tavola 1“Bartolomeo Manfredi al di là del Caravaggio e della Manfrediana Methodus”.
Può apparire paradossale ma inizia proprio con queste parole il nuovo libro, da pochi mesi in libreria per i tipi delle edizioni del Soncino (Bartolomeo Manfredi, Ed. dei Soncino, Soncino 2013, fig. 1), scritto da Gianni Papi, studioso noto proprio per gli innumerevoli lavori dedicati agli artisti della 'scuola' caravaggesca, non privi di riflessioni molto spesso controcorrente che hanno dato vita a vivaci polemiche, ma anche ad aggiustamenti e revisioni critiche. E certamente sarà così anche in questo caso, col volume dedicato a Bartolomeo Manfredi (Ostiano, Cremona, 1582 - Roma, 1622), unanimemente considerato fino a ieri il più accreditato interprete della lezione lasciata in eredità da Michelangelo Merisi dopo la sua morte, avvenuta in circostanze ancora non del tutto acclarate il 19 luglio 1610.


tavola 2Ma è proprio questo aspetto che Papi rimette in discussione, vale a dire il ruolo di propagandatore e continuatore del ‘verbo’ caravaggesco da molti assegnato al pittore di Ostiano, a cominciare dall'idea che sia mai esistita una cosiddetta  'manfrediana methodus': “un termine cui sono allergico - afferma senza mezzi termini - e che ha avuto una fortuna eccessiva e immotivata”.
Su cosa si basa un giudizio così tranchant?
Il termine 'manfrediana methodus', in effetti, cominciò ad affermarsi in seguito ad un resoconto dello storico, biografo e artista tedesco Joachim von Sandrart (Francoforte 1606 – Norimberga 1688) dedicato alla vita e alle opere del pittore fiammingo Gerard Seghers (Anversa 1591 -1651), dove si faceva cenno alla “Bartholomeo Manfredi Manier”,  tradotta però erroneamente - nota Papi - peraltro molti anni dopo, appunto come “manfrediana methodus”. Ecco, secondo lo studioso, “l’equivoco” che ha portato la critica  “a conferire a Manfredi un ruolo di caposcuola che nei fatti sembra da ridimensionare…”.
Scopo del volume, dunque, è fondamentalmente quello di chiarire tale equivoco e riproporre l’intera questione dell’eredità caravaggesca su basi nuove, assegnando ai vari attori i giusti ruoli.
Vero è che l’indagine sul pittore di Ostiano è resa particolarmente ardua dalla reticenza, per dir così, delle fonti e dei documenti che, pur essendo “non pochi” (un caso molto raro tra i pittori caravaggeschi), tuttavia “offrono un supporto labile per poter organizzare la ricostruzione del percorso del pittore”.

tavola 3In casi come questo, in effetti, il rischio è di finire fuori strada con divagazioni letterarie o iconografiche, cosa di cui l’autore si mostra consapevole quando accortamente afferma che “risulta davvero avventato in molti casi anche solo avanzare supposizioni”. Anzi, la carenza di dati documentari precisi comporta che spesso Papi sia costretto a procedere utilizzando esclusivamente riferimenti “interni alle opere, come la ricorrenza dei modelli”: un procedimento per sua stessa ammissione “insidioso”, considerata la breve durata della carriera del pittore, che non implica cambiamenti importanti nella fisionomia di un modello.
Ed in effetti, un “unico riferimento cronologico preciso e certo” si può riscontrare nella datazione delle opere di Manfredi: il famoso Sdegno di Marte (fig. 2), certamente dipinto nel 1612, una data a ridosso della quale è possibile far risalire, ma solo tramite qualche altra “incerta traccia cronologica”, opere come un Ecce Homo e l’Allegoria delle quattro stagioni (fig. 3). Più sicura appare, o meglio appariva, invece la cronologia di dipinti quali il Concerto e i Giocatori di carte (distrutti come si sa nell’attentato mafioso del 1993 agli Uffizi), probabilmente risalenti al 1617, non foss’altro perché l’anno dopo pervennero nelle collezioni del Granduca di Toscana, Cosimo II.
Ma per quali motivi lo studioso ha voluto correre il rischio di sciogliere, in presenza di dati così modesti e labili, la controversa questione degli sviluppi cronologici dell’attività dell’artista?

