentario, questo sì, ribadiamo, di consistenza ‘materiale’. Ma, se non abbiamo un ‘documento’ ‘materiale’ da cui ‘abstrahere’ una ‘testimonianza’, che è un atto di ‘pensiero’, la testimonianza stessa, che ci serve per avere ‘prova’ di qualcosa, donde la si ricava? Da tutto ciò discende che non è neanche possibile, quindi, fornire ‘prova’ di alcunché, poiché la prova non ha possibilità di prodursi nel momento in cui viene meno la possibilità di ‘intrecciare’ secondo le processualità della ‘Logica Formale’ - quella che regge ancora abbastanza bene dai tempi di Aristotele - i dati provenienti dalle ‘testimonianze’ ottenute - anche qui, ribadiamo - come enucleazioni razionali dalla consistenza ‘oggettuale’ del dato ‘documentario’ di fondazione materiale. Fluxus, insomma, non consente di esercitare sul suo processo una indagine di accertamento critico e storiografico che sia effettivamente foriero di risultanze valutative obiettivamente convincenti, giacché la sua processualità praticamente ininterrotta non consente di avere adito alla consistenza documentaria, o, almeno, ad una consistenza documentaria ‘diretta’ e validamente convincente. Tutto ciò di cui disponiamo di Fluxus - e non è quantitativamente poco - è, insomma, solo documento ‘indiretto’ o ‘secondario’ del processo evenienziale dell’azione creativa che Fluxus ha messo in campo. Di Fluxus sappiamo, infatti, solo ciò che ci viene da ciò che potremmo definire il precipitato materialmente consistente di azioni che, molto spesso, non propongono un processo trasformativo agito sulla materia; e tutto ciò, pertanto, ci mette di fronte a dati che non si sono potuti coagulare nella produzione formativa di un oggetto apprezzabile nella propria datità materiale. Va aggiunto, peraltro, che nel contesto della massa documentaria (diretta o indiretta) va considerata non solo la consistenza ‘oggettistica’ delle opere, ma anche la pregnanza della proprietà ‘materiale’ dei corpi viventi. Da questo punto di vista, insomma, è ben facilmente determinabile il giudizio valutativo della sussumibilità dell’esperienza ‘bodyartistica’ all’interno delle prammatiche ‘Fluxus’. Pensiamo, a mo’ d’esempio, ad alcune ‘azioni’ di Marina Abramovic e, scendendo in dettaglio, a quella, in particolare, di Imponderabilia, svolta nel 1977 - in tempi ampiamente ‘oltre’ il tempo ‘storico’ di Fluxus - con la artista ed il suo compagno Ulay impegnati, nudi, a lasciar ‘fluire’ il transito dei fruitori della loro performance attraverso uno strettissimo spazio lasciato libero tra i loro due corpi. Le caratteristiche peculiari dello spirito di Fluxus trovano in questa ‘azione’ il proprio pieno dispiegamento: ecco, quindi, il flusso dei fruitori, l’impermanenza della condizione situazionale, l’imponderabilità delle aspettative, il protagonismo attivo del pubblico, la partecipazione attiva come fattore determinante ed indispensabile non per la sola ‘riuscita’ dell’evento, ma per la ‘realizzazione’ dell’evento stesso, l’uso del tempo, la definizione di un ambito spaziale in cui agire, l’indicazione di una procedura senza la necessità della fissazione di un disciplinare protocollare, il minimalismo dei mezzi e delle materie prime ridotto praticamente a zero dalla nudità dei corpi.
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Queste peculiarità che sono desumibili dallo svolgimento della ‘azione’ della Abramovic integrano tutti gli aspetti sostanziali della pratica di azione di Fluxus che si concretizza variamente secondo le cadenze esecutive dell’happening o, talvolta, dell’event: potremmo aggiungere anche l’impalpabilità del rumore, che svolge un suo ruolo decisivo e che Fluxus prende a considerare nella sua propria inseità: quello dei passi felpati, del respiro, della condizione d’ansia e dello strofinio inevitabile dei corpi, suoni tutti, questi, appena percepibili, che appena scalfiscono il silenzio che si presume debba essere stato non richiesto, ma spontaneamente scelto ed adottato. La sufficiente completezza di addensamento in questa ‘azione’ della Abramovic e di Ulay di componenti multiple e diffuse che caratterizzano il dispiegamento attivo della pratica creativa di Fluxus ci offre l’opportunità di interrogarci, quindi, sui mezzi che Fluxus si è disposto ad applicare per l’ottenimento delle sue risultanze creative. E, di conseguenza, ed a maggior ragione, nasce da tutto ciò l’esigenza di individuare una strumentazione metodologica inedita per poter accostarsi allo studio di Fluxus, andando a concepire, ad esempio, che lo stesso svolgimento di un’indagine storiografica su questo movimento è, in fondo, essa stessa un ‘evento’ di Fluxus, una sua estrema o diuturna scansione, della cui consistenza empirica occorre aver conto assumendo coscienza, innanzitutto, della precaria provvisorietà che la distingue e la definisce. Storicizzare convincentemente Fluxus è praticamente impossibile: potremmo definire tale impresa come quella della leggenda del bambino che pretendeva di svuotare il mare col secchiello. Un'impresa impossibile svuotare il mare col secchiello, ma anche costringere Fluxus nella morsa di un racconto narrativo della sua storia, una storia di cui non si ha una documentazione effettivamente legata alla consistenza di un dato documentario massicciamente convincente, dal momento che ciò che ci restituisce il 'racconto' corrente su Fluxus è solo il frutto di una narrazione offerta da una interpretazione personale di chi certe cose ha potuto osservarle direttamente, passandole poi, al vaglio soggettivo della propria personale sensibilità. A nostro giudizio, perciò, il primo modello delle dinamiche Fluxus potrebbe essere identificato proprio nella narrazione stessa del fanciullo che tentava - inutilmente, è ovvio - di prosciugare il mare prelevandone l’acqua con un secchiello, provvedendo, quindi, a riversarla sulla sabbia della battigia, immaginando l’attivazione di un ‘flusso’ indeterminato e costante capace di giungere alla conclusione dell’essiccamento del mare. Sappiamo che Sant'Agostino di Ippona avrebbe denunciato la inanità dell’impresa, avendone come risposta da parte del bambino quella della parallela inanità del suo tentativo di spiegazione del mistero trinitario. Ciò che si afferma, insomma, in questo episodio qui ecfrasticamente esibito (ma le arti figurative lo avrebbero riempito, nel corso dei secoli di numerose traduzioni iconograficamente pregnanti) è la processualità che si produce secondo un ‘flusso’ evenienziale che non deve trovare una ‘ragione’ o una ‘finalità’ del farsi, come avviene nel caso di Fluxus che si dà o in termini di disposizione volontaristica, sotto forma di happening, o di mera proposizione casuale (event), e mai, comunque, come prodotto visibilmente e finalisticamente consolidato in una datità materiale.

Che il bambino immagini, insomma di prosciugare il mare è perfettamente legittimo a condizione che non si pretenda di giustificare storiograficamente il racconto del processo, proprio come avviene per Fluxus di cui non è possibile rendere una 'giustificazione' storiografica giacché il prodursi di Fluxus, per sua stessa natura, sfugge alla possibilità di averne una documentazione effettivamente capace di restituirci una testimonianza ragionevolmente fondata e non affidata, invece, alla precarietà instabile della interpretazione soggettiva. L’episodio dell’incontro prodigioso con questo fanciullo viene attribuito agiograficamente alla personalità di Sant’Agostino da numerose fonti antiche che accreditano a questo Santo - ma anche ad altri - lo svolgimento di questo episodio, che noi possiamo leggere, quindi, come archetipo dell’assurdo e come incunabolo dell’affermarsi evenienziale di una processualità insuscettibile di un compimento e valida, quindi, solo nel segmento temporale in cui si compie la sua constatazione empirica. Partire da questa considerazione della ‘constatazione empirica di un segmento temporale’ ci mette nella condizione di dover muovere a trovare, a nostro giudizio, una possibilità di individuazione di un approccio metodologico convincente allo studio di Fluxus, ancorandone il dispiegamento ad una relazione tra spazio e tempo. Alla stregua di ciò, infatti, noi provvediamo da una parte a rinunciare alla possibilità di definire apriori la fenomenologia di un processo, dovendone accettare la sua evenienza in quanto tale e, dall’altra parte, scopriamo di poter anche essere in grado di ‘dire qualcosa’ su questa fenomenologia creativa che è stata-è Fluxus, senza pretendere di imbrigliarla, però, in una formulazione apodittica e sclerotizzante. Siamo partiti da Sant’Agostino, ma, forse, potremmo trovare anche tracce precedenti, come quella stessa che ci parla del mito di Narciso e della vanità del suo tentativo di abbracciare il giovinetto apparso, con impermanenza di stato, sulla superficie specchiante del laghetto, un giovinetto che era null’altro che l’immagine di Narciso stesso. Narciso, allora, cade nell’acqua e muore perché ha cercato di fermare il processo evenienziale della apparizione della propria ‘immagine’, cercando di concretizzarlo nella consistenza fattuale del tentativo messo in essere di stabilire un contatto fisico con quell’apparizione che egli non riconosce come tale ma cui attribuisce, invece, una consistenza reale. Non si rende conto, infatti, Narciso che la ‘oggettualità’ dello specchio d’acqua ed anche dell’immagine che vi compare - ‘oggettiva’ sì, ma di fatto solo ‘apparente’ - non poteva essere considerata una consistenza obiettivamente empirica e fattuale di cui poter avere esperienza diretta consacrabile in un ‘atto’ ben determinato e in una fissazione, quindi, ‘spazio-temporale’ suscettibile di un incontro pieno garantito dall’esperienza fisica di un contatto che, purtroppo, miseramente fallisce. Dopo aver constatato l'inanità di un impegno di convincente e piena storicizzazione di Fluxus, giungiamo ad un altro dei punti nevralgici delle dinamiche Fluxus: il rapporto ‘spazio-temporale’, un rapporto di complessa evoluzione, sostanzialmente non chiaro fino in fondo - presumiamo - agli stessi protagonisti di questa stagione d’avanguardia. Se per ‘spazio’ noi intendiamo ciò che la nostra conoscenza ci consente di verificare con l’esperienza soggettiva, lo spazio è, allora, ciò che ci comprende; e siamo ‘spazio’ anche noi stessi che vi siamo immersi: spazio sono, quindi, tutti gli oggetti per il semplicissimo motivo che il loro volume occupa e, al tempo stesso, produce uno spazio. Ma cos’è lo spazio? Kant riferisce essere esso una categoria, insieme col tempo, una opportunità di cui siamo dotati, noi esseri umani, per poter avere l’accesso alla conoscenza del mondo, o, almeno, alla conoscenza dei suoi ‘fenomeni’, di ciò che potremmo definire anche le sue fuggevoli apparenze. Comincia a dischiudersi l’universo del mondo di Fluxus e della sua vocazione: si afferma, innanzitutto, la preminenza ‘oggettiva’ e non meramente fantasmatica della consistenza ‘oggettuale’ delle cose; e John Cage spiega, infatti, che occorre dirimere la consistenza empirica della ‘cosa’ dalla misura inarrivabile della sua presunzione concettuale ante rem, muovendo, così, a definire semplicemente la datità di una misura relazionale: quella con la quale la ‘cosa’ stabilisce il rapporto di sé con altre ‘cose’ secondo una prospettiva di ordine ‘relativistico’, intrecciando una rete di rapporti mobilissimi ed instabili, costantemente sottoposta a variazioni di stato e ad oscillazioni di riconoscibilità. Quando John Cage procede a creare una musica diversa da quella abitualmente proposta nel contesto dei ‘concerti’ (che, per definizione, non può svolgersi che nella successività del tempo) per non dover sottostare alla condizione prescrittiva ed obbligante, appunto, della successività, cos’altro fa se non fornire al tempo la disposizione di annichilirsi? L’annichilimento della consistenza successivistica del tempo - che vale a modulare il rumore in suono ‘ordinato’ - produce una epifania sensoriale che si offre alla nostra percezione psicologica e culturale grazie al fatto di veder colpiti i nostri terminali uditivi da stimolazioni che prescindono da un ordinamento rispondente al contenimento predittivo delle cadenze di ‘battuta’. Ma Cage fa anche molto di più: e spiega col suo lavoro che la precarietà esecutiva dei suoi ‘pezzi’ non consiste semplicemente nella imperscrutabilità a priori delle risultanze foniche fittamente articolate nei suoi strumenti di trouvaille, ma consiste, soprattutto, nell’aver messo egli in piedi un universo al cui interno può succedere di tutto, giacché ciò che si produce come suono-rumore è esattamente il ‘suono’ dell’universo, quello che si offre in misura entropica ed orgiastica al riparo della irreggimentazione del pentagramma. Ovviamente, John Cage è perfettamente consapevole di dover fare, comunque, i conti col tempo, il tempo diviso e particellato della successività: sa di non averne il controllo e prova ad aggirare l’ostacolo andando a stabilire un contatto diretto con la consistenza spaziale delle cose, fino ad immaginare che la disposizione (spaziale) degli oggetti possa essa stessa dettare una opportunità di configurazione della articolazione fonica, andando egli a tentare così di agire impeditivamente sull’aspetto successivistico che definisce la condizione di esperibilità che noi abbiamo del dato temporale e del suono che definisce ed articola la ‘voce’ del tempo: del tempo, ovviamente, è necessario ribadire, come noi successivisticamente ne abbiamo esperienza. Sembra, ma solo in apparenza, che Cage possa immaginare di voler scardinare la consistenza della datità temporale: di fatto egli non intende affatto ‘liberarsi del tempo’, quanto, piuttosto, ‘liberare il tempo’, svincolandolo dalla tirannia della successività. A tal fine egli prova a servirsi dello spazio, cercando di condensare, quindi, nella spazialità dei volumi delle cose il contenuto di un tentativo empirico di ‘liberare’ il tempo dalla sua condizione di successività. Lo spazio, in tale misura, dovrebbe poter farsi parametro della dimensione temporale, dettando non certo i ritmi delle armonie né le flautazioni melodiche, ma stabilendo la relazione delle consistenze oggettuali delle cose, delle cose che, rumoreggiando, riconoscono se stesse e si rendono riconoscibili, al di là della dittatura del tempo, cercando di deprivare la legge cronologica della successività della sua pregnanza costrittiva che mostra tutta la sua tirannia ‘formale’ nel momento in cui detta le prescrizioni della armonia e della melodia fondandone l’istituto sulla inderogabilità della fissazione dell’ordinamento scalare. Per Cage la soluzione del problema consiste, quindi, nella ‘scoperta’ del rumore, che possiamo cominciare ad intendere come un suono, o, meglio, come una consistenza fonica che riesce a fare a meno dell’imbrigliamento obbligato nella successività del tempo, imbrigliamento cui deve purtroppo sottostare qualsiasi ‘suono’ per poter essere ‘riconosciuto’ come tale: quello della parola come quello della musica. John Cage comprende che la liberazione del suono dalla costrizione in cui versa entro il paradigma asfissiante della successività temporale può consistere unicamente nella pratica incondizionata e ‘fluente’ del rumore. Non v’è dubbio, allora, che la riduzione del ‘tempo’ alla ‘spazialità’ dell’oggetto costituisce una soluzione di straordinario potere innovativo che John Cage suggerisce rispetto a ciò che aveva promosso, ad esempio, il movimento di Dada, che era rimasto inevitabilmente legato alle dinamiche successivistiche del tempo nel procedere alle sue azioni performative scalate nell’ordine