Agli inizi di novembre del 1919
Giorgio de Chirico si trasferisce a Milano dove resterà fino all’aprile del 1920: di questo periodo egli non sembra fare cenno nelle
Memorie della mia vita.
[1] Sono rimaste soltanto alcune lettere, cinque scritte da Milano;
[2] nonostante il pittore debba dividere con
Savinio un’unica stanza, male illuminata, dipinge senza sosta, sempre concentrato sul tema della figura come scrive a
Rosai: “
Dobbiamo lavorare con ardore e serietà, lavorare seguendo i principi dei nostri maestri antichi e dare a tutta l’Europa l’esempio di un’arte severa e profonda; per questo bisogna tornare alla figura umana e disegnare molto e imporsi metodo e disciplina.”
[3]
L’
Autoritratto con statua è la prima opera di questo periodo, nella lettera a
Soffici, l’8 dicembre 1919
de Chirico scrive: “
Ho fatto un buon autoritratto, con una statua nel fondo.” programmaticamente egli ribadisce che il soggetto dell’opera è la figura: “Il grande problema […] è la figura umana. […] Una parte dei pittori […] i più arditi e temerari, affrontano addirittura l’uomo”.[4]
Nella stanza c’è il gesso di una statua antica: “I
nvitiamo i pittori alle statue… per imparare la nobiltà e la religione del disegno… Il pittore [stia] in una sala ove non ci siano che marmi e gessi…”. L’artista ha in mano una ciotolina in cui ha mescolato i pigmenti: “
Sarebbe bene che i pittori ritrovassero l’ottima abitudine di fabbricarsi da sé le tele e i colori”.[5] Accanto al pittore c’è una statua senza vita, vicino alla sua mano il simulacro del guanto, compaiono inoltre il pennello il telaio pronti all’uso. Non a caso
de Chirico si dichiara “
Pictor classicus sum”, ponendosi tra i fondatori della classicità

moderna che egli declina, nella forma come nell’atmosfera di rivelazione e apparizione evocativa, di ermetismo e malinconia ed enigma, secondo i caratteri distintivi della metafisica. Poco dopo egli darà un giudizio negativo dell’arte italiana del diciassettesimo secolo, soprattutto l’istanza naturalistica di
Caravaggio e del caravaggismo, considerandola premessa “a tutta la decadenza dell’odierna pittura” .
A Milano uno dei praticanti nello studio dell’avvocato
Riccardo Luzzatto, un garibaldino che aveva partecipato alla spedizione dei Mille, certo
Mazzolà, che viveva nel mezzanino del palazzo dove abitava il pittore ci dà una testimonianza di quegli anni: “
Noi vedevamo attraversare il cortile i fratelli De Chirico, che con la madre abitavano un appartamentino nella stessa casa. Tristi, chiusi in se stessi, vivevano più che modestamente, senza particolari mezzi”.
Nella sua visione
de Chirico non poteva essere attratto dal Futurismo, né da ogni sorta di verismo e pittoricismo tardo-ottocenteschi, in voga in quegli anni nella pittura milanese; così per quanto riguarda l’arte antica, egli non è interessato ai capolavori più noti come il
Duomo o il
Cenacolo di Leonardo. Egli insegue il suo interesse per
Raffaello e si innamora del
Matrimonio della Vergine alla
Pinacoteca di Brera ove scopre una misteriosa dimensione apollinea e greca: “
Il Matrimonio della Vergine di Raffaello resta il quadro più completo e più profondo di tutta la pittura. Esso è forse anche il quadro più greco che ci sia; uso questa parola greco nel suo senso ermetico. È il quadro misterioso per eccellenza; misterioso nella pittura in cui non appare traccia di procedimento, misterioso nella composizione e nella costruzione, in cui sembra si concentrino gli elementi più inspiegabili e occulti dei miti antichi, il mistero della divinità ellenica, ovunque presenti…”.
