Giovanni Cardone Febbraio 2022
Fino al 27 Marzo 2022 si potrà ammirare la mostra a Palazzo Barberini di Roma Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento, a cura di Maria Cristina Terzaghi. L’esposizione, ospitata nello spazio mostre di Palazzo Barberini Roma accende i riflettori sulla celeberrima tela di Caravaggio a settant’anni dalla sua riscoperta e a cinquanta dall’acquisizione da parte dello Stato Italiano. Due anniversari che “è molto importante celebrare”, sottolinea Flaminia Gennari Santori, direttrice delle Gallerie Nazionali, che prosegue: “questa mostra corrisponde perfettamente alla mia visione di un museo in continua narrazione polifonica, confronto e scambio fra collezione e mostre temporanee.
Un racconto in costante evoluzione con l’obiettivo di offrire chiavi di lettura sempre diverse ai nostri visitatori”. ?
Tra le più famose e acclamate opere del Merisi, grazie alla potenza della rappresentazione e alla forza emanata dai tre protagonisti, la Giuditta venne riscoperta nel 1951 da Pico Cellini, uno dei massimi restauratori del Novecento. Dopo aver visitato la prima grande mostra dedicata a Caravaggio e ai pittori caravaggeschi, allestita a Palazzo Reale a Milano da Roberto Longhi, il restauratore ricordò che da ragazzo aveva visto in un palazzo romano una tela raffigurante Giuditta e Oloferne attribuita ad Orazio Gentileschi, ricollegandola ora allo stile di Caravaggio.
Cellini riuscì a ritrovare il dipinto presso il proprietario Vincenzo Coppi, a fotografarlo e a mostrarlo a Longhi, che all’istante chiese e ottenne la proroga della mostra per poterlo includere.
La tela eseguita nel 1599 da Caravaggio per il banchiere ligure Ottavio Costa, scomparso nel 1639, non fu mai alienata, rimanendo a Roma fino a metà Ottocento, quando passòdi proprietà agli avi del Coppi, per poi entrare far parte,nel 1971, del patrimonio delle Gallerie Nazionali di Arte Antica. Gelosissimo dell’opera, il Costa ne proibì non solo l’alienazione, ma anche la riproduzione, motivo per cuinon ne esistono copie seicentesche fedeli, una cosa rara nel catalogo di Caravaggio. Nonostante le cautele del proprietario, la rivoluzionaria composizione ideata dal Merisi riuscì comunque a circolare. In mostra tretauno opere quasi tutte di grande formato e provenienti da importanti istituzioni nazionali ed internazionali quali, fra le altre, la Galleria Corsini e Galleria Palatina di Firenze; il Museo del Prado e il Museo Thyssen di Madrid; le Gallerie d’Italia Palazzo Zevallos Stigliano, il Museo di Capodimonte di Napoli; la Galleria Borghese di Roma; il KunsthistorischesMuseum di Vienna; il Museo di Oslo. In una mia ricerca storiografica e scientifiche sulle figure di Michelagelo Merisi da Caravaggio e Aretmisia Gentileschi che hanno rivoluzionato la pittura tra il cinquecento e il seciento in questo mio saggio dico : Volevo ricordare in questa sede la figura di Roberto Longhi che nel 1951 inagurò dopo anni la prima mostra del Caravaggio in Italia che fu fatta al Palazzo Reale di Milano.