della processualità esecutiva di ordine sequenziale. Bisognava fare un passo avanti: ed è ciò che compie John Cage, individuando le due polarità - dialogiche e non dialettiche - del ‘silenzio’, per un verso, e del ‘rumore del traffico’ per altro verso. Sono entrambi questi ‘suoni’ (qui vale il termine ‘suoni’ come sensazioni uditive) null’altro che l’intendimento del suono come ‘metafora del tempo unitario’, di un tempo, cioè, non sottoponibile apoditticamente alla considerazione di mera successività, ma immaginabile in ipostasi di configurazione della concezione di ‘unisono’, ove con la definizione di ‘unisono’ intendiamo additare la concentrazione indistinta ed indefinita di tutti i suoni nello stesso momento, al di là della invocazione della distinzione successivistica che è quella che troviamo scritta sulle righe del pentagramma. Ed, alla fine, così come l’insieme di tutti i colori genera il bianco, alla stessa maniera l’insieme di tutti i rumori ed i suoni genera il ‘silenzio’. Riteniamo possibile, insomma definire ciò che Cage ama riconoscere come il rumore del traffico null’altro che la matrix primordiale e finale di tutti i suoni, il luogo ‘bianco’ dell’universo fonico ove si azzerano tutte le differenze e dove ciò che ‘suona’ è ciò che si può definire come l’ineffabile ’armonia delle sfere celesti’, ciò che la prospettiva pitagorica addita come ‘inascoltabile’ e che Cage, tentando di darle una possibilità di ‘ascolto’, perimetra, con apparente ossimoro, nella consistenza del suono del ‘silenzio’. Siamo, insomma, al più alto tentativo di procedere alla definizione di una misura del tempo, avendone compreso la necessità dell’azzeramento e studiandosi di scavalcarne la limitazione della successività. Lo spazio appare comunque, ancora, lo ‘strumento’ utile per definire una sorta di ‘immagine’ del tempo - la sua misurabilità - impegno cui si sono da sempre rivolti gli uomini approntando macchine ad hoc, dalla clessidra, alla meridiana, all’orologio meccanico e poi elettronico, tutti strumenti di epagoge che utilizzano, in fondo, lo spazio nello specialismo delle sue definizioni particellari, per maturare la possibilità di intendere e di ‘raffigurare’ una induzione ragionevole sulla natura e lo scorrere del tempo, immaginando di poterlo comprimere fino allo spasimo della più estrema delle sue scansioni negli orologi nucleari, tendendo a scoprirne il ‘punto zero’ in cui esso possa essere costretto a disvelarsi non come successività ma come unità. meglio ancora, come ‘uno’ John Cage fornisce un utilissimo contributo di caratura metodologica: sfugge alla tentazione di fornire una sempre più sofisticata costruzione di strumenti di misura ‘meccanica’ del tempo; e si dirige ad offrire l’opportunità di un accostamento al tempo osservandone la implicazione ‘ontica’ che costituisce la testimonianza fattuale che del tempo stesso è in grado di rendere la consistenza spaziale. L’intuizione è geniale, ma ciò che resta ancor fermo, tutto sommato, è la considerazione della concezione dello spazio come di ciò che è in grado di rivelare la consistenza del tempo, fornendoci la visione di esso attraverso l’osservazione macroscopica e figurativa della natura (il moto degli astri) o attraverso la penetrazione nelle sfere più minute della materia (l’orologio atomico). Un oggetto volumetricamente consistente - stabilite tutte le neccessarie precisazioni - possiamo riuscire ad immaginarlo fermo in uno spazio senza tempo, ma un suono sarebbe assolutamente inconcepibile fuori del processo di successività del tempo che noi ben conosciamo come ineludibile condizione della nostra stessa esistenza. Fluxus stabilisce una relazione stringente spazio-temporale, epperò, piuttosto che procedere a subordinare lo spazio al tempo, procede all’incontrario, e definisce il tempo, quindi, come scansione spaziale, semplicemente perché non riesce a configurare la datità ‘ontica’ del tempo al di fuori delle dinamiche successivistiche che ne distinguono la condizione entro cui noi abbiamo di fatto la percezione degli eventi solo attraverso il loro susseguirsi. La musica ‘tradizionale’ suggerisce di dare un ordine al tempo: e lo definisce con la scansione delle teorie musicali, con tutto l’apparato dottrinario che consente di produrre suoni grazie alla ordinata successività di battiti da cui si generano armonie e melodie, avendo conto, però, che, come osserva acutamente John Cage, invocando Kant, la musica non ha alcun significato, esattamente come la risata. Ci si può chiedere, allora, chiamando in causa a questo punto F. L. Gottlob Frege, se possa rendersi possibile escludere che la musica, oltre a non avere ‘significato’, non abbia neppure un ‘senso’. La divaricazione posta da Frege tra 'Sinn und Bedeutung' ci tiene avvertiti che, dopo aver eliminato il significato, rimane, però, in piedi ancora il senso. E la musica, infatti, che è priva di significato, non è, però, priva di senso. Potremmo addirittura aggiungere che una forma di significato - sia pur degenerativo - possa essere comunque attribuito alla musica, quando se ne fa un uso dichiaratamente simbolistico, come avviene, ad esempio, negli squilli di tromba utilizzati dai militari per additare alcuni comandi da eseguire o come nei rintocchi delle campane che indicano lo scorrere delle ore o il darsi di eventi particolari (le campane a festa, a morte, a martello). Si potrebbe, ovviamente continuare, osservando come alcune particolari melodie siano state associate a stati d’animo (i Notturni, ad esempio) o a richiami ideologici (gli inni nazionali). In ogni caso, appare evidente che la musica, al di là della sua pretesa immaterialità ed il riconoscimento di una sua capacità autonoma di autogiustificazione nei termini di solo ‘senso’ e non di ‘significato’, è stata comunque ‘piegata’ alle ragioni di una compressione culturale che ne ha strumentalizzato il dato nella costrizione simbolistica. John Cage ha il merito straordinario di aver saputo liberare la musica dall’asservimento ‘simbolistico’, qualificandola pienamente nel suo dettato ‘segnico’; ed egli fa questo intervenendo secondo la processualità evenienziale che è propria del concetto di ‘flusso’, procedendo a rinunciare alla creazione che si muove secondo scansioni di battute inevitabilmente separate ed assumendone, invece, il darsi di mero suono-rumore, autonomamente dotato di ‘senso’, di un ‘senso’ di cui si scopre presto la ragione rendendosi conto che il suono prodotto da Cage non è quello che risponde alle ‘divisioni’ delle prammatiche musicistiche, ma è il suono ‘continuo’ che non si presta ad una esecuzione per successione di battute, ma che si produce con quella caratterizzazione preminente cui è possibile attribuire la definizione di ‘rumore di fondo’. Non a caso, John Cage definirà l’apice musicale nel ‘rumore’ del traffico al cui interno il musicista americano procede a restituire al suono la sua libertà svincolandolo dalle regole del pentagramma ed utilizzando come fattore decisivo la estemporaneità del suo prodursi, di cui il musicista può solo dichiarare l’avvenimento dell’evento, come quando, ad esempio, avviene che si possa registrare su un impianto elettromeccanico il prodursi del suono stesso, isolandone un pezzo volontariamente segmentato dal continuum. La genialità dell’intervento di Cage consiste, a nostro giudizio, di essere riuscito non certo a sfuggire alla inevitabile tirannia della successività del tempo, ma di aver potuto indicare che il flusso del tempo può leggersi in modo anche propriamente ‘unitario’ e non inevitabilmente ‘successivistico’, ottenendo il risultato di poterci lasciare accostare a quel rumore di fondo’ dell’universo al quale aveva già fatto richiamo la prospettiva esoterica di Pitagora. Ovviamente c’è un prezzo da pagare ed il prezzo che paga John Cage è quello di subordinare il tempo allo spazio, non riuscendo a poter fornire del tempo la dimostrazione di come sia esso a generare lo spazio e non, viceversa, ad essere esso - il tempo - riconoscibile solo attraverso la modificazione diuturna degli assetti spaziali. Il tempo, insomma - potremmo tentare di argomentare così - rimane ancora, ed anche per Cage - ostaggio dello spazio, anche se il concetto di flusso viene correttamente inteso dal musicista americano come la manifestazione della pregnanza unitaria che si dà nella proposizione del continuum. Ci piace qui ricordare che un’esperienza creativa di fondamentale rilievo - nel corso degli anni ‘70 - fu quella che promosse a Napoli, un gruppo artistico che, non a caso, scelse per sé l’appellativo di ‘Continuum’, un gruppo che operava nei territori ‘concettuali’ della pratica dell’Arte nel Sociale e, comunque, principalmente, in territori di confine con le plaghe della ‘poesia visiva’. Personalità di spicco all’interno di ‘Continuum’ sono state, tra le altre, quelle di Luciano Caruso, Stelio Maria Martini, Giovanni Polara, Giuseppe Desiato, Enrico Bugli ecc. Particolarmente significativa fu la partecipazione di ‘Continuum’ alla manifestazione di ‘Napoli Situazione 75’, che vide la presentazione ‘in parata’ delle iniziative di gruppo che caratterizzavano, in quel periodo, la ricerca più fertile e significativa di una disposizione artistica che mirava a stabilire un ruolo protagonistico della creatività artistica nel contesto ‘sociale’. In questo contesto, giova certamente aggiungere, operavano anche due altre personalità che potremmo definire senz’altro prossime ed addirittura intime delle ‘logiche’ Fluxus: il primo, Giuseppe Desiato, che già dai primi anni ‘50, praticava una ricerca artistica mirante a produrre l’azione artistica come processualità indistinta - e, quindi, di flusso - come ci rivelano, ad esempio, le sue ‘azioni’ condotte con andamento processionale lungo le stradine del centro antico di Napoli; il secondo, Camillo Capolongo, che aveva saputo individuare la cifra creativa dello spiazzamento semantico come opportunità rivelativa del ‘senso’ delle cose. Capolongo provvede ad additare, ad esempio, nelle pagine della sua memorabile rivista ‘Match’, ma anche nel suo volume sul Sociale, come occorra liberare le cose della loro significanza per poterne cogliere il senso, procedendo dapprima a moltiplicare la possibilità dei punti di osservazione delle cose (ad esempio, capovolgendone le immagini) e provvedendo, quindi, a stabilire la libertà d’approccio individuale ad una inedita opportunità comunicativa dettata non più dalla consistenza semantica, ma dalla pregnanza del senso, guadagnando, in tal modo, una straordinaria opportunità di deprivare l’oggetto - qualsiasi oggetto - del caricamento ‘simbolistico’ che i poteri cercano sempre di attribuire alle cose, mortificandone l’impatto propriamente ‘segnico’ che loro appartiene. John Cage faceva sostanzialmente le stesse cose, nel momento in cui liberava la condizione ‘segnica’ del suono, andando ad additare che la prescrizione normativa dell’ordinamento musicale poteva essere intesa piuttosto come una gabbia compressiva, e quindi limitativa, che non come un disvelamento di orizzonte panico. Appare, quindi, decisiva, in alternativa alla formulazione opportunamente normata della disciplina musicale (nel senso di prescrizione musicistica) la pregnanza vitale della casualità che consente di assumere direttamente il suono della vita all’interno della vita stessa. In tale prospettiva può forse aggiungersi che è possibile leggere questo fenomeno anche secondo una prospettiva di sviluppo ‘preterintenzionale’ del processo, di cui si può avere nozione osservando come la ‘casualità’ rumoristica possa essere colta e percepita nella segmentazione che se ne offre attraverso la delibazione di ascolto in diretta o attraverso quella meramente differita attraverso la registrazione che viene effettuata da una apparecchiatura di cattura del suono, seguendo preterintenzionalmente il prodursi della fenomenologia fonica. Siamo, anzi, indotti ad osservare come proprio la dimensione ‘spaziale’ finisca con il rendere possibile il prodursi del suono di cui è riconoscibile il darsi, che è inevitabilmente ‘temporalmente distribuito’ in una misura che è ‘successivistica’, però, solo perché si sviluppa secondo una ‘durata’, procedendo tale ‘suono’, piuttosto, ed in sintonia col sentire di Cage, a fornirsi secondo una opportunità di delibazione in ‘continuum’ e, quindi, secondo una formulazione molto prossima alla concezione possibile di un tempo ‘unitario’, di un tempo cosmico non sottoposto al vincolo limitativo della successività. Ritorna, insomma, Pitagora. Il fattore di casualità si rivela dirimente grazie all’intervento decisivo del fruitore ed indipendentemente dal fatto che il suo coinvolgimento attivo abbia una sua caratterizzazione di tipo sostanzialmente ‘spaziale’, come avviene, ad esempio, nella performance di Allan Kaprow, ‘Yard’, del 1961, che fu resa a New York, chiamando gli spettatori a muoversi in uno spazio riempito di pneumatici d’automobile usati.La caratterizzazione ‘spaziale’ di questo evento non può non giudicarsi anche di tipo ‘musicale’, se abbiamo conto, ad esempio, del ‘rumore-suono’ inevitabilmente prodotto da quanti hanno preso a muoversi sull’ammasso dei pneumatici. Né questa produzione di ‘suono’ determinata dagli spostamenti dei ‘corpi’ dei fruitori-produttori dell’evento può impedirci di considerarne la natura sostanzialmente ‘spaziale’ della matrice. Tutto ciò porta a dover considerare che avviene, per Fluxus, quanto ancora avveniva per Dada, con la manifesta subordinazione dell’ordine temporale a quello spaziale. Questo dato oggettivo che emerge dalla constatazione dei fatti, induce a rilevare che Fluxus, che pure ha saputo compiere un avanzamento straordinario sulla via dello svincolamento del tempo dallo spazio, non è stato in grado di compiere il salto conclusivo della 'dimostrazione' della vera e reale condizione di dipendenza, che è quella della discendenza spaziale dall’ordine temporale, tema specifico questo per cui si sarebbe dovuto attendere il nuovo secolo del 2000 con le prospettive che introduce la teoresi astracturista. Tutta la dinamica creativa di Fluxus è ancora, infatti, fortemente legata alla dimensione della spazialità, risente, in tal modo, della concezione propria di tutta l’estetica duchampiano-benjaminiana che è imperniata intorno al concetto di ‘Ausstellungwert’, così da definire lo status ‘oggettivo’ della ‘condizione’ artistica come funzione della sua consistenza ‘spazio-oggettuale’ valutabile, seguendo il dettato specifico di Walter Benjamin, sia in termini di ‘collocazione’ che in termini di ‘cosalità’. Se osserviamo, ad esempio, la Fontana di Duchamp, appare evidente che la sua ‘condizione’ di artisticità si manifesta soltanto in virtù della sua decontestualizzazione dall’ambiente d’uso abituale dell’oggetto, la cui rimodulazione in ready-made si rende possibile solo una volta che l’oggetto stesso assume la sua deprivazione, unitamente con la funzione strumentale, anche del nome stesso: un normale orinatoio, così, diviene ‘La Fontana’. Il salto semantico è evidente - qui richiamiamo in causa il napoletano Camillo Capolongo - ma non consiste semplicemente nel cambiamento del nome, quanto, piuttosto, nella deprivazione dei contenuti propri della natura primigenia della funzione oggettuale rimodellata secondo un uso che acquista un suo ‘senso’, nel momento in cui l’oggetto è deprivato, lo stiamo dicendo ancora secondo la logica di Frege, del suo significato. Fluxus cerca di definire una propria identità. Si è soliti definire convenzionalmente una differenza, a nostro avviso speciosa, tra cosiddette ‘avanguardie storiche’ e ‘neoavanguardie’.
