Giovanni Cardone Marzo 2022
Pier Paolo Pasolini uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo il suo pensiero ancora attuale, nel festeggiare i cento anni dalla nascita e nel ricordare questo grande Poeta, volevo evidenziare attraverso una mia ricerca storiografica e scientifica la sua figura apro questo saggio dicendo : Che nel 1943 si trasferì nel paese materno di Casarsa della Delizia  in Friuli con la madre e il fratello minore Guido morto poi nella lotta di resistenza il padre, fatto prigioniero in Africa, sarebbe tornato alla fine del 1945, e vi rimase fino al gennaio del 1950 quando, per sfuggire allo scandalo provocato dalla pubblica denuncia della sua omosessualità si stabilì con la madre a Roma. Da questo momento la sua vicenda biografica coincide appieno con la tumultuosa attività dello scrittore, del regista e dell'intellettuale impegnato a testimoniare e a difendere, spesso anche in sede giudiziaria la propria radicale diversità. La prima tappa del lungo peregrinare della famiglia Pasolini imposto dalla professione del padre Carlo Alberto, ufficiale dell’esercito. Carlo Alberto appartiene ad una delle più illustri famiglie di Ravenna, i Pasolini Dall’Onda, nobili degli Stati della Chiesa che da sempre assolvono incarichi importanti in Vaticano. Tuttavia il padre, Argobasto, avvia la famiglia alla rovina a causa del gioco d’azzardo, rovina cui contribuirà a sua volta il figlio Carlo Alberto preda della medesima passione. L’aver scialacquato ciò che restava del patrimonio paterno, lo costringe nel 1915 ad abbracciare la vita militare, carriera che sopperiva ad un destino di degradazione economica. E’ così che in Friuli, precisamente a Casarsa, conosce e si innamora di Susanna Colussi, “graziosissima, minuta, fragilissima, (con) una nuvola di capelli di capelli castani, che si amava fin da ragazza. Una studiata indulgenza verso se stessa la disegna nell’adolescenza” . Divenuta sua moglie, lo accompagna nel suo costante girovagare: Bologna, Parma, Belluno, Conegliano, Salice, Cremona, Scandiano e di nuovo Bologna fino alla consueta tappa estiva a Casarsa. Un matrimonio che si rivela ben presto infelice. Carlo Alberto aderisce al fascismo e al riguardo, Enzo Siciliano addirittura si esprime con queste parole: “il fascismo apparteneva antropologicamente alla sua vanità, al suo evidente vitalismo, all’ombrosità del suo sguardo e ancor di più alla sua dissestata configurazione sociale, alla sua aristocrazia di sangue respinta verso le terre desolate della piccola borghesia” . E’ un uomo intriso di miti nazionalistici, succube di un alto grado di passionalità sciolto da qualsiasi vincolo culturale o religioso. Susanna è cattolica ma rifugge l’untuosità religiosa verso la quale nutre una forte insofferenza. I rapporti con il marito sono resi ancora più difficili dall’avversione di lei per la retorica politica. Umiliata nei sentimenti a causa dei cadenzati abbandoni di Carlo Alberto, gli resterà fedele ma solo per senso del dovere riversando tutto il suo amore sui figli Pier Paolo e Guido, nato quest’ultimo nel 1925. Ma sarà soprattutto il destino di Pier Paolo ad esserne segnato e l’attaccamento alla madre diverrà morboso, un amore ideale e sublime, senza deroghe possibili che lo accompagnerà endemicamente negli anni plasmando la sua vita e la sua carriera. La sensibilità del primogenito, infatti, accoglie senza difficoltà, pur se inconsciamente, il rancore di Susanna. La sorte di Carlo Alberto non sarà felice, “dostoevskianamente straziata dalla passione per sua moglie” come ci testimonia Pier Paolo che parla di suo padre come di un “innamorato pazzo” ma in maniera insana, “sbagliata, passionale e possessiva”. L’angoscia del fallimento e il senso di solitudine che nasce da una passione non ricambiata spinge Carlo Alberto ai vizi perniciosi del vino e del gioco. Il contenitore vuoto da poter colmare con la sua passione e irruenza lo individua nel fronte. Siamo nel vivo della Seconda guerra mondiale e la velleità bellica risucchia Carlo Alberto che viene fatto prigioniero in Kenya da cui farà ritorno solo sul finire del 1945, quando ormai il rapporto tra Pier Paolo e Susanna si è fatto simbiotico, impenetrabile dopo la serie di traversie che, dopo aver offeso Pier Paolo nella dignità privata, porta i due esuli dalle terre di Casarsa alla tumultuosa caotica e vitale Roma: una città senza industrie, senza giornali importanti, senza case editrici ma con il cinema. A Roma Pasolini coltiverà proficue e intense amicizie che lo vedranno legato a Moravia, Morante, Ungaretti, Penna, Bertolucci e Bassani . Insomma, una città non di provincia come Milano, Bergamo, Cremona e Mantova, educate al “cattolicesimo dolorante, per ricatto puritano”, con una “borghesia benpensante per diritto, in quanto non priva di tradizionale dignità”. Il dramma che suscitò nell’animo di Carlo Alberto lo “scandalo" del figlio, tralignò alla follia e unico rifugio, fino alla morte avvenuta nel 1958 per cirrosi epatica, lo trovò nel bere. Pier Paolo Pasolini nasce pochi mesi prima della storica Marcia su Roma, atto che sancisce la