(1909) FRANCIS BACON (1992)
«Voglio fare quello che diceva Valéry: dare una sensazione, ma non la noia di comunicarla»
Il padre, Anthony Edward Mortimer Bacon, militare tutto d'un pezzo e piuttosto tirannico, si gloriava di avere tra i suoi ascendenti niente meno che Francesco Bacone - il capostipite del cosiddetto empirismo moderno, il teorizzatore dell'esperimento (nucleo e prova del nove della vera scienza) - e lui, il secondogenito, non poteva che chiamarsi Francis Bacon. Ma questo figliuolo non era destinato a eternare le glorie filosofiche e militari della famiglia. Alquanto malaticcio (l'asma non gli dette mai tregua già da piccolo), consapevole fin dall'adolescenza della propria omosessualità, sbriciolò uno ad uno tutti i grani della speranza che il padre e la famiglia avevano riposto in lui. Quando, poi, manifestò l'intenzione di dedicarsi all'arte, il vaso fu colmo e la sentenza paterna si abbatté sul giovane come un fulmine di Giove: «Fuori di casa!».
L'exterior life l'avrebbe accolto con tutte le sue chances ma anche con tutta la sua crudezza. Emulo verace, in questo caso, del suo supposto progenitore filosofo, si accanì non tanto nel cercare di dire qualcosa ma di fare qualcosa: era attratto dall'empiricità della vita reale e così, tra i tanti idola tribus, specus, fori e theatri, si occupò di scrivere sulla sua personale tavola di presenza le istanze positive che la vita stessa gli proponeva. Non si fece in tal modo scrupolo di concedersi a uomini benestanti: ne ricavava di che vivere; ma si occupò anche di ben altro.
Londra - Parigi - Berlino, negli anni 1926-’27 divengono le tappe del suo vagabondare alla ricerca del cosa fare; e di cose ne fa tante: stenografo, commesso, domestico, cuoco. La rivelazione o, se si vuole, l'illuminazione lo sorprende però sulla via di Parigi, in occasione di una sua visita ad un'esposizione di quadri di Picasso. Confesserà più tardi: «Picasso mi ha aiutato a vedere. Per me era il genio del secolo». 1)
Era la chiave che non riusciva a trovare e, in quel mentre, nasceva il pittore di opere che un giorno sarebbero state battute a suon di milioni di dollari.
Perché questa introduzione biografica sul conto di Francis Bacon? La risposta la si scopre nella fattispecie dell'atipicità del suo approccio alla pittura. Vanno pure bene la rivelazione e l'illuminazione picassiane: ma ciò non basta. Occorre penetrare più a fondo nella personalità dell'irlandese. Reduce da singolari esperienze lavorative, tra le quali va annoverata quella di interior designer, non restò del tutto insensibile al fascino che gli procuravano alcune espressioni dell'arte moderna, specialmente quelle più presenti in Inghilterra, interessanti non solo la pittura ma, per esempio, anche il mobilio e l'arredo della casa.
Il cubismo del pittore di Malaga aveva aperto una trincea nel suo immaginario, pronto ad arricchirsi di stilemi, forme e colori che della realtà restituivano non tanto il suo essere quanto il suo dilemma : nasceva in tal modo una pittura di racconto che, pur restando accostata a quella di Picasso, proponeva un modello nuovo, originale, vicino, piuttosto, alla nascente arte fotografica e cinematografica.
Era la figura umana, e quella maschile in particolare, che lo intrigava: una figura non fissa, non calcificata nelle posture tipiche di tutta la pittura classica (quella di Picasso compresa), ma mobile, dinamica, quella che - sotto altre forme - si sarebbero viste in Boccioni e Giacometti. Bacon studia gli scatti in movimento del fotografo americano Eadwead Muybridge, che mostravano in successione gli aspetti del movimento del corpo umano. Da ciò non poteva non scaturire il suo interesse per il cinema, che colmava nella pienezza dell'immagine in movimento la sua attrazione per ciò che l'immagine stessa esprimeva modificandosi dinamicamente. Il ritratto, allora, non bastava più; occorreva vederlo nella trasposizione del suo non essere; e più che descrivere doveva suggestionare. Nel suo più famoso Autoritratto (fig. 1, 1969), la distorsione della propria figura, apparentemente trattata con una furia bestiale, pur nell'annichilimento di ogni collegamento col reale, richiama - nonostante tutto - la vera fisionomia dell'autore: la pittura ha compiuto il suo miracolo, ha restituito il volto più profondo della persona effigiata (quello che si cela agli occhi estranei e sprovveduti del primo sguardo): non un ritratto fotografico, ovvero un dipinto che si accanisce nel rifare la copia la più fedele possibile del modello, ma la materializzazione - si potrebbe azzardare di dire - di un'idea della persona raffigurata.