Ribadisce molto bene tale suddivisione la partimentazione tra ‘Dadaismo’ e ‘Neodadaismo’. Di fatto, la cultura d’avanguardia è sempre quella che, per capacità propria, provvede a rompere gli schemi e a suggerire nuovi parametri che non sempre sono codificati e che, piuttosto, si presentano ex professo come istanza di rinnovamento .Una cultura d’avanguardia non ha mai una lunga durata nel tempo: non può averla, d’altronde, come la definizione stessa d’avanguardia richiede, essendo il compito proprio di un’avanguardia (il termine ha origini e radicamento significazionale nel lessico militare) quello di procedere in modo assolutamente avanzato e pionieristico spingendosi intrusivamente in territori che, allo stato, non sono controllati e di cui ci si prefigge di muovere alla conquista. L’azione dell’avanguardia è quindi breve, intensa e determinata e prelude all’ingresso nella mischia di un corpo d’intervento subentrante, opportunamente strutturato e dotato di una capacità di impatto decisamente organizzata e massiccia. Anche per le avanguardie artistiche avviene allo stesso modo: rompono degli equilibri consolidati e si prefiggono l’additamento di un indirizzo innovativo che sarà poi praticato successivamente fino a profilarsi come una formulazione ‘stilistica’ contro cui agirà, in seguito, qualche altro corpo di ‘avanguardia’ determinato a produrre la creazione di assetti nuovi e più avanzati. Il fenomeno ‘avanguardistico’, pertanto, non può essere limitato ai soli eventi dell’esordio del ‘900; e per tali ragioni appare conseguenziale che è più che legittimo ritenere Fluxus non una ‘neo-avanguardia’, ma un’’avanguardia’ tout-court. Di fatto anche Fluxus, come si conviene ad un’avanguardia, ha non solo una durata relativamente breve, ma anche una formulazione di proposta sufficientemente sfrangiata per poter essere riconosciuta come un ‘disciplinare’ stilistico. Di fatto, Fluxus, per quanto se ne espanda il processo di svolgimento, non può essere dilatato oltre la durata di circa un decennio tra anni ‘50 e ‘60. Occorre aver conto, peraltro, che non pochi fenomeni, rapportabili alla temperie creativa di Fluxus, possono essere riscontrabili sia in area nordamericana che in area europea tra inizio degli anni ‘50 ed un periodo di tempo che, spingendosi generosamente in avanti, ed andando anche oltre il decennio dei ‘60, si prolunga nella cultura ‘partecipativa’ degli anni ‘70, ampliando così il raggio di azione di una cultura di ‘flusso’ con la sua penetrazione nei territori della pratica di specifici indirizzi, anch’essi di matrice ‘concettuale’, come quelli, ad esempio, della ‘Poesia visiva’ o anche dell’ ‘Arte nel Sociale’. Abbiamo, ad esempio, precedentemente citato il gruppo napoletano ‘Continuum’ e l’esperienza produttiva di personalità come quelle di Giuseppe Desiato e di Camillo Capolongo. Aggiungeremo, ora, qui, anche l’indicazione della figura poliedrica di Achille Cavellini, non tralasciando tutto quanto si muoveva nel campo della ricerca artistica in Germania, ad esempio, ove agisce una personalità di notevolissimo spessore come Wolf Vostell; e sarà utile additare che gioverà moltissimo alla affermazione dei contenuti propri di Fluxus la dilatazione che questo movimento potrà ricevere proprio per effetto di un processo di trasmigrazione che avviene dall’America all’Europa, quando, ad inizio anni ‘60, Maciunas si trasferisce dagli USA in Germania avendo ricevuto un incarico professionale per conto delle Forze Armate statunitensi. Nasce da questa premessa, sostanzialmente occasionale, l’opportunità di stabilire una relazione americano-tedesca, che costituisce la base dell’ampliamento di orizzonte partecipativo intorno alle dinamiche di Fluxus. Il rientro negli USA di Maciunas, dopo qualche anno, segna, di fatto l’esaurimento della carica vitale e propulsiva della azione ‘avanguardistica’ di Fluxus, che finisce con l’assumere, piuttosto, una sorta di assetto pragmatico che si sfarina nella azione personale e distinta delle molte personalità che, con più o meno profonda convinzione, immaginano di potersi identificare e specchiare nelle ragioni di questa proposta di flusso creativo. In proposito, il caso di Beuys può essere considerato emblematico, costituendosi la sua personalità senz'altro come 'prossima' alle istanze di Fluxus, ma certamente non definibile secondo le peculiarità identitarie del Movimento. Beuys, infatti, promuove una cultura integrativa 'materico-concettuale' che fonda certamente il suo fulcro sulla corporeità, ma che non subordina la formulazione 'senso-significazionale' della sua 'azione' alla 'sola' produzione dell'evento, procedendo, piuttosto, ad ancorare l'evento stesso alla datità cosale della pregnanza materica che si addensa in un dato ‘cosale’. E tale dato ‘cosale’ trova la sua accostabilità, ma anche la sua differenziazione, rispetto ai 'materiali' di Fluxus, in quanto 'quel' dato ‘cosale’ prescelto da Beuys - la pelle, ad esempio, o i frammenti di vetro (nella sua performance di Terrae Motus) - è un dato sí certamente ‘cosale’ e 'matericamente' consistente, ma anche precariamente 'eventuale'. Tutto ciò, evidentemente, a differenza, invece, dell'oggetto specifico di cui si serve, ad esempio, Cage, quando utilizza 'cose' ben identificate, cioè, oggetti veri e propri, definiti nella propria nominabilità e nel loro dato strumentale e funzionale, per procedere alla produzione dei suoi concerti. In Beuys, potremmo dire, gioca un ruolo decisivo l'eventualità della consistenza materico-cosale - la pelle, il feltro, il vetro frammentato - mentre in Fluxus l'oggetto ha una consistenza propria, magari precaria, ma tutt'altro che eventuale, e deve valere a consentire all'intervento dell'artista di formulare la produzione di un 'evento', magari anche semplicemente riconoscendo come 'evento' un semplice 'accadimento' che vede protagonisti gli oggetti così come si presentano al mondo, considerati nella ‘oggettività’ della loro ‘oggettualità’ e non sottoposti alla rimodulazione valutativa del ‘ready-made’ o ad una rivalutazione in chiave benjaminiana di Ausstallungwert. La proposta ‘poetica’ di Fluxus potrebbe essere racchiusa nella formula del massimo coinvolgimento personale ed ambientale che il movimento intende promuovere per poter dare corpo ad una esperienza creativa che, rimossi gli ostacoli delle prammatiche inutilmente prescrittive e, quindi, imbriglianti, muova a creare una circolazione universale di principi e di libertà espressive. Ci piace additare, nella prospettiva di questa considerazione espansiva della cultura cui Fluxus dà corpo, e della sua disponibilità all’inclusione ed alla vocazione espansiva, la personalità, di sensibilità francese-mediterranea, di Ben Vautier che sembra portare con sé la pienezza entusiastica e proiettiva della sua origine di nascita napoletana (1935), e che, dopo l’incontro a Londra con Maciunas, entra a far parte del movimento di Fluxus condividendone completamente l’istanza di promozione di un’’arte totale’, tema vocazionale in cui generosamente si spende. Insieme con Vautier vorremmo ricordare, in aggiunta, un’altra personalità di artista, anch’egli non francese di nascita, ma di cultura transalpina, Fred Forest, che non fa parte direttamente della compagine di Fluxus, ma che a questa indiscutibilmente si apparenta. Giova la sua opera, che si indirizza verso una centralizzazione dell’interesse creativo sulle dinamiche della comunicazione, a mostrare quanto importanti potessero essere le ricerche, sul tema, che andava svolgendo Marshall McLuhan (cui Fred Forest è culturalmente legato) e come, quindi, si dovrebbe poter esaminare la processualità creativa di Fluxus, in punto storico-critico, tenendo conto della dilatazione di orizzonte che questi interventi di ricerca - definiamoli pure ‘paralleli’ - necessariamente inducono. Non a caso, ci siamo già soffermati anche su altre personalità e gruppi (Desiato, Capolongo, ‘Continuum’) che pur non mostrandosi di netta e dichiarata appartenenza a Fluxus, annunciano, nei propri interventi propositivi e nelle proprie profilature identitarie una sorta di affinità elettiva che può essere profittevolmente richiamata a valutazione di comprovazione di quell’assunto che apparteneva alla concezione dello stesso John Cage, secondo cui poteva rendersi possibile che anche altri ricercatori ed artisti sviluppassero, contemporaneamente, convincimenti e prospettive di Weltanshauung di carattere similare; e che sarebbe stato certamente fruttuoso l’incontro con loro per ampliare, anche sul piano della ‘scoperta’ di altre esperienze comparabili, quell’orizzonte vocazionale che, sul piano creativo, puntava dritto sull’obiettivo dell’espansione dell’esperienza creativa e del coinvolgimento percettivo multisensoriale. La prospettiva appena additata di ampliamento e di coinvolgimento percettivo multisensoriale, evidentemente, chiama in causa direttamente il fruitore, considerandolo, però, non come mero utilizzatore finale di un prodotto preconfezionato (cosa di cui offrivano denuncia sia la cultura 'pop' nel doppio versante warholiano e raushenberghiano, sia la cultura 'nouveau-réaliste' di Restany) ma come figura centrale di un accadimento sempre imprevedibile nel suo darsi e 'governato', in fondo, da quel 'principio di indeterminazione' heisenberghiano, che agisce non come attestazione dell'indicibilità ex professo di una proposizione, ma come riconoscimento della attività modificativa che produce il soggetto sulle cose nel momento in cui procede a conoscerle. Né ci sfugge che, alla luce di ciò, possiamo anche immaginare che la prospettiva di Fluxus, opportunamente iscritta, a questo punto, nel quadro referenziale indeterministico heisenberghiano, possa arricchirsi, peraltro, di un potenziamento ‘trasformazionale’ di riferimento chomskyano, giustificandosi capace di legare tra loro, sia pure con apparente manifestazione d'ossimoro, la prospettazione di una ingovernabilità eslege con un bisogno disposizionale di più avvertita istanza ordinamentale. Questo, d’altronde, è quanto avviene, ad esempio, nelle ‘azioni’ prodotte da John Cage, ove il dispositivo preventivamente approntato della strumentazione ‘di scena’ lascia già presagire lo sviluppo della performance annunciandone non certo, però, il testo ‘da eseguire’ pedissequamente, ma la traccia indicativa che si propone evidentemente suscettibile dell’incrementazione ‘trasformazionale’ che, secondo noi, può nascere e far valere producentemente i suoi effetti solo nell’’indeterminazione’ della progressione esecutiva. Appare chiaro che il soggetto, in tutto ciò, non rimane affatto inerte; e contribuisce, di fatto, con la propria partecipazione attiva (che può anche essere il semplice sorridere, o il motteggiare o il rumoreggiare) a costituirsi in co-esecutore della performance, la quale si giova significativamente del contributo degli astanti, che stabiliscono, via-via, un sempre più stretto ed intenso legame di empatia col performer, un legame di feedback che, giova sottolineare. non si rivela affatto neutrale nei confronti del performer. Sarà utile non sottovalutare il dato che l’intero sviluppo della performance ruota sulla condivisione di conoscenze - tra fruitore e performer - che si rivelano, per la particolare condizione di spiazzamento semantico che determinano, delle conoscenze del tutto inedite ed inaspettate.L'azione conoscitiva maturata dal soggetto, in conclusione - e come emerge da una lettura in chiave 'etica' della pregnanza 'estetica' di Fluxus - non si produce senza imprimere una stigmata; e questo dato non può lasciare indifferenti né sul piano del comportamento (etica), né sul piano delle percezioni (estetica).