[6]
Un'eco di questo pensiero si ritrova nelle sue opere di questo periodo quando realizza
La stanza di Apollo: le figurette che conversano sullo sfondo trasmettono la risonanza di questa sua meditazione sui grandi del
Rinascimento; la
Lucrezia di de Chirico è un ricordo evidente di quella di
Dürer, di cui il pittore esalta l’incisività disegnativa vista a Monaco durante il suo soggiorno in quella città.
De Chirico, individua in particolare nell’ impianto urbanistico milanese caratteri peculiari e si sofferma a descrivere la calma e la stabilità che emanano dalle sue mura, come dalle piazze e dai monumenti ”i suoi orizzonti, che fanno maturare gli spiriti che, per equilibrio e chiarezza, raggiungono la profondità” Milano evoca Atene e per il pittore di Volos rintraccia i caratteri dell’arte greca ne Lo
sposalizio della Vergine. Il legame con la Grecia per de Chirico è, come noto, sostanziale in tutta la sua produzione: figure romane come la
Pudicizia o ancor più la
Musa pensosa sono il frutto di una ineludibile eredità che sembra quasi enunciata nella rilettura enigmatica della
Stanza di Apollo. Qui in uno spazio moderno antiche arcate quasi di accademia, fanno da sfondo a statue classiche, forse muse dai volti anonimi che rammentano l’autorevolezza del passato. In primo piano quasi dissonante appare la testa scolpita che il titolo del quadro autorizza a identificare come
Apollo, ma che nella postura come nel copricapo, suggerisce il tipo del pittore che qui non ritrae se stesso, ma il suo
“duro lavoro” come lo chiamava e cioè la pittura come arte. Vi è forse una dichiarazione programmatica di intenti, il violino e l’arco adagiati sul libro di musica evidenziano un silenzio antitetico alla musica, che pure egli aveva studiato insieme al fratello negli anni ateniesi, ma che ormai ha deciso di abbandonare irrevocabilmente per concentrarsi sulla pittura. Le note nitide e leggibili di uno spartito pianistico, non sembrano appartenere ad alcuna composizione, e rimandano dunque alla pratica musicale intesa come arte. Entrato nella stanza di Apollo e delle muse il pittore riflette, come la statua pensosa sullo sfondo, e manifesta la sua scelta, la metafisica del resto suggerisce rimandi infiniti, arcaici e nuovi.

Abbandonato ormai da tempo lo studio del violoncello il
pictor classicus si concentra nella sua pittura plasmata dall’eredità del mito e dal colloquio con l’antico, non frequenta i salotti milanesi di
Margherita Sarfatti o di
Umberto Notari, ma nei suoi scritti
[7] ribadisce da un lato l’importanza del mestiere, attraverso le copie di
Michelangelo e
Dosso; dall’altro, nei dipinti, selezioni tematiche da
Niobe a
Meleagro, da
Edipo a
Mercurio, dal
Parnaso agli
Argonauti, e come
pictor classicus, ribadisce il valore del mito e del colloquio con l’antico. Nella personale milanese del 1921 de Chirico attesta l’identità tra artista e intellettuale, tra pittura e pensiero, tra esecuzione e ideazione, tra il poeta e il filosofo: non c’è arte, egli intende dire, che non sia pensiero sull’arte.
In uno dei suoi manoscritti parigini, tra il 1911 e il 1912, il pittore afferma che ”
la musica non può esprimere il non plus-ultra delle sensazioni” intendendo con ciò l’esperienza della rivelazione suggerita dalla incessante ricerca pittorica che lo aveva portato a rinunciare alla musica per la pittura. Il suo rapporto con la musica da allora sarà in un certo senso indiretto e limitrofo,

caratterizzato in parte dall’esperienza del fratello
Savinio e in parte dalla sua stessa attività di pittore.
