Ho letto con interesse l’articolo di Clovis Whitfield (https://news-art.it/news/le-copie-e-caravaggio.htm) che in parte riguarda anche il mio libro (recensito su News-art da Pietro Di Loreto https://news-art.it/news/caravaggio-tra-originali-e-copie.htm, fig. 1). Sono naturalmente contenta che uno studioso del suo valore abbia voluto prendere spunto dalla mia pubblicazione e lo ringrazio per la sua nota. Tuttavia alcune precisazioni mi sembrano opportune. Riprendo, dunque, alcuni punti in forma molto sintetica, lasciando ai lettori interessati la possibilità di verifiche e di approfondimenti ulteriori.
Non ho scelto lo studio delle copie da Caravaggio alla ricerca di scoperte sorprendenti - come viene sottolineato correttamente anche nella recensione - o men che meno per stimolare nuove querelles. Sono partita da una riflessione sui rischi del facile attribuzionismo, che mi pare stia prevalendo negli ultimi anni, con la conseguenza di un’espansione indefinita delle opere attribuite al genio lombardo, che secondo me - per quello che ho potuto verificare - è ingiustificata sia dal punto di vista delle caratteristiche stilistiche, sia da quello dei riscontri documentari.
Ho ripercorso alcune vicende critiche a mio modo di vedere interessanti, in cui si sono registrati pareri anche opposti da parte di conoscitori ed esperti, cercando di mettere in campo tutte le posizioni espresse e gli approcci possibili, a volte senza propendere per l’una o per l’altra opzione. Non per assenza di convinzioni personali, “cercando rifugio” in quanto già espresso da altri studiosi o “per sfiducia nella connoisseurship”- come sembra credere Whitfield - ma cercando di verificare la possibilità di integrazione tra i vari metodi d’indagine.
Questo è il tipo di approccio che mi è sembrato più idoneo per un lavoro del genere; infatti credo che occorra tener sempre presente che la ricerca può essere viziata da un metodo unilaterale che concentri l’attenzione o sulle note stilistiche e sulle caratteristiche tecniche, magari trascurando testimonianze di fonti e documenti, ovvero operando al modo contrario. La verità è che spesso nello studio dei dati tecnici il conoscitore cerca solo la conferma alle sue attribuzioni. E comunque ho tentato di contestualizzare sempre i problemi, indagando le strategie del Merisi nell’ambiente collezionistico e nel mercato dell’arte, soprattutto agli esordi. Dopo aver coniugato i dati disponibili, ho lasciato aperte alcune questioni, come quelle relative alla
Cattura di Cristo (fig. 2) ben consapevole della sua complessità.
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In risposta ad alcune questioni sollevate nella nota di Whitfield, aggiungo quanto segue.
L’assenza di documentazione su un soggiorno romano del Merisi anteriore al 1596 non esclude necessariamente una sua presenza precedente (è un’idea questa che, come lo studioso inglese certamente sa, è condivisa da molti) e comunque non era certo tra gli obiettivi della mia ricerca modificare le datazioni tradizionali dei dipinti giovanili o precisare meglio il tirocinio arpinate.
L’intensità drammatica dei suoi dipinti religiosi deriva secondo me - ed anche in questo caso non sono certo la sola a crederlo - dalla sua profonda spiritualità.
Non potevo far progressi sulla questione delle seconde versioni, perché non credo che Caravaggio copiasse se stesso. Nel catalogo sono distinte le copie giovanili eseguite agli esordi per il mercato, le redazioni autografe con varianti dipinte su richiesta della committenza e le versioni realizzate successivamente dai suoi seguaci, che erano in grado di imitarlo assai bene, al punto da generare a volte confusione tra originali e copie, agli occhi dei conoscitori del tempo e moderni. Nel libro, infine, sono incluse copie di qualità diversa, ma non parlo di “prime copie indistinguibili dagli originali”.
Barbara Savina, 05/09/2014