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La performance di Cage è molto significativamente articolata ed il richiamo al silenzio non costituisce l'appello alla sterilizzazione della attività conoscitiva, quanto, piuttosto, l'appello a rendere l'attività conoscitiva del soggetto più consapevole e cosciente della sua non neutralità nel processo di accertamento empirico prodotto sulla realtà ambientale. Ciò che Heisenberg aveva predicato per il mondo dell'infinitamente piccolo, Cage spiegava che aveva valore anche a livello macroscopico e della consapevolezza umana, determinando che il prodotto estetico - l'oggetto, cioè, della attività percettiva del soggetto - potesse essere riconosciuto come il frutto di un'interazione processuale tra il darsi dell'event e la libertà disposizionale dell'attività del soggetto, spinta nella dimensione di una prospettiva 'eticamente' configurabile nella misura - definiamola pure 'volontaristica' - dello svolgimento dell'happening. Con un salto logico opportuno, potremmo ritenere possibile osservare, in questa lettura critica degli ottenimenti performativi di John Cage, un modo del tutto originale e proprio di accedere alla lettura del dettato filosofico che presiede tutto il lungo svolgimento della filosofia 'personalistica', caricandola di netta profilatura ‘volontaristica’, da Renouvier, a Mounier, a Maritain, a De Rougemont ecc., avendo anche conto, sul piano di ciò che potremmo definire l'etica dell'azione, del pensiero di Sinisgalli, di Olivetti e di La Pira. Una ipotesi di ‘storia’ come 'racconto' di Fluxus. Viene ad emergere il termine di Fluxus intorno al 1960 come proposta di titolo per una rivista che dovrebbe poter valere a storicizzare il processo creativo messo in atto dalla sperimentazione produttiva di quanti, come già John Cage, avevano provveduto a predicare, a far data dagli anni '50, il verbo della necessità di procedere ad una riappropriazione di senso alle cose. In fondo è proprio questo l’intento, forse, più profondo di Fluxus che agisce - come un’avanguardia deve fare - procedendo a demistificare l’ordito simbolistico degli assetti ‘stilisticamente’ configurati di un establishment ritenuto pigro ed asfittico. Di fatto, piuttosto che uscire questa rivista di Fluxus, vede la luce ‘An Anthology’, che ha come sua finalità la conoscenza di quanti sono i protagonisti di questa scena sperimentativa. Anima di tutto ciò è il lituano George Maciunas che non può essere giudicato certamente l’ispiratore di Fluxus come movimento, ma certamente come colui che ha fatto di più per la sua conoscenza e per la divulgazione del suo pensiero. Nel ‘63 vede la luce il Manifesto di Fluxus che illustra nella sua prima parte l’obiettivo del ‘movimento’ di procedere al superamento di una concezione artistica borghese e commercializzata. La seconda parte del Manifesto descrive la necessità di creare una processualità di flusso che valga a promuovere un’onda lunga capace di trasformare profondamente il senso stesso del fare arte, procedendo ad ampliare ed integrare la platea produttivo-fruitiva, immaginando una possibilità di interazione partecipativa tra creatori e destinatari del messaggio artistico. La terza parte del Manifesto individua ciò che potremmo definire la capacità di penetrazione sociale dell’orientamento di flusso che dovrebbe procedere ad avviare una sorta di processo rimodellativo dell’ordine semantico. Fluxus agisce seguendo due direttrici d’intervento che sono rispettivamente orientate ad indirizzare il processo di presentazione delle proprie determinazioni produttive. La prima delle due sceglie il darsi di accadimento dell’’event’ seguendone il suo avvenimento procedente da ragioni imponderabili e proprie, mentre la seconda delle due produce l’’happening’, che mette anch’esso in atto uno svolgimento che si rivela disancorato dalle prammatiche regolamentative ed ordinamentali dei processi, avendo, però, un momento d’avvio che risponde alla logica di un progetto, che non dettaglia, tuttavia, lo sviluppo delle parti, affidando, piuttosto, al déroulement evenienziale la sua processualità performativa. La dirimente tra le due posizioni è sottile, ma non per questo non evidente e chiara nelle sue determinazioni contenutistiche oltre che definitamente ‘formali’; e ciò giova senz’altro a poter descrivere una sorta di promozione procedurale della determinazione creativa secondo un coefficiente di ‘casualità’ che trova nella rispondenza del pubblico alla sollecitazione dell’artista un elemento di peso non certamente trascurabile. Non sarà inutile richiamare anche l’additamento ad un ‘coefficiente di artisticità’ cui faceva riferimento Marcel Duchamp nel tentativo di definire lo spessore dell’intervento del fruitore nella determinazione di ‘senso’ dell’opera d’arte. In fondo, la prospettiva aperta dalle dinamiche ‘concettuali’ trova proprio nel ‘coefficiente artistico’ duchampiano il suo fulcro vitale. Può essere utile azzardare l’ipotesi di una storia di Fluxus, ribadendo che siamo comunque avvertiti che mancano per la sua scrittura i presupposti necessari dell’ancoraggio ad una documentazione che vada al di là delle semplici attestazioni protocollari di dati, anche queste, peraltro, non sempre indefettibilmente certe e, soprattutto, capaci di perimetrare l’estensione spazio-temporale delle fasi dell’intero processo di Fluxus in tutte le sue componenti e le sue parti. Fluxus, occorre subito dire, non è un processo unitario. Certamente vi giganteggiano alcune personalità, in primis, quella di John Cage, ma ciò non vale a farne un movimento compatto, essendo, piuttosto verificabile non solo una netta partimentazione tra l’anima americana e quella europea - pur all’interno di una condivisione delle ragioni di fondo - ma anche quella singolarmente definita tra le varie personalità di artisti che vi vengono accreditate. Il nucleo fondante di Fluxus può essere considerato quello che si addensa intorno proprio a John Cage ed alle sue teorie di musica sperimentale che si sviluppano tra il ‘56 ed il ‘58 nella New School for Social Research a New York, ove troviamo le personalità di George Brecht, Dick Higgins, Jackson Mac Low, Allan Kaprow ed Al Hansen. Alla personalità di Kaprow va accreditato il merito della nascita dell’happening che può essere definito come un Environment al cui interno si dispone una sorta di ‘condizione’ di spazialità che si articola come processualità non necessariamente linearistica della consistenza temporale, giustificata, garantita e sostenuta dall’assemblaggio di un certo quantitativo di oggetti. Siamo nel 1958, anno in cui George Brecht pone l’accento sulla praticabilità dell’event che dovrebbe poter valere come definizione di una processualità creativa che produce una esperienza multisensoriale. Appare evidente che tra happening ed event si deve considerare una differenza sostanziale che vale a qualificare l’happening come una condizione di intervento creativo di più netta ‘costruzione’ del processo, laddove l’event si consegna in modo più disponibile ad una fluttuazione libera da condizionamenti di alcun tipo. Nell’uno come nell’altro versante, il ‘caso’ gioca un ruolo fondamentale, dal momento che nulla deve poter essere previsto; e ciò che l’artista provvede a ‘costruire’ o ad 'accettare' sono solo le condizioni - materiali nel caso dell’happening e situazionali nel caso dell’event - per poter produrre lo svolgimento dell’azione creativa. Jackson Mac Low e Dick Higgins enfatizzeranno notevolmente il significato proprio della casualità ed altrettanto farà Hansen nel mettere ancor più significativamente in rilievo la condizione creativa come quella di un intervento da intendersi di time-space art. Gli spazi espositivi cui fanno riferimento questi giovani artisti sono quelli newyorkesi della Reuben Gallery, della Judson Gallery e della AG Gallery di George Maciunas, personalità, quest’ultimo, che sa rivelarsi compagno di strada ideale ed interprete delle ragioni profonde che animano questa generazione di giovani sperimentatori. Come abbiamo già indicato, Maciunas si trasferisce in Germania - ciò avviene dopo la chiusura della sua galleria - ed in Germania entra in contatto con i gruppi, che si erano formati in quello stesso giro d’anni della fine dei ‘50, della Action Music e del Dé-Coll/Age promossi da personalità come quelle di Wolf Vostell e di Nam June Paik cui si aggiungono anche altri americani come Dick Higgins che vi giunge con sua moglie Alison Knowles che sarà un altro personaggio fondamentale nella evoluzione di Fluxus, decisivo, peraltro, per la sua divulgazione espansiva. In fondo, è proprio questo il contesto in cui nasce Fluxus come movimento consapevole di sé; e come appuntamento decisivo di cui occorre aver conto come una prima esperienza di notevole capacità assorbente che seppe dimostrare il movimento va ricordato quello di Wiesbaden del 1962. Nel ‘63 il baricentro di Fluxus è di nuovo negli Stati Uniti e qui nasce il progetto di una rivista che veniva concepita con l’appellativo di ‘Fluxus’, da una cui costola nasce il quaderno di ‘An Anthology’, ad opera di La Monte Young e di Mac Low, con Maciunas che faceva da mentore di tutta l’operazione e promuoveva anche il 'Flux Yearbox', mentre Vostell, in Germania, usciva con delle pubblicazioni legate a Dé-Coll/Age. Anche Higgins si lancia nella pubblicazione di testi che ‘raccontano’ le vicende di Fluxus, ma siamo, già, ormai, con la metà incalzante degli anni ‘60, alla fine del momento aureo del fenomeno Fluxus. Maciunas comprende che il processo sta subendo una sua svolta involutiva e cerca di correre ai ripari provando di - se ci si può consentire questa espressione - istituzionalizzarne lo svolgimento: si comprende bene che tutto ciò significava rinnegare i principi stessi di Fluxus imbrigliandone la libertà espansiva in una costrizione organizzativa. Descrivere lo svolgimento degli happenings come degli events di Fluxus è cosa quanto mai complessa; se ne potrebbe suggerire un approccio ecfrastico, che finirebbe con l’avere un suo ‘valore’ di autonomia creativa derivativa a muovere dall’istanza propositiva di Fluxus: la mera descrizione dei processi, evidentemente non può produrre che una fredda visitazione cronachistica o intellettualistica assolutamente incapace di rendere il clima di forte partecipazione che distingueva i ‘concerti’ soprattutto iniziali di Fluxus, tra cui, quello di Wiesbaden svoltosi dal 1 al 23 settembre del ‘62 rimane un appuntamento storico di memorabile rilievo, nelle cui performances si scorge lo svolgimento ‘concettuale’ del pensiero di personalità come quella di La Monte Young, di Ben Patterson, di Dick Higgins e di Alison Knowles. Vorremmo sottolineare ancora un dato, a nostro giudizio molto importante: che quelle degli artisti che hanno dato vita al movimento di Fluxus sono state tutte personalità di spiccato profilo culturale ed intellettuali raffinatissimi: pensiamo, ad esempio, a Ben Patterson o allo stesso Dick Higgins, così come a Maciunas ed, evidentemente a John Cage e, non meno a George Brecht. Le loro pubblicazioni, lo spirito di ricerca e di impegno profuso sembrerebbero contrastare con l’idea che essi lasciano affermare di sé come delle personalità ispirate da una concezione eslege e contestataria, disponibile iconoclasticamente alla distruzione di modelli culturali giudicati obsoleti ed incapaci di dar luogo ad altro che non sia l’indeterminatezza della confusione caotica. C’è, invece, in loro un’istanza più profonda, quella che traspare, in fondo, dalla stessa prospettiva di Intermedia di Higgins, in cui ciò che si propone è l’appello ad una concezione ampia e diffusiva della comunicazione e della espressione in una riunione aurea degli strumenti e dei linguaggi in un processo di coinvolgimento partecipativo allargato e comprensivo, inclusivo di particolarità e specificità. Contestatori colti e raffinati, insomma, quelli di Fluxus: un po’ come lo erano i protagonisti della ‘Beat Generation’. Ma questo è altro discorso. In una mia ricerca storiografica e scientifica sul Movimento Fluxus apro il mio saggio dicendo: Io penso che è possibile inserire Fluxus a pieno titolo nell’alveo dei movimenti che danno vita alla Neoavanguardia all’alba della seconda metà del Novecento? Quali sono le ragioni che inducono a sostenere questa tesi? E ancora, cosa rende Fluxus un degno prosecutore delle teorie e delle pratiche introdotte dalle Avanguardie Storiche? Quelle che potrebbero apparire come domande retoriche o addirittura come una provocazioni in stile fluxista, in realtà sono gli stimoli per indagare il movimento senza declinarlo immediatamente e in modo del tutto parziale come una corrente neo dadaista degli anni Sessanta. Fluxus è nato come un’incognita critica e tale è rimasto per molto tempo, sia per l’oggettiva difficoltà nell’analisi di un fenomeno dai contorni indefiniti sia per essersi autoproclamato come privo di identità certa. Chi sceglie di sporgersi dal baratro e provare a fissare ciò che accaduto negli anni della genesi di Fluxus e in tutte le manifestazioni che sono seguite, affronta il grande rischio di perdere le coordinate, immergendosi fino ad essere travolto nel flusso inarrestabile dell’indeterminatezza. La domanda a cui è necessario dare risposta prima di tutto è “Che cos’è Fluxus?”