salita di Mussolini al potere. L’Italia, così, diviene succube e insieme protagonista inconsapevole di un cambiamento imposto dalla realtà piccolo borghese del fascismo e dalla pervicacia di un Duce demagogo e populista le cui promesse incantarono come malie sia i grandi agrari e gli industriali, allarmati dal “pericolo rosso” di moda dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 sia una parte non trascurabile del proletariato urbano e contadino che credeva di poter rendere meno equivoca la certezza di impiego e di lavoro, ma parafrasando Enzo Siciliano l’Italia si allontanava ad una velocità geometricamente progressiva dall’Europa. Le velleità dirigistiche e di controllo del fascismo coltivato dalla piccola borghesia che credeva di fare del Colpo di Stato delle camicie nere strumento per i propri fini particolari, viene travolta e rigettata. Il corso degli eventi mostra una verità adamantina: nessuno dominò il fascismo, i padri furono travolti dalla storia. L’ideologia animò il fascismo e la dittatura non fu una momentanea uscita da sé, una malattia innocua e temporanea dello spirito, ma il denominatore comune, politico, culturale e sociale per un paese vessato e provato dall’immane tragedia che fu la Prima guerra mondiale e che trascinò il Paese in uno stato d’inferiorità paralizzante. La popolazione dopo il 1918, desidera una palingenesi, un bagno catartico e crede, ingenuamente, di scorgere ciò nel populismo e nell’autarchia fascista che invece non fece altro, maramaldescamente, che nascondere verità sì dolorose ma necessarie, dietro conati di vitalismo, bellicismo e sogni di rivalsa il cui unico effetto fu quello di annientare l’Italia e il suo popolo, inerme di fronte alla catastrofe che fu la Seconda guerra mondiale. Il fascismo fu indubbiamente foriero di una puerile euforia che obnubilò le menti di gran parte degli italiani, ingannati dalla sicumera di un uomo che si ergeva a salvatore della patria, colui che avrebbe magicamente risollevato le sorti economiche e sociali del suo Paese. Un “dux”, secondo la migliore tradizione romana. Il mito romano, imperiale informa di sé tutti i suoi gesti. Ogni suo comizio, ogni suo discorso è accompagnato da fiumi di folla esultante. Da questo al culto della persona, al puro e acritico divismo, il passo è breve. Il calendario fascista è scandito da festività “pagane” come la famosa Befana fascista che si accompagnano allo sfarzo delle parate le quali facilitano quella che G. Mosse definisce “nazionalizzazione delle masse”, fenomeno che, riprendendo e surclassando il modello scenografico mussoliniano, vivrà il suo acme nella Germania hitleriana. Un’Italia che si vuole risollevare, vitale, forte, tronfia, appariscente, autonoma. Corporazioni, leghe, circoli, raduni sportivi: la socialità è volontariamente tenuta sotto controllo e il fine è l’omologazione perché foriera di consenso e dunque, acquiescenza alle decisioni, inappellabili, del Duce. Questo il clima in cui cresce Pier Paolo Pasolini il quale, stabilitosi con la famiglia alla fine degli anni Trenta a Bologna, termina brillantemente gli studi liceali e si iscrive alla facoltà di Lettere. Oltre ai successi universitari che si susseguono, conduce una vita “normale”: è capitano della squadra di calcio della facoltà, frequenta i raduni sportivi fascisti, scrive poesie, dipinge, progetta e si impegna in riviste letterarie d’avanguardia con alcuni colleghi. Pasolini amò profondamente il gioco del calcio, ma nella sua forma “pura”: incontaminato, non degradato e inquinato come sarà quello reificato dalla società dei consumi, postindustriale, contro cui lancerà i suoi strali.
È risaputo che si teneva in forma: aveva il terrore di invecchiare e negli ultimi anni della sua vita andò addirittura in Romania a fare la cura del Gerovital a cui sottopone anche la madre. La prontezza del corpo fece di lui, come farà notare il suo amico Italo Calvino, uno dei pochi convincenti “descrittori di battaglie” della nostra letteratura recente. L’apparente normalità della sua vita si spezza l’8 settembre 1943, quando con lo storico armistizio, si frantumano le illusioni fasciste e l’Italia si trova allo sbando. In questo frangente Pier Paolo, militare a Pisa, decide di disertare e di tornare a Casarsa dove la madre era sfollata volontariamente con i due figli nell’inverno del 1942 per via dei bombardamenti. Qui Pasolini prosegue la sua attività letteraria. Il 14 luglio 1942 esce Poesie a Casarsa, un volume di quarantasei pagine dedicato al padre e recensito da Gianfranco Contini il quale, divinando il destino del poeta, usa per primo la parola che accompagnerà la vicenda umana e letteraria di Pasolini, “scandalo”. Uno scandalo che risiede in primis nella scelta linguistica: il dialetto della riva destra del Tagliamento, un friulano particolare, lontano dal gergo locale di cui era intriso il friulano scritto fino allora, nato da una koinè letteraria determinata dalla volontà di rendere dignità scritta ad un dialetto fino allora tramandato solo per via orale. Ma lo “scandalo” a cui fa riferimento Contini è anche, e