Proprio tra il 1924 e il 1930 si racchiude una proficua stagione musicale della cultura novecentesca e il pittore si dedica alla scena teatrale, al balletto. Il primo titolo
La Giara, su testo di
Pirandello del 191, interessò a Parigi il coreografo svedese d'avanguardia
Jean Börlin che volle tradurla in danza: egli commissionò la musica ad
Alfredo Casella che gli diede una partitura dal carattere brillante e vivace, mentre de Chirico disegnò i bozzetti di scena con grande fedeltà al vero, realizzando costumi, impregnati di colore mediterraneo e il successo fu grande e immediato, anche se forse inaspettatamente il balletto non fu più ripreso. In questa circostanza il

pittore si legò al compositore, intellettuale e collezionista, cui lo accomuna l’impostazione culturale
: nel ritratto di
Casella egli reinventa la tipologia del ritratto d’ impianto rinascimentale, distinta da una figura posta di tre quarti su fondale aperto; i tratti non privi di una goffaggine quasi caricaturale, sono espressi con naturalismo, senza risparmio di dettagli; la pianta di alloro alle spalle di
Casella, si protende rigogliosa su un cielo temporalesco come simbolo antico di fama. Modello primario di questo dipinto è sicuramente l’
Autoritratto del pittore svizzero-tedesco
Arnold Böcklin cui de Chirico si ispirò costantemente fin dagli anni della formazione.
Sul finire del 1923 l’impresario
de Marè aveva voluto contrapporre al successo del balletto folklorico
El Sombrero de Tres Picos di
de Falla-Massine-Picasso, un’altra creazione folklorica e aveva pensato ad un balletto italiano, per questo la scelta era caduta su Casella musicista torinese che abitava a Parigi; il soggetto, un’allegoria della proprietà e del possesso sorta di beffa paesana, portò Casella, spinto dall’impresario, a trarre spunti dalla musica tradizione siciliana con citazioni da
Stravinsky e
Prokofiev. Nella stessa occasione de Chirico, che all’epoca aveva frequentato le avanguardie della capitale francese specie l’ambiente dei surrealisti, volle usare colori fortemente a contrasto e mediterranei: il rosso della villa, il bianco del muretto del corpo laterale della villa della balconata coperta, l’azzurro e il blu del cielo e del mare.
La generazione musicale dell'80, composta da
Alfano, Casella, Malipiero, Pizzetti, Respighi, costituisce un’ apertura significativa che influenzerà il periodo successivo, con notevoli interazioni nel campo della letteratura e della pittura:
Casella è un appassionato collezionista ed è interessante leggere, in uno scritto successivo del 1943, il pensiero di
de Chirico sul musicista: “
Da lungo tempo ormai mi son reso perfettamente conto che io penso per mezzo di immagini o raffigurazioni […]non mi stupisco dunque che, quando udii per la prima volta il nome di Casella, si presentò nella mia mente l’immagine di una scatola rettangolare ove si mettono schede, poi quest’immagine sparì per cedere il posto a quella di un piccolo quadrato tracciato sulla carta e che si usa per scrivere dei numeri e fare dei calcoli. Queste raffigurazioni, d’aspetto geometrico e che evocano l’idea dell’ordine, sono sempre rimaste nella mia mente legate alla persona di Casella ed alla sua arte. Più tardi, conosciuto meglio Casella, ho spesso pensato che raramente il nome di una persona corrisponde così bene alla sua intima essenza come nel caso del mio amico, il musico Alfredo Casella. Era nell’anno 1918, durava ancora l’armistizio, quando conobbi a Roma Alfredo Casella. In quel tempo cominciavo a preoccuparmi dei problemi tecnici della pittura. Cominciavo a capire l’abisso che divide la pittura seria, la grande pittura dalla cosiddetta “pittura moderna”. […] Io, che solo allora avevo realizzato in pieno la serietà in arte, incontrando Casella mi sentii attirato verso di lui, proprio per quel lato serio con cui egli si approssima all’arte. Tutta la persona di Casella, così come la sua musica, danno un’impressione geometrica ed ordinata. Ogni sfumatura, ogni tenerezza in arte hanno come origine la struttura esatta, la costruzione geometrica, quel tal modo di vedere parallelepipedicamente, poliedricamente, dal quale modo nasce poi la forma fluida, la divina morbidezza, che sono il segno ineluttabile dell’evoluzione artistica, giunta ad un punto elevato, giunta ad un piano di dolcezza platonica […] Preciso, ostinato e sicuro in ogni sua attività, instancabile e regolato, egli sa che poesia e armonia avanzano sempre in ordine chiuso. La sua mentalità ascetica ed asciutta lo spinge al lavoro quotidiano, al lavoro preciso, metodico. Il suo aspetto inganna poiché dietro al maestro preciso e severo, dietro