tavola 4Posto che non si può certo affermare che la nebbia si sia del tutto diradata, la risposta va ricercata proprio nella sua tesi che, già a partire dagli inizi del secondo decennio del XVII secolo, il ruolo di caposcuola di Manfredi vada completamente ridimensionato.
La verità è che Papi, non da oggi, considera non Manfredi, bensì Jusepe de Ribera (Jativa, 1591 - Napoli, 1652) il vero interprete della rivoluzione caravaggesca, l’autentico perno fondamentale di uno dei momenti cruciali dell’intera storia dell’arte primo-seicentesca.
E’ noto infatti che lo studioso ha dedicato tanta parte dei suoi lavori più recenti all’artista valenciano (fig. 4) delineando, tra l’altro, una curvatura così ampia delle sue opere che essa si allarga a comprendere l’intera produzione del cosiddetto Maestro del Giudizio di Salomone, che egli ritiene debba coincidere con quanto dipinto da Ribera a Roma tra il 1613 e il 1616, l’anno del precipitoso trasferimento dell’artista a Napoli.
Va detto che numerosi specialisti hanno fatto proprie le proposte di Papi - basate su verifiche stilistiche, ma non sempre sostenute da precisi riscontri documentari - in base alle quali l’importanza determinante della ‘stagione romana’ di Ribera “ha ridimensionato - così egli scrive - il ruolo di Manfredi e di quella che ahime! ancora viene considerata la manfrediana methodus”.

tavola 5Sarebbe stato insomma lo Spagnoletto - unico, vero “assoluto protagonista del secondo decennio” - a promuovere, sulla scia delle invenzioni caravaggesche, “tra la fine del primo decennio e il 1616” quella “serie di clamorose iconografie-prototipo, la maggior parte dall’andamento orizzontale”  che obbligano a rivedere tutta una serie di priorità.
Ma seguiamo le nuove considerazioni dello studioso e le conseguenze che egli ne trae, che sicuramente non mancheranno di suscitare discussioni.
Certo, per Papi Manfredi resta “un artista ragguardevole”, che però non può competere con la forza e la irruenza compositiva del valenciano. Ne deriva che “… Valentin, Regnier , ma anche Vignon … Baburen,  De Haen … Stomer, Cavarozzi, fino a Serodine, tutti sono in rapporto con Ribera e il concetto di ‘manfrediana methodus’, che per alcuni di loro è stato spesso usato, dovrà essere decisamente ridimensionato”.

tavola 6Ma c’è di più: “A questo punto appare chiaro come non sia più procrastinabile una revisione degli anni successivi alla morte di Caravaggio … E’ mia convinzione - insiste Papi - che per tutti quegli artisti che giungevano a Roma nel corso di quel secondo decennio … non fossero le opere di Caravaggio a determinare la loro carriera, non fossero le pale di san Luigi dei Francesi o sant’Agostino i modelli a cui ispirarsi per soddisfare le richieste dei committenti. Certo, quelli erano i testi sacri del maestro … ma sul piano stilistico … c’erano già gli aggiornamenti naturalistici di quei quattro componenti la ‘schola’, secondo la selezione operata da Mancini, cioè Ribera, Spadarino, Cecco del Caravaggio e Manfredi”.
Va da sé che, tra costoro, sia quella di Ribera “la personalità più grande”. E’ lui infatti che “spinge il verbo caravaggesco verso nuovi approdi, lo aggiorna, lo reinterpreta, lo riforma…”. Insomma, secondo Papi solo il genio di Ribera fu davvero in grado di elaborare quelle proiezioni di tipo culturale che si espressero attraverso nuovi valori nati da un’esigenza di autonomia anche spirituale, la cui genesi e la cui valenza lo studioso - come dicevamo – sta esplorando da tempo.
E tuttavia a giustificare la preminenza accordata alla personalità del valenciano quale vero interprete della rivoluzione caravaggesca,  dovrebbe concorrere anche qualcosa di ulteriore, rispetto alle pur grandi potenzialità espressive cui fa cenno l’autore, e a come erano trasposte, in ‘orizzontale’, sulle tele.