. Fluxùs ovvero fluido, liquido, pendente, fluente, ondeggiante, cadente, malsicuro, fragile, instabile, debole, fiacco, indebolito, incostante, volubile, dissoluto, effeminato, passeggero, effimero, di breve durata. Il significato letterale, o meglio la schiera di significati, della parola latina è stato decretato nel tempo come la migliore definizione del più radicale e sperimentale movimento artistico degli anni Sessanta. In sostanza ciò che rende possibile lasciare aperte tutte le eventualità semantiche è proprio la costante terminologica: Fluxus è flusso. Spesso per questo è stato affiancato ad altri flussi, più o meno nobili , il cui grande impatto è indubbio. Flussi che, attraverso l’energia acquisita dalla forza di gravità, proprio come Fluxus si abbattono su tutto ciò che impedisce il loro scorrere e lo investono inondandolo. Fluxus è avanguardia? Per comprendere la natura del fenomeno e collocarlo storicamente senza timore di riduzioni concettuali, ripartiamo dall’analisi terminologica. L’abusato lemma ‘avanguardia’ ha una storia ormai nota e sedimentata che prende vita a seguito di uno spostamento di area semantica: dal bellico al politico, fino all’estetico. «L'avanguardia è un reparto di sicurezza che le unità, durante le marce in vicinanza del nemico, distaccano avanti, nella direzione del loro movimento» è una definizione rintracciabile nei testi enciclopedici. L’idea di fondo che si evince dalla descrizione riportata è la posizione avanzata che il reparto avanguardista assume rispetto al resto delle truppe, incarnando il ruolo di ariete, di primo scontro con il nemico. L’avanguardia si colloca fisicamente più avanti, ha una posizione di vantaggio nei confronti delle altre truppe perché può scorgere il nemico prima degli altri e, in alcuni casi ricerca lo scontro frontale per aprire un varco, allo stesso tempo però si trova svantaggiata perché le sue azioni offensive si volgono in un territorio ostile dominato dall’avversario. È avanguardia allora, potremmo dire, ciò che si pone in prima linea contrapponendosi ad una fazione nemica, producendo una breccia. Se l’apparizione del termine avanguardia in riferimento a fatti e movimenti artistici e di critica è databile alla fine del XIX secolo, non si può certo dire che la popolarità del concetto e della sua applicazione diminuisca successivamente, anzi, con l’avanzare degli anni esso assume connotati sempre più precisi tanto da definirsi come mito o come categoria. L’intenzione avanguardista è la rottura di un modulo, uno schema, un sistema, un’abitudine che si è ripetuta nel tempo, irrigidendosi e dando luogo a regole istituzionalizzate come limiti. Tendo di fornire un’interpretazione specifica del carattere avanguardista nell’arte calandola in un contesto ampio di contrapposizione alla società, a qualsiasi genere di logica conservativa, ad ogni forma di inerzia rispetto alle condizioni e ai condizionamenti esistenti. Invece che indugiare sull’imitazione, sulla continuazione di ciò che è dato, o, ancora peggio, rivolgersi al passato, l’arte d’avanguardia deve configurarsi come un faro acceso sul futuro. «Guai a chi si lascia afferrare dal démone dell’ammirazione! Guai a chi ammira ed imita il passato! Guai a chi vende il suo genio!» è il monito futurista che mette in guardia verso la venerazione dell’antico, del vetusto. L’avanguardia si immedesima nel futuro e si batte per esso, subordinando il prodotto estetico al processo di liberazione delle forze nuove. L’arte diventa attività totale, negandosi e autocriticandosi come attività separata: si giunge sino alla dissacrazione dell’arte e alla proposta di distruzione delle categorie usurate e obsolete. Lo scontro con il passato è un leitmotiv dell’avanguardia artistica, tutto ciò che risulta essere antecedente al movimento si riconosce come l’obiettivo dell’attacco, aggressivo, destrutturante o parodistico a secondo dei casi, sferrato senza mezzi termini. Il passato dunque come categoria temporale in quanto rappresentazione di una condizione umana e della società superata o da superare, ma anche il passato come atteggiamento di blocco, di chiusura verso un’idea di progresso che è possibile riscontrare nel concetto di ‘passatismo’. Il rifiuto del passato è consustanziale all’elogio del presente, come celebrazione della vita, del momento, dell’attimo vissuto, dell’hic et nunc. «L'arte è per noi inseparabile dalla vita. Diventa arte-azione e come tale è sola capace di forza profetica e divinatrice» afferma Filippo Tommaso Marinetti nel 1919, portando prepotentemente l’assioma ARTE = VITA nello statuto dell’avanguardia come sviluppo della concezione antipassatista. La vita, o meglio l’energia vitale, è l’arma capace di sconfiggere l’apatia, la passività, l’indolenza dovuta alla ripetizione di schemi stantii. «La vita è per i dadaisti il senso dell’arte» sostiene Hans Arp sviluppando ed estendendo le potenzialità rivoluzionarie del pensiero futurista, annunciando la possibilità di una dissoluzione dell’arte nella vita. Per vita il pensiero avanguardista intende proprio la vita quotidiana, la vita di tutti i giorni, i gesti semplici, le abitudini a cui non si presta molta attenzione e che proprio per questo motivo devo essere “rivitalizzate”, galvanizzate, elevate o “abbassate” ad opera d’arte. Francesca Alinovi a proposito dell’agire dadaista sostiene che «l’arte, dunque, invade la dimensione della vita quotidiana e spettacolarizza il comportamento dell’artista, operando una vera rivoluzione a livello di costume». Essere antipassatisti, moderni, o ultramoderni è caratteristica comune delle avanguardie, quantomeno quelle storiche, anche se in queste formulazioni è però necessario notare la differenza nel trattamento della ‘tradizione’. Mentre il Futurismo si professa assolutamente antitradizionalista, una linea che da Dada arriva fino a Fluxus incorpora la tradizione nella ricerca del nuovo attraverso la costruzione di una propria tradizione che volta per volta viene ricercata in un passato prossimo o remoto e piegata al ritrovamento di una traccia sotterranea, trans-storica. L’opposizione al passato è, infine, anche la volontà di abbattere il dominio del razionale, del logico, del sistematico di cui è portatrice la società capitalistica. Nella dialettica dell’avanguardia si inserisce la categoria del ‘nuovo’, che non si deve confondere con il ‘moderno’, nell’accezione ampia di espressione della radicalità della rottura con l’intera tradizione artistica, non solo con i procedimenti artistici e i principi stilistici del passato. L’introduzione della novità è riferita tanto al cambiamento dei sistemi di rappresentazione quanto alla messa in discussione dell’istituzione arte, dei suoi canoni, dei suoi luoghi, dei suoi protagonisti e del loro ruolo. Il superamento delle convezioni di un’arte classicamente intesa come rappresentazione, pittorica, scultorea o ancora realistica, la volontà degli artisti di porsi in termini antitetici nei confronti delle istituzioni, a volte perfino del pubblico, o la necessità di rompere gli steccati tra le discipline, sono ormai capisaldi del pensiero critico, assunti e condivisi in larga misura. Il Futurismo che può essere considerato il primo movimento d’avanguardia provvisto di un’ideologia globale, artistica ed extrartistica, abbracciante i vari campi dell’esperienza umana, dalla letteratura alle arti figurative e alla musica, dal costume alla morale e alla politica, viene anche definito come prototipo dell’avanguardia. Una caratteristica fondamentale che l’avanguardia desume dalla parabola futurista è l’operare in gruppo. Nello sviluppo dell’avanguardia esistono gruppi più o meno solidi, ciò non toglie che l’aggregazione sia elemento fondamentale per garantire l’interazione tra gli artisti, soprattutto quando essi provengono da diversi campi della cultura.
L’avanguardia, infatti, ha un carattere transdisciplinare, non tenta di convogliare il proprio istinto al cambiamento in unica direzione, ma muove contemporaneamente su diversi fronti. L’azione del gruppo è unitaria spesso quando è sottoposta o organizzata da una figura carismatica, come nel caso di Marinetti per il Futurismo o Breton per il Surrealismo, mentre nel caso di Dada, per esempio, che in un certo senso rappresenta l’antitesi dell’avanguardia, si può parlare di un policentrismo. Un numero di elevato di «gruppuscoli» dotati di un forte legame tra loro, ma allo stesso tempo distinti, separati, per non dire lontani, anche dal punto di vista geografico (Zurigo, New York, Berlino, Parigi, Colonia, etc.). L’avanguardia tende storicamente ad un universalismo che supera le mere connotazioni nazionali, sia in termini di poetiche, sia per la dimensione transnazionale degli stessi movimenti. È naturale per l’avanguardia inoltre misurarsi con l’impatto sociale e antropologico delle innovazioni tecnologiche, a volte ponendosi nella prospettiva di assumerne in pieno il carattere migliorista, pensiamo all’elogio della velocità nel Futurismo, altre volte opponendo un rifiuto integrale o dimostrando un’apparente indifferenza. L’avanguardia si è concretizzata come un’utile categoria di analisi sia per i movimenti che hanno partecipato alla costruzione della categoria stessa, sia per tutte le tendenze successive che in un modo o nell’altro si sono dovute confrontare con l’impostazione di un modello. Ciò non toglie che sia esistito, e in parte sia ancora in corso, un abuso del termine avanguardia svincolato da precisi percorsi storici, che ha portato ad uno svuotamento di significato anche attraverso la contrazione temporale dell’alternanza tra novità e ritorno alla tradizione, tra aperto e chiuso, tra “caldo” e “freddo”. Esiste la necessità di analizzare l’arte d’avanguardia come concetto storico, come centro di tendenze e idee, isolandone le caratteristiche primarie e valutando la «prosecuzione come diversità» nelle cosiddette Neoavanguardie. La nozione di avanguardia, così come era stata strutturata in precedenza e incarnata da specifiche entità in un periodo preciso, si confonde e si frammenta al bivio successivo, quello della metà del secolo. Si perdono alcuni connotati, in parte si afferma l’idea che le seconde avanguardie abbiano un rapporto di parentela con le prime, in certi stretto al punto da essere assimilate e giudicate secondo gli stesi criteri come se appartenessero a fronte unico. Le parole di Renato Barilli si riferiscono all’ambito letterario, ma non è difficile traslare la stessa questione sul piano artistico. Se è vero infatti che le Neoavanguardie condividono pensieri e processi delle Avanguardie Storiche e se è lecito affermare che le prime proseguano sentieri e percorsi già ben avviati dalle seconde, ciò non toglie che nelle più recenti si possano trovare elementi di originalità precipui. La Neoavanguardia, proprio in virtù di essere “normalizzazione” ed estensione dell’avanguardia, punta sugli artisti come struttura sociale in grado di trasformare la realtà. Si ha fede nel fatto che il lavoro artistico possa avere un’incidenza nella vita quotidiana e che possa essere partecipe di un cambiamento dell’arte. È l’agire stesso nel quotidiano che diventa pratica artistica ed estetica, superando in alcuni casi le questioni di carattere formale. Si impone per le Neoavanguardie un processo di comprensione, metabolizzazione e scavalcamento della prassi avanguardista, pena la riduzione ad una semplice copia o duplicato di esperienze già sviluppate ed esaurite. Fluxus, come vedremo, poggia saldamente le sue basi sulle Avanguardie Storiche, ne condivide propositi e progetti, si pone sulle traiettorie segnate dai movimenti che l’hanno preceduto aprendo la strada ad una nuova concezione dell’arte. Fluxus, come gruppo di artisti unito entro una formula riconoscibile, si colloca nel solco di una tradizione novecentesca che più volte è stata richiamata nelle trattazioni critiche. L’analisi delle Avanguardie Storiche ha evidenziato con precisione alcune costanti che ritornano, pur con le dovute differenze, in tutte le esperienze ascrivibili a tale clima e che vengono riproposte, con scarto temporale e semantico, dalla “seconda ondata” degli anni ’60. Un elemento fondamentale che lega l’attività di movimenti quali Futurismo, Dadaismo e Surrealismo è la redazione di uno o più manifesti. Il manifesto si presenta, nella maggior parte dei casi, come un testo poetico in cui vengono raccolte le principali intenzioni del movimento, redatte da un capo carismatico o da colui che si presenta come il portavoce. Nell’evoluzione di questi schieramenti si evidenzia la necessità di autodefinizione, di scrittura autoprodotta della propria storia attraverso l’affermazione di intenti, proposte, visioni sul futuro dell’arte e dell’operare artistico. A partire da una osservazione dell’esistente, nella redazione di un manifesto, vengono spesso stigmatizzate le caratteristiche ritenute negative del presente e soprattutto del passato alle quali si intendono sostituire nuove formule. Se per il Futurismo è possibile parlare di una distruzione totale alla quale sarebbe succeduta una ricostruzione futurista dell’universo, già in molti scritti di ambito dadaista si fa strada la provocazione e la derisione, che in Fluxus diventa rifiuto, negazione. I movimenti d’avanguardia sentono una necessità del manifesto, anche quando questo strumento sembra contraddire la sua funzione primaria. L’affermazione del criterio di ‘differenza’ secondo cui un movimento, un gruppo di artisti propone una cesura rispetto a tutto ciò che l’ha preceduto, dimostra la sua efficacia e trova la sua migliore realizzazione proprio nella redazione di uno scritto che traduce il pensiero collettivo. Siamo in grado di sostenere che spesso, i manifesti, le lettere, i documenti autografi, abbiano un valore intrinseco, diverso rispetto alle opere, a volte perfino superiore. Nel manifesto, nella sua forma novecentesca, è contenuto il tentativo del superamento dell’opera d’arte, esso infatti intende delineare una realtà, una condizione futura, che gli artisti dovrebbero incarnare, ma che ancora non è stata realizzata. Fluxus si pone al bivio tra l’opera e il manifesto: da un lato la pratica di redigere manifesti, quasi sempre senza firmatari, è desunta dalle Avanguardie Storiche e portata alle estreme conseguenze; dall’altro è impossibile non includere nella lunga sequenza di esternazioni anche opere di carattere testuale, prodotti ibridi la cui portata concettuale è innegabile. Il primo elemento che viene alla luce nell’elaborazione del teorema Fluxus è la parola stessa, il cui conio, neanche a dirlo, è coperto da un alone di mistero. La prima volta che viene usata da George Maciunas, “Fluxus” è il titolo di una nascente rivista per cui si chiede la collaborazione economica durante uno degli eventi organizzati alla AG Gallery per la manifestazione Musica Antiqua et Nova tra il 1959 e il 1960. Una rivista, un libro, una pubblicazione e nient’altro. Maciunas racconta (o sceglie di raccontare) la venuta alla luce di una delle sua idee migliori come pura casualità, anzi di decretarne l’effettiva insignificanza ai fini di ciò che sarebbe realmente accaduto. La scelta della parola risale all'ottobre del 1960, quando viene pensata come il titolo di una rivista, organo per un nascente Lituanian Cultural Club a New York. La parola è perfetta, incredibilmente duttile e sufficientemente vaga, quindi una volta persa questa prima occasione, essa rimane in trepidante attesa del nuovo utilizzo. In poco più di un anno, entro la fine del 1961, Maciunas aveva progettato i primi sei numeri della rivista mai pubblicata, attribuendo a se stesso il ruolo di editore e caporedattore, con un fitto programma di uscite che sarebbero dovute apparire nel febbraio del 1962 e, successivamente, continuare su base trimestrale. La rivista avrebbe voluto fornire un’ampia panoramica sui fenomeni culturali di maggiore interesse visti attraverso una lente multidisciplinare. Maciunas prevede di includere articoli sulla musica elettronica, l'anarchismo, il cinema sperimentale, il nichilismo, gli happening, il Lettrismo, la poesia sonora, e anche la pittura, con numeri tematici dedicati agli Stati Uniti, Europa Occidentale, Europa dell'Est e Giappone. Il primo numero della rivista Fluxus avrebbe dovuto ospitare una antologia di opere, a seguire, dopo le pagine dedicate ad articoli, saggi ed interviste. I prodromi della sezione costruita come un’antologia di opere e scritti prodotti dagli artisti sono da ricercare nella pubblicazione che a più voci è stata definita l’anticipazione eccellente alla nascita di Fluxus, come rivista e come gruppo organico, An Anthology. La realizzazione di una grande antologia di artisti e opere come mappa di un contesto artistico multiforme e in evoluzione, si deve al lavoro svolto da La Monte Young per la prima edizione di Beatitude East. Il poeta Chester Anderson, editore di Beatitude, dopo il trasferimento da New York in California nel 1959, contatta Young per contribuire ad un numero della rivista, sapendo che il musicista sperimentale stava già raccogliendo event scores, performance scores e altri documenti tra Berkeley e New York con l’aiuto di Jackson Mac Low.