al pianista brillante ed impeccabile, dietro al compositore […] c’è soprattutto il poeta dei suoni precisiil disegnatore di forme musicali, serio e tenero, esatto e fantasioso, e che di là da ogni società e da ogni ambiente, di là da ogni epoca e da ogni luogo, vive la sua solitaria e spirituale vita di musico”.[8]
Casella aveva studiato composizione a Parigi con
Gabriele Fauré e
Maurice Ravel sviluppando un'ammirazione per Debussy dopo aver ascoltato il
Prélude à l'après-midi d'un faune nel nel 1898, anche se in quel periodo scriveva ancora secondo parametri romantici, senza adottare le novità dell'impressionismo. Nel 1917 fonda insieme con
Respighi, Pizzetti, Malipiero e altri, la Società Nazionale di Musica denominata poi
Società Italiana di Musica Moderna, finalizzata alla difesa e alla diffusione delle opere di giovani compositori e alla cura del patrimonio artistico del passato; nel 1933 avrebbe poi fondato l’
Accademia Musicale Napoletana con l'intento di valorizzare caratteristiche e significati della cultura musicale, soprattutto italiana. La sua ricerca era rivolta alla costruzione in Italia di un gusto musicale moderno, ma fondato sull'esperienza classica parallelamente a quanto andavano effettuando i suoi amici
Bontempelli, de Chirico, Savinio, Carrà nel campo della pittura e della letteratura, si può affermare che

e anche la vena collezionistica del compositore sia stata motivata da un urgenza di confronto linguistico. La collezione di
Casella prende corpo dopo la metà degli anni Venti, arrivando a comprendere due dipinti di
Balla, sette
Carrà, tredici
Casorati, cinque
de Chirico, tre
Depero, tre
Morandi, cinque
Severini, tre
Spadini, oltre a significative opere di
Donghi, Francalancia, Ferrazzi, Mafai, Ruggeri.
L’altro basilare contatto di de Chirico con la musica oltre alcune significative tangenze con l’opera di
Starvinsky,[9] è naturalmente il fratello
Savinio che nel 1925 dà vita alla tragedia musicale
La Morte di Niobe. Fratello di Giorgio de Chirico, il cui nome di battesimo era
Andrea de Chirico, fu noto con lo pseudonimo di
Alberto Savinio: più giovane di Giorgio nato anche lui in Grecia se ne distingue per dimensione poetica. La pittura metafisica de Chirico è una sorta di melanconia perturbante, mentre quella di Savinio sta nell’ironia dissacrante, più affine alla correnti surrealiste; De Chirico coglie il rapporto l’antichità classica nello spirito della tragedia, Savinio lo propone nello spirito della commedia non solo satira burlesca, ma quasi attraverso uno stile filosofico.
I

ndirizzato bambino in Grecia agli studi musicali Savinio si trasferì con la famiglia nel 1906 a Monaco di Baviera, e per un breve periodo studiò contrappunto con
Max Reger. Spostatosi a Parigi venne in contatto con la nascente
Ecole de Paris e il suo carattere risultò molto più in sintonia con il vitalismo avanguardistico parigino, di conseguenza il suo atteggiamento divenne più estremista e vicino alle esperienze di
Dada. A Parigi Savinio viene conosciuto per alcune
performances in cui suona il pianoforte in un modo talmente forte da farsi sanguinare le dita: nel 1914 scrive un primo testo abbinato alla musica intitolato,
Les chants de la mi-mort,
[10] in cui delinea una figura senza volto simile a un manichino che forse è all’origine dei manichini raffigurati poi da de Chirico;
Savinio inizierà a dipingere solo dal 1926, quando cioè la metafisica aveva fatto storia e due anni dopo la nascita del movimento surrealista. Nel poliedrico e sfuggente mondo di questa artista singolare, la musica che avrebbe dovuto essere la sua strada viene presto accompagnata dalla scrittura, segue poi l’interesse per la pittura e quindi il teatro, il tutto in una propensione all’estensione a tutte le sfere della creatività; pare infine che avesse realizzato anche un progetto per un film. In tutte queste forme di espressione si ritrova comunque in
Savinio il riferimento all’antichità classica, non come classicismo o accademismo, ma sempre come espressione fuori da schemi nel costante obbiettivo di un’ arte totale. A Parigi

dunque, dal 1910 e per di tramite
Apollinaire, Savinio organizza il suo primo concerto di musica d’avanguardia nel 1914 definendosi poi un
Artisan dionysiaïque creatore di una
Musique métaphysique e più tardi un ‘surrealista mediterraneo’
.