Se oggi Caravaggio è considerato uno dei più grandi geni dell’arte italiana e non solo, pittore tra i più amati da pubblico e critica. Attorno alle sue opere e alla sua storia particolarmente tribolata sono fioriti nel corso degli anni mostre, eventi, pubblicazioni, film, documentari, fumetti e iniziative che, grazie al suo nome e all’immaginario che si porta appresso, vanno sempre incontro a un grandissimo successo di pubblico. Per secoli però Caravaggio è stato un artista dimenticato, caduto in un oscuro oblio. È Roberto Longhi che lo ripesca dal dimenticatoio in cui era finito e lo restituisce alla Storia dell’Arte procurandogli un nuovo ruolo, di primissimo piano. Con la mostra milanese del 1951 è sancita
la sovranità caravaggesca, un punto di non ritorno. Per Caravaggio i momenti critici e decisivi furono nei primi anni della sua esistenza saranno senz’altro il divampare della peste a Milano nel 1576, allorché l’artista, insieme alla corte di Francesco I Sforza presso la quale il padre Fermo svolgeva l’attività di architetto decoratore, fu costretto a rifugiarsi nel marchesato di Caravaggio; le difficoltà della madre a tirare su cinque figli, dopo la morte del padre e dello zio a causa della peste ormai giunta anche nel borgo bergamasco; il passaggio del marchesato dagli Sforza ai Colonna, famiglia che lo proteggerà salvandogli la vita in diverse occasioni. Alla nascita del Caravaggio, pontefice è a Roma Sisto V, sono gli anni cruciali della Controriforma. Il ducato di Milano, sotto il dominio spagnolo, si presenta come un focolaio di reazione religiosa e come epicentro
di una fervida produzione artistica: mentre in tutta la penisola spopola la “maniera”, una tipologia di pittura accademica e leziosa, circoscritta a una sterile imitazione dei celebri maestri romani o veneziani, in Lombardia prende forma uno stile più libero e vicino alla realtà. Anche a Milano, sulla scia dei fratelli Campi si stava affermando una scuola che, ispirandosi alla realtà quotidiana, proponeva un nuovo modo di trattare la luce. Forse è Giovanni Girolamo Savoldo a trasmettere a Caravaggio la rivelazione del chiaroscuro: la luce non cadeva più solo dal cielo, come dono divino. Altri artisti come Moretto da Brescia, Vincenzo Foppa e Girolamo Romanino si dibattevano in maniera violenta contro la “maniera”. A Bologna i fratelli Carracci lavoravano animati dallo stesso spirito. A Cremona, dove Caravaggio vide nella cattedrale gli affreschi del Pordenone, la famosa Sofonisba Anguissola, che da giovane aveva conosciuto il grande Michelangelo Buonarroti, alternava ritratti di principi in trono a scene tratte dalla vita reale; in un disegno a gessetto o a carboncino aveva raffigurato suo figlio punto al dito da un gambero. Quel disegno, oggi al Museo Nazionale di Capodimonte, si impresse nella mente del giovane artista: sarà il soggetto di uno dei primi dipinti che realizzerà dopo l’arrivo a Roma. Dopo la formazione milanese, intorno al 1592 si trasferì a Roma, dove poi soggiornerà per gran parte della sua breve esistenza. Durante il viaggio si fermò senz’altro a Parma, dove Annibale Carracci aveva dipinto ai Cappuccini una
Deposizione della Vergine, poi si spostò a Viterbo, dove ammirò la
Flagellazione di Cristo di Sebastiano del Piombo e a Firenze, dove a colpirlo furono le opere del Masaccio nella Cappella Brancacci di Santa Maria del Carmine.
La sua carriera comincia al soldo di alcuni collezionisti per i quali dipinge diverse opere profane, mentre sarà solo al volgere del secolo che si concentrerà su tematiche sacre. Le sue pale d’altare accesero entusiasmi e, al contempo, destarono serrate critiche: Caravaggio, per via di una vita a dir poco turbolenta, diviene il pittore più discusso del tempo.