Se è vero, cioè, che l’immagine in genere raffigura un evento, la traduzione figurativa di una memoria determina inevitabilmente risultati differenti, che allo stesso tempo sono frutto ed evidenziano le diverse personalità, il loro background culturale, la loro capacità di presa e di coinvolgimento: la possibilità, in una parola, di essere espressione dell’hegeliano ‘spirito del tempo’.
Insomma, le ragioni che in quegli anni di forte cambiamento videro vincente un percorso progettuale, quello di Ribera - come sostiene, a ragione,  Papi - piuttosto che quello manfrediano, andrebbero ricercate in un più ampio contesto, anche e soprattutto nel differente approccio critico nei confronti della realtà, nella più avvertita tensione a trasferirla in modelli compositivi. Qualcosa che in questo libro, a nostro parere, resta nell’ombra.

In ogni modo, risistemate le cose nel modo che abbiamo visto, è possibile riprendere il discorso sull’opera di Manfredi, che viene quindi ad assumere una nuova dimensione in considerazione delle priorità  da Papi individuate e suggerite, e inserendo dentro questa logica il rapporto tra i due pittori, o meglio il “forte interesse del mantovano per le innovazioni dello spagnolo”, che egli vede ben chiaro già nella Negazione di san Pietro di Braunschweigh (fig. 5), dipinta intorno al 1617-18. Sono anni in cui, “dopo una fase giovanile orientata dall’insegnamento del Merisi ... il linguaggio del mantovano si apre a nuove esperienze e il contatto con Ribera appare evidente”, come dimostra un bel San Gerolamo (fig. 6) ora in collezione privata, che “non può non far pensare ad analoghe figure di Ribera”.

tavola 7A questo punto la stessa fisionomia del pittore di Ostiano appare in una luce differente anche rispetto a quella piuttosto negativa nella quale è stato inserito fino a ieri dalla critica d’arte - da Hermann Voss a Roberto Longhi, da Evelina Borea a Maurizio Marini - a seguito dell’“ingiusto apprezzamento” dimostrato nei suoi confronti dal biografo-artista Giovanni Baglione, che lo considerava alla stregua di un mero copista dello stile di Caravaggio.
Si capisce così anche quella frase introduttiva quasi paradossale dello studioso, in ragione della quale la scelta di un lavoro articolato su Manfredi sarebbe potuta apparire perfino singolare, e che invece non può essere considerata alla stregua di un fatto meramente formale, visti il preciso intento analitico perseguito dall’autore e il particolare valore emblematico da lui attribuito alle forme e alle immagini lasciate in eredità dal Merisi.

Vero è che fiumi di inchiostro sono stati versati nel tentativo di dimostrare entro quali ambiti - morali, religiosi, spirituali - dovrebbe essere inserito o quanto meno studiato il linguaggio rivoluzionario del grande lombardo e degli artisti che in vario modo ne furono partecipi nell’Europa primo-seicentesca, né è questa la sede per riprendere un tema su cui la critica d’arte indaga da tempo e da diversi punti di osservazione.

