di
Elena
GRADINI
La mostra, in corso fino al 12 febbraio 2017 al
Complesso del Vittoriano – Ala Brasini, realizzata sotto l’egida dell’I
stituto per la Storia del Risorgimento, in collaborazione con l’
Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, prodotta e organizzata da
Arthemisia Group in collaborazione con il
Whitney Museum of American Art di New York, darà conto dell’intero arco temporale della produzione del celebre artista americano.
Dagli acquerelli parigini ai paesaggi e scorci cittadini degli anni ‘50 e ’60, l’esposizione curata da
Barbara Haskell in collaborazione con
Luca Beatrice, attraverso più di 60 opere cattura lo spirito dell’America degli anni Quaranta, quando la Nazione si è appena ripresa dalla Grande Depressione del 1929 e l’uomo è chiuso nelle proprie solitudini interiori, schiacciato dalla metropoli sempre più opprimente.
Osservatore silenzioso della realtà a lui contemporanea,
Hopper narra attraverso le sue opere il disagio interiore dei suoi personaggi, posando lo

sguardo su cose, città, ristoranti, stazioni di benzina, persone che consumano la loro esistenza osservando dietro i vetri di una finestra uno sconfinato orizzonte, persi in una vuota attesa senza fine. L’artista, affascinato dai bagliori della notte americana insonne e veloce, inquadra la scena, il silenzio delle strade deserte, cattura i pensieri dei suoi passanti che si sfiorano senza comunicare
Nelle sue tele
Hopper utilizza pochi toni, con prevalenza di bianco, verde, giallo, mescolati con sapienza per restituire un’indagine urbana e sociologica del grande sogno americano del secondo novecento.
La modernità assoluta delle sue opere, specchio di un’epoca ormai lontana, risiede nell’aver catturato istanti di una vita liquida ed efferata, che consuma e travolge i suoi protagonisti, vicini e lontani. Nulla di più simile al
way of life attuale, diviso tra la frenesia del tempo che non basta mai e l’inquieta solitudine dei pensieri fluttuanti, immersi in un avvenire sempre più incerto.
Hopper utilizzò tagli fotografici in uno stile personalissimo, imitato a sua volta da cineasti e fotografi. La sua pittura si rivolgeva sempre più verso un

forte realismo, prediligendo architetture nel paesaggio, strade di città, interni di case, di uffici, di teatri e di locali. Le immagini sono algide, non trasmettono vivacità, gli spazi sono reali ma in essi c'è qualcosa di rarefatto che comunica un forte senso di inquietudine. Le sue composizioni sono geometrizzanti, giocate sui toni di luci fredde, taglienti e "artificiali", minimali i dettagli. La scena è spesso deserta e immersa nel silenzio. Di rado vi è più di una figura umana, e quando accade sembra emergere un’estraneità e incomunicabilità tra i soggetti. I loro sguardi escono dal confine del quadro, persi come sono nel vuoto del silenzio. Particolare attenzione nelle sue opere trovano le figure femminili e i paesaggi della sua casa a Cape Code.
Assorte nei loro pensieri, si abbandonano ai raggi del sole trasmettendo solitudine. La stessa che emerge dai suoi paesaggi, dalle marine. Una dimensione psicoanalitica sempre al limite tra la realtà e la sconfinata inquietudine interiore.
di
Elena GRADINI Roma 26 / 12 / 2016