caiazza1(1)Tra i tanti, spesso improbabili, “nuovi Caravaggio” che si segnalano pressoché continuamente da ogni dove, converrà qui fermarsi su un “vecchio” disegno, noto a tutti i caravaggisti, ma finora mai ricondotto – nemmeno come ipotesi di lavoro – direttamente alla mano del genio lombardo: tuttavia, una sua attenta rivisitazione potrà, forse, riservare qualche sorpresa. A tal fine anticipo, sintetizzo e semplifico qui per ora (senza annotazioni e rimandi bibliografici) quanto da me più compiutamente argomentato in un lavoro specifico, in corso di pubblicazione.

Nel Gabinetto Disegni e Stampe del Museo di Capodimonte a Napoli è conservato, infatti, un disegno a matita nera (inv. GDS 992) di mm. 126x209 (fig. 1, Fototeca della Sovrintendenza Speciale per il PSAE e per il Polo Museale della città di Napoli) che da diversi studiosi (quali il Vitzthum e il Bologna) è stato attribuito da tempo al pittore napoletano tardo-manierista (di origine greca) Belisario Corenzio (1558-1648c.). Tale disegno proviene dalla collezione del Real Museo Borbonico, il cui inventario fu redatto nel 1824 da Michele Arditi, mentre nulla di certo sulla sua provenienza è possibile dire riguardo a epoche precedenti al XIX secolo.
L’attribuzione al Corenzio discende dal fatto che quel disegno era custodito con un “foglio di riguardo” (ossia una sorta di pass-partout) sul cui bordo interno inferiore risultava scritto, non si sa da quale mano ed in quale epoca, il nome di «C. Bellisario» (sic), che gli studiosi riconducevano ovviamente al Corenzio. Questo “foglio di riguardo” è stato poi eliminato – come pare - per una (imprudente) scelta effettuata a metà degli anni Cinquanta dello scorso secolo, in occasione della sistemazione della collezione dei disegni presenti nel Gabinetto.

caiazza2Poiché il disegno sembra essere una copia abbastanza fedele del grande dipinto della Vocazione di Matteo, realizzato da Caravaggio per la cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi in Roma tra il 1599 ed il 1600 (fig. 2), si è dedotto – ma senza prove - che il Corenzio sarebbe stato a Roma in occasione dell’anno giubilare del 1600 e che, in quella circostanza, avrebbe realizzato il piccolo disegno ricavandolo dal capolavoro di Caravaggio a ridosso della sua esposizione pubblica.

Emerge però, già qui, un notevole problema storiografico (cui non si può fare per ora altro se non un telegrafico cenno), in quanto alcuni studî recenti sembrerebbero voler sottrarre gli orientamenti artistici napoletani dell’epoca (egemonizzati nei primi decennî del Seicento proprio dalla figura del Corenzio e dei suoi seguaci) alla denuncia di chiusura verso le esperienze artistiche coeve, e di Roma in particolare, come a metà del Settecento aveva sostenuto Bernardo De Dominici (Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, 2 t., Napoli 1742-1743), troppo faziosamente condannato dal Croce come falsario, ed invece restituito a dignità di fonte proprio dal Bologna. Quel biografo raccontava infatti delle intimidazioni e delle congiure orchestrate precisamente dal Corenzio e dai suoi seguaci contro un Giuseppe Cesari, un Annibale Carracci, un Guido Reni, un Domenichino, al fine di escluderli dal teatro artistico napoletano e di impedire che la loro lezione penetrasse nella cultura artistica della capitale del Viceregno: e, se così è stato, resta poi difficile che il Corenzio potesse essere interessato alla pittura di un Michelangelo Merisi da Caravaggio, la cui fama, per di più, non si era ancora diffusa nemmeno a Roma.caiazza3
Come che sia, l’attribuzione al Corenzio di quel disegno oggi a Capodimonte è poco convincente, giacché occorrerebbe ipotizzare nello specifico:

1) che costui si sia recato a Roma in occasione del giubileo del 1600,
2) che abbia conosciuto il Caravaggio,
3) che i due siano entrati fulmineamente in grande familiarità,
4) che il Merisi abbia permesso al pittore napoletano di entrare nello studio o nell’ambiente in cui egli dipingeva la grande tela (cosa che Caravaggio notoriamente permetteva solo a pochissimi amici).