Del resto la sua scelta non fu casuale, aveva deciso di stabilirsi a Roma poiché era la capitale artistica e culturale d’Italia, vale a dire del mondo. La città è più che mai viva. La cupola di San Pietro, il più grande edificio del mondo, è appena stata terminata, imponenti basiliche come Santa Maria Maggiore o San Giovanni in Laterano proclamano il trionfo della cristianità, si aprono nuove strade, come il Corso. Il porto di Ripetta, sul Tevere, è una porta aperta sul mondo. Sisto V ha lanciato un appello a tutti gli artisti della penisola, architetti, pittori, scultori, incisori, orafi. L’artista lombardo aveva portato con sé alcune tele dipinte da Peterzano, ma la loro verve realista non suscita gli interessi locali: a Roma a dilagare sono il “manierismo” e la copia di Michelangelo e Raffaello. Gli artisti in voga, privi di ogni sorta di originalità, non hanno lasciato molte tracce nella storia dell’arte. Le nuove tendenze, affermatesi con il lavoro del bolognese Annibale Carracci, designato per la decorazione della galleria di Palazzo Farnese, ispirano ancora diffidenza e faticano quindi a imporsi. Per andare avanti Caravaggio dovrà adeguarsi alla moda imperante. Dopo aver soggiornato nei bassifondi dell’Urbe, in mezzo a esiliati lombardi, spaccapietre senza lavoro, pittori e scultori in torbide acque e avventurieri alla ricerca disperata di un buon colpo, decise di accettare senza eccessivo entusiasmo una commissione dal Lorenzi, noto pittore siciliano ben inserito nel contesto romano. Nella bottega ritrova altri apprendisti bergamaschi, tra cui i fratelli Longhi. Caravaggio alterna così sedute di lavoro, bevute, giri nei quartieri malfamati e ritrovi in campagna nelle “vigne”, domini di ricchi protettori. Stringe intanto amicizia con Lionello Spada, altro giovane pittore senza commissioni. La fortuna giunse improvvisa, gli sorrise nelle sembianze di un ricco prelato, monsignor Pandolfo Pucci, beneficiario di San Pietro, stimato a corte, un uomo dai gusti raffinati e attento alle nuove tendenze artistiche e ai giovani. Fu come rapito dal talento e dalle attitudini di Caravaggio, affascinato dalle sue inclinazioni selvagge e intransigenti: gli offrì vitto e alloggio, l’unica condizione il dover accettare di copiare dipinti religiosi. Monsignor Pucci li inviò poi al convento dei Cappuccini di Recanati, sua città natale. Nessuna di queste opere è stata poi pervenuta.
Caravaggio si assicura anche del tempo libero, dipinge ciò che si sente, ogni cosa gli passi per la testa. Di questo periodo il
Ragazzo morso da un ramarro, il
Ragazzo che monda un frutto, il
Ragazzo con una caraffa di rose, e il bellissimo
Musica di alcuni giovani, noto anche come
I musici. In quest’ultimo dipinto appare il primo autoritratto del pittore, il cantore in fondo a destra. Al soggiorno da monsignor Pucci risalgono anche alcune
Nature morte, a lungo attribuite ai fiamminghi, e il magnifico
Suonatore di liuto, lo strumentista è uno dei suoi modelli preferiti.
Sembra che a ispirarlo siano solo i ragazzi, si dovrà attendere più di un anno affinché una
Maddalena piuttosto toccante prenda vita dal suo pennello. Lasciata la residenza del Pucci, forse per l’indole complessa e l’avarizia del prelato, Caravaggio si ritrova in mezzo alla strada, tre anni dopo il suo arrivo nella capitale. A raccoglierlo Antivenduto Gramatica, un vecchio amico della bottega Lorenzi. Poco dopo un altro momento traumatico nell’esistenza dell’artista lombardo: Caravaggio si ammala di febbre romana, male che imperversa su tutta la penisola. Viene allora trascinato dal suo amico Longhi fino al santa Maria della Consolazione, l’ospedale dei poveri, le speranze di rivederlo sono ben poche. Caravaggio finisce tra gli agonizzanti, quella pare essere l’anticamera della morte. Il passaggio del priore dell’ospedale, monsignor Contreras, uno spagnolo intimo di Pucci che lo riconosce, gli vale la salvezza: trasferito in una camera meno nauseabonda viene affidato alle cure di alcune religiose. Dopo sei mesi di ricovero, Caravaggio si riprenderà, ma l’esperienza dolorosa e traumatica lo segnerà per sempre non guarirà mai completamente, per tutta la vita soffrirà di mal di testa e dolori al ventre, in numerose opere potrà ritrovarsene l’eco, si pensi alla
Morte della Vergine o al
Bacchino malato. Successivamente fu accolto nella bottega del Cavalier d’Arpino, pittore alla moda, su raccomandazione del priore o monsignor Pucci. Questo personaggio era il favorito della buona società e contava buoni contatti presso la corte papale. Qui il pittore milanese incontra i più ricchi mecenati romani, cardinali, ambasciatori e artisti romani, oltre ai più importanti mercanti della città. Tra questi, Valentino, che giunto dalla Francia subito si interessa a lui. Nel mentre, sempre nella bottega del Cavaliere, Caravaggio dipinge un
Ragazzo con canestra di frutta, che sarà poi donato da papa Paolo V a suo nipote Scipione Borghese. Il dipinto, insieme al
Bacchino malato e alla
Canestra di frutta, sarà poi requisito nel 1607, per motivi fiscali, dagli emissari di Paolo V, successore di Clemente VIII. Il Cavaliere d’Arpino, ormai circondato da nemici, finirà in prigione per possesso illecito di un archibugio. È inoltre ipotizzabile che nello stesso periodo Valentino abbia venduto altri dipinti di Caravaggio, eseguiti in clandestinità nel laboratorio dell’Arpino. Caravaggio è di nuovo per la strada. Conosce l’élite degli appassionati d’arte, ma è ai vagabondi di Roma che si volge. Sordo ai consigli di Valentino, sicuro di sé e del proprio talento, inebriato di libertà, passa il tempo in giro per piazza Navona o sulle rive del Tevere, in compagnia di amici pittori, per lo più squattrinati come lui. Longhi si è defilato, sostituito da Lionello Spada, sempre disposto a buttarsi in nuove avventure, e dal tempesta, altro transfuga del Cavalier d’Arpino insieme a tanti altri.