tavola 8Tuttavia, se quello che sostiene Papi è esatto, al pari di Caravaggio, proprio Jusepe de Ribera sarebbe il protagonista di un clamoroso rinnovamento del linguaggio artistico, al quale anche Manfredi partecipò, sia pure - come ora sembrerebbe - in maniera subordinata, e che prese corpo in corrispondenza di un riadattamento complessivo dei linguaggi tradizionali dell’arte, però come variante o, meglio, come espressione particolare ed originale di uno stile ben delineato, affermatosi - si può dire - fra il 1560 e il 1620-30, quale emanazione delle istanze conciliari.
Uno stile, diciamo così, non più manierista e non ancora barocco, che si materializza quando inizia a manifestarsi quello che a suo tempo Arnold Hauser definì “il programma artistico della Controriforma”, vale a dire “la diffusione del cattolicesimo per il tramite dell’arte fra le masse popolari” (Vedi Storia sociale dell’arte, Torino, 1964, I, p.405).
E’ noto come il cardinale Gabriele Paleotti (Bologna,1522  - Roma, 1597) perseguisse propriamente questo scopo quando richiamava gli artisti ad avere “sempre l’occhio al fine di giovare”. ”Non si consenta a nessuno – ammoniva - di introdurre immagini non consuete”, arrivando perfino a proporre che anche nell’arte figurativa si facesse ricorso all’imprimatur ecclesiastico, evocando - peraltro senza successo - la necessità di un ‘indice’ anche per la pittura.

tavola 9In una missiva al pontefice Clemente VIII Aldobrandini (Fano, 1536 – Roma, 1605) il prelato bolognese aveva infatti scritto: “Per nessun motivo va trascurata l’opportunità di questo nuovo indice, affinchè - ora che si è provveduto ad un parto sano dei libri - le immagini, che si ritengono gemelle di quelli, non siano ritenute aborto di nessun valore”. La lettera in realtà non arrivò mai sulla scrivania del Pontefice, anche perché - come ha scritto Maria Calì - “la sua figura di estremo difensore delle norme tridentine … sotto la pressione della nuova congiuntura storica in gestazione, appare quella di un personaggio ormai superato” a fronte delle novità - anche iconografiche - che si venivano determinando (Vedi Da Michelangelo all'’Escorial, Torino 1980, p. 28).
In effetti la Chiesa romana, messa ormai praticamente la sordina a ogni voce dissenziente e, soprattutto, ristabilita a livello culturale una sua compattezza, poteva aprire ad una prassi in cui venissero recuperati anche determinati valori estetici, emendati naturalmente dagli elementi non conformi alle regole.

tavola 10Non a caso, già sul finire del XVI secolo, l’abate lombardo Gregorio Comanini (Mantova, 1550 – 1608) nel suo trattato Il Figino, ovvero del fine della pittura, scritto nel 1591, poteva permettersi, sulla scia di Torquato Tasso, di sostituire il “verosimile” caro a Paleotti con il “credibile meraviglioso”, esaltando l’arte di Arcimboldo, capace di esprimere “cose insensibili con simulacri sensibili”.
Ma un valore di rilievo, anche perché pronunciate dal censore di Giordano Bruno e di Galileo, assumono anche le parole del gesuita cardinale Roberto Bellarmino (Montepulciano 1542 – Roma 1621), che solo pochi anni dopo così si esprimeva sulla pittura: ”Dipingere qualcosa di non pertinente alla storia è lecito al fine di spiegarne il senso mediante una raffigurazione non immediata e praticamente somigliante, ma analogica, ossia mediante allusioni metaforiche e mistiche”.
Come, insomma, si può capire agevolmente, gli anni a cavallo tra la fine del Cinquecento e il primo quarto del Seicento, ovvero quelli dei pontificati Aldobrandini prima e Borghese poi, che coprono un intero trentennio, dal 1592 al 1621 (tralasciando la brevissima parentesi, durata appena 26 giorni, nell’aprile del 1605, del papato di Leone XI Medici), pongono problemi determinanti in tutti i campi, e in primis, per quanto ci riguarda, in quello estetico-espressivo. Qui, il confronto tra le diverse generazioni di artisti che non avevano vissuto gli eventi legati alla controriforma e che erano nati dopo il Concilio di Trento si risolveva in una frattura irreversibile, in cui certo Caravaggio ebbe il ruolo di primo attore, ma di cui furono protagonisti, dopo di lui, anche gli “aderenti alla sua schola” - per usare le parole del biografo Giulio Mancini. Tra questi, in particolare Ribera, a cominciare proprio dalla sua pur breve stagione romana, come affermato a suo tempo e ribadito in questa sede da Gianni Papi.