Maciunas entra nel gruppo di lavoro quando è chiaro che la rivista non vedrà mai la luce e, forte dei contatti e del materiale garantito dalle rete di conoscenze e dall’archivio costituiti fino a quel momento, accetta di occuparsi dell’impaginazione grafica e del finanziamento della stampa. Il volume An Anthology viene stampato la prima volta solo nel 1963, pur essendo pronto già dalla fine del 1961, e costituisce per molti versi la rappresentazione in nuce di alcune caratteristiche fondamentali dell’atteggiamento Fluxus, e della ‘macchina operativa’ che Maciunas mette in moto per conservarlo. Non a caso il lavoro che l’artista lituano svolge, insieme a Young e Mac Low, è stato definito come un momento di «educazione e formazione». Come nel caso degli eventi e delle perfomance, anche la questione del nome del gruppo divide la sua apparizione tra gli Stati Uniti e l’Europa. Nel 1961 infatti Maciunas è costretto a lasciare la Grande Mela in seguito a diversi fallimenti, compreso quello della galleria d’arte, e ha trasferirsi in Germania accettando l’incarico di architetto e designer per l’esercito americano. Non perde di vista l’obiettivo di realizzare la rivista anzi sfrutta il trasloco oltreoceano per aprire nuovi canali di comunicazione e allargare la già ampia schiera di artisti che meritano di essere pubblicati. Il primo celebre festival del 1962 prenderebbe il via proprio come momento di propaganda necessaria alla produzione e alla stampa delle pagine che avrebbero dovuto comporre il primo numero del magazine. In questo contesto pare ancora lontana la redazione di un manifesto, un unico documento capace di coniugare intenzioni, attitudini e visioni di una sempre più folta schiera di artisti visivi, musicisti, poeti e performer. La necessità di un manifesto è al centro di alcune discussioni che accompagnano lo scorrere dei concerti e delle serate del Festspiele, il foglio invece viene distribuito per la prima volta durante il Festum Fluxorum di Düsseldorf nel 1963, terza uscita pubblica per Fluxus che segue gli analoghi a Copenhagen e Parigi, senza contare l’esordio di Wiesbaden. La presentazione è sobria, minimale, un foglio stampato, un collage in cui compaiono alcune frasi riprodotte direttamente a mano. I contenuti delle parti stampate con testi bianchi su fondo nero sono brani tratti dalla definizione della parola ‘flux’ riportati direttamante dal Webster Collegiate Dictionary, mentre le dichiarazioni manoscritte che si alternano recitano. L’idea di utilizzare la definizione del dizionario era già stata utilizzata da George Maciunas all’inzio del Tentative Plan for Contents of the First 7 Issues, rilasciato nel tardo 1961, in cui aveva riorganizzato cinque dei diciassette significati presenti, spiegando l'uso del termine Fluxus collegandolo all'idea di ‘purgare’ e la sua associazione con le viscere. Nel 1963, queste definizioni potrebbero non interpretare a pieno le intenzioni di sviluppo di Fluxus, e Maciunas decide di promuovere tre particolari sensi della parola: purga (purge), marea (tide) e fusione (fuse), ciascuna evidenziata da maiuscolo o sottolineatura. Estratte come concetti guida, enfatizzate dal commento, queste sono state affinate al punto in cui potevano finalmente essere incorporate in un collage, tripartito, insieme a fotostatiche di otto delle definizioni del dizionario. Gli obiettivi di Fluxus, come indicato nel Manifesto del 1963, sono straordinari, in contatto con le idee radicali in fermentazione nello stesso periodo. Il testo suggerisce affinità con le idee di Henry Flynt, così come collegamenti con gli obiettivi di movimenti d’avanguardia all’inzio del XX secolo. La prima delle tre sezioni del Manifesto rivela che l'intento di Fluxus è quello di purgare il mondo dell'arte morta, astratta, e illusonistica alla quale si sarebbe sostituita un’ ‘arte concreta’, che Maciunas identificherebbe con il reale, o il ready-made. Le origini di quest’ ‘arte concreta’, come l'ha definita, sarebbero da ritrovare negli oggetti ready-made di Marcel Duchamp, nei suoni ready-made di John Cage, e nelle azioni ready-made di George Brecht e Ben Vautier. In questa prima sezione del Manifesto afferma inoltre che Fluxus si propone di eliminare dal mondo i sintomi della ‘malattia borghese’ come la cultura intellettuale, professionale e commercializzata. L'ultima frase di questa sezione del Manifesto si riferisce al purgare il Mondo dal cosiddetto ‘Europanismo’. Maciunas intende qui riferirsi da un lato all'eliminazione di concetti diffusosi in Europa, come l'idea di artista/professionista, l’arte per l’arte come ideologia ed espressione dell'ego dell’artista, e dall'altro alla necessità di apertura alle altre culture e di una visione globale.
La seconda sezione del Manifesto, che si lega al concetto di flusso come ‘marea’, è costruita in opposizione alla prima: l’attenzione viene centrata sul ‘promuovere’ una visione di arte diversa, vivente, un’anti-arte che possa essere prodotta e di cui possano beneficiare tutti, indipendentemente dal ruolo o dalla conoscenza. Nella terza sezione, infine, viene ostentato l’accento rivoluzionario, il desiderio di Maciunas di fondere i comparti culturali per un unico scopo sociale. Una delle strategie di base per l’ottenimento dello scopo è stato proprio l'impiego della parola Fluxus come termine che, al di là del titolo della rivista, fungesse da ‘confezionamento verbale’, in cui ogni individualità avrebbe potuto trarre beneficio dalla promozione collettiva. È indubbio percepire un tono imperativo: il testo redatto, durante la lettura, risuona come una declamazione, o meglio come un estratto da un comizio al quale si fatica ad attribuire una posizione chiara. Se da un lato si esplicitano le condizioni contro le quali si lotta, dall’altro non si spiega come si intende farlo e quali strategie verranno impiegate per attuare la “rivoluzione”. In questo senso il Manifesto è la diretta conseguenza del clima di negazione creato intorno alla definizione di Fluxus, durante gli anni dell’elaborazione: il tentativo di delineare una forma, una struttura, uno statuto passa attraverso l’elencazione di ciò che non si è e di ciò che non si vuole essere. L’eco dell’aggettivo ‘borghese’, definito come un male a cui somministrare la cura, porta con sé riferimenti indubbiamente politici in parte ascrivibili alla formazione giovanile di Maciunas, ma fortemente legati a una tradizione avanguardista che vuole l’arte come strumento di cambiamento sociale. È sempre Maciunas in una lettera a Thomas Schmidt a sostenere: «gli scopi di Fluxus sono sociali, non estetici. Essi possono essere messi in relazione ideologica con quelli del gruppo LEF nell’Unione Sovietica del 1929, e sono questi: graduale eliminazione delle belle arti (musica, teatro, poesia, pittura, scultura, ecc.)». Allo stesso tempo il riferimento alla volontà di purificare il mondo da quello che viene definito ‘Europanismo’ ha sia un significato di protesta contro la centralità europea nel dibattito artistico, nella pretesa di identificarsi come luogo prediletto dell’Avanguardia, che una sottesa componente politica rinforzata nell’asserzione finale in cui si invoca la fusione con il comparto sociale e culturale in un unico fronte. Di fronte a tali prese di posizione non è difficile riscontrare assonanze con gli impeti distruttivi del primo manifesto futurista. Nel celebre testo che Filippo Tommaso Marinetti promulga, affidando la sua diffusione alla pubblicazione sulle pagine de Le Figarò, è palese l’urgenza di rivolta contro l’esistente e lo scarto richiesto rispetto al passato, anche in modo prepotente. Ma la grande svolta degli anni ’60, ovvero quel momento in cui si produce un profondo rinnovamento nella pratica artistica che avrà conseguenze su tutti gli avvenimenti della seconda metà del XX secolo, è il compimento di un percorso iniziato in seno alle Avanguardie Storiche che ha un’estensione anche nel decennio precedente: gli anni ’50. L’arte visiva in quegli ha una dominante certa dettata dal protrarsi della parabola informale che permea il contesto europeo e mondiale nell’arco di un ventennio, con avvii databili negli anni ’30. Per questo genere di ricerche il quadro, la tela rimangono degli elementi essenziali sia come supporto dell’opera d’arte che come spazio di ricerca prediletto, qualunque sia l’intenzione artistica individuale o collettiva. Gli anni ’50 invece si aprono ad una battaglia che vede impegnati gli artisti contro i limiti fisici e concettuali del quadro e della cornice, condizione necessaria perché l’opera conquisti lo spazio reale, occupandolo, e perché l’artista, il suo gesto, la sua azione divenga essa stessa opera guadagnando lo statuto di comportamento. Senza voler anticipare frettolosamente gli esiti che sono merito indiscusso delle Neoavanguardie, è molto utile ai fini della nostra trattazione ricostruire un contesto che ha contribuito attivamente al raggiungimento di tali risultati. Dopo le ricerche effettuate dal Futurismo che inseguiva la chimera della rappresentazione del movimento nel suo essere vortice, nella velocità e rapida immediatezza del moto, un gruppo di artisti osa andare oltre, penetrando letteralmente nello spazio. Accade nel 1947 proprio a Milano, città emblema del Futurismo, ad opera di Lucio Fontana, artista argentino di nascita e milanese di adozione. L'idea è una rivoluzione totalizzante che come spesso accade non viene compresa immediatamente nella sua enorme portata.
Lo spazio rivede completamente il suo ruolo nel fare artistico: da luogo di sviluppo di una rappresentazione diventa strumento di comunicazione, protagonista sollecitato. Su questo tema nel 1946 a Buenos Aires viene redatto da Fontana il primo manifesto ‘Manifesto Blanco’ che parla di esigenze dell'uomo diverse, non più soddisfatte dalla figura, dal colore e dalla materia, rivolgendosi ad una nuova arte capace di sintetizzare in un solo gesto reso eterno, il tempo e lo spazio. Nel 1947 l'artista si trova a Milano e con un gruppo di intellettuali redige il primo Manifesto dello Spazialismo dove si dichiara di voler svincolare per sempre l'arte dalla materia per renderla veramente eterna. La nuova espressione artistica non è più oggettivante ma si basa solo sulle sensazioni ambientali che si riescono a percepire, sullo spazio nel suo essere arte e possibilità. Con l'Ambiente nero, Fontana intende andare oltre la bidimensionalità della tela o la tridimensionalità della scultura creando un opera dove è possibile entrare: l’arte fa un passo in avanti verso l’abbandono della rappresentazione bidimensionale per entrare nella dimensione ambientale. Già nel 1947 Fontana, nella stesura del primo manifesto del Movimento Spaziale, dichiarava il suo impegno ad invadere la terza dimensione, e, non pago, annuciava la volontà di annettere la quarta dimensione. Nelle righe del manifesto, infatti, si legge di una passione per l’età barocca, promotrice, secondo gli spazialisti, di tutte le ricerche spaziali, «momento in cui gli artisti "aggiungono alla plastica la nozione di tempo" e "comincia la rappresentazione dello spazio"». L’Ambiente Spaziale realizzato nel 1951 per la IX Triennale di Milano, preceduto da quello esposto alla Galleria del Naviglio nel ’49, è la realizzazione di una tanto invocata irruzione nello spazio reale perpetrata attraverso il mezzo simbolo della nuova era: l’energia elettrica. La pittura fino a quel momento era rimasta pressoché rinchiusa nel telaio che delimita il gesto dell’artista, «mentre con un solo atto radicale e decisivo, ripetuto poi molte altre volte per i due decenni successivi, Fontana annuncia e permette lo sviluppo di tutta la problematica dell’environment». Fontana, appresa la lezione futurista di porre lo spettatore al centro del quadro, sviluppa gli accenni compressi nei tentativi di inizio secolo in uno spazio effettivo e concreto, animato, rivitalizzato dalle scariche luminose. Il sentiero aperto dagli ambienti spaziali conduce direttamente ai riverberi spaziali delle installazioni al neon di Dan Flavin, come del resto anticipa l’incedere degli oggetti galvanizzati dai tubi di gas luminescente dell’Arte Povera. Parallelamente Fontana inizia ad infliggere piccole torture alla tela pittorica, contestualmente alla serie dei Concetti Spaziali, che in un primo tempo si limitano a dei buchi e progressivamente si concretizzano in veri e propri tagli che permettono allo sguardo di valicare la soglia del quadro. Nel 1952 poi Fontana stende, insieme al gruppo dei firmatari il Manifesto del Movimento Spaziale per la Televisione in si legge Noi spaziali trasmettiamo, per la prima volta nel mondo, attraverso la televisione, le nostre nuove forme d'arte, basate sui concetti dello spazio, visto sotto un duplice aspetto: il primo quello degli spazi, una volta considerati misteriosi ed ormai noti e sondati, e quindi da noi usati come materia plastica; il secondo quello degli spazi ancora ignoti del cosmo, che vogliamo affrontare come dati di intuizione e di mistero, dati tipici dell'arte come divinazione. La televisione è per noi un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti. Siamo lieti che dall'Italia venga trasmessa questa nostra manifestazione spaziale, destinata a rinnovare i campi dell'arte. E' vero che l'arte è eterna, ma fu sempre legata alla materia, mentre noi vogliamo che essa ne sia svincolata, e che attraverso lo spazio, possa durare un millennio, anche nella trasmissione di un minuto. Le nostre espressioni artistiche moltiplicano all'infinito, in infinite dimensioni, le linee d'orizzonte; esse ricercano un estetica per cui il quadro non è più quadro, la scultura non è più scultura, la pagina scritta esce dalla sua forma tipografica. Noi spazialisti ci sentiamo gli artisti di oggi, poiché le conquiste della tecnica sono ormai a servizio dell'arte che noi professiamo. Svincolare l’arte dalla materia, renderla infinita attraverso lo spazio facendo sì che essa acquisti sconfinate dimensioni portandosi al di là della forma pittorica, scultorea o tipografica. Nel 1950 Isidore Isou, padre del Lettrismo, fonda la rivista Ur sul primo