Si divertono a provocare la polizia papale, frequentano le numerose ragazze facili di Roma, si fanno colossali bevute, scandalizzano i borghesi. Caravaggio ha vent’anni e vuole dimenticare le copie delle Madonne e le ghirlande di bottega, vuole vivere e dipingere a modo suo; ma ha bisogno di soldi. (Lambert, 2008). Fu così che decise di tornare da Valentino, il mercante gli consiglia di impegnarsi nella realizzazione di soggetti sacri, la cui richiesta era piuttosto elevata. Caravaggio si presta, chiedendo colori e pennelli ma, invece di un dipinto a sfondo religioso, consegna un secondo
Bacco: il dio, stavolta, ha le sembianze di un giovane in buona salute, dal viso gonfio, lo sguardo languido, avvolto dalle tradizionali foglie di vite, con un calice di vino tra le mani, vicino a una caraffa mezza piena. Rifiutato o venduto con difficoltà, l’opera non risolverà i problemi dell’artista, sempre al verde e alla ricerca di un qualche “protettore” per tirare avanti. Valentino, intuito che si trovasse innanzi un genio, lo supplicò affinché accettasse una “vera” commissione. Forse, per convincere Caravaggio a dedicarsi a un tema di natura sacra, il mercante gli fece balenare davanti la possibilità di guadagnarsi la protezione di uno dei più facoltosi mecenati romani, il cardinale Francesco Maria Del Monte, tra i suoi più affezionati clienti. Presumibilmente stanco del vagabondare e in preda a una crisi interiore, Caravaggio si convinse ad accettare la proposta di Valentino, promettendogli che si sarebbe impegnato a dipingere un quadro di ispirazione religiosa. Dipingerà un capolavoro, che gli aprirà le porte dei grandi collezionisti romani e che, consacrandolo alla fama e alla stima dei potenti, segnerà la fine della sua giovinezza: nella cantina del Valentino vide così la luce il
San Francesco in estasi, detto anche
Stigmate di San Francesco. L’espressione “tenebrismo” è usata in pittura per indicare l’utilizzo generico di nuance scure, laddove l’ombra è accentuata da un forte contrasto tra luce e buio la celebre tecnica del chiaroscuro con l’intento di ricreare nell’immagine un effetto di profondità e di illuminazione. Sebbene non ne sia il demiurgo, Caravaggio è solitamente accostato a tale concetto e questo perché la fama dei suoi dipinti esercitò una influenza senza tempo. L’essenza delle sue opere fu colta con estrema puntualità da uno dei suoi primi biografi, Giovanni Pietro
Bellori, nelle Vite de’ pittori, scultori ed architetti moderni: Facevasi ogni giorno più noto per lo colorito ch’egli andava introducendo, non come prima dolce e con poche tinte, ma tutto risentito di oscuri gagliardi, servendosi del nero per dar rilievo alli corpi. E s’inoltrò egli tanto in questo suo modo di operare, che non faceva mai uscire all’aperto del sole alcuna delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle entro l’aria bruna di una camera rinchiusa, pigliando un lume alto che scendeva a piombo sopra la parte principale del corpo, e lasciando il rimanente in ombra a fine di recar forza e veemenza di chiaro e di oscuro. Nei dipinti di Caravaggio, del resto, c’è quasi sempre una ricerca di angoli di luce, di particolari che risplendono in un contesto più scuro. Alcune analisi a riguardo confermerebbero una diffusa presenza, in molti quadri e in più punti degli stessi, di sostanze fluorescenti, e in particolare di sali di mercurio. Di fatto si trattava di primi esperimenti di proiezione: la luce naturale illumina una figura esterna alla camera e trasmette una sua immagine attraverso un foro dell’involucro, passando all’interno dove è raccolta da lenti e riproiettata su una parete interna. Nella