soprattutto, un altro ed è contenuto celatamente nella lettera indirizzata all’amico Farolfi del 1941: “Io voglio ammazzare un adolescente ipersensibile e malato che tenta di inquinare anche la mia vita di uomo, ed è già quasi moribondo, ma io sarò crudele verso di lui”. Anela ad una indefinita maturità come riscatto e affrancamento dalla sua straziante inclinazione omoerotica. L’omosessualità sarà vissuta sempre da Pasolini come una maledizione, un qualcosa in più che turba il suo equilibrio, “la mia omosessualità non c’entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico”; “anch’io ho, in me, un momento, superato nella coscienza, ma rimasto in me nella meccanica fatale di un’educazione, in cui verso l’omosessualità ho un moto di avversione razzistica. Mi pare  che l’omosessualità designi, in un altro, un carattere di inferiorità umana e civile” . Non avrà mai interesse ad aggiungere al lungo elenco delle sue rivendicazioni politiche e sociali, quella per i diritti civili degli omosessuali “le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti”. Pasolini, ci ricorda Walter Siti, è stato “uno dei pochi omosessuali italiani che ha saputo ragionare da omosessuale senza ammantarsi di autorevolezza “obiettiva” e senza scadere nel gergo da conventicola” , grazie soprattutto a quel suo essere genuinamente coraggioso, virtù che gli permise nell’arco della sua breve vita, di dar voce ai pensieri e ai sentimenti che lo attraversarono. Fortunatamente, lo “scandalo” non inibisce le sue velleità letterarie ed artistiche che anzi, con gli anni e con nuovi strumenti -primo tra tutti quello cinematografico- diventeranno provocatorie, fastidiose, di esplicita denuncia del degrado politico e della deriva sociale verso cui la modernità postcapitalistica ha traghettato il Paese, dietro falsi idoli veicolati dal consumismo edonista, privo di contenuti critici, intellettuali e morali. Torniamo a Casarsa. Dopo Poesie a Casarsa, continua a scrivere poesie in italiano e in friulano. A queste si aggiungono presto brevi scritti sempre in dialetto, tra cui un testo per il teatro, I Turcs tal Friùl: un’epica contadina in chiave cristiana in cui il modello della sagra paesana dà scena e contenuto all’operetta in un unico atto, di cui è facile una lettura autobiografica e il lapalissiano riferimento alla tragedia che colpì la famiglia di Pier Paolo con l’uccisione del fratello Guido. Di indole differente, più spavaldo e pugnace, Guido subì il fascino e la suggestione della lotta armata da cui nacque un violento desiderio di combattere la guerra di liberazione. Divenuto partigiano della brigata Osoppo, vicina al Partito D’Azione, cadrà vittima di quell’orribile episodio della Resistenza italiana che passò alla storia come “strage di Porzus”, che vide i garibaldini e gli azionisti uniti contro le pretese territoriali sulle terre di confine delle truppe slovene fomentate dalla propaganda nazionalista e sciovinista di Tito. Questa pagina luttuosa e mesta della vita di Pier Paolo è calata nell’età storica dell’antifascismo segnata dal fenomeno della Resistenza, risultato dell’acuirsi del carattere politicoideologico del conflitto tra il sistema democratico e i totalitarismi nazi-fascisti e che si traduce in una vera e propria resistenza nei confronti degli eserciti occupanti, sia in forma armata che in forma “passiva” rifiuto del consenso, attività di intelligence e frenetica attività propagandistica di intellettuali e politici esuli. Nel caso italiano, il fenomeno diventa massiccio dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 a cui segue, il 23 settembre, la liberazione di Mussolini e la costituzione della Repubblica sociale italiana che crea due realtà italiane: la prima, paga la libertà con un governo fragile ma legittimo affidato al maresciallo Badoglio; la seconda è, invece, quella che gravita all’interno dei confini della Repubblica retta da Mussolini e da sparuti accoliti che in realtà non sono altro che marionette nelle mani dei comandanti nazisti lì stanziati dal Fuhrer. In questo quadro si apre quell’episodio storico che Cesare Pavone ha icasticamente e intuitivamente bollato come “guerra civile”: una lotta fratricida tra chi conserva qualche velleità fascista di controllo e soggezione e chi anela ad un ritorno all’ordine democratico. Uno scontro che, come sottolinea Lanaro , per quasi due anni sottopone la popolazione a prove mai conosciute durante la Grande Guerra e che sovvertono completamente le abitudini quotidiane, acuendo l’insofferenza verso qualsiasi tipo di uniforme e sfaldando il rapporto fiduciario che in qualsiasi società è il tessuto connettivo della comunità. L’evento bellico della Liberazione attraversa e scuote tutta la penisola italiana, dalla Sicilia alle Alpi, lasciando un paese grondante di devastazione e distruzione. Il 25 aprile 1945 finalmente i tedeschi firmeranno la resa a Caserta che sancirà, dal 2 maggio, data in cui diventa effettivo il documento, la fine del conflitto in Italia. Badoglio subito cede il testimone a Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista rientrato in Italia