numero della quale pubblica il primo manifesto del movimento: Elements de la peinture lettriste. Nel titolo del manifesto si fa riferimento esplicito alla pittura, nelle righe che lo compongono il teorico e artista rumeno ipotizza un metodo progressivo di distruzione dell’oggetto artistico. La chiave per superare la tradizione pittorica e di conseguenza bidimensionale è la lettera, «il solo elemento destinato perfettamente per struttura propria a rimpiazzare un oggetto in rovina». In primo luogo, continua Isou, si proponeva l’uscita dallo schematismo. Il richiamo di un ordine superiore alla “pittura pura” deve condurre al legame con il pubblico. Raggiungere non soltanto l’occhio, ma anche il cervello dello spettatore; agire sul suo comportamento sociale quotidiano, didattico. Aprire interamente le finestre della Rappresentazione Plastica Nuova verso la conquista dei sensi e delle astrazioni espansive. Il Lettrismo allora, nato come “un’ortodossia che ingloba tutte le eresie”, si candida ad essere il vero movimento nel quale proseguono le idee avanguardiste ancora alla ricerca di un compimento. L’assoluta preveggenza delle parole di Isou però non si accompagna, per lo meno negli stessi anni, ad una produzione che rispecchi quanto ipotizzato per quanto l’introduzione di concetti quali l’Hypergraphie, che unificherebbe le discipline letterarie e visive, o la mécaesthétique, che allarga gli strumenti di produzione a tutte le materie e sostanze esistenti o inedite (il mobile vivente, l’opera in polvere, la pittura su rotaia, etc.) faccia supporre il contrario. Solo nel 1960 partecipando al Salon Comparisons presso il Museo d’Arte Moderna di Parigi, Isou e Maurice Lemaître presentano un ambiente “meca-estetico” in cui compaiono grani di riso, cacao, tessuti, pellicce, lastre di ferro e una gabbia contenente un uccello vivo, nello stesso anno in cui Isou inagura la galleria Atome per la presentazione di opere infinitesimali e pubblica il Manifeste de l’Art supertemporel teorizzando la soppressione dell'autore isolato (e, in quanto tale, soggetto a limitazioni) proponendo i cadres de production, opere in fieri che la sigla da parte dell'autore apre all'eternità attraverso il succedersi degli interventi (od il rifiuto di operarvi) di altri artisti. Gli anni ’50 rappresentano il termine ad quo da cui far principiare una rivoluzione spaziale che se dapprima è vincolata ai limiti della cornice, nell’arco di un decennio segna il definitivo passaggio alla conquista del reale. Uno dei punti di snodo viene indicato da Harold Rosenberg, il quale, nelle stesse pagine in cui conia la definizione di action painters, non manca di rilevare che «a un certo punto la tela apparve come un’arena dove agire invece di uno spazio in cui riprodurre» e insiste «l’arena era divenuta il termine appropriato per indicare la tela a lungo andare la tela fu lasciata da parte per produrre degli happening». Tra i casi studiati dal giornalista e critico americano che, a fini didattici, possono essere inseriti nella lunga e amorfa galassia dell’Informale, spiccano alcuni degli esiti più interessanti in cui un’occupazione dello spazio è avvenuta, seppur lontano dagli occhi del pubblico, sebbene quest’ultimo si ritrovi a fruirla esclusivamente per via indiretta. «Il caso più emblematico dell’amplesso con lo spazio reale è quello di Jackson Pollock, ritratto in immagini divenute famose e che lo vedono impegnato, nello sgocciolamento sanguinolento del suo dripping, a girare attorno alla tela pittorica». La gestualità dell’artista è sia provocatrice che generatrice di un’invasione dello spazio, si tratta di una protensione immediata quanto fugace verso l’ambiente esterno al quadro. Ed è questa immediatezza, questa fugacità agita in studio, lontano dagli occhi del pubblico e poi abbandonata, impressa, come il simulacro di una danza sulla tela pittorica che separa queste ricerche dalla venuta della peformance. Pollock stesso afferma: «La mia pittura non viene dal cavalletto» e spiega «sul pavimento mi trovo maggiormente a mio agio. Più vicino alla pittura, parte di essa, perché così posso girarle intorno, lavorare da tutti e quattro i lati, e, letteralmente, essere in essa». Per Jackson Pollock l'orizzontalità è non solo il presupposto che permette il dripping, la colatura del colore sulla tela stesa a terra, ma un medium a tutti gli effetti, che apre una nuova dimensione nell'esperienza del pittore e quindi una diversa intenzionalità. Il medium di cui si parla non è semplicemente la tecnica di esecuzione, il supporto, insomma la condizione materiale delle opere. Medium è un insieme di regole, una "matrice generativa" di convenzioni derivate, uno spazio disciplinato di possibilità che si apre all'artista.
Così, ad esempio, abbandonare la pittura “da cavalletto” diventa per l'artista americano l'occasione per ribaltare le secolari convenzioni figurative legate alla verticalità del quadro, alla sua natura puramente ottica. È la storia, quella di Pollock, dell’«avventura di uno spazio considerato non più come conseguenza di un sistema, ma come maggior comune divisore, trama e carne di un mondo in cui le cose mantengono un commercio continuo». Non serve aspettare molto per ritrovare un istinto spaziale di simile intensità, se non maggiormente enfatico. Questa volta è l’arcipelago nipponico, teatro delle esposizioni del gruppo Gutai, eccellente continuatore della “new wave” spazialista e, per certi versi, anticipatore di alcune dinamiche dello Happening. Durante la I Esposizione Gutai alla Ohara Hall di Tokyo, Saburo Murakami espone Lacerazioni della carta. In linea con il pensiero spazialista e più ancora con gli esperimenti di Fontana, l’artista giapponese straccia una serie di fogli di carta intelaiata bucandoli letteralmente con il suo corpo. Nella stessa occasione Kazuo Shiraga si impegna nella Lotta con il fango, azione in cui l’artista immerso in una pozza di fango si dimena inscenando un combattimento di cui la terra, che insieme al corpo dell’artista porterà i segni dello scontro, diviene l’arena a cielo aperto. Lo stesso Shiraga dichiara che le sue creazioni non richiedono nessuna risoluzione permanente, tutta l’impresa consiste nell’azione. La poetica del gruppo si divide tra primigenie e innovative operazioni proto performative e soluzioni ancora irrimediabilmente invischiate in un panorama tardo informale, ma presenta «opere tese al conseguimento di un’intensità formale tale da consentire loro di porsi in competizione con spazi reali, rompendo con la tradizionale struttura del quadro». Indipendentemente dalle singole opere, di fatto è interessante notare la propensione dimostrata nell’occupare uno spazio pubblico, un luogo inconsueto, lungi dall’essere etichettato come museo o galleria, per il quale le opere sono concepite e possono essere fisicamente fruite dallo spettatore. La Mostra sperimentale di arte moderna all’aperto come sfida al sole ardente di mezza estate, che precede di qualche mese la I Esposizione, viene allestita sulle sponde di un fiume, l’Ashiya, e l’anno seguente, 1956, si tiene la II Esposizione all’aperto tra certe rovine sul fiume Hyogo. Le proposte per questa seconda kermesse spaziano da Osservatorio per il cielo di Murakami, un cilindro di tessuto che permette l’isolamento dall’esterno al fine di guardare il cielo attraverso un’apertura conica, a Prego camminate qui sopra di Shozo Shimamoto in cui un rettangolo diviso in sezioni cattura le orme dei passanti nel percorso. Il fulcro della riflessione però si concentra sulla decisione di esporre all’aperto, immersi in uno spazio reale, oggetto di studio preventivo da parte dei protagonisti di Gutai che progettano i loro interventi palesando ante litteram un’attitudine site specific. Nell’articolo The Legacy of Jackson Pollock del 1958 Allan Kaprow lancia la sua profezia sul futuro dell’arte negli anni a venire, individuando nell’opera dell’action painter americano il punto di svolta per comprenderne l’attitudine “concreta”, calata nella vita quotidiana, e decisa a formare una nuova sensibilità. L’evento che segna la stagione che sta per aprirsi a New York è il primo happening organizzato da Kaprow: 18 happening in 6 parts. L’evento segna l’inaugurazione della Reuben Gallery che successivamnte ospita anche gli altri happening ponendosi come uno dei centri di ricerca della città. Nell’autunno 1959, Kaprow inviò ad amici e conoscenti un invito in cui si annunciavano i diciotto happening e, dopo aver elencato data e luogo, si invitava il lettore alla collaborazione con l’artista, il signor Allan Kaprow, per la realizzazione di tali eventi. «Come ognuna delle settantacinque persone presenti, lei sarà simultaneamente spettatore e protagonista» scrive Kaprow, continuando a leggere l’invito spiega che «l’artista crede di poter dare vita a una situazione nuova e avvincente». L’annuncio dello spettacolo riporta anche alcune precisazioni come «lo spazio è stato diviso in tre camere, ognuna differente dalle altre per dimensioni e atmosfera» e continua elencando la tipologia di illuminazione, i collages presenti alle pareti, le diapositive che avrebbero dato vita allo spettacolo. Infine viene annunciato che «con le sue azioni sceniche l’autore non intende significare nulla di chiaramente definibile. L’opera nel suo insieme è essenziale, concisa e di non lunga durata». A tutti gli spettatori viene affidato un programma in cui è descritto che la rappresentazione si divide in sei parti e che ogni parte conterrà tre happening che avranno luogo contemporaneamente, mentre l’inizio e la fine di ogni atto saranno segnalati dal suono di un campanello. Altri leggono ad alta voce delle frasi da alcuni manifesti, col volto inespressivo, intervallando minuti di silenzio a frasi come: «Si dice che il tempo è essenza noi conosciamo il tempo spiritualmente come attesa, ricordo, rivelazione e proiezione, astraendo il momento della sua realtà più intima…» oppure «Ieri ero sul punto di parlare dell’arte, ma non riuscivo a cominciare». Una donna spreme delle arance, poi due uomini e due donne, ognuno con in mano uno strumento musicale, entrano in fila indiana nella prima camera mettendosi uno a fianco all’altro e iniziano a suonare, emettendo suoni striduli e indipendenti uno dall’altro. Il pubblico intanto è talvolta spiazzato, talvolta divertito, alcuni intervengono a parole, a gesti, altri sono assolutamente silenziosi. Due interpreti svolgono un’azione pittorica sulle pareti di plastica trasparente che dividono due delle tre stanze. Un attore entra nella seconda stanza e porta una mano alla bocca, mentre l’altra la mette sulla testa, rimanendo fermo così per qualche secondo, per poi abbassare entrambe le mani sui fianchi mostrando un grande sorriso. Rumori e suoni accompagnano costantemente questo collage di azioni, gesti e parole, mentre gli spettatori sono invitati, ad ogni suono di campanello, a cambiare stanza, interagendo con altri spettatori e con lo spazio, lasciandosi trasportare dalle sensazioni, dalle atmosfere e da ciò che accade. Infine tutti gli attori iniziano a leggere elenchi di parole ed esclamazioni monosillabiche. Le voci si mescolano e sovrappongono in una confusione, suona il campanello per l’ultima volta e l’happening è terminato. L’abbattimento della barriera tra performers e pubblico è l’elemento che ha colpito più di tutti i primi commentatori degli happening. Non esiste la categoria del palcoscenico come luogo in cui si svolge l’azione, non c’è uno scenario ideale. Susan Sontag paragona lo spiazzamento provocato dagli happening alla condizione onirica in cui non è possibile rintracciare una logica, non è data la percezione temporale e dove non è concepibile un momento iniziale e uno conclusivo, in cui spesso si assiste a eventi ripetitivi. La dissoluzione delle categorie viene imposta anche ai materiali utilizzati tanto da non poter distinguere lo spazio d’azione dalla scenografia. A volte addirittura i performer stessi, avvolti in sacchi di tela o involucri di carta, immobili o coperti da mascheramenti partecipavano alla mescolanza dei ruoli. Si tendeva infatti alla realizzazione di un ambiente globale, un environment disordinato, in cui si poteva assistere anche alla distruzione dei materiali stessi. Kaprow non è il solo ad operare in questa direzione, altri artisti negli stessi anni condividono pratiche ed istanze, Red Grooms per esempio dopo aver messo inscena il proto-happening Walking Man in una galleria di Provincetown in Massachussets, torna a New York e apre il Delancey Street Museum in un loft dove si svolge The Burning Building, sua seconda performance nel dicembre del 1959. Dal gennaio del 1960 la Reuben Gallery ospita invece Evening of Happenings, serie di eventi tra i quali si volge la prima performance di Robert Whitman. Nel mese di febbraio, presso la Judson Church, Jim Dine e Claes Oldenburg organizzano Ray Gun Spex, una serie di sei spettacoli ideati da loro stessi e da altri artisti. Jim Dine presenta The Smiling Workman, performance in cui l’artista stesso vestito come un clown opera con della vernice: la spalma su di una tela, la beve quella che appare come vernice è in realtà succo di pomodoro e se la versa addosso. Claes Oldemburg costruisce il suo primo ambiente proprio in quell’occasione per la presentazione del Ray Gun Show che diventa anche il caotico scenario del suo primo happening Snapshots from the City. La scena è costituita da un’accumulazione di silhouette fatte di rifiuti lacerati o bruciati, raccolti in strada, più altro ciarpame distribuito sul pavimento. Tra queste silhouette ricorreva più volte in primo piano quella di “Ray Gun”, parodia di un robot-giocattolo inventato da Oldenburg come simbolo di tutte le merci. Il progetto più interessante di Oldenburg da questo punto di vista è The Shop. La visione degli oggetti lo porta ad operare una riflessione sulla loro collocazione e sulla loro esposizione che può essere riassunta dalle sue stesse parole: «queste cose le opere d’arte sono esposti nelle gallerie, ma non è il loro posto. Starebbero meglio in un negozio (negozio = luogo pieno di oggetti).