Cena in Emmaus del1601, Gesù rivela la sua identità: egli è il Cristo risorto e si mostra a due discepoli che non lo avevano riconosciuto, mentre un locandiere in piedi scruta la scena. La precisa direzione che la luce sembra seguire mette in risalto i personaggi facendoli stagliare con impeto dallo sfondo, mentre al contempo la loro presenza fisica è resa con immediatezza grazie all’aggiunta di elementi realistici, si pensi ai vestiti lacerati, i dettagli dei volti e la vistosa gestualità teatrale delle figure: il gomito del discepolo sulla sinistra e la mano di quello a destra sembra quasi che vogliano sbucare fuori dal dipinto. Si è parlato nella circostanza di figura in carne e ossa: un aspetto solido che prende le distanze dai soggetti idealizzati dall’arte religiosa tradizionale. Del resto non mancarono suoi contemporanei che lo accusarono di mancare di rispetto nei confronti delle figure sacre, riferendosi allo stile e alla resa delle persone.
Altri, invece, rimasero sbalorditi dal suo originale modo di rappresentare le storie consuete. La sua opera ebbe una spropositata influenza nel corso del primo quarto del XVII secolo, non a caso si parla di Caravaggismo.
Furono in tanti gli artisti che accettarono la “sfida” tentando di emulare le sue tecniche, anche se con troppa frequenza gli esiti andarono a irrigidire o ad affievolire il suo stile, con lo smarrimento della caratteristica grandiosità e potenza espressiva. Caravaggio proseguì il suo peregrinare attraverso le pennellate dei suoi eredi: Artemisia Gentileschi, Battistello Caracciolo, Georges de La Tour, solo per citarne alcuni. Mentre Artemisia Gentileschi rientra in quella categoria di personaggi autorevoli la cui biografia non può essere trascurata ai fini di una corretta fruizione dell’opera. Studiare la sua produzione significa fare i conti con fatti ed eventi cruciali della sua esistenza. Di questo occorre tener conto nella giusta misura giacché l’artista è solita lasciare sulla tela tracce di sé. E’ come se la superficie bidimensionale raccontasse contemporaneamente due vicende: da un lato la scena effettivamente riprodotta, dall’altro una storia parallela che, avente per protagonista la stessa Artemisia, finisce per incontrarsi con l’episodio ritratto. Una storia priva di lieto fine in cui a fare da sfondo sono i demoni, le ossessioni, i rimorsi, la vergogna, la passione e l’inquietudine. Sono questi i segni che la Gentileschi si ostina a registrare col pennello su tele che ne rendono immortale sia il talento sia la personalità. Per completare un resoconto esauriente della biografia della Gentileschi senza soffermarsi su dettagli poco utili ai fini della presente analisi, è necessario far riferimento a due nodi cruciali che marcano la sua esistenza: il rapporto col padre e lo stupro subito in giovane età. Due aspetti della storia della pittrice che, se non affrontati con la dovuta cautela, come si vedrà più avanti, possono offuscare “Artemisia artista”, il vero oggetto del presente studio, e mettere solo in risalto “Artemisia figlia e vittima”. Per quanto riguarda la figura paterna, essa ha un’ampia risonanza sulla personalità della donna, nonché sul talento: anche Orazio Gentileschi è un artista. Figlio dell’orefice fiorentino Giovanni Battista Lomi Gentileschi e fratellastro del pittore tardo-manierista Aurelio Lomi, il Gentileschi padre è originario di Pisa ma dal 1575 vive e opera a Roma. Qui ha inizio la sua carriera: partecipa ancora acerbo alla decorazione della Biblioteca Sistina in Vaticano, affresca le pareti di Santa Maria Maggiore,