tavola 11Ma se sull’opera e sulla figura dello Spagnoletto le ricerche dello studioso hanno segnato avanzamenti significativi, l’indagine su Manfredi lascia ancora delle questioni aperte. Se infatti è vero che, in assenza di dati precisi, la testimonianza più importante per un artista consiste nella sua opera, tuttavia in questo caso è assente ciò che sarebbe determinante al fine di un inquadramento obiettivo, cioè a dire una costanza espressiva che, al contrario, come anche Papi più volte sottolinea, in Manfredi non è dato rilevare.
Se infatti lavori importanti come i Giocatori di dadi (fig. 7) furono “formidabili prototipi cui guarderanno molti artisti” per l’elevato “livello qualitativo e il corrispondente equilibrio compositivo”, ben altra atmosfera “livida e pesante” si respira in opere come la Riunione di bevitori  o il Bacco bevitore (figg. 8 e 9), con quei “personaggi un po’ sgradevoli” dai volti “sguaiati e volgari”. “Davvero – commenta lo studioso - si stenta a riconoscervi la sensibilità del pittore”.

E’ questo in effetti, uno dei maggiori misteri che accompagnano la vicenda artistica di Bartolomeo Manfredi capace di produrre, nello stesso torno di anni, accanto alla “elegante posa del nudo apollineo del Re Mida” (fig. 10) e alla “composta raffinata eleganza dell’Ercole al bivio”, anche una Madonna con un bambino “particolarmente sgraziato” (fig. 11) , o i “corti protagonisti” pressoché “simili a pupazzi” del Tancredi e Clorinda, nonché un Cristo che compare alla madre (fig. 12) caratterizzato dalla  “sgradevole sproporzionata apparenza, al limite della deformazione fisica”.
tavola 12Non sarebbe stato inutile probabilmente, nel tentativo di dare risposta a questo e ad altri aspetti poco chiari, non solo dell’opera dell’artista, ma dell’ intero complicato contesto in cui egli s’inserì, delinearne più a fondo i caratteri sociali, morali e religiosi, e definirne le componenti ideologiche (ammesso che ci siano state).
Ad esempio, proprio nel caso del Cristo che compare alla madre non va trascurato il fatto che si trattasse di un episodio apocrifo, basato solo sulla Leggenda aurea, come del resto l’intera iconografia relativa alla vita della Vergine dal momento che essa non aveva alcun supporto nelle scritture se non appunto in Jacopo da Varagine o nei poco amati Vangeli apocrifi, tanto che a suo tempo Pio V Ghislieri ne aveva soppresso alcune festività.
Vero è che ai silenzi del Vangelo si giustapponevano alcuni passi degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola o della Vita di Santa Teresa, che sembravano invece coniugare teologia e sentimento, nonché la consapevolezza delle gerarchie che le immagini delle storie mariane fossero da tempo familiari ai fedeli e che mantenessero una notevole forza di convinzione, in grado di contrastare le negazioni degli eretici.
Non a caso dunque il tema si incontra in questo che fu l’ultimo lavoro di Bartolomeo Manfredi, ma anche in generale nell’arte del XVII secolo, perché per alcuni ordini religiosi, per i lettori di sant’Ignazio, per le confraternite del Rosario l’apparizione di Gesù Cristo alla Madre era uno dei ‘misteri gaudiosi’, che non era il caso di mettere in discussione (pur rimanendo i teologi molto riservati in materia).