dopo diciotto anni di esilio in Unione Sovietica. Con la famosa “Svolta di Salerno” del 1944, Togliatti inaugurerà quella stagione storica che dal 1944 dominerà la scena politicoistituzionale italiana fino al maggio 1947 e che vedrà la formazione e il susseguirsi di gabinetti ministeriali di “unità antifascista”. Questa politica consentirà all’Italia di rientrare nel novero delle potenze dotate di un proprio riconoscibile statuto che attesti il totale affrancamento dal periodo fascista. Le zone più a lungo occupate dai nazi-fascisti, e dunque dove le turbolenze partigiane si avvertirono maggiormente nella loro peculiare forma armata, interessarono l’Italia da Roma in su, non solo nelle città ma anche e soprattutto, in campagna e in montagna. Un fenomeno trasversale che coinvolse tutte le classi sociali e inizialmente spontaneo si affiancano presto e massicciamente forze politiche antifasciste: formazioni partigiane comuniste, Brigate Garibaldi; esponenti del Partito D’Azione, quelle di Giustizia e Libertà; socialiste, Giacomo Matteotti ma anche cattoliche, democristiane come la Osoppo: palese fu il richiamo al Risorgimento che soggiaceva al desiderio di riscatto nazionale e a rivendicazioni sociali e politiche. La Resistenza generò a cascata episodi neri della nostra storia, fu una sorta di epicedio incarnato dalla crudezza ferina con cui i nazifascisti risposero agli attacchi massacri quali le Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, torture e deportazioni. Questo è la cornice nella quale si inserisce il dramma familiare e personale di Pasolini. Al contrario del fratello Guido, Pier Paolo sfoga la sua passione e il suo furore per la libertà dal giogo fascista e nazista nella poesia. Il suo non è anti- fascismo ma “a- fascismo”: non si impegna mai attivamente aderendo a gruppi partigiani. Enzo Siciliano parla di un’“ingenua furia romantica” del poeta Pasolini perché nel suo animo alberga il furore pedagogico di chi crede nella pregnante forza educatrice della poesia, della lingua che si fa storia e cultura attraverso il poeta che la plasma forgiando armi imperiture, vivificando una cultura locale in cui i poveri contadini possano riconoscersi e, insieme, superare l’eclissi e l’oblio dell’arcaicità d’espressione e dei costumi. Il violento trauma per la morte di Guido traghetterà Pier Paolo verso la scelta dell’imprescindibilità dell’impegno politico e civile che vivrà per tutta la sue breve vita con un’intensa passione attivistica. Subito dopo il 1945 fonda la “Academiuta di Lenga Furlana”, un centro culturale che cura pubblicazioni letterarie dialettali con un fine preciso, specificato nell’atto costitutivo dallo stesso Pasolini. La poesia come strumento per riscoprire il valore della “patria”, vilipeso e violentato. L’Italia, dichiara a Serra in una lettera del 1943, “ha bisogno di rifarsi completamente, ab imo, e per questo ha bisogno ma estremo, di noi, che nella spaventosa ineducazione di tutta la gioventù ex-fascista, siamo una minoranza discretamente preparata” e spetta dunque proprio a questi giovani dell’ultima generazione usare le proprie energie per portare a termine “una vera missione, in questa spaventosa miseria italiana, una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà”. Discutendo una tesi sulle Myricae di Pascoli, si laurea in Lettere a Bologna con Carlo Calcaterra, professore di storia della letteratura italiana che segnerà la formazione di Pasolini insieme a Roberto Longhi, professore di Storia dell’Arte, fondamentale nella successiva passione figurativa del Pasolini regista. Nel frattempo, a Casarsa, apre una scuola per pochi alunni ai quali insegna. Accanto ai classici, la poesia dialettale friulana. È affascinato dal Friuli, a cui dona il suo cuore. Un ambiente aspro, ermetico, abitato da un popolo che lui stesso definisce “insieme così nordico, nel suo moralismo, e così meridionale, nel suo abbandono melico, insieme goffo e agile, duro e allegro; vivente in una sorta di substrato politico, di rustico mondo a sé senza una grande tradizione risorgimentale, non ha tuttavia quei vizi sociali che caratterizzano gli altri popoli privi di tradizioni ” . All’insegnamento scolastico affianca presto l’impegno politico attivo che lo vede coinvolto sul fronte dell’autonomia friulana. Pasolini aderisce nell’ottobre-novembre 1945 all’associazione Patrie tal Friul, il cui programma politico era dichiaratamente autonomista. Questo è un periodo caldo per il Friuli dove convivono gli ultimi spasimi retorici fascisti e le pretese annessionistiche della Jugoslavia. L’autonomismo friulano è letto in chiave anti-campanilista, come un fattore di progresso sociale e civile da perseguire con lo scopo di rafforzare i confini italiani, opponendo alle pretese slave una “regione friulana cosciente di sé, elettrizzata dalla dignità conferitagli a diritto per la sua lingua, le sue usanze. La sua economia nettamente differenziate” . Nel 1947 Pasolini si iscrive al Pci, diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa e per vivere inizia ad insegnare italiano alle scuole medie statali