L’esposizione delinea una panoramica ben congegnata sui temi prediletti dal pittore e sulla sua singolare maniera; grazie al significativo spettro di confronti proposti è infatti possibile valutare analiticamente il tipo di lavoro condotto dall’artista su alcuni modelli compositivi e formali della tradizione, di cui egli si fece custode in un momento di forti sperimentalismi figurativi, ed esaminare nel dettaglio la qualità del suo “stile iconico”, per usare la definizione coniata a suo tempo da
Hans Belting (
Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo [1990], Roma 2001, p. 542) proprio in relazione al pittore romano.
La mostra (per una presentazione si veda
https://news-art.it/news/antoniazzo-romano-in-mostra-a-roma.htm) si svolge in un momento in cui la
riflessione museologica appare piuttosto accesa: si discute infatti con un certo fervore della funzione e del funzionamento delle esposizioni, del loro ruolo nella trasmissione del sapere prodotto dagli ambiti disciplinari interessati, dei compiti didattici che possono e devono (o secondo alcuni che non devono) assumere. In linea con la
prospettiva editoriale di News-art, che intende promuovere ed alimentare il dibattito su un tema considerato cardinale per l’assetto della storia dell’arte, abbiamo rivolto alcune domande ad Anna Cavallaro, specialista di Antoniazzo e curatrice insieme a Stefano Petrocchi, del progetto romano.
1. Ci racconta quali sono gli obiettivi della mostra? Cosa avete inteso porre in rilievo e perché?
AC: scopo principale dell’operazione è stato cercare di restituire centralità ad un pittore che fu protagonista indiscusso della sua epoca ma che, dopo la breve menzione del Vasari che lo ricordava “tra i migliori che fussero allora in Roma”, è stato subito dimenticato nelle fonti e nelle cronache romane.
Noto agli studi – ad iniziare da Roberto Longhi che nel 1927 scrisse il memorabile saggio dal titolo
In favore di Antoniazzo Romano - ma non ancora al grande pubblico, il nostro obiettivo è stato insomma quello di far conoscere ai cittadini romani un ‘
pictor urbis’ che ha tenuto bottega nel cuore della città, nell’odierna piazza Rondanini, e che fu profondamente radicato nell’urbe, lavorando esclusivamente per committenti romani e laziali.
Abbiamo voluto mettere in rilievo la qualità delle sue opere e la sua versatilità di pittore impegnato su diversi fronti, dalle raffinate tavole a fondo oro dove egli appose la sua firma, ai grandi cantieri di pittura murale dei quali fu abile organizzatore, agli allestimenti di apparati effimeri per processioni e feste confraternali, fino all’attività di restauro di sculture e arredi liturgici.
2. Qual è, a suo avviso, il risultato più rilevante del progetto? Ci sono altre opere che avrebbe voluto includere nel percorso?
AC: tra gli esiti significativi includerei il fatto di essere riusciti a ricostruire per intero la fisionomia del pittore e lo spettro della sua produzione attraverso prestiti provenienti dal territorio nazionale, molti dei quali dalla stessa città di Roma. Una mostra molto delicata per la tipologia delle opere - tavole a tempera e affreschi staccati -, ma certamente fattibile per la consistente presenza di dipinti del pittore a Roma e nel Lazio. Non abbiamo avvertito l’assenza di dipinti conservati in musei esteri che il budget economico della mostra non ci ha permesso di chiedere, mentre è stato importante il prestito di opere normalmente non accessibili al pubblico, perché conservate presso istituzioni religiose private romane o collezioni italiane. Unico rammarico, il mancato prestito da parte del Vaticano della
Madonna degli uditori di Rota, ubicata nella biblioteca privata di Sua Santità, opera straordinaria per efficacia ritrattistica, del tutto sconosciuta al pubblico e agli studiosi perché mai uscita dalle mura vaticane. Purtroppo un’occasione persa per completare al meglio la fisionomia del pittore e la sua attività per la corte papale.
3. La rassegna della Galleria Nazionale d’Arte Antica è centrata su un artista non molto noto al di fuori del mondo della ricerca. Per di più, le opere di Antoniazzo raramente raccontano storie complesse, elaborando piuttosto variazioni su un numero ristretto di motivi di carattere devozionale. Ciò rende più complesso il compito di presentare la sua produzione ai non addetti ai lavori. Cosa auspicherebbe che il pubblico di non specialisti recepisse visitando la mostra? E quali elementi raccomanderebbe di osservare con attenzione al medesimo pubblico per cogliere appieno ed apprezzare le peculiarità dell’Aquili?

AC: mi piacerebbe che i visitatori “non professionisti” apprezzassero la qualità alta delle sue opere, la padronanza della tecnica pittorica, in una parola, la bellezza: quella dei suoi volti femminili che riprendono le sembianze delle giovani donne dell’epoca, o dei ritratti dei committenti – penso a Onorato II Caetani o all’ignoto devoto inginocchiato di fronte al
San Vincenzo Ferrer di Santa Sabina – di intenso realismo fisionomico, ma insieme espressione di forte e genuina devozione religiosa. Ancora la preziosità dei fondi oro che nella sua ultima produzione assumono la consistenza dei broccati, la capacità di rendere anche nella profusione degli ori e nella sacralità delle immagini, la naturalezza e la modernità dei sacri personaggi attraverso dettagli quasi impercettibili come la trama venosa di una mano, le rughe di un volto, la barba o la sottile peluria di un santo francescano, i capelli dorati e inanellati di una santa.