Realizzazioni di immagini devozionali, manipolazione dei sentimenti, coinvolgimento di massa: la cultura post-conciliare, insomma, autorizza un vocabolario visivo che se qualche volta presenta motivi non proprio conformi alle indicazioni tridentine, tuttavia appare pienamente funzionale al riaffermazione della supremazia del cattolicesimo romano e alla logica del conservatorismo istituzionale.
Inserire in questo ambito il problema delle trasformazioni del linguaggio caravaggesco, avrebbe certo comportato l’esigenza di porre l’accento, riguardo all’artista di Ostiano, in modo assai più esauriente, di quanto qui non appaia (ma è una tendenza, questa del ridimensionamento del dato contestuale complessivo, comune a molta critica d’arte), sulla complessità di un periodo che certamente al suo interno contiene contraddizioni e sfumature diverse non sempre ben definibili.

Ma proprio queste caratteristiche contestuali, frutto appunto della “nuova congiuntura storica in gestazione”, sono state poco o punto delineate: a cominciare dal fatto che, come accennavamo, appare tutt’altro che scontata l’immagine di una Chiesa cattolica modellata dalla Controriforma in maniera monolitica e culturalmente compatta.
Basti solo ricordare il durissimo confronto sulla questione del ruolo delle diocesi in tema di beatificazione, previsto dalle deliberazioni tridentine, ma speciosamente contrastato dai circoli cardinalizi più legati all’Inquisizione, timorosi di un allentamento dei poteri monocratici della Curia romana e di un ridimensionamento del ruolo del Sant’Uffizio che ne mettesse a rischio il potere di controllo.
tavola 13Ne fece le spese com’è noto lo stesso Bellarmino, favorevole a delegare all’autonomia decisionale dei vescovi la questione delle canonizzazioni, il quale, proprio per queste ragioni, venne allontanato dalla Curia e trasferito a Capua, nel 1602. Lo studioso Miguel Gotor, che ha analizzato a fondo questi aspetti, riporta il duro battibecco con il papa che le fonti coeve tramandano: quando il cardinale gli si rivolse dicendo che “non negava la potestà di Sua Santità nel decidere quello che sia più conveniente”, Clemente VIII avrebbe replicato stizzito “Questa sarebbe bella! Che negasti la podestà! … Guardate bene quello che dite!” (cfr I beati del papa, Firenze 2002, p. 140)
I riferimenti a queste vicende stanno a dimostrare come le controversie circa le esperienze e le scelte religiose fossero tutt’altro che sparite nella società italiana primo-seicentesca; e la cosa non è di poco conto, considerando come spesso fosse determinante nella scelta degli artisti da ingaggiare, la ‘veste’ per così dire dei committenti, cioè l’ordine a cui appartenevano; e se è vero che tutto ciò non deve in alcun modo sovrapporsi allo studio e all’analisi delle opere d’arte, tuttavia potrebbe delineare meglio i contorni in cui le opere stesse si situano e contribuire a sciogliere quei misteri che il molto tempo passato e l’insufficienza delle fonti spesso propongono.
Del resto, senza questo tipo di chiarimenti, la stessa vicenda artistica di Bartolomeo Manfredi corre il rischio di posizionarsi in una dimensione metastorica, tanto più se spogliata di quella funzione di creatore di una ‘metodologia’ che, secondo Papi, neppure gli si confà.