a Valvasone (dopo una breve parentesi in una scuola privata a Versuta). L’adesione al Pci è la necessaria maturazione e il naturale sbocco dei pensieri e dei sentimenti di Pasolini il quale, attraverso la lettura di Gramsci, crede di poter situare la propria posizione di intellettuale piccolo borghese tra il partito e le masse, diventandone il perno di mediazione. Il paese lasciato in eredità dalla guerra alla nuova classe politica e dirigente è un paese umiliato, stremato, insozzato dalla ferocia sanguinaria della guerra civile, economicamente dipendente dagli aiuti stranieri; un paese che ha perso la sua credibilità all’estero, governato da una classe politica inesperta, conservatrice, che non ha saputo rispondere alle pulsioni modernizzatrici favorendo la sclerotizzazione della frattura tra un nord vivace, propositivo e attivo, e un sud dove ha prevalso l’impulso reazionario che ha favorito il ripristino del vecchio stato, dove le forze dell’ordine e la magistratura sono tutt’altro che convertiti alla democrazia e dove predominano due partiti di massa tra loro antitetici. Il corollario inevitabile della “regressione infantile e la conseguente ricerca di paternità caratteristica degli sconfitti” è l’affidarsi fideisticamente a leader circondati da “un’aureola di rasserenante infallibilità” che in questo frangente storico sono individuati in Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti. La vita politico-istituzionale-costituzionale italiana ribolle in questo periodo. Dopo il referendum del 2 giugno 1946, viene eletta l’Assemblea costituente a cui viene demandato il compito di stilare una costituzione per l’imberbe Repubblica. I lavori terminano nel dicembre 1947 e la Costituzione entra in vigore il 1 gennaio 1948. Nell’aprile dello stesso anno, precisamente il 18, si tengono le prime elezioni politiche generali che segnano la fine dei governi di unità antifascista e sanciscono l’inizio di quello che sarà il dominio trentennale della Democrazia Cristiana. L’ascesa di questo partito sarà favorita non solo dallo spessore del suo leader, Alcide De Gasperi, ma anche da quella frattura mondiale, nota come “Guerra Fredda”, che nei paesi occidentali gravitanti intorno alla potenza statunitense fa agitare il “pericolo rosso”, comunista. La battaglia anticomunista sarà sostenuta con forza anche dalla Chiesa. L’ingerenza di quest’ultima orienta il voto dei credenti che, superato lo stallo del non expedit, è determinante per la vittoria dei democristiani.
Questa la realtà politica italiana contro cui Pasolini lancerà i suoi strali: trent’anni di dominio di una classe politica, la Democrazia Cristiana, che si porrà sin da subito al centro di una coalizione di piccoli partiti alleati. L’opposizione vedrà in prima fila sempre il Pci destinato, tuttavia, a diventare sempre più forte ma mai abbastanza da rimpiazzare la Dc e il partito socialista che, in un primo momento, deciderà di legare il proprio destino al partito comunista con il patto di “unità di azione”. Questa situazione sarà icasticamente definito “bipartitismo imperfetto” per distanziarlo dalle altre realtà europee, inglese e tedesca principalmente, in cui domina una perfetta, e genuinamente democratica, alternanza tra due diverse fazioni politiche. Questo passaggio sembra segnare un cambiamento ab imo. Niente di meno vero. La realtà italiana vede il trionfo di quella che alcuni storici hanno definito “continuità dello stato” per cui gran parte del vecchio apparato fascista viene assorbito dalla nuova repubblica insieme ai suoi istituti che mantengono inalterate gerarchie, piante organiche e articolazioni interne, abitudini, opinioni assolutamente esiziali al corretto e democratico funzionamento della Repubblica, dal momento che coinvolgono magistratura, forze armate, polizia, guardia di finanza, burocrazia, enti parastatali (Imi, Iri, Ferrovie dello Stato, Inps). Si produce una silente quanto endemica continuità tra potere e istituzioni sociali che favoriranno il perpetuarsi di quei privilegi che creeranno un vulnus insanabile nell’intero impianto istituzionale. Il primo governo De Gasperi offrirà la spalla a Pasolini per la stesura di una sorta di romanzo sul suo Friuli (che vedrà la luce solo nel 1962, dopo un lavoro fatto con acribia di tagli e restauri, con il titolo- di chiaro riferimento marxista- Il sogno di una cosa) dove traspare il suo desiderio di una vera e propria palingenesi sociale. E’ d’obbligo chiosare che non è corretto parlare di “romanzo” -come non lo sarà neppure per i successivi Ragazzi di vita e Una vita violenta-, perché Il sogno di una cosa si presenta come una serie di cartoni liberamente uniti, dove si intreccia il racconto delle picaresche vicende di tre giovani friulani goderecci impegnati tra balli domenicali, feste, vino e amori dietro l’apparente ricerca di un lavoro, e che si conclude con l’entrata violenta in scena delle conseguenze del Lodo De Gasperi, decreto che attua una riforma agraria lacunosa e mal digerita dai contadini. Oltre ciò, Walter Siti ci ricorda che Pasolini in uno dei sue saggi magistrali, ricusa