4. Il dibattito sullo statuto, le funzioni e i metodi delle mostre si è fatto negli ultimi tempi particolarmente acceso. Dalle discussioni affiora con forza, tra l’altro, l’urgenza di stabilire dei parametri per giudicare le esposizioni. Quando, per lei, una mostra merita di essere valutata positivamente?
AC: difficile rispondere, è la prima mostra da me curata. Si tratta, però, di un’iniziativa che nasce da un lungo lavoro scientifico: mi riferisco alla mia monografia sul pittore uscita nel 1992. Un volume che è diventato mostra, e davvero grande è stata la mia emozione, nei giorni dell’allestimento a Palazzo Barberini, nel vedere progressivamente concretizzarsi nella presenza fisica di tavole e affreschi, di ori e colori, di sezioni a tema e scritte evocative, quello che era un progetto accademico!
Ritengo, comunque, che oltre all’attendibilità scientifica, una mostra seria debba possedere una buona dose di onestà intellettuale: non è facile muoversi sul terreno delle facili attribuzioni al pittore, e noi abbiamo voluto puntare sulle opere di qualità, sui dipinti firmati, sulla produzione di sicura autografia, senza tralasciare un certo margine alla bottega.
5. Di recente si è parlato molto anche dello statuto della storia dell’arte e dell’agenda dei suoi uffici, insistendo ad esempio sulla funzione della disciplina in rapporto, persino, alla definizione dell’identità nazionale. Quali sono, secondo la sua opinione, le questioni che la storia dell’arte deve porre in primo piano nell’ambito delle proprie pratiche? E quali modelli le sembrano prospettare i risultati migliori per ciò che concerne la dimensione sociale del suo sapere?
AC: personalmente ho sempre preferito scoprire opere e pittori nei musei, e non attraverso mostre che inducono il fruitore ad una certa pigrizia mentale trovando confezionata l’intera opera di un artista. Ma questo è un punto di vista personale e certamente elitario. Devo confessare che, in questo caso, una rassegna antologica focalizzata su un solo pittore attraverso un percorso cronologico, ma anche tematico e con una ricca sezione di documenti e lettere autografe, consente di definire nel modo più storicamente completo una personalità di artista.
Mi sembra dunque importante ridare spessore anche storico agli artisti del passato, facendo riaffiorare, laddove possibile, anche la vita privata attraverso atti notarili, lettere, testamenti, che vengono recepiti dal pubblico come oggetti del passato di grande pregnanza: in poche parole, rimettere in luce l’uomo e l’artista. Non è un caso, del resto, che all’esposizione abbiano collaborato le colleghe storiche della Sapienza fornendo un importante contributo con la scoperta della data di morte del pittore, il 17 aprile 1508, nelle carte della confraternita del Gonfalone dell’Archivio Segreto Vaticano.
Anna Cavallaro è ricercatore alla Sapienza Università di Roma. Impegnata fin dai primi anni Ottanta nello studio della cultura figurativa romana del Quattrocento, ha dedicato all’argomento una mole imponente di contributi scientifici. Nella sua produzione spicca il volume
Antoniazzo Romano e gli antoniazzeschi. Una generazione di pittori nella Roma del Quattrocento, Udine 1992; di sicura importanza sono anche le indagini su Pinturicchio e in particolare sui lavori del pittore umbro nel palazzo romano di Domenico della Rovere (
La decorazione pittorica, in M.G. Aurigemma, A. Cavallaro,
Il palazzo di Domenico della Rovere in Borgo, Roma 1999, pp. 165-289). Tra le pubblicazioni più recenti, vanno ricordate le curatele, in collaborazione con Stefano Petrocchi, del catalogo della mostra dedicata ad Antoniazzo (Milano 2013) e del libro
La pittura nel Quattrocento nei feudi Caetani (Roma 2013).
a cura di Francesco Sorce, 30/11/2013
Didascalie delle immagini
1. Antoniazzo Romano, San Vincenzo, Santa Caterina, Sant'Antonio da Padova, tavola, 164 x 173cm, Montefalco, Museo di San Francesco, 1488-89
2. Antoniazzo Romano, Madonna col Bambino tra i santi Pietro e Paolo e il committente Onorato Caetani, tavola, 163 x 270cm, Fondi, San Pietro, 1476
3. Antoniazzo Romano, San Vincenzo Ferrer, tavola, 166 x 77cm, Roma, Santa Sabina, convento, 1488-89ca
4. Antoniazzo Romano, Natività, tavola, 130 x 79cm, Civita Castellana, Episcopio, 1475-80
5. Antoniazzo Romano, Madonna col Bambino, tavola, 124 x 31cm, Velletri, Museo Diocesano, 1482ca