La realtà dice la sua, l'arte ne proferisce un'altra, necessariamente differente ma non falsa, semmai aderente alla sua natura più intima, e, perciò, più vera. Riflette, a tal riguardo, Milan Kundera: «Osservo i ritratti di Bacon e mi sorprendo perché, nonostante le distorsioni, assomigliano tutti ai loro modelli. Come può un ritratto assomigliare al suo originale, dopo che, programmaticamente, coscientemente ne ha operato una deformazione? Invece, succede che le differenti deformazioni dei volti si assomigliano, al punto che in loro si riconosce ogni volta un'unica persona. Da qui ogni volta la sensazione, per me, di un miracolo». 2)
Attenzione, però. Non si può assolutamente pensare all'avventura pittorica di Bacon come completamente avulsa dalla sua storia personale: il primigenio conflitto col padre e con la famiglia, la sua impavida scelta di volersi schierare tra le file degli artisti di fronte alla stucchevole riprovazione paterna, l'aver fatto immediato e incauto outing (in tempi in cui tale ammissione poteva tradursi in incriminazione bella e buona), dovettero creargli non pochi dissidi interni fino a sfociare in blocchi psicologici e drammi interiori. Tutta la pittura baconiana, complicata e tormentata - un po' come quella di van Gogh - va vista attraverso questo filtro grigio di precorse e cruciali vicende personali.
Tuttavia, il ritratto della figura, cioè, per essere più esatti, la raffigurazione del corpo umano subisce in Bacon un'ulteriore evoluzione: dalla sua unica presentazione ritrattistica e sotto l'incalzare del fascino cinematografico, il ritratto si fa triplice e diviene trittico come in Studio del corpo umano (fig. 2, 1979): tre flash del medesimo soggetto, visto da tre diversi punti di vista. L'ammasso delle forme del corpo raffigurate scandisce solo un refrain del mistero della figura umana, di cui sopravvive la persistente forza di misurarsi col mondo, nonostante questo e nonostante tutto.
Una nota caratteristica rinvenibile in tutte le biografie che lo riguardano è la predilezione di Bacon per le fotografie. Al modello non chiedeva di posare, chiedeva, semmai, sue fotografie. Non voleva, evidentemente, con le proprie distorsioni, infierire sulla vittima - lei presente nello studio - con il vantaggio, unico per l'artista, di scoprire e catturare, senza inutilmente distrarsi, gli indizi dell'intuizione creativa. Non solo, ma l'unicità fotografica, la sola capace di carpire e fissare l'attimo di vita del raffigurato, per l'artista era più significativa e produttiva di esiti pittorici che non un'intera seduta da studio. Operazione quest'ultima - del resto - alquanto improbabile, considerato lo stato di assoluto disordine in cui notoriamente versava il suo atelier. «Mi sento a casa nel caos», si gloriava, «perché il disordine suscita delle immagini; ad ogni buon conto mi piace, potrebbe essere lo specchio di quello che avviene nella mia mente»3). Con questa affermazione Bacon confessava, forse inconsapevolmente, la sua radice astrattista-surrealista-espressionista, ma aggiungeva anche una nota di illusionismo percettivo alla sua indole di artista sostanzialmente autodidatta ed estraneo alle correnti avanguardistiche del suo tempo.
La poetica pittorica di Bacon meriterebbe una ben più diffusa riflessione di quella di un pur temerario articolo sulla sua arte: compaiono nelle sue opere, e negli autoritratti in particolare, influenze che ardiscono di connettersi ai contemporanei studi psicoanalitici. Ne sono testimonianza i dipinti, come in Studio di nudo, 1969 (fig. 3), in cui, al cospetto delle allucinate profondità dell'id freudiano fanno riscontro fattezze scimmiesche del volto come estrema disgregazione dell'essere e della personalità umana.
Non si può, del resto, trascurare l'opera-ossessione che ha tenuto occupato Bacon dal 1950 per più di un decennio e per decine di repliche, lo Studio dal ritratto di Innocenzo X di Velazquez (Fig. 4). L'opera dello spagnolo, presente a Roma nella Galleria Doria-Pamphilj, non è stata mai direttamente osservata dal pittore di Dublino. A lui ne bastava la fotografia. E lo Studio è quanto di più dissacrante, allucinante e sconvolgente si possa immaginare. Il dipinto di Velazquez, che, alla maniera filosofica di baconiana memoria, può essere vista come un perfetto idolum theatri, subisce in Francis Bacon una feroce disgregazione. Lame gialle di luce paiono sprofondare il pontefice come in un 'discensore' a velocità progressivamente accelerata, verso una profondità che si può solo immaginare. Quello che ne viene al malcapitato papa è un urlo spaventoso, che richiama e riecheggia quello di Munch. Il trono sul quale siede Innocenzo ha perso le fattezze del seggio più potente del mondo e pare alludere ad una gabbia che lo irretisce senza via di scampo. Sembra veramente il manifesto blasfemo di un ateo (e tale era Bacon) che, in forza della potenza della sua arte, favoleggia intorno alla caduta quanto mai fortemente auspicata di un impero assoluto e di un dominio senza fine. È distrutta un'icona, quella di Velazquez, ma, di là dalla potenza di un'immagine pittorica, è anche annientata la sembianza di un'autorità suprema.
Bacon - si può dire infine - alla stregua di Picasso, Munch, Dalì, Boccioni, Giacometti, De Chirico e pochi altri, ha realizzato immagini rappresentative delle ansie e delle angosce dell'uomo occidentale del XX secolo, che, a ben vedere, sono poi ascrivibili all'intera umanità.
1) e 2) Marco Vallora, Il genio che ha sconfitto la paura, Lo Specchio della Stampa, n. 24 del 6.7.1996, pag. 106.
3) Carla Briganti, Lo studio di Francis Bacon, Il museo immaginario.
di Luigi MUSACCHIO