apertamente l’epiteto di “romanziere” -“io, in fondo, non sono un romanziere”. Il sogno di una cosa viene visto come “lo sfondo mitico e contadino del romanzo “romano” (per) l’epicità del libro che trae sostanza dal senso di avventura che increspa il vivere dei tre protagonisti: soluzione stilistica a cui Pasolini arriva dopo Ragazzi di vita” . L’opera, oltre che testimoniare quella che Siciliano chiama “sconfinata intimità friulana” dell’autore, è costruito intorno a un preciso episodio di rivendicazione contadina: la manifestazione del 17 gennaio 1948 a San Vito al Tagliamento per l’attuazione del lodo De Gasperi, che vide coinvolte circa tremila persone. La situazione agraria e contadina, soprattutto nel sud Italia, risente fortemente della distruzione e degli sconvolgimenti causati dalla guerra. Qualsiasi governo si fosse istaurato non avrebbe potuto elidere né tantomeno accantonare, il problema ma porlo come uno dei punti principe del proprio programma di riforme. La delicatezza che richiedeva affrontare questo problema si riscontra nelle difficoltà, nelle titubanze e nei passi indietro che scandiscono l’iter di queste riforme. Per “Lodo De Gasperi” deve intendersi quella scelta politica, arbitrata da De Gasperi, con cui nel 1946 si assegnano ai mezzadri una serie di compensi come risarcimento dei danni arrecati dalla guerra all’economia contadina. Accanto a questo, il lodo contempla l’assunzione di manodopera disoccupata. La riforma agraria che si tentò di attuare fu sicuramente il primo serio tentativo nella storia dello Stato unitario, di modificare i rapporti di proprietà in favore dei contadini poveri, soprattutto nel sud Italia (Paul Ginsborg). Tuttavia, il risultato sarà ben altro. Sempre Ginsborg aiuta a demistificare la realtà ricordando quanto fosse stata attuata malamente la riforma -soprattutto nel sud- anzi, come addirittura si fosse rivelata per i contadini un’amarissima delusione, dal momento che le terre confiscate ai grandi proprietari o non furono affatto sufficienti a soddisfare le loro esigenze o mancarono gli aiuti statali, dirottati altrove, per renderle autosufficienti.
Dunque, una legge sbrigativa e alquanto superficiale perché non andò ad affrontare problemi cruciali come la riforma dei patti agrari, l’avvio di un piano nazionale di bonifica, il miglioramento salariale e delle condizioni di lavoro dei braccianti. In sintesi, la riforma agraria non rientra sicuramente tra le riforme che si volevano “di struttura”, non costituisce un gradino ulteriore nella transizione verso il socialismo. Tuttavia, questa riforma ha un ruolo di prim’ordine nella strategia della Dc per assicurarsi il potere nel Mezzogiorno agricolo perché sovverte completamente il vecchio blocco di potere agrario meridionale: le agitazioni contadine e la linea intrapresa dal governo turbano traumaticamente le elités agrarie, le quali nel breve periodo vendettero tutta la terra in loro possesso investendo poi nella speculazione edilizia dei capoluoghi in via di sviluppo, mentre nel lungo periodo dirottarono le loro attenzioni verso partiti di estrema destra. La Dc deve allora costruire un nuovo tessuto connettivo che la leghi alla società meridionale e lo fa sviluppando il modello agrario fascista, con la sua esaltazione della vita contadina e i suoi progetti assistenzialisti, a partire dalla legge sulla formazione della piccola proprietà contadina e con l’istituzione di fondi statali per facilitare l’accensione di mutui per i contadini compratori, gestiti dall’organizzazione collaterale del partito, la Coldiretti di Paolo Bonomi, che riesce a strappare diverse richieste in Parlamento negli anni successivi (come la legge che estende la pensione ai coltivatori e la costituzione della Casse Mutue, a cui poi nel 1950 si aggiungerà l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, quello che sarà l’elemento precipuo e ineludibile per lo sviluppo economico del sud). Come risultato le famiglie contadine ora gravitano all’interno dell’associazionismo cattolico che, non solo le esalta individualmente, ma garantisce loro la protezione dello Stato, spegnendo quel velleitarismo cooperativo ed egualitario alla base del tentativo comunista di unificare i contadini sotto la loro guida. All’egemonia ideologica e culturale, grazie all’estesa rete di parrocchie, la Dc aggiunge così una solida base materiale che segue la strategia del consenso messa in atto dal partito con l’uso e l’abuso del potere statale (Ginsborg). La manifestazione organizzata dalla Camera del Lavoro a San Vito del Tagliamento per ottenere i miglioramenti che il lodo prometteva agli agricoltori disoccupati e ai mezzadri danneggiati dalla guerra, è rivolta contro quei proprietari terrieri che si sono strenuamente opposti fino a quel momento all’applicazione della legge. Pasolini è tra i manifestanti e questa sua presenza gli dà la possibilità di osservare le varie fasi dello scontro, di intervenire e di parlare con i contadini. Ne nasce un progetto ambizioso: scrivere qualcosa di importante su quel mondo contadino in fermento e lo farà, raccogliendo e