Non sarà dunque casuale che resti inevaso l’interrogativo sul dilemma circa l’alternanza dei registri espressivi dell’artista, cosa che assume valore paradigmatico – secondo lo studioso - in quella che è la sola pala d’altare che di lui si conosca, cioè L’incoronazione della Vergine di Leonessa (fig. 13), dove “addirittura nello stesso quadro” si registra un contrasto stilistico ragguardevole “tra la parte alta, elegantemente composta .. e quella inferiore, ben più cruda nella resa di alcune fisionomie e nella dimensione un po’ tozza e rustica dei santi (si veda san Francesco)“.

tavola 14Si è discusso, intorno a quest’opera, se sia esistita una fase ’chiara’ a fronte di una ‘scura’ nel percorso di Manfredi, ma il fatto più curioso da registrare, a nostro parere, è invece proprio la pressoché totale mancanza di pale d’altare a lui riferibili: ad un artista, cioè, che, se è vero che non fu uno straordinario innovatore alla stregua di Ribera, tuttavia ricoprì comunque in quei frangenti un ruolo di protagonista tra quanti, sulla scia dei capolavori di Merisi, proponevano un linguaggio ricco di novità tonali e concettuali molto apprezzate soprattutto dagli ecclesiastici, i committenti più raffinati e altolocati.
Questa ennesima ‘stranezza’ ci condurrebbe inevitabilmente a considerare il tema dell’evoluzione del ruolo dell’artista – se non del concetto stesso di arte - in questo particolare scorcio di anni, fosse uno scrittore, un pittore, o altro ; una evoluzione in senso intellettualistico, certo, che tuttavia ci appare, ora e con ogni evidenza, a contrariis rispetto al periodo rinascimentale, se è vero che l’inserimento dell’artista all’interno delle committenze più importanti conosce modalità sempre meno dialettiche e sempre più vincolanti.

tavola 15Non è naturalmente questa la sede per affrontare una tale questione, e tuttavia resta la considerazione da cui siamo partiti; tanto più che non mancano nel catalogo di Manfredi autentici capolavori a carattere religioso, come La cacciata dei mercanti dal tempio (fig. 14) o come la Incoronazione di spine nota anche come Derisione di Cristo (fig. 15), “forse la più bella e la più compiuta tra tutte le rivisitazioni del tema inaugurate dal Merisi”, per non dire delle varie composizioni dedicate ai santi, certo insieme ai concerti, alle riunioni di giocatori e di bevitori, e alle numerose versione di un tema caravaggesco ‘classico’, la Buona ventura, tra cui quella oggi a Detroit (fig. 16), è forse la più importante “per l’influenza esercitata durante il terzo decennio”.
Questo dipinto viene situato “in prossimità della fine del secondo decennio”, appartiene cioè alla fase della “maturità del pittore” e “prelude alla fase finale”, quando si giunge “a un approdo di improvvisa cupezza, di sorda solitudine esistenziale” ad una pittura “dominata dalle ombre”. Quali i motivi?

tavola 16“E’ plausibile pensare – scrive Papi - ad una crisi umana del pittore, forse all’aggravarsi della malattia (quel “mal cattivo” di cui era “pieno”, secondo Baglione) a una tristezza senza sbocchi” dove i personaggi “diventano ectoplasmi, lemuri dagli occhi grandi”, come nelle “figure fantasmatiche” del Tributo della moneta (fig. 17).
Ma sotto questo aspetto, quella che colpisce di più, è l’opera che la critica considera l’ultima in ordine di tempo dell’artista di Ostiano, cioè quel Cristo che compare alla madre (fig. 12), dove le “due figure protagoniste hanno perso ogni voglia di gradevolezza, di miracolosa solenne austerità … Hanno entrambi la testa grande … i corpi quasi disossati, i colori ridotti a pochissime tinte, i volti sono maschere un po’ deformate”. E’ l’opera che suggella, come scrive Papi, la fine “struggente e straziata” del pittore, “forse molto malato … e disperato per una fine immatura e imminente” .
E in effetti, la fase ultima di questa parabola esistenziale non poteva che concludersi con “questa disturbante visione” in cui in verità si può rispecchiare tutta la fragilità e la vulnerabilità dell’essere umano.
Pietro Di Loreto, 25/10/2013

tavola 17Gianni Papi
Bartolomeo Manfredi
Edizioni dei Soncino
Soncino, 2013
pp. 328, 85 tavv. col., 112 b/n, ill. col., cm 25x35
€ 180