lavora in San Paolo Fuori le mura e nell’abbazia benedettina di Farfa presso i monti Sibillini. Le prime opere, sebbene promettenti, denunciano uno stile poco deciso. Stando alle parole di Roberto Longhi, « allora egli non dipingeva, ma lavorava semplicemente di pratica, a fresco.» . È l’incontro con l’arte di Caravaggio nell’estate del 1600 ad avere un effetto positivo sul Gentileschi. Il sodalizio comincia con la visione dell’Ispirazione, della Vocazione e del Martirio di san Matteo e culmina con la scelta di entrare a far parte della Scuola Caravaggesca. Orazio ha avuto il privilegio di vedere il Caravggio al lavoro, molto probabilmente mentre dipingeva dal modello in posa. Del Merisi adotta infatti la pittura dal modello reale, che lo porta a trasformare le precedenti figure idealizzate e convenzionali in soggetti realistici e carichi di drammaticità . Siamo alle soglie del XVII secolo e Artemisia, nata a Roma nel 1593, è una bambina che sta crescendo insieme al talento del padre. Ha la possibilità di osservarlo mentre sta all’opera; ha familiarità con i colori, gli schizzi e le stampe di cui si serve Orazio ogni giorno . Vive la sua infanzia e adolescenza in una casa-bottega in cui inevitabile è la curiosità per il lavoro paterno e il desiderio di imitarlo. È qui che, grazie a un’attenta osservazione e grazie ai precetti del maestro, mostra fin da bambina una straordinaria attitudine per l’arte del dipingere. Come ricorda il biografo Giovanni Baglione a proposito di Orazio «Lasciò egli figliuoli, e una femmina, Artemitia nominata, alla quale egli imparò gli artificii della Pintura, e particolarmente di ritrarre al naturale.». Quell’atelier situato tra la chiesa di Santa Maria del Popolo e piazza di Spagna è anche teatro di innumerevoli discussioni che il padre intrattiene con colleghi, amici e committenti. Lo studio del Gentileschi è frequentato assiduamente da pittori appartenenti soprattutto alla generazione precedente rispetto a quella dei classicisti di scuola bolognese del primo decennio del Seicento romano; il padrino di Artemisia è Pietro Rinaldi, quelli dei fratelli minori sono il manierista Giuseppe Cesari d’Arpino e il fiammingo Wenzel Coebergher . Dalle disquisizioni sulla pittura Artemisia apprende che in quei primissimi anni del XVII secolo c’erano artisti che adottarono il metodo caravaggesco dal naturale come il padre e i suoi colleghi Antiveduto Gramatica, Carlo Saraceni e Orazio Borgianni. Tuttavia ella sa che esistono anche pittori come i Carracci, che riproducono la realtà attraverso il classicismo di Raffaello; un «Raffaello annacquato» che influisce sull’opera dello stesso Orazio. È proprio questa la formazione che lo ha reso sensibile agli elementi formali della composizione e dell’atmosfera di purezza e decoro. Tali elementi si fondono poi nel Gentileschi padre con gli insegnamenti delle tendenze più avanzate della pittura europea oltre all’arte dello stesso Caravaggio. E’ anche probabile che la stessa Gentileschi abbia seguito il padre nei cantieri e che abbia ammirato con lui i risultati dell’intensa attività artistica del tempo. Negli anni dell’apprendistato di Artemisia dal 1605 al 1609 circa Roma conosce sotto Sisto V Peretti un notevole incremento delle attività edilizie. Il nuovo piano urbanistico propone la costruzione di nuovi spazi architettonici, i quali necessitano di ornamenti. Il fiorire di chiese e di residenze gentilizie dà l’impulso alla pittura decorativa: il papa in persona, la Curia romana, l’aristocrazia e i nuovi ordini religiosi promuovono un’intensa attività pittorica che fa da sfondo alla crescita e all’apprendimento della Gentileschi. Mentre in bottega accoglie i precetti del padre, là fuori prendono vita gli affreschi dei Carracci, di Guido Reni e del Domenichino; nella chiesa di San Luigi dei Francesi e presso Santa Maria del Popolo si possono ammirare le opere del Caravaggio. E’ ancora una bambina quando nel 1600 vengono mostrati al pubblico i rivoluzionari e scandalosi dipinti di Michelangelo Merisi nella cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi.
Si tratta del ciclo pittorico su San Matteo, lo stesso che ha permesso al padre di avvicinarsi alla pittura dal vero. Si può immaginare che Orazio l’abbia portata con sé o che lei abbia addirittura conosciuto personalmente l’artista grazie alla frequentazione paterna. Tuttavia questa affermazione potrebbe essere confutata dal fatto che l’apprendistato delle pittrici in quell’epoca sia diverso da quello dei pittori: le donne non hanno accesso ai normali percorsi di formazione e in più risulta che il possessivo Gentileschi tenga la figlia chiusa tra le mura domestiche. Come emerge dagli atti del processo che la coinvolgerà nel 1612, Orazio le consentiva rare uscite e le mete consistevano perlopiù in chiese. Di conseguenza l’unica via di accesso alla professione è la casa-bottega. Le restrizioni paterne non le impediscono comunque di essere influenzata dai nomi più illustri del tempo, primo fra tutti Caravaggio. Se molte opere le sono precluse, Artemisia ha comunque la possibilità di accostarsi all’arte del tempo in maniera indiretta, attraverso i lavori di Orazio. E’ da lui che apprende la pittura dal modello e impara a disporre le figure seguendo l’esempio di opere celebri . Le righe destinate alla granduchessa di Toscana dimostrano che alla fine del primo decennio del Seicento la giovane fosse già una pittrice compiuta. L’opera che secondo alcuni critici segna ufficialmente l’ingresso di Artemisia nel mondo dell’arte è la Susanna e i Vecchioni del 1610. Tuttavia prima di realizzare il precoce capolavoro, la Gentileschi è intervenuta in alcune tele paterne e si è messa alla prova in opere meno impegnative la cui attribuzione è dubbia. In questa prima fase della carriera lavora accanto al maestro, pertanto risulta difficile la distinzione dei suoi dipinti da quelli di Orazio. Per questa ragione un ristretto numero di quadri dei primi anni di attività può essere attribuiti all’una o all’altro. Di conseguenza non si può ancora parlare della Gentileschi in termini di pittrice autonoma. Il dubbio degli storici dell’arte ha interessato anche l’esordiente Susanna che, sebbene sia firmata da Artemisia, è un’opera anche un po’ figlia di Orazio.
Il dipinto dimostra l’assorbimento degli insegnamenti del maestro: il controllo del disegno anatomico; la modulazione di luce e ombra; la presenza di citazioni paterne . Tuttavia irrompono sulla tela aspetti che solo la mano della giovane può aver impresso: il naturalismo di un corpo affatto idealizzato; il violento schema coloristico; la perfetta resa del disagio dell’eroina. È soprattutto quest’ultimo carattere che può confermare la paternità della Gentileschi, poiché cifra costante della sua produzione è l’indagine psicologica. Alla luce di ciò, Susanna e i vecchioni può essere considerata la pietra miliare per comprendere l’evoluzione della pittura di Artemisia e il rapporto con Orazio. Se in un primo momento il sodalizio col padre impedisce di fare chiarezza sull’appartenenza delle tele, successivamente emerge con maggiore evidenza la personalità dell’artista. Se gli insegnamenti del maestro hanno avuto un grande influsso sulla formazione, tuttavia si evince una progressiva emancipazione dalla pittura paterna. Liberarla dalla “tutela” di Orazio vuol dire guardare più addentro nella sua produzione per restituire ad Artemisia ciò che le appartiene.
La figlia si allontana dalla contemplazione della bellezza per focalizzarsi sull’azione, ma anche sugli ‘affetti’, espressi nel dinamismo e nella scelta di rappresentare scene violente di ispirazione Caravaggesca . Occorre pertanto scindere le due figure e pensarle, nei limiti del possibile, come entità autonome, sebbene siano profondamente legate. Considerare Artemisia eterna debitrice del padre e subordinarla al suo nome significherebbe metterne in discussione il genio e ignorare i caratteri peculiari della sua produzione. Come emerge nelle pagine successive, la pittrice maturerà un linguaggio unico e inconfondibile. Un linguaggio che sarà la risultante degli influssi di altre personalità autorevoli. Sarà proprio a Firenze che l’artista sostituirà il cognome Gentileschi con “Lomi”, nome dello zio. Firmandosi come Artemisia Lomi, sembra rinnegare non solo il nome del padre, ma anche un passato doloroso nel quale la presenza di Orazio è stata fin troppo ingombrante. Il percorso espositivo si snoda in quattro sezioni e si apre con Giuditta al bivio tra Maniera e Natura, una selezione di opere cinquecentesche chemostrano le prime avvisaglie di una nuova rappresentazione del tema, caratterizzata dalla violenza del momento scelto a rappresentare la storia dell’eroina biblica, come nei dipinti di Pierfrancesco Foschi, Lavinia Fontana, di Tintoretto e di un seguace di BartholomeusSpranger.La tela
Giuditta che decapita Oloferne del Merisi, fulcro della seconda sezione dedicata a Caravaggio e i suoi primi interpreti, inscena un vero e proprio omicidio mediante decapitazione, costituendo un momento di rottura con la tradizione e trovando un corrispettivo solo nella coeva produzione di rappresentazioni sacre e drammi teatrali. La veemenza del delitto, che stride con l’assorta e sensuale bellezza di Giuditta, sarà motivo di ispirazione e reinterpretazione dell’episodio biblico. In questa sezione sono esposte le opere dei primi che poterono avere in qualche modo notizia della tela:Trophime Bigot, Valentin de Boulogne, Louis Finson, Bartolomeo Mendozzi, Giuseppe Vermiglioe Filippo Vitalesi ispirano al dipinto di Caravaggio nel formato orizzontale, con le figure di tre quarti al naturale, nella violenza dei gesti e nella rappresentazione dello strazio di Oloferne. Ci volle però una donna per calarsi completamente nei panni dell’eroina biblica. La massima interprete del soggetto è stata, senza dubbio, Artemisia Gentileschi, cui è intitolata la terza sezione
Artemisia Gentileschi e il teatro di Giuditta.Artemisia, insieme al padre Orazio, si cimentò più volte con iltema, comprendendone le potenzialità in relazione alla rappresentazione della figura femminile come donna forte, ed
exemplumvirtutis, ed il tema, grazie al suo lavoro, diventerà un genere richiestissimo nelle corti europee.
In mostra, oltre ai capolavori dei due Gentileschi, troviamo le opere di Giovanni Baglione, Johan Liss, Bartolomeo Manfredi, Pietro Novelli, Mattia Preti, Giuseppe Vermiglio e del raro Biagio Manzoni, una delle novità della mostra. La quarta e ultima sezione, Le virtù diGiuditta.Giuditta e Davide, Giuditta e Salomé è dedicata al confronto tra il tema di Giuditta e Oloferne e quello di Davide e Golia, accomunati dalla lettura allegorica della vittoria della virtù, dell’astuzia e della giovinezza sulla forza bruta del tiranno che finisce decapitato.La decapitazione è alla base anche del testo evangelico del martirio di Giovanni Battista, e il tema di Saloméviene spesso confuso nella raffigurazione pittorica con quello di Giuditta. In mostra le opere di Valentin de Boulogne, della bottega di Giovanni Bilivert e di Francesco Rustici. La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Officina Libraria, con un testo della curatrice, che approfondisce la storia della Giuditta caravaggesca e quella di Artemisia Gentileschi registrando le ricadute dei due capolavori nella pittura contemporanea. Il volume raccoglie inoltre i saggi di Elizabeth Cohen, Paola Cosentino, Filippo Maria Ferro, Lara Scanu, Francesco Spina, dedicati al tema della storia sociale e del ruolo della donna nella Roma di primo Seicento, alla rappresentazione letteraria e teatrale dell’episodio di Giuditta in epoca rinascimentale e barocca, alla lettura psicanalitica del trauma femminile nella pittura di età moderna e contemporanea, al tema iconografico di Giuditta nella produzione europea tra Cinque e Seicento, e dando infine conto di alcune novità documentarie decisive per la divulgazione dell’opera di Caravaggio a Roma e a Napoli.
Palazzo Barberini Roma
Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta.
Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento
dal 26 Novembre 2021 al 27 Marzo 2022
dal Martedì alla Domenica dale ore 10.00 alle ore 18.00
Lunedì Chiuso