intrecciando storie reali e testimonianze ne ‘La meglio gioventù’. Posso dire che sono in possesso degli elementi necessari per definire con esattezza quanto affermato in precedenza affermando che ‘Pasolini ancor prima di essere uno scrittore è un Intellettuale’, e di dipanare in cosa consista lo specifico della sua etica letteraria. Abbiamo osservato come la produzione artistica presa in analisi sia stata caratterizzata dall’impossibilità dello scrittore di eclissare se stesso, e di come questa volontà di compartecipazione si traduca in un rapporto dialettico fra intellettuale e potere. In Pasolini, questo rapporto possiede nella sostanza una natura critica, volta a denunciare i vizi della classe dominante schierandosi apertamente contro di essa, rivendicando il proprio diritto di dissentire. Rivolgendoci alla definizione di ‘intellettuale’ data da Edward Said, allora vedremo che: L’intellettuale è un individuo che svolge nella società uno specifico ruolo pubblico. Caratteristica prima dell’intellettuale, ai miei occhi, è il fatto di essere una persona capace di rappresentare, incarnare, articolare un messaggio, un punto di vista, un atteggiamento, una filosofia o una convinzione di fronte a un pubblico e per un pubblico. Questo ruolo è un’arma a doppio taglio. È indispensabile, pertanto, che non venga mai meno la consapevolezza di essere qualcuno la cui funzione è di sollevare pubblicamente questioni provocatorie, di sfidare ortodossie e dogmi e non di generarne di non lasciarsi facilmente cooptare da governi o imprese, di trovare la propria ragion d’essere nel rappresentare tutte le persone o le istanze che solitamente sono dimenticate.
Un Intellettuale, dunque, a prescindere dal contesto in cui operi non dovrà mai scostarsi dalla consapevolezza di ciò che è e di cosa rappresenta, dovrà far valere le proprie istanze, mostrare le contraddizioni della realtà osservata gettando una nuova luce su essa, ma soprattutto dovrà abbattere i dogmi combattendo contro lo status quo, facendo sempre emergere la propria voce. Atteniamoci dunque a questa definizione, affianchiamo ad essa l’etica letteraria dimostrata da Pasolini all’interno delle sue opere. Potremmo allora concordare sul fatto che con Ragazzi di vita Pasolini non stia semplicemente creando scalpore in quanto artefice di un’allotropia letteraria, ma in quanto effettivo adempiendo al ruolo di Intellettuale in aperto dissenso contro le forme di potere. Basiamoci su questo fatto e le circostanze inerenti alla pubblicazione di Ragazzi di vita acquisiranno una nuova luce: le accuse e i tentativi di censura che seguono la pubblicazione non saranno più semplici rimostranze per un attentato al buongusto letterario, ma un vero e proprio tentativo di sopprimere il difforme in difesa dello status quo .I Ragazzi di vita acquisirà dunque un rinnovato valore letterario basato per un verso sul rapporto vissuto negativamente con la cultura e le istituzioni, per un altro sul principio di resistenza che l’arte attiva nei confronti dell’omologazione . La denuncia e il dissenso derivanti dal romanzo costituiscono dunque una forma di resistenza al tentativo di omologazione di cui sempre necessita il potere per esercitare l’egemonia. Condotto da questo principio Pasolini si batterà strenuamente fino alla fine: un’esasperata ed eroica resistenza contro il pensiero unico. La lunga campagna di resistenza posta in atto da Pasolini contro il Potere cominciò dunque con la pubblicazione di Ragazzi di vita, trovando naturale prosecuzione in ambito saggistico all’interno degli Scritti corsari. Al fine di comprendere quali furono le condizioni necessarie affinché il dissenso intellettuale abbia potuto porsi in essere all’interno del romanzo, è necessario soffermarci sulla fenomenologia del dissenso posto in essere da Pasolini, grazie al quale seppe cogliere con lucidità di analisi la complessità dei rapporti vigenti all’interno della società italiana. La prima circostanza è correlata al fatto che Pasolini crebbe e fu educato in un ambiente piccolo borghese, all’interno del quale spicca la figura del padre, Carlo Alberto Pasolini, ufficiale di fanteria; sotto l’influenza di quest'ultimo gli anni dell’infanzia e della formazione di Pier Paolo furono vissuti all’insegna di valori aventi come modello di riferimento la classe borghese. Pasolini stesso lamentò in più occasioni quanto avesse vissuto in maniera penosa il sentirsi oppresso dall’angoscia del dover trovare a tutti i costi un lavoro dignitoso, correndo il rischio dell’insuccesso e di deludere le aspettative familiari. Solo in un secondo momento, una volta trasferitosi a Roma, Pasolini entrò veramente a contatto con la realtà del proletariato e del sottoproletariato. Questo fatto comportò un’emancipazione dalla mentalità borghese per abbracciare i valori del nuovo ceto sociale di riferimento, abbandonando dunque quelli natii. Una tale palingenesi permise di sperimentare una realtà ‘altra’, passando da una realtà sociale X ad una realtà diastratica Y. La traslazione sul piano fisico viene affiancata in questo caso da uno vero e proprio