Nella composizione, tra dissonanze squilibranti, compaiono stralci di motivi di musica popolare e ricordi di melodie familiari che si muovono sulla base di una spaesante disarticolazione quasi un collage dadaista, anche se gli elementi dissonanti sembrerebbero uniti in funzione di una visione del mondo metafisico che egli condivide con il

fratello, cui contrappone tuttavia una visione fortemente dinamica. Sempre a Parigi l’artista compone, fra il ’13 e il 15, il balletto
Persée, e la raccolta
Chants étranges, per voce e pianoforte, ove è possibile ravvisare tratti chiaramente surrealistici. Di
de Chirico Savinio dà un giudizio particolare: per il fratello la pittura è un mezzo non uno scopo egli avrebbe potuto scrivere e comporre senza perdere un grammo del suo valore e lo paragona a
Böklin, Picasso, Dürer e afferma:”
se egli avesse continuato ad esercitarsi nelle note, così come ha fatto con il pennello, avrebbe composto con il mezzo delle note le stesse opere che ha composto con il mezzo della luce e del colore”.
[11]
Se il primo interesse di
Savinio era stato dunque la composizione per via della sua formazione con
Max Regher, per la conoscenza di
Stravinsky per l’importanza storica che seppe riconoscere nel
Wozzeck di
Alban Berg, la sua visione totale dell’arte lo proterà verso un pensiero dissonante e quasi contraddittorio tanto da farlo affermare: ”Musica sgradevole, è vero. Ma la vita stessa è sgradevole oggi. Non più tutelata, non più accomodata, non più camuffata da un divismo materno e ottimista. Così è. L’uomo è solo Non ci posso far niente, e più che rassegnazione non so consigliare. Tutto il resto è falso
“. La prima stagione musicale di Savinio durò appena sei anni, fermandosi al 1915, scrisse: ”per non cedere totalmente alla volontà della musica perché da ogni crisi musicale io sorgevo come da un sogno senza sogni. Perché la musica stupisce e

istupidisce”.
[12]
Les chants de la mi mort risalenti al 1914 sono anteriori al riavvicinamento dell’artista alla composizione (nel 1925 collaborerà al
Teatro delle Arti di
Pirandello) ed alla migliore conoscenza dei grandi musicisti contemporanei. Particolare attenzione è data al ritmo, alla teatralità che si estrinseca in una dinamica inquieta, con tanto di improvvise citazioni: nella
Suite pour piano e precisamente ne
L’execution du general si può ravvisare qualche battuta del nostro inno nazionale trasfigurata in maniera totalmente grottesca. Non vi è alcuna citazione della musica impressionistica, neppure dell’ammirato intellettualismo di
Debussy, si tratta di una composizione molto pensata con evocazioni metafisiche e surreali, influenzata di Satie per la sua dimensione irriguardosa e da Stravinsky per i procedimenti politonali, ma l’insieme risulta difficile per le continue e brusche lacerazioni del pensiero musicale e per le esplosioni di motivi pungenti e dissonanti, espressione forse di una cerebralità da parte di chi vedeva la musica come
“una straniera
nel nostro mondo, tanto da doverla imprigionare, addomesticarla, mutilarla”. Morto a Roma 1952,
Savinio percorre un’avventura artistica originale ed eclettica: musicista, compositore, pittore, scenografo, saggista, drammaturgo, poeta e narratore, padroneggia con competenza, inventività, e sensibilità critica i vari codici della comunicazione estetica, ma li attraversa con il passo elitario e ironico del cosmopolita, attento alle suggestioni dell’
Avanguardia europea e insieme fedele a quella «condizione di
dilettantismo che è la condizione più alta e felice della vita»
Provocatorio e disilluso
Savinio dichiara la sua ricerca esistenziale di artista intellettuale: ”
E’ incredibile come la
storia del mondo si ripete. Musicista in origine, la musica mi è venuta a fastidio. Ho sperimentato tutte le possibilità dell’ottava. Restava l’illusione di un’ottava più vasta, più sottile. Ma i quarti di tono sono fuori della musica, fuori dal mondo. Una tremenda sete mi ardeva di nuove porte aperte. Ma il quarto di tono non è una porta: è un buco onde si casca nel vuoto. La musica perde il suo sguardo di musica, si squaglia in una sonorità opaca che dà la nausea e il capogiro, in un gioco da sordomuti in un passatempo da marziani che vivono nel gelo di un pianeta vecchissimo. Allora a te, uomo felice limitato, ti si rivela tutta quanta la tremenda inutilità dell’astronomia” .
[13]
Il maestro Luciano Perotti
[1] G. de Chirico, Memorie della mia vita, Milano, 1998.
[2] 3 De Chirico a Rosai, 6 novembre 1919, in Cavallo 2001, p. 14; le lettere “milanesi” sono le seguenti: due indirizzate a Rosai, del 6 novembre e della seconda metà di novembre 1919 (L. Cavallo, Giorgio de Chirico. Romantico e Barocco, catalogo della mostra a cura di M. Fagiolo dell’Arco [Milano, Galleria Farsetti, 2001], Firenze, 2001, p.14); due a Soffici, del 7 novembre e dell’8 dicembre 1919 (in G. de Chirico, Penso alla pittura, solo scopo della vita mia, a cura di L. Cavallo, Milano, 1987, pp. 105-106); una a Olga Signorelli, del 22 dicembre 1919 (in F. Benzi, Il carteggio de Chirico-Signorelli e gli esordi classicisti del pittore, in G. de Chirico, Nulla sine tragoedia gloria, Atti del Convegno Europeo di Studi, a cura di C. Crescentini, Roma, 2002, p.120
[3] ELENA PONTIGGIA, Nell’immenso deserto di questa gran città” de Chirico a Milano 1919-1920, 2006.
http://www.fondazionedechirico.org/wp-content/uploads/149-162Metafisica5_6.pdf (accesso 23 .02.2016)
[4] G. de Chirico, Il ritorno al mestiere, «Valori Plastici», I, n. 11-12, Roma, novembre-dicembre 1919, ora in Il meccanismo del pensiero, a cura di M. Fagiolo dell’Arco, Torino, 1985, pp. 93 sgg.
[5] Cfr. n. 2
[6] G. de Chirico, Raffaello Sanzio, «Il Convegno», I, n. 3, Milano, aprile 1920, Ibidem, p. 161.
[7] Opere dell’ultimo periodo (1919-1920)
[8] Giorgio de Chirico, Casella, pubblicato in «Rassegna musicale», 1943 si veda in Giorgio de Chirico, Scritti/1 (1911- 1945). Romanzi e scritti critici e teorici a cura di A. Cortellessa, Bompiani, Milano 2008, pp. 914-917.
[9] Delle tangenze con l’opera di Starvinsky ho avuto modo di parlare nel Convegno dell’Associazione Amici di Giorgio de Chirico del 2015.)
[10] Pubblicati nel n. 3 della rivista Les Soirées de Paris 1914 Les chants de la mi-mort.
[11] RICCARDO DOTTORI, De Chirico, Savinio, e l’altro volto della modernità, Metafisica, 2002, N.1- 2.file://localhost/Users/stefania/Desktop/de%20chirico.pdf (accesso 19/02/2016).
[12] Savinio, Musica eterna cosa, Torino Einaudi,1988.
[13] Savinio, Scatola sonora, postuma 1955, nuova ed .1977, Einaudi, 1955