Il museo nella concezione borghese è l’equivalente del negozio nella mia». The Shop viene aperto sulla seconda strada in un’area piena di Grandi Magazzini che vendevano prodotti a basso costo o di seconda mano. The Shop è concepito come una copia dei negozi vicini, dove articoli male assortiti si succedevano senza posa sugli scaffali. Gli oggetti di Oldenburg spesso più grandi di quelli reali sono realizzati con stoffe imbevute nel gesso e dipinti in maniera sommaria in linea con le realizzazioni dell’Action Painting. Completando la descrizione con il fatto che i prezzi esposti erano decisamente inferiori a quelli riscontrabili in qualsiasi galleria d’arte si compone effettivamente una critica che effettivamente colpisce sia il sistema massificato delle merci che il sistema artistico con il suo mercato. Un prototipo di ciò che sarebbe divenuto The Shop viene presentato alla mostra Environments, Situations, Spaces (Six Artists) nel 1961 alla Martha Jackson Gallery, occasione in cui vengono esposti anche i lavori di Kaprow e George Brecht. Con l’opera environment Yard Kaprow riempie il cortile della galleria con mucchi di copertoni, impendendone l’accesso ai visitatori che non possono uscire all’esterno se non addentrandosi con fatica, mentre Brecht presenta Three Chair Event. Nelle istruzioni per l’evento si legge: «sedersi su una sedia nera, su una sedia gialla, e vicino su una sedia bianca. Per la mostra, la sedia bianca è perfettamente illuminata nel bel mezzo della galleria, nelle vicinanze su un davanzale di una finestra è collocata una fila di tre event-score, la sedia nera è posta in bagno, mentre la sedia gialla è fuori sulla strada, e quando Brecht arriva per la visione privata è occupata dalla madre di Claes Oldenburg presa in una conversazione. Dopo il lungo ed estenuante tour europeo durato quasi due anni, Fluxus ritorna ad assumere New York come proprio centro produttivo. Lo spostamento di asse è dovuto in gran parte al ritorno di George Maciunas nella Grande Mela in seguito a continui problemi di salute. La scena newyorkese, come abbiamo avuto modo di notare in precedenza, si denota per un’atmosfera corale, di collaborazione e condivisione che, soprattutto sul versante azionistico e performativo, non permette di percepire con chiarezza i limiti di un singolo gruppo rispetto a quelli coevi. Questo è valido per la maggior parte degli artisti e dei raggruppamenti, ma è un dato essenziale quando si parla di Fluxus. Da un lato infatti il biennio in cui i lavori si sono concentrati in Europa ha fornito un’indicazione certa dell’elenco dei partecipanti, anche di coloro la cui collaborazione è saltuaria o legata al luogo che ospita il festival, dall’altro è rimasta invariata l’attitudine ad un agire libero in cui l’adesione a Fluxus non prevede vincoli, quantomeno apparenti. Il 1964 è un anno di passaggio e di trasformazione per la compagine Fluxus, un anno nel quale si delineano nuove traiettorie, si concludono o rallentano esperienze maturate fino a quel momento, si precisano alcuni sviluppi finora solo accennati o non ancora portati a termine. Progetti che sono stati lasciati da parte per far posto alla stagione dei festival, in particolare il comparto editoriale, ritornano ad essere obiettivo primario di Maciunas e dello stretto gruppo che lavora con lui. Un anticipo della nuova fase viene ancora una volta dall’attività inesausta di George Maciunas che negli ultimi mesi del 1963 rivolge le sue energie alla realizzazione di un quartier generale, segnando il passaggio dal nomadismo e dalle peregrinazioni dei primi anni all’esigenza di una base. La sede si trova in loft al 359 di Canal Street e viene suddivisa in due spazi con caratteristiche differenti: il Fluxshop, in cui esporre i materiali editoriali prodotti e gestirne la vendita, e la Fluxhall, in cui organizzare e ospitare performance o cicli di eventi. Il centro operativo, come sostengono gli artisti che lo frequentano, non ha una funzione commerciale, il pubblico è composto per lo più da musicisti e appassionati, al contrario la possibilità di operare in un luogo fisso fornisce finalmente le condizioni adatte alla sviluppo del comparto editoriale. In gennaio viene pubblicato il primo numero di quello che diventerà l’organo ufficiale di Fluxus: cc V TRE. In un formato tabloid costituito da un unico foglio ripiegato, vengono raccolte foto d’epoca, giustapposizioni nonsense, dichiarazioni di vario genere, annunci pubblicitari che rimandano ad un festival Fluxus previsto nel mese di maggio a New York e alle prime pubblicazioni edite. L’enigmatico titolo, tratto da un’insegna luminosa con alcune lettere fulminate, forse per riprendere questo suo “intermittente” atto generativo, muterà nelle uscite successive mantenendo invariato il nucleo originario. Nella rivista sia la disposizione che il legame tra i vari articoli, le fotografie e tutto ciò che veniva pubblicato erano basati sulla casualità, su un irrelevant process (processo di non pertinenza). Sulla stessa pagina potevano essere accostati: una vignetta di Bob Morris, una poesia di Diter Rot, una frase di Claes Oldenburg ed un mini-poema di Ruth Krauss senza apparenti richiami logici o tematici, secondo una strict randomness (esatta casualità), efficace mezzo per ottenere chance-images (immagini casuali). Tra l’11 aprile e il 23 maggio si tiene un festival intitolato 12 New York Fluxus Concerts presso la Fluxhall, le modalità di presentazione ricalcano la struttura formalizzata in Europa affiancando ai concerti e alle performance, la presentazione di alcune opere singole come Zen for Film di Nam June Paik. In un ciclo infinito, la pellicola non impressa attraversa il proiettore, l'immagine proiettata risultante mostra una superficie illuminata da una luce intensa, talvolta alterato dalla comparsa di graffi e polvere sulla superficie della celluloide danneggiata. In analogia a John Cage, che comprende il silenzio come un “nonsuono” nella sua idea di musica, Paik utilizza il vuoto delle immagini. Il film rappresenta solo il dato materiale con le sue qualità fisiche, e come un’«anti-film» impone allo spettatore un drastico strappo rispetto alla marea di immagini in cui è immerso tutti i giorni. Inoltre in questa manifestazione collettiva newyorkese, completano il programma azioni concepite per essere svolte in strada all’aperto così come annunciato a Copenhagen e avvenuto a Nizza. In questa serie di eventi viene posto l’accento sulla partecipazione del pubblico, la trasformazione del visitatore dapprima in fruitore, e in secondo luogo in parte attiva e necessaria alla realizzazione della performance. Nel caso di Licking Piece di Ben Patterson, per esempio, in cui il corpo della performer Litty Eisnhauer viene coperto di panna montana che gli astanti vengono invitati a leccare e mangiare, il grado di interazione presuppone ancora una divisione marcata tra artista e spettatore, mentre in alcune opere successive il procedimento si spinge oltre. Viene meno la componente sonora e sperimentale, lascia spazio ad una azione corporea, fisica, desunta spesso da gesti quotidiani e ordinari, che si propone di rivelare «un’area di sensibilità inedita, incentrata su aspetti triviali, marginali, trascurati, cose sciocche e irrazionali, tics e feticci, idee inutili e invenzioni non necessarie, banalità assolute e varie forme di sacrilegio minore». In Seminar I di Patterson i partecipanti all’atto performativo non solo sono invitati a seguire le istruzioni, ma a proporre alternative a loro discrezione improvvisando. Le persone presenti vengono divise in coppie e ad ogni coppia viene chiesto di seguire l’esempio dei performer, lo stesso Patterson con l’aiuto di Alison Knowles, mettendo in atto una serie di azioni tra le quali fare una domanda e dare una risposta, compiere tra gesti simmetrici tra i due partecipanti muovendo dita, occhi e orecchie. Sulla stessa linea si pone Shoes di Ay-O che prevede di legare i piedi di diverse persone ad un asse per poi comminare nella stanza o nel luogo in cui si svolge l’evento. In questa tipologia di eventi, seppur non del tutto nuova, è chiaro un distaccamento dalla condizione antiaccademica che pervade quasi tutte le performance presentate nei festival europei e si affaccia in maniera sempre più evidente il lato ironico preconizzato dalle esperienze del Cabaret Voltaire dadaista alla cui atmosfera molti degli artisti Fluxus si ispirano o sono vicini. Il 27 giugno ancora si tiene presso la Carnegie Recital Hall il Fluxus Synphony Orchestra in Fluxus Concert. La sede ospitante è una sala da concerto, l’ensamble Fluxus è presentato come un’ “orchestra sinfonica”, apparentemente l’evento sembra proseguire sulla linea tracciata dalla stagione festivaliera maggiormente orientata alla componete sonora. Al momento però è in atto una trasformazione nell’approccio alle azioni Fluxus, dalla dissacrazione dell’accademia musicale, infatti, si passa alla realizzazione di gesti ordinari, sempre più minimali, nei quali la presenza dello strumento musicale è accessoria e passa in secondo piano. Se durante i primi festival l’accanimento distruttivo nei confronti dell’oggetto (in particolare lo strumento musicale) è il dato più evidente e testimonia la lotta con il sistema di riferimento, nei casi più recenti l’oggetto, dove presente, è defunzionalizzato, détournato, e la pesantezza di cui è portatore lascia il posto alla leggerezza dell’ironia.
In Solo for Violin, George Brecht concentra la produzione sonora della sua performance nell’atto di pulire la strumento, procedendo ad “abbassare” il significato dell’azione artistica e irridendo il concetto di gesto artistico. Anche in Rainbow for Wind Orchestra i musicisti non utilizzano gli strumenti nel modo convenzionale, essi sono invitati a produrre bolle di sapone. Su questa scia è interessante leggere anche l’event score di Wind Music della giapponese Chieko Shiomi che invita ad aumentare il vento, lasciarsi trasportare dal vento, lasciare che ogni cosa venga trasportata dal vento, sulla spiaggia, in strada con il passaggio delle automobili, fino ai tifoni. Durante la performance viene portato sul palco un grande ventilatore, il performer si pone di fronte ad esso producendo rumore con il suo corpo e con alcuni fogli di carta mossi dall’aria. La fase cosiddetta eroica arriva alla sua conclusione in seguito alla formazione di diverse fazioni del gruppo come risultato del dibattito intorno allo spettacolo Originale di Stockhausen nell'autunno del 1964. Dopo questa data infatti data linee guida le attività degli artisti legati a Fluxus cambiano, e gli artisti stessi che avevano aderito in precedenza o che vi erano stati associati si ritirano o intraprendono percorsi diversi, spesso individuali. L’idea dell’inondazione s’incarna nelle piccole edizioni che caratterizzano la produzione Fluxus: una miriade di piccoli oggetti che, come l’acqua, possono arrivare ovunque portando con sé la nuova visione estetica del mondo. Partecipano alla mostra i seguenti Artisti : guroga - Laura Agostini - Patrizia Aletta - Mateos Alicante - Franco Altobelli - Gemma Amoroso - Argiolas Andreina - Sergio antonuccio - Giovanni Ariano - Miguel Avila - Miguel Avila - Franco Ballabeni - Ciro Balzano - Marianna Battipaglia - Maria Bellucci - Luisa Bergamini - Virginia Bernal - Chiara Bertoncello - Maria Bifulco - Lorenzo Bocca - Rovena Bocci - Mariella Bogliacino - Cecilia Bossi - Rossana Bucci - Rosario Buccione - Greg Buttay - Ivana Cabriolu - Antonio Carbone - Umberto Carotenuto - Rosaria Cecere - fabiola cenci - Ciro Cioffi - Paolo Cipriani - Mario Citro - Mario Cobàs ( Carchini) - Patrizia Maria Cocchiarella - Carmen Colonna - Maria Grazia Colonnello - Anna Coppola - Enzo Correnti -Gianluca Cresciani - Paul Csaba - Bruno D’Angelo - gabriel de gaudi - Raffaella De Stefano - Albina Dealessi - Carmen Delle Donne - Carmine Dello Ioio - Anna DI lauro - LuciaDi miceli - MartinaDi Russo - Marcello Diotallevi - Giovanna Donnarumma - Epeo - Antonella Esposito - Cinzia Farina - Laura Felici - Luc Feriens - Piera Fidentea - Antonino Filizzola - Giuseppina Filizzola - Francesco Gallo - Rosalie Gancie - Fiorentina Giannotta - Graziana Giunta - Sergio Guerrini - Stefania Guiotto - Il Lepido - Gennaro Ippolito - francesco Franco iuliano - Benedetta Jandolo - Magdalena Kacperska - Luis María Labrador temprano - undeterred lartenonguardainfacciaanessuno - Maria Antonietta Letizia - Patrizia Letta - Oronzo Liuzzi - Mariano Lo Gerfo - Marina Lombardi - Lucia Longo - Antonio Lubrano Lavadera - Luc Fierens - Serse Luigetti - RuggeroMaggi - Sofia Maglione - Antonella Maione - MariaManna - Silvia Marchionne - Calogero Marrali - Emanuele Marsigliotti - Biancamaria Martinelli - Giordano Martone - Maria Mascia - Francesco Matrone - Monica Michelotti - Arturo Millan - Mirta - Giorgio Moio - Fernando Montà - Gianremo Montagnani - Ljdia Musso - Celeste Napolitano - Melita Olmeta - Enzo Pagano - Csaba Pal - Cristiano Pallara - Susanna Pellegrini - Salvatore Pepe - Chiara Pepe - Svetana Pesetsnaya - Bruno Pierozzi - Maria Piscitelli - Silvio Pozzati - Veronique Pozzi Paine’ - Anna Quadretti - Silvia Rea - Giampiero Reverberi - Mavi Rico Vidal - Ina Ripari - Remo Romagnuolo - Luciano Romualdo - Marcia Rosenberger - Serena Rossi - Stefania Rosso - Romina Russo - Stefania Russo - Fabio Santi - Carmela Sbrescia - roberto scala - Domenico Severino - Radina Springborn - Salvatore Starace - Andrea & Rebecca Sterpa - Ivana Storto - unplatonic Street Art - Ezra Tavassi - Salvador Torres - Ilia Tufano - Antonietta Vaia - Diana Isa Vallini - Generoso Vella - Vera Veronesi - Claudia Vianello - Antonio Vidal Maiquez - Paolo Villani - Raffaella Vitiello - Marina Vitolo - Whatifier.
Galleria Lineadarte Officina Creativa Napoli - Via S.Paolo ai tribunali 31
Mostra Internazionale del piccolo formato VentiperVenti
dal 28 Giugno 2023 al 28 Luglio 2023
Martedì, Mercoledì e Giovedì
dalle ore 17.00 alle ore 19.00 ( Gli orari possono variare contattare telefonicamente la Galleria)
Infoline: lineadarte@gmail.com - 3275849181 oppure 3342839785