straniamento ideologico: da un primo contatto con il proletariato deriva una nuova consapevolezza della realtà storica e una diversa percezione della realtà empirica. Questo contatto con la classe proletaria può essere tradotto metaforicamente come un primo contatto per Pasolini con ciò che è Altro: attraverso il contatto con una realtà estranea il processo di continua riformulazione d’identità e coscienza acquisisce un nuovo significato. Esso conduce non solo al giudizio della nuova realtà esperita ma anche alla plurisemanticità di quanto vissuto in precedenza. Il processo dopotutto non è estraneo alla psicoanalisi, il quale si basa sulla perpetua riformulazione e affermazione dell’Io in confronto ad un modello oppositivo: in assenza di ciò che definiamo ‘Altro’ verrebbe dunque a mancare l’Io stesso . La seconda istanza, è correlata all’oggetto della letteratura. Si badi bene che il termine usato è volutamente ‘oggetto’. Non viene assolutamente affrontata la valenza epistemologica della letteratura così come non vengono affrontate verità e menzogna insite ad essa . Ma sin dal dibattito ellenico sembra vi sia quantomeno concordia  riguardo alla natura ontologica della letteratura: essa è mimesis, imitazione, e in quanto imitazione raffigurazione di ciò che è Altro.
Prescindendo dunque dall’inconsistenza epistemologica denunciata nella Repubblica e conciliata nella Poetica , in entrambi i casi  sembra sia possibile asserire che l’arte, e nella fattispecie la letteratura, garantisca un privilegiato accesso alla dimensione di ciò che è Altro (o Altrove). Tuttavia, trattato in questi termini l’argomento rimane alquanto inesausto. La parola Altrove è lungi dall’essere definita, correndo il rischio di sembrare un semplice espediente letterario o, peggio ancora, un termine vuoto. Definisco dunque Altrove come «il contatto che avviene fra un individuo ed una realtà che gli è estranea, capace di suscitare nel soggetto osservante un effetto di straniamento, cui segue una presa di autocoscienza rinnovata dall’esperienza vissuta» .  L’Altrove si manifesterà innanzitutto in maniera fisica e materiale, ma può anche tradursi in metafisica, come è il caso di un’idea. È soprattutto grazie a quest’ultima forma che il confronto con ciò che è Altro permette la formulazione del dissenso . Esso per  definizione è indice di una divergenza, di un contrasto, di una discordanza di opinioni in relazione all’ideologia principale. Il dissenso nasce e si perpetua in seguito al contatto del soggetto con una realtà ‘altra’ da quella conosciuta, permettendo di sottrarsi al pensiero unico e di non allinearsi al diktat del potere. Ecco allora che muovendo dall’immagine letteraria della Roma descritta da Pasolini è possibile intravvedere una città ‘altra’, una città ideale. Essa è la Roma auspicata dall’intellettuale, un ideale che esiste solo nella sua mente come utopia. Pasolini immagina un’altra Roma dopo aver ripudiato i valori borghesi ed essersi posto in difesa del proletariato egli si servì della raffigurazione letteraria per manifestare il proprio dissenso e porsi come intellettuale non allineato alla dottrina imposta dal Potere. Appare chiaro come il dissenso intellettuale acquisisca a questo punto un nuovo significato: esso si configura non solo come fenomeno di resistenza al potere e al processo di omologazione ma anche come mezzo necessario per accedere alla dimensione dell’Altro: giocoforza vuole che nella dimensione di ciò che è ‘altro’ il dissenso trovi la propria origine, inizialmente esperita e in un secondo momento concettualizzata. Questo dialogo fra entità distinte provoca nell’intellettuale due conseguenze immediate: a) una rinnovata percezione della realtà; b) la possibilità e la volontà di intervenire su essa. Se, come in precedenza affermato, la città è lo specchio della civiltà, immaginare una città utopica significa anche immaginare una civiltà utopica. Scrivendo Ragazzi di vita Pasolini non sta solo creando un’immagine letteraria, ma a tutti gli effetti sta prendendo posizione contro l’intera società italiana, indicando una via alternativa. Tuttavia, se fin qui sono stati citati i principali responsabili dell’isolamento di Pasolini, trovo corretto render merito a quella che pare esser stata l’unica voce difforme dalla massa inferocita degli anni cinquanta. Mi riferisco a Gianfranco Contini, già grande estimatore del Pasolini nelle vesti di poeta nonché dedicatario delle Ceneri di Gramsci, il quale durante la gogna mediatica prese incondizionatamente le difese dell’imputato. Di fronte alle accuse di illegittima letterarietà di Ragazzi di vita, Contini dichiarò ad un’emittente radiofonica: «Non è un romanzo? Difatti è un’imperterrita dichiarazione d’amore» . Ecco, Contini sembra sia stato l’unico capace di oltrepassare il primo impatto  composto dal linguaggio scurrile e dagli eventi narrati all’interno del romanzo, l’unico capace di intravvedere quella dichiarazione d’amore nei confronti delle borgate. La quale altro non era, ma solamente per chi capace di intendere, una dichiarazione d’amore nei confronti dell’umanità.