Peraltro, poiché il disegno presenta diverse “varianti” (alle quali si accennerà infra) rispetto al dipinto finale della Vocazione, si dovrebbe anche ipotizzare:
5) che Caravaggio abbia permesso al Corenzio di ricavare dal suo dipinto (ancora non definitivo) il disegno che noi oggi abbiamo;
6) che il Corenzio non si sia limitato a copiare il dipinto nelle condizioni in cui egli poteva vederlo mentre ancora non era ultimato, ma
7) che costui abbia anche aggiunto autonomamente nel disegno diverse “varianti” che però non trovano alcuna corrispondenza nel dipinto finale.
A tutto questo, occorre aggiungere la considerazione che i disegni superstiti attribuiti al Corenzio (tra Napoli, Parigi e il mercato internazionale) mostrano una mano sostanzialmente diversa rispetto a quella che ha redatto il nostro disegno: il che non è per nulla privo di significato.

caiazza4E tuttavia, una delle singolarità più interessanti di questo disegno risiede nel particolare per il quale il giovane seduto di spalle ed armato di spada presenta (fig. 3) la gamba destra protesa verso il lato dove è la figura di Gesù che, accompagnato da Pietro, chiama a sé il pubblicano Levi/Matteo. Nel dipinto definitivo del Caravaggio, la gamba di quel giovane appare ritirata ed appoggiata alla base dello sgabello su cui costui siede (fig. 4); ma le radiografie del dipinto, fatte eseguire e pubblicate nel 1952 da Lionello Venturi e Giovanni Urbani (fig. 5), hanno dimostrato che Caravaggio aveva realizzato effettivamente una prima redazione della gamba del giovane esattamente nella posizione che noi ora vediamo documentata nel disegno di Capodimonte (fig. 6): e questo – si argomenta - si potrebbe spiegare solo con la supposizione che il disegno oggi a Napoli sia stato ricavato in un arco di tempo brevissimo, tra la prima e la seconda redazione di quel brano della Vocazione, dato che Caravaggio, come è noto, realizzava i suoi dipinti in tempi rapidissimi.
In realtà, il particolare della gamba del giovane (prima protesa verso Gesù e poi ritirata sotto lo sgabello) è della più grande importanza per l’attribuzione del disegno, in quanto esso testimonia del fatto che il “pentimento” corrisponde effettivamente ad una correzione (come documentato dalle radiografie), e che quindi il disegno deve essere stato realizzato prima della redazione definitiva del dipinto come oggi noi lo vediamo.

Si dà però il caso ccaiazza5he un simile “pentimento” si dovrebbe riscontrare anche per l’altro personaggio, seduto sulla sedia-savonarola nella sinistra del dipinto, e che è un debitore che sta pagando al gabelliere Levi/Matteo le imposte da lui dovute. Orbene, anche questo personaggio mostra nel disegno napoletano (fig. 7) la sua gamba destra protesa in avanti (simmetricamente a quella del giovane di spalle armato di spada), senza però che le radiografie del 1952 abbiano evidenziato, per questa gamba del debitore, alcun “pentimento” da parte del Caravaggio (cfr figg. 2 e 5).
Che cosa significa qu
esto? Questo deve significare che mentre, per la gamba del giovane “spadaccino” di spalle, Caravaggio ha operato un “pentimento” (realizzandola in un primo momento protesa verso destra, e poi ritirata sotto lo sgabello), viceversa egli non ha avuto alcun “pentimento” nel realizzare la gamba destra del debitore, posta nel dipinto ab origine, e senza esitazioni, sotto la sedia-savonarola.

caiazza6Ma allora: come mai nel disegno napoletano anche questa gamba del “debitore” risulta protesa in avanti? Detto in altri termini: se qualcuno avesse potuto – in ipotesi – registrare nel disegno la versione originaria della gamba dello “spadaccino” perché Caravaggio così l’aveva redatta in una prima versione (come documentata dalle radiografie), ebbene, costui non poteva però copiare anche un particolare che non c’era e non c’è mai stato (e cioè la gamba del debitore protesa in avanti), come il silenzio delle radiografie su questo brano non può che confermare, mentre invece troviamo nel disegno questo particolare, non rappresentato poi dal Caravaggio nel dipinto.
È evidente dunque che Caravaggio, mentre ha operato un “pentimento” nel dipinto su un brano già realizzato (la gamba dello “spadaccino”, come le radiografie documentano), invece non ha realizzato alcun “pentimento” per la gamba del debitore, giacché l’ha rappresentata direttamente e in via definitiva come noi la vediamo oggi.

E allora: cocaiazza7me è possibile che qualcuno ricavi un disegno da un dipinto non solo registrando un particolare esistente (sebbene poi corretto), bensì anche inserendo un particolare non esistente (dato che il debitore non è stato mai abbozzato sulla tela - a quel che risulta - con la gamba protesa in avanti, come vediamo invece nel disegno)? Ben ardua si direbbe l’idea che il Corenzio abbia visto il dipinto in una fase non definitiva ma, nel copiarlo, si sia preso la libertà di apportare nel disegno tutta una serie di correzioni, meglio rispondenti ai suoi gusti.

In realtà, la risposta a tutti questi interrogativi e perplessità è – per quanto sia inedito e “rivoluzionario” il proporla - la più semplice e la più logica: e cioè che l’autore del disegno sia Michelangelo Merisi da Caravaggio. L’autore del disegno, cioè, non può essere né il Corenzio né alcun’altra persona che abbia ricavato quel disegno ex post, o magari mentre il dipinto era ancora in elaborazione, perché il disegno in realtà precede le fasi relative alla realizzazione della Vocazione (pentimenti inclusi, quali appunto quelli documentati dalle radiografie): quel disegno non può essere dunque altro se non il bozzetto autografo che il Caravaggio stesso aveva preparato per la redazione della grande tela, e che subì alcuni “pentimenti” in fase di realizzazione, di cui il più evidente resta la gamba destra dello “spadaccino”, come è documentato dalle prove radiografiche.

caiazza8Ed infatti, i “pentimenti” del Caravaggio deducibili dal confronto tra il disegno (che precede) ed il dipinto definitivo (che segue), anche alla luce dei risultati radiografici, sono – cominciando dalla nostra destra – così individuabili:
1) le mani di Pietro, che nel disegno (fig. 8, ancorché oscurate dall’inchiostro trasudato dal lato verso del foglio, di cui si dirà infra) risultano appoggiate entrambe sul bastone (mentre invece nel dipinto l’apostolo protende la mano destra per indicare Matteo);
2) la gamba destra dello “spadaccino” (come sopra si è precisato e come documentano le radiografie);
3) il volto dell’altro giovane che siede accanto a Matteo, leggermente più ruotato alla sua destra nella redazione definitiva (come documentano ancora le radiografie, cfr fig. 5);
4) la mano ed il braccio sinistri di Matteo, nel disegno appoggiati sul tavolo (fig. 9) mentre nel dipinto essi puntano al suo petto;
5) la gamba destra del “debitore”, protesa – come detto - in avanti nel disegno (cfr fig. 7), mentre nel dipinto risulta ferma sotto la “savonarola”, simmetricamente alla redazione definitiva della gamba dello “spadaccino” (cfr fig. 2);
6) il vecchio gabelliere in piedi alle spalle del “debitore”, che nel disegno regge gli occhiali con la mano destra, mentre nel dipinto li regge con la sinistra;
7) il copritavolo che scende nel disegno fino a terra (cfr fig. 1), mentre esso scompare nel dipinto, anche per poter mostrare le gambe di Matteo che si sta immediatamente alzando per seguire il Maestro.

caiazza9Orbene, appare assai poco ragionevole ipotizzare non solo che il Corenzio (o chi per lui) si sia recato a Roma nell’anno giubilare, sia stato attratto dalla poetica ancora non famosa di un pittore chiamato «il Caravaggio» (che fino ad allora non aveva prodotto opere “pubbliche”), si sia introdotto nello studio (o ambiente) dove il Merisi redigeva la Vocazione e ne abbia ricavato finanche un disegno (che però non ha riscontri stilistici in altri superstiti disegni del Corenzio), ma addirittura che questo pittore napoletano sia intervenuto a correggere nello stesso disegno – ricavato non si sa come, dove e quando - dei particolari che possono non essere così secondarî (come ad esempio la combinata correzione delle mani di Pietro e della gamba del giovane con la spada, correzione che abbisogna di una lettura e di una giustificazione finora mai avanzate, e che svilupperò nel lavoro definitivo).

Peraltro, l’attribuzione – che qui io propongo - del disegno direttamente alla mano del Caravaggio (quale bozzetto della Vocazione) comporta una considerazione del tutto rilevante anche per il primo dei punti sopra indicati ed or ora richiamato: giacché, se la figura di Pietro già compariva nel bozzetto originario come concepito dal maestro, questo significa che Caravaggio non ha subìto – come si va sostenendo - alcuna imposizione per aggiungere in un secondo momento la figura del pescatore galileo accanto a Gesù, e che dunque la precedente figura solitaria di un Gesù quale emerge dalle radiografie di Venturi ed Urbani in quel punto (cfr fig. 5) deve avere ben altra spiegazione (come ancora dirò nel lavoro definitivo).
In ultimo: esiste qualche prova documentaria – al di là delle deduzioni logiche (ancorché stringenti) – che sorregga l’attribuzione del disegno direttamente alla mano del Caravaggio?

In realtà – a parte la pasticciata indicazione, in alto a sinistra sul verso, di «Corenzio Bel(l)isario», di grafia, come pare, ottocentesca e da ricondurre presumibilmente, quale annotazione provvisoria, alla citata sistemazione dell’Arditi del 1824 - ne esistono due, entrambe al centro del verso dello stesso disegno napoletano (fig. 1
0), entrambe finora poco considerate, ma entrambe costituite da chiare annotazioni (ancorché non si possa dire quale delle due preceda cronologicamente l’altra):
1) la prima delle quali, seicentesca (scritta con inchiostro fortemente tannico, che ha trasudato sul recto) recita: «del Caravaggio in Roma nel [?] stato [?] (…)», seguita da altre parole illeggibili ad occhio nudo;
2) la seconda delle quali (aggiunta a matita e da altra mano, probabilmente coeva se non precedente alla prima, ma mai citata dagli studiosi) recita: «si tiene sicuro del Caravaggio».

caiazza10Orbene, sia la prima sia la seconda scrittura non possono essere altro che due attribuzioni di paternità, ma non già riferite al dipinto che stava, e restava, in Roma (dato che nessuno poteva avanzare interrogativi o dubbî sul fatto che il dipinto della cappella Contarelli fosse del Caravaggio), bensì riferite precisamente e con ogni evidenza al disegno. E dunque, la prima delle due scritture (probabilmente coeva) assegna la paternità del disegno al Caravaggio che sta «in Roma». La seconda è una evidente risposta ad un sotteso (e, forse, iniziale) interrogativo, vale a dire se quel disegno sia effettivamente di mano del Caravaggio: la risposta data a tale ben ipotizzabile interrogativo – relativo sempre al disegno, e non già al dipinto, la cui paternità era da subito indubbia, ed universalmente nota e celebre – non è altro che una ulteriore (ovvero, iniziale) conferma dell’attribuzione rispetto alla scrittura ad inchiostro: «[Questo disegno] si tiene sicuro del Caravaggio».

A me pare che questo sia l’unico modo, anche sotto il profilo storico-filologico, per chiarire convincentemente e con compiutezza i presupposti ed il significato delle due scritture, nonché per spiegare ragionevolmente i “pentimenti” sopra precisati.
La rivendicazione del disegno napoletano direttamente alla mano del Caravaggio comporta per ora almeno due conseguenze fondamentali: la prima delle quali è il fatto che, per la prima volta nella storia degli studi caravaggeschi, si può parlare seriamente di un disegno autografo del genio lombardo; la seconda delle quali è la conferma di una ipotesi (sostenuta da anni soprattutto da Alfred Moir) secondo la quale, quanto meno per dipinti complessi come la Vocazione (o come la Morte della Vergine, o come Le sette opere di misericordia, ecc.), non è pensabile una loro realizzazione senza un disegno preparatorio.
L’ipotesi del Moir può forse contare ora su una prova concreta, ed essere in aggiunta irrobustita dalla precisazione che Caravaggio non redigeva tale disegno preparatorio (come era uso da parte di altri artisti) sulla tela stessa, bensì lo preparava – cosa nota, ma finora mai documentata - preventivamente su carta, come bozzetto abbastanza definitivo, per poi realizzarlo, senza ulteriori passaggi, direttamente sulla tela. Così nacquero i suoi